CANDIDO, O L'OTTIMISMO
AKA: Candido, ovvero l'ottimismo; Candido
Titolo originale: Candide, ou l'Optimisme
Autore: François-Marie Arouet, detto Voltaire
Lingua originale: Francese
Anno: 1759
Genere: Racconto filosofico, satira
Titolo originale: Candide, ou l'Optimisme
Autore: François-Marie Arouet, detto Voltaire
Lingua originale: Francese
Anno: 1759
Genere: Racconto filosofico, satira
Trama:
In Vestfalia vive Candido, un giovane orfano dall'animo puro, ospite nel castello del Barone Thunder-den-Tronckh (si noti il nome pseudotedesco) e secondo alcune voci suo figlio illegittimo. Candido conduce un'esistenza spensierata e segue le lezioni del precettore Pangloss, filosofo iperottimista secondo cui ogni cosa ha la sua ragione d'esistere. Se ai nostri tempi i filosofi sono detestati vivamente dal gentil sesso, tanto che spesso sono segregati e impossibilitati ad accoppiarsi, Pangloss era invece un incorreggibile donnaiolo che approfittava volentieri delle contadinotte, esplorandone il corpo e stantuffandole. Candido ama la bella Cunegonda e passa gran parte del suo tempo ad osservarla. Lei spia le gesta di Pangloss e ispirata da ciò che ha visto bacia Candido dietro un paravento. Le effusioni vengono però scoperte, così il Barone furibondo bandisce Candido dal castello. Poco dopo la partenza dell'orfano, accade che i Bulgari calano sul castello espugnandolo. Il Barone viene trucidato con la sua famiglia: l'unica superstite è Cunegonda, di cui però si perdono le tracce. Ha inizio una serie vorticosa di peripezie. Candido viene arruolato a forza dai Bulgari e quando cerca di fuggire viene bastonato da duemila soldati. Condannato a morte e graziato, riesce infine a fuggire, ritrovando Pangloss consunto dalla lue.
Un mercante anabattista di nome Jacques (Giacomo) dà a Candido e a Pangloss un passaggio sulla sua nave, che giunge a Lisbona, devastata dallo spaventoso terremoto del 1755. Jacques muore in una tempesta, Pangloss viene condannato a morte dall'Inquisizione e impiccato, Candido è fustigato a sangue. Una vecchia, che lo raccoglie e lo cura, si rivela una conoscente della bella Cunegonda, oltre che la figlia illegittima di un papa. Finita a Lisbona, la figlia del Barone di Vestfalia è diventata l'amante di due uomini: il Grande Inquisitore e il giudeo Don Issacar. Candido li uccide entrambi. Non gli resta che fuggire su una nave assieme a Cunegonda, alla vecchia e al servitore Cacambo, arrivando in Argentina, nel porto di Buenos Aires. Mentre la vecchia e la nobildonna di Vestfalia sono ospitate nel palazzo del Governatore, Candido e Cacambo vanno a nord, trovando rifugio tra i Gesuiti. Senonché si viene a scoprire che il Generale dell'Ordine è proprio il fratello di Cunegonda, che si oppone alle nozze di Candido con la sua amata. Nella lite che ne segue, Candido uccide il gesuita. Assieme a Cacambo fugge attraverso la foresta, inoltrandosi nelle terre dei cannibali Orecchioni. Avuta salva la vita per il rotto della cuffia, i due risalgono il fiume finendo nel mitico paese di El Dorado. Si tratta di una valle impervia tra montagne altissime, in cui abita un popolo di un'incredibile ricchezza, che considera l'oro e le pietre preziose dello stesso valore del fango. Siccome le genti di questo regno incantato hanno come lingua il Quechua, Cacambo li intende alla perfezione ed è in grado di fungere da traduttore. El Dorado è un paese utopico abitato da consanguinei degli Incas, in cui non divampa mai un litigio, in cui è sconosciuta la guerra (nonostante in Quechua esistano parole ben adatte a descrivere questi concetti). Candido e Cacambo si allontanano dalla felice terra andina carichi di oro e di preziosi.
Ritornati a Buenos Aires con il progetto di riscattare Cunegonda, i due vengono ad apprendere la notizia delle sue nozze forzate col Governatore. In preda alla disperazione, Candido decide di fare ritorno in Europa. Incontra un manicheo di nome Martino, la cui Dottrina contrasta in ogni dettaglio con le mortifere bugie di Pangloss, affermando la Verità sulla natura maligna dell'Esistanza. Eventi funesti portano Candido a dividersi da Cacambo e a iniziare una serie di peregrinazioni per la Francia e per l'Inghilterra, incontrando sul suo cammino numerosi personaggi grotteschi, come Girofléé, un fratacchione evaso dal suo convento con la precisa intenzione di farsi turco, ossia di convertirsi all'Islam. Gli accadimenti sono convulsi. Alla fine Candido incontra nuovamente Cacambo. Su una galera ottomana giungono a Costantinopoli per scoprire che Cunegonda è finita in stato di schiavitù. Alla fine Candido, Cacambo, Martino il Manicheo, il redivivo Pangloss, la servetta sifilitica e il fratacchione turchizzato finiscono a vivere in una modesta fattoria nei pressi della capitale dell'Impero Ottomano, comprata con i residui delle ricchezze portate da El Dorado e ormai ridotti a ben poca cosa. Qui coltiveranno i pistacchi e altri ortaggi, costretti ad abbandonare discussioni e filosofemi per prestare le loro cure alla terra.
Recensione:
Splendido racconto filosofico, il cui principale intento è la confutazione delle aberrazioni diffuse dalla teodicea di Gottfried Wilhelm von Leibniz, un malfattore che sosteneva a spada tratta la natura buona dell'Universo. Proprio Leibniz è ritratto da Voltaire nelle sembianze dell'insopportabile Pangloss. A quanto consta, l'ispirazione è giunta al filosofo francese dal terremoti inaudito che ha raso al suolo Lisbona, facendo un gran numero di morti, incredibile per l'epoca. Questa catastrofe ha dato origine ad accanite discussioni sulla teodicea, mettendo in profondissima crisi il mondo cattolico. I fedeli del Papa credevano infatti che mai e poi mai Dio avrebbe potuto colpire una città cattolica, capitale di un regno che tanto si era dato da fare per evangelizzare le genti. Secondo i loro schemi, Dio avrebbe dovuto devastare un paese protestante. L'accaduto era del tutto inesplicabile e segnò l'inizio di mutamenti irreversibili nella Storia d'Europa. Se siamo arrivati al pontificato di Jorge Pompeo Bergoglio, dallo spessore teologico nullo, in cui sfrenati appetiti feticisti sono etichettati come "umiltà evangelica" - mentre sono in realtà libidine bella e bona - è per via di una catena di eventi iniziata proprio col Grande Terremoto che sconvolse Lisbona e che tanto colpì l'immaginazione di Voltaire.
Etimologia di Pangloss
e genealogia della sifilide
e genealogia della sifilide
Il nome Pangloss, di per sé assai bizzarro, è senza dubbio satirico. Voltaire lo derivò infatti dal greco πᾶν "tutto" e γλῶσσα "lingua". Ne conseque che Pangloss significa "Tutto lingua", con riferimento alla sua retorica ottimista di chiara origine leibniziana. "Viviamo nel migliore dei mondi possibili", ripete a pappagallo l'istitutore, a ogni piè sospinto, anche di fronte alle evidenze più avverse. Nella Natura maligna nulla lo piega: se la sifilide lo deturpa e gli divora il naso, egli baldanzoso sostiene che senza quell'atroce morbo giunto dalle Americhe non conosceremmo la cioccolata. Il brano in cui il sostenitore della teodicea fa l'apologia del Treponema pallidum è stato addirittura soggetto a censura e omesso dall'edizione ottocentesca del racconto. Lo riporto in questa sede (traduzione di Paola Angioletti):
Ella ne era infetta, forse ne è morta. Paquette aveva avuto questo regalo da un frate francescano molto colto, il quale era risalito all’origine: infatti egli l’aveva preso da un capitano di cavalleria, che lo doveva a un paggio, che l’aveva preso da un gesuita il quale, da novizio, l’aveva ereditato in linea diretta da un compagno di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non lo darò a nessuno, perché sto morendo.
- O Pangloss! gridò Candido, che strana genealogia! Certamente il diavolo ne è il capostipite! - Niente affatto, replicò quel grand’uomo: era una cosa indispensabile nel migliore dei mondi, un ingrediente necessario: poiché, se Colombo non avesse preso in un’isola dell’America questa malattia che avvelena la sorgente della generazione, che spesso anzi impedisce la generazione e che evidentemente è l’opposto del gran fine della natura, noi non avremmo né cioccolata né cocciniglia; bisogna ancora osservare che fino ad oggi questa malattia esiste solo nel nostro continente, come le dispute. I Turchi, gli Indiani, i Persiani, i Cinesi, i Siamesi, i Giapponesi, non la conoscono ancora; ma c’è una ragione sufficiente perché la conoscano a loro volta fra qualche secolo. In quest’attesa, essa ha fatto progressi meravigliosi fra noi, e soprattutto fra quei grandi eserciti composti di onesti stipendiati così cortesi, i quali decidono il destino degli Stati; si può ben affermare che, quando trentamila uomini combattono schierati in battaglia contro truppe di numero uguale, ci sono circa ventimila sifilitici da ogni parte.
- O Pangloss! gridò Candido, che strana genealogia! Certamente il diavolo ne è il capostipite! - Niente affatto, replicò quel grand’uomo: era una cosa indispensabile nel migliore dei mondi, un ingrediente necessario: poiché, se Colombo non avesse preso in un’isola dell’America questa malattia che avvelena la sorgente della generazione, che spesso anzi impedisce la generazione e che evidentemente è l’opposto del gran fine della natura, noi non avremmo né cioccolata né cocciniglia; bisogna ancora osservare che fino ad oggi questa malattia esiste solo nel nostro continente, come le dispute. I Turchi, gli Indiani, i Persiani, i Cinesi, i Siamesi, i Giapponesi, non la conoscono ancora; ma c’è una ragione sufficiente perché la conoscano a loro volta fra qualche secolo. In quest’attesa, essa ha fatto progressi meravigliosi fra noi, e soprattutto fra quei grandi eserciti composti di onesti stipendiati così cortesi, i quali decidono il destino degli Stati; si può ben affermare che, quando trentamila uomini combattono schierati in battaglia contro truppe di numero uguale, ci sono circa ventimila sifilitici da ogni parte.
Il mistero di Cacambo
Voltaire ci descrive Cacambo come un meticcio di Tucumán, per tre quanti indio e per un quarto spagnolo, che parlava la lingua del Perù, ossia il Quechua. Così ci dice l'Illuminista, che nella provincia di Tucumán non si sente parlare altro idioma. Cacambo tuttavia porta un nome non Quechua che ha la sua radice nella lingua dei Diaghiti, il Kakán: è formato tramite un suffisso -bo a partire dal nome stesso della lingua, una radice che compare anche nel nome del Dio delle Tempeste, Kakanchig e in alcuni cognomi come Cacana e Cacanay.
L'etimologia di Kakán è stata a lungo fraintesa. Tradizionalmente è ricondotto al Quechua qaqa "roccia, pietra", e Kakanchig è interpretato come "Nostra Pietra". Tuttavia noi vediamo che queste parole non sono Quechua e che l'idioma Kakán, pur avendo molti prestiti dalla lingua di Cuzco, non è con essa imparantato. Nel Quechua di Santiago del Estero, che tuttora mostra numerosi vocaboli di sostrato riconducibili al Kakán, il teonimo è pronunciato Kakanchik, con /k/ e non con /q/: non risale assolutamente al Quechua qaqa. La terminazione -chik in questa parola non corrisponde affatto alla desinenza Quechua per "nostro". Tutto il contrario. Il nome della lingua, Kakán, significa "Nostro", proprio come Kunza, il nome della lingua degli Atacameños. Così la radice chic, chig, chiz significa "Dio, Sommo", proprio come nella lingua degli Huarpe Chis Tactao è il cielo. Kakanchig significa "Nostro Dio". L'antroponimo Cacana significa "Nostra (Terra)", e da esse deriva Cacanay col tipico suffisso di derivazione Kakán -ay. Tutto chiarissimo. Il Kakán, estinto da tempo, era un lontano parente del Kunza e della lingua degli Huarpe. Quest'ultima aveva in aggiunta numerosi prestiti dal Kakán (tra questi proprio tactao "villaggio"). Pubblicherò la mia opera di ricostruzione di quell'idioma perduto in un'altra occasione.
Il punto è questo: come faceva Voltaire ad essere a conoscenza di un antroponimo Kakán correttamente formato? Forse ha conosciuto lui stesso un indio di nome Cacambo, oppure ha avuto occasione di leggere la grammatica e il vocabolario del Kakán composti da Padre Bárcena (Barzana), opera di capitale importanza e oggi malauguratamente perduta per colpa delle velenose congiure della stramaledetta Setta Massonica.
L'etimologia di Kakán è stata a lungo fraintesa. Tradizionalmente è ricondotto al Quechua qaqa "roccia, pietra", e Kakanchig è interpretato come "Nostra Pietra". Tuttavia noi vediamo che queste parole non sono Quechua e che l'idioma Kakán, pur avendo molti prestiti dalla lingua di Cuzco, non è con essa imparantato. Nel Quechua di Santiago del Estero, che tuttora mostra numerosi vocaboli di sostrato riconducibili al Kakán, il teonimo è pronunciato Kakanchik, con /k/ e non con /q/: non risale assolutamente al Quechua qaqa. La terminazione -chik in questa parola non corrisponde affatto alla desinenza Quechua per "nostro". Tutto il contrario. Il nome della lingua, Kakán, significa "Nostro", proprio come Kunza, il nome della lingua degli Atacameños. Così la radice chic, chig, chiz significa "Dio, Sommo", proprio come nella lingua degli Huarpe Chis Tactao è il cielo. Kakanchig significa "Nostro Dio". L'antroponimo Cacana significa "Nostra (Terra)", e da esse deriva Cacanay col tipico suffisso di derivazione Kakán -ay. Tutto chiarissimo. Il Kakán, estinto da tempo, era un lontano parente del Kunza e della lingua degli Huarpe. Quest'ultima aveva in aggiunta numerosi prestiti dal Kakán (tra questi proprio tactao "villaggio"). Pubblicherò la mia opera di ricostruzione di quell'idioma perduto in un'altra occasione.
Il punto è questo: come faceva Voltaire ad essere a conoscenza di un antroponimo Kakán correttamente formato? Forse ha conosciuto lui stesso un indio di nome Cacambo, oppure ha avuto occasione di leggere la grammatica e il vocabolario del Kakán composti da Padre Bárcena (Barzana), opera di capitale importanza e oggi malauguratamente perduta per colpa delle velenose congiure della stramaledetta Setta Massonica.
Donne che si accoppiano con le scimmie!
Nel corso delle avventure di Candido e dei suoi compagni compaiono due misteriose creature, scimmie gigantesche che godono dei favori sessuali delle donne della tribù nativa degli Orecchioni. Nulla a che vedere con i famigerati ricchioni o busoni di Sodoma! Si tratta di genti indiane famose per i loro ornamenti auricolari, che deformavano i lobi e i padiglioni allungandoli in modo grottesco, donde il nome spagnolo di Orejones. La narrazione che fa Voltaire è tanto spassosa quanto tragica:
Il sole tramontava, quando i due smarriti sentirono alcune piccole strida, che parean di femmine; essi non sapevano se quelle strida eran di dolore, o di gioja; si alzaron precipitosamente con quella inquietudine, e con quello spavento che tutto inspira in un paese incognito. Quei clamori si partivano da due giovani, che leggermente correvano lungo la sponda della prateria, mentre due scimmie le mordevano alle spalle. Candido ne fu mosso a pietà; aveva egli imparato a tirare da' Bulgari, ed avrebbe colpito una nocciuola in mezzo a un cespuglio, senza toccar le foglie; prende egli il suo fucile spagnuolo a due canne, tira e ammazza le due scimmie. - Dio sia lodato, mio caro Cacambo, io ho liberato da un gran periglio quelle due povere creature; se ho commesso un peccato ammazzando un inquisitore e un gesuita, io vi ho ben rimediato, salvando la vita a due giovani, saran forse due damigelle di condizione, e questa avventura ci può procurare gran vantaggi nel paese.
Volea più dire, ma restò colla parola in bocca quando vide quelle due giovani abbracciare teneramente le due scimmie, cadere piangendo su’ loro corpi ed empir l’aria di dolorose grida. - Io non mi aspettava un cuor tanto buono, disse finalmente a Cacambo, il qual gli replicò: - Voi avete fatto un bel servizio padron mio: avete ammazzato i due amanti di quelle damigelle. - I loro amanti! è possibile? Tu mi burli, Cacambo, come posso crederlo? - Mio caro padrone, interrompe Cacambo, voi vi fate sempre maraviglia di tutto; perchè ha egli a parervi strano che in qualche paese vi sieno delle scimmie che ottengano simpatie dalle dame? esse son un quarto d’uomo com’io sono un quarto di spagnuolo. - Ah, ripiglia Candido, mi sovviene d'aver inteso dire dal mio maestro Pangloss, che altre volte sono accaduti simili accidenti, e che avean prodotto degli Egipani, de' Fauni, dei Satiri, stati veduti dai più gran personaggi dell'antichità; ma io la credeva un favola. - Ora dovete esserne convinto, disse Cacambo. Quel che io temo per altro, è che quelle dame non ci pongano in qualche imbroglio.
Volea più dire, ma restò colla parola in bocca quando vide quelle due giovani abbracciare teneramente le due scimmie, cadere piangendo su’ loro corpi ed empir l’aria di dolorose grida. - Io non mi aspettava un cuor tanto buono, disse finalmente a Cacambo, il qual gli replicò: - Voi avete fatto un bel servizio padron mio: avete ammazzato i due amanti di quelle damigelle. - I loro amanti! è possibile? Tu mi burli, Cacambo, come posso crederlo? - Mio caro padrone, interrompe Cacambo, voi vi fate sempre maraviglia di tutto; perchè ha egli a parervi strano che in qualche paese vi sieno delle scimmie che ottengano simpatie dalle dame? esse son un quarto d’uomo com’io sono un quarto di spagnuolo. - Ah, ripiglia Candido, mi sovviene d'aver inteso dire dal mio maestro Pangloss, che altre volte sono accaduti simili accidenti, e che avean prodotto degli Egipani, de' Fauni, dei Satiri, stati veduti dai più gran personaggi dell'antichità; ma io la credeva un favola. - Ora dovete esserne convinto, disse Cacambo. Quel che io temo per altro, è che quelle dame non ci pongano in qualche imbroglio.
Ebbene, i paesi in cui le scimmie sono protagoniste dei sogni erotici delle donne sono numerosissimi, tanto da potersi dire più la norma che eccezioni! Tra questi - e lo dico con amarezza estrema - si può senza dubbio annoverare l'Italia, terra in cui Leopardi è schernito da un gran numero di donne che sognano poi di masturbare i peggiori malfattori e di farsi da loro montare. Questo perché vedono nel malfattore un pallido riflesso della scimmia che così intensamente concupiscono!
Un racconto ucronico oppure onirostorico?
Alcuni elementi non combaciano con il nostro corso storico. La vecchia incontrata a Lisbona da Candido dice di essere figlia di Papa Urbano X, che è un pontefice immaginario. Questo potrebbe essere un elemento ucronico. Tuttavia se alcuni eventi sono reali, come il terremoto del 1755, numerosi altri sono immaginari e improbabili, in ogni caso non riconducibili a un Punto di Divergenza. El Dorado non appartiene di certo al mondo reale e difficilmente una simile utopia potrebbe esistere. I Prussiani sono chiamati Bulgari e i Francesi sono chiamati Abari, con un nome con ogni probabilità ispirato da quello degli Àvari, parenti degli Unni. Queste considerazioni potrebbero far propendere per l'attribuzione del racconto al reame dell'onirostoria.
L'illuminista per confutare la teodicea ha dovuto vestire i panni del manicheo. Non ha trovato un appiglio più solido e soprattutto, impugnando la lama del dualismo, ne ha accettato la evidente verità in quanto solo un folle userebbe una superstizione per combattere un'altra superstizione.
RispondiEliminaBentornato, carissimo Albedo! Concordo appieno con quanto dici. Purtroppo la cosa è sfuggita completamente agli studiosi. La figura di Martino il Manicheo avrebbe dovuto ispirare studi e volumi in gran numero.
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