sabato 4 ottobre 2014

LA PAROLA LAUNEHILD IN UN DOCUMENTO DI DIRITTO LONGOBARDO DEL XII SECOLO

Anche dopo che la lingua dei Longobardi fu uscita dall'uso corrente, dovette permanerne una qualche conoscenza tra le persone che continuavano a professare il Diritto Longobardo e tra i notai. Alcuni glossari legali sono giunti fino a noi, con traduzioni di voci longobarde contenute nei codici. Di certo quelli che abbiamo non sono gli unici esistenti e molte forme saranno andate perdute. Ecco un'altra cosa che difficilmente sarà menzionata nelle scuole: ancora nel XII secolo esistevano persone che si appellavano alle leggi dei Longobardi, riconoscendosi di origine diversa dal resto della popolazione. Casi del genere non sono affatto rari e se ne trovano notevoli documentazioni. Come spiegare il fenomeno? Sarebbero necessari studi approfonditi, i cui risultati metterebbero senza dubbio in crisi certa retorica scolastica. 

Ne riporto un esempio molto interessante, tratto dal sito dell'Università di Pavia:  


Si tratta di una carta promissionis che fu scritta nel maggio 1132 a Milano. In essa si parla di una certa Druda, moglie del milanese Mustus Burro, professante la legge dei Longobardi. Essendo in contesa con il prete ufficiale di San Giovanni in Laterano di Milano, certo Obizzo, con il documento in questione la donna promette di non infastidire lui e la sua chiesa, a cui il marito aveva evidentemente donato delle proprietà. La promessa viene fatta anche a nome degli eredi, menzionati in fondo al documento. Si stabilisce la pena di cinquanta denari d'argento in caso di violazione della promessa, e per sancire questo atto di generosità, Druda riceve un pagamento che con vocabolo longobardo è chiamato launehild. La parola ricorre due volte. Rimando al sito per approfondimenti sul testo, limitandomi ad enucleare alcuni passaggi chiave.  

All'inizio del documento si trova la professione di Legge Longobarda: "promitto atque spondeo me ego Druda cuniux Musti qui dicitur Burro, de suprascripta civitate, qui professi sumus lege vivere Longobardorum mihi que supra Drudae ipso Mussto iugali et mundoaldo meo". Si noterà la presenza del termine mundoald (qui dotato di desinenza latina -o), che indica colui che esercità l'autorità, detta mundium nei codici. Il vocabolo è formato dalle radici mund- "mano, autorità" (cfr. tedesco Vormund "tutore"; mündig "maggiorenne") e wald- "dominare" (cfr. tedesco walten).  

Verso la fine dell'atto si trovano le menzioni del risarcimento, indicato senza alcuna desinenza latina: "Quidem et anc adfirmandam promissionis cartam accepi ego que supra Druda a te predicto Obizone presbitero exinde launehild crosinam unam". E ancora, dove ricorrono le croci sostitutive delle firme: "Signum + manus suprascripte Drude qui hanc cartam promisionis ut supra fieri rogavit et suprascriptum launehild accepit." 

La parola originale era launegild "controprestazione", composta da -gild "pagamento" (cfr. tedesco Geld) e da laun- "ricompensa" (cfr. tedesco Lohn). La consonante -g- mostrava una certa tendenza a mutarsi in -ch- tra due vocali e in certi gruppi consonantici, come attestato in numerosissimi antroponimi, e quindi a divenire una semplice -h-. Così si trova la variante launechild. La forma launehild, che dimostra chiaramente la natura aspirata del suono -ch- in launechild, di cui è la naturale evoluzione, è attestata anche a Milano, come in molti altri luoghi. 

Nonostante questi mutamenti fonetici siano chiaramente dissimili da qualsiasi cosa si trovi nelle lingue romanze, esiste sempre qualcuno che cerca di ricondurli alla gorgia toscana. Affermare a più riprese che nessun vernacolo toscano ha mai intaccato la consonante sonora /g/ non sembra servire a molto: ci si trova davanti a un muro di gomma, visto che non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Spero sia di qualche utilità rimarcare le attestazioni di consonanti aspirate in Lombardia e in Veneto, in contesti molto simili a quelli in cui ricorrono in Toscana. La forma launehild rappresenta la pronuncia più recente del lemma, in uso tra gli ultimi parlanti della lingua in diverse regioni d'Italia. Questo implica una trasmissione in epoca tarda attraverso genuina usura fonetica popolare e non un'influenza esterna proveniente dal volgare neolatino. 

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