giovedì 31 gennaio 2019

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE LINGUE IMPOSSIBILI: IL CASO DEL PIRAHÃ

La lingua Pirahã (o Mura-Pirahã) è parlata dall'omonima esigua popolazione che vive in una zona remota dell'Amazzonia brasiliana. Unica superstite nota delle lingue Mura, prive di parentele esterne dimostrabili, ha suscitato un vespaio di polemiche tra i settari chomskiani per via della sua stravagante natura, che sembra violare un principio capitale della cosiddetta grammatica universale. La notizia è circolata in tutto il mondo: la lingua dei Pirahã ignora la ricorsività linguistica. Vediamo di riassumere le informazioni rilevanti nel modo più sintetico possibile.

1) La lingua Pirahã ha una struttura fonetica particolarmente semplice: il suo inventario di fonemi è in assoluto uno dei più poveri finora riscontrati tra gli idiomi del genere umano. Le vocali sono soltanto tre: /a/, /i/, /o/. Alcuni fonemi consonantici hanno allofoni molto diversi tra loro, ma questo non cambia le cose, trattandosi di varianti condizionate dalla posizione nella parola (es. si pronuncia [m-] all'inizio di una parola e [-b-] nel mezzo; si pronuncia [n-] all'inizio di una parola e [-g-] nel mezzo, etc.). Esiste una consonante glottidale /Ɂ/, che nell'ortografia più comune è trascritta con x.

2) La lingua Pirahã, come quella dei Nambiquara, non possiede veri numerali e in ogni caso non è possibile designare quantità maggiori di due. È stata definita "una lingua senza numeri". A quanto riportato nel 1986 da Daniel L. Everett, un missionario che passò molti anni tra quelle genti e infine divenne ateo, ci sono soltanto due parole per esprimere concetti attinenti ai numeri; per giunta il loro aspetto fonetico è estremamente simile, essendo distinte soltanto dall'intonazione. Esse sono hói "uno" e hoí "due", "paio". Nel 2008, in seguito alle ricerche eseguite sul campo da Michael C. Frank, si è appurato che in realtà hói più che "uno" significherebbe "poco" o anche "meno", mentre il quasi omonimo hoí significherebbe "più di uno", "qualche". Per fissare le idee, se dessimo a un Pirahã dieci savoiardi e subito dopo ce ne riprendessimo due, i biscotti rimasti sarebbero indicati con la parola hói - proprio perché sono meno di quelli che c'erano prima. Ogni quantificazione risulta impossibile. Stando così le cose, si capisce che concetto stesso di numero tra i Pirahã è a dir poco nebuloso. Possiamo dire che le api hanno le idee più chiare!

3) Nella lingua Pirahã manca qualsiasi distinzione tra singolare e plurale nei sostantivi e negli aggettivi. I pronomi personali plurali umani si formano aggiungendo ai pronomi personali singolari una sorta di suffisso, -a(i)tiso, che non sono riuscito a ricondurre a parole per indicare "molti" o simili. I pronomi di terza persona per indicare esseri non umani sono invariati al plurale. Tra l'altro, i pronomi personali umani sembrano proprio essere prestiti, forse non troppo remoti, dalla Língua Geral Amazônica (Nheengatu), una lingua del gruppo Tupí che un tempo era diffusissima in Brasile: serviva da mezzo di comunicazione tra i vari gruppi nativi ed era parlata persino dai coloni di ascendenza portoghese.

ti "io" (pron. [tʃi]) deriva da Nheeng. se-, ixé 
gi, gixai "tu" (pron. [ni], [niʔai]) deriva da Nheeng. ne-, indé 
hi "egli" deriva da Nheeng. i-,


I pronomi plurali di prima e seconda persona plurale della lingua Nheengatu, che non rientrano nelle categorie logiche dei Pirahã, non sono stati presi a prestito: ne sono stati prodotti di nuovi a partire da quelli singolari. 

tiatiso "noi", da ti "io" - diverso da Nheeng. iané-, iandé 
gixaitiso "voi", da gixai "tu" - diverso da Nheeng. pe-, penhẽ  
hiaitiso "essi", da hi "egli" - diverso da Nheeng. ta-, aintá 


4) Nella lingua Pirahã mancano termini per designare i colori. Gli unici aggettivi usati possono essere tradotti con "chiaro" e "scuro", non permettendo di specificare ulteriori qualità cromatiche. In dizionari presenti nel Web ho trovato tuttavia più di due parole: xaaíbi "chiaro", xíbigái "scuro" (ma anche "oscurità, ombra") e kopái "nero". Non basta: in un suo studio Everett riporta tio "scuro" (glossato con "dark") e ha incluso nel suo vocabolario diversi termini per indicare i colori. Si tratterebbe in realtà di frasi descrittive: per dire "rosso" bisogna ricorrere a una proposizione complessa che significa "essere come il sangue". È anche possibile che i Pirahã abbiano fabbricato queste frasi suppletive appositamente per rispondere alle domande degli etnologi, non perché sentissero la necessità di esprimere concetti pur così elementari. Everett deve aver mostrato qualcosa di rosso a un Pirahã, continuando ad assillarlo, chiedendogli che parola usava la sua gente per chiamare quell'oggetto rosso, fino ad estorcere qualcosa che tradotto suona "è come il sangue". Resta il fatto che tutto questo materiale andrebbe passato al vaglio.

5) La lingua Pirahã ha un sistema particolarmente semplice per designare la parentela. Anzi, parrebbe il più semplice finora noto, sempre prestando fede ad Everett. Non esistono parole distinte per indicare "padre" e "madre", ma solo una parola per dire "genitore": baíxi. Qualcuno obietterà che anche noi possediamo la parola "genitore" (e gli anglofoni hanno "parent"), che va bene per entrambi i sessi. Il punto è che i Pirahã non hanno i mezzi linguistici per distinguere tra "padre" e "madre". In concetto stesso di matrimonio come unione tra i sessi, fondamentale nella cultura cristiana, non ha per loro importanza alcuna.

6) Per esprimere il complemento di possesso, la lingua Pirahã usa mezzi abbastanza elementari: si prefigge il pronome personale non modificato al nome della cosa posseduta. Se c'è un possessore, il suo nome va prima del pronome, anch'esso non modificato. Questi due esempi sono riportati su Wikipedia (2019) e con ogni probabilità presi dall'opera di Everett:

paitá hi xitóhoi "i testicoli di Paita"
    (lett. "Paita, egli, testicoli")


ti kaiíi "la mia casa"
    (lett. "io, casa")


Non sono possibili nidificazioni possessive. Non è possibile, servendosi di un'unica stringa, tradurre una proposizione come "il legno dell'asta della freccia di Paita". Si rende necessario formulare in modo diverso i concetti, ad esempio in questo modo: "Paita ha una freccia. Questa è l'asta della freccia. Questo è il legno dell'asta".

7) Nella lingua Pirahã non è possibile alcuna struttura ipotattica e si notano soltanto limitatissimi esempi di paratassi. Non esiste alcuna congiunzione: il più comune esempio di paratassi consiste nel giustapporre due brevi frasi. Non esiste la possibilità di usare un unico verbo per due soggetti, come ad esempio in frasi come "Giovanni e Maria vengono". È necessario tradurre "Giovanni viene. Maria viene", e considerare questa come paratassi rudimentale. Everett ha dato inizio all'annosa controversia del suffisso -sai, che egli credeva un formante ipotattico, qualcosa di corrispondente all'italiano "che", "come", "quando" e all'inglese "that", "who", "which", "when", o addirittura uno strumento per sostantivare i verbi, come il famoso suffisso inglese -ing. Questi sono alcuni esempi dell'uso del suffisso -sai:

hi ob-áaxái kahaí kai-sai "egli sa davvero come fare frecce"
(dove kahaí "freccia"; kai- "fare", donde kai-sai "come fare", "facendo", etc.)  


tiobáhai hóoí ai-sai xabahíoxoi "la produzione di archi dei bambini non è corretta"
(dove ai- somiglia a kai- "fare" e potrebbe esserne una variante, anche se non mi è chiaro come una consonante /k-/ possa sparire)


pii boi-sai ti xaháp-i-hiabi-haí "se piove non verrò"
(dove pii "acqua", boi- "venire", i.e. "piovere", donde pii boi-sai "piovendo")


hi gáí-sai xaibogi ap-a-áti "egli ha detto di andare velocemente"
(dove g
áí- "dire", donde gáí-sai "dicendo", "avendo detto")

Alla fine lo stesso Everett, dopo aver approfondito la sua conoscenza della lingua, è giunto a una conclusione sconcertante e anti-chomskiana: nemmeno questo semplice suffisso -sai marca una costruzione ipotattica, si tratta soltanto di grossolana paratassi. Nessun formante in grado di sostantivare un verbo: si tratta soltanto di una particella enfatica. Un caso di tremendo equivoco, in cui colui che studia una lingua esotica la interpreta servendosi delle categorie della propria. Il Pirahã non permette frasi nidificate nemmeno a un singolo livello. La motivazione ipotizzata dall'antropologo è quasi lapalissiana: non avendo il concetto di numero (che è stato riscontrato persino nei pulcini!), i Pirahã non hanno nemmeno bisogno della ricorsività linguistica.  

8) Secondo quanto sostenuto da Mario Antonio Gonçalves, i Pirahã sarebbero in grado di apprendere il portoghese, lingua romanza, di chiaro ceppo indoeuropeo, notoriamente dotata di ricorsività possessiva, oltre che di costruzioni ipotattiche e paratattiche. A detta di tale autore, la maggior parte degli uomini di questo popolo sarebbe in grado di comprendere il portoghese. In realtà queste dichiarazioni non corrispondono a quanto dichiarato da Everett, la cui esperienza è molto più vasta. Si è potuto appurare che i Pirahã sono in grado di apprendere soltanto un lessico portoghese molto rudimentale. Utilizzano come lingua franca per comunicare con altri gruppi tribali uno strano idioma il cui vocabolario include parole portoghesi e Nheengatu, con grammatica rigorosamente Pirahã - cosa notata anche da Gonçalves - il che non toglie che la comunità sia in buona sostanza descrivibile come monolingue. Poche parole portoghesi sono state incorporate nella lingua nativa, come ad esempio kóópo "tazza" (< port. copo) e bikagogia "affare" (< port. mercadoria).  

9) Il verbo nella lingua Pirahã non è poi così semplice, pur non distinguendo il plurale dal singolare e pur specificando la persona tramite i pronomi preposti alla radice. Esiste la possibilità di formulare frasi transitive, il cui ordine è SOV (soggetto-oggetto-verbo). Così abbiamo per esempio: 

ti xíbogi ti-baí "io bevo il latte" (dove il verbo è ti- "bere", essendo -bai un suffisso intensivo)

ti gi kapigaxiítoii hoaí "io ti do la matita" (dove il verbo è hoai "dare")

Impressionante è il numero di suffissi (o meglio di affissi) che servono ad esprimere l'aspetto del verbo. Quello che si guadagna in semplicità con l'assenza di forme coniugate a noi familiari, lo si guadagna in complessità con questi bizzarre formazioni. Una classificazione di affissi verbali si deve a Sheldon (1988). Eccone alcuni: 

-boi (causativo / incompletivo)
-boiga (causativo / completivo)
-hoi (incoativo / incompletivo)
-hoaga (incoativo / completivo)
-aip (futuro / da qualche parte)
-aop (futuro / altrove)
-aob (passato)
-xiig (continuativo)
-ta (ripetitivo)
-ab (durativo)
-sog (desiderativo)
etc. 


L'uso del passato e del futuro deve essere ben peculiare, visto che tali genti non parlano di eventi troppo distanti nel tempo. Resta il fatto che né gli affissi verbali, né la struttura SOV delle brevi frasi transitive, possono essere etichettate come "ricorsività" allo scopo di salvare la teoria della grammatica generativa. Farlo sarebbe un atto di disonestà intellettuale.

I Pirahã e la religione 

Riporto in questa sede un intervento che mi è parso particolarmente significativo. Invito tutti a leggerlo con attenzione. 


Maurizio Pistone    
02/04/12

Non so se il signor Everett ha studiato la storia delle missioni, e in particolare la storia delle missioni in Brasile. Ma proprio lì, quasi quattrocento anni fa, alcuni sui colleghi cattolici (non è detto quale sia la religione di Everett, ma mi sembra di capire che sia un protestante) si trovarono di fronte a una situazione imbarazzante.

I missionari cattolici, che avevano studiato letteratura classica, immaginavano di trovare presso le tribù "pagane" credenze che in qualche modo fosse riconducibile a qualcuna delle religioni che avevano preceduto il cristianesimo.

Per loro questo era molto importante anche da un punto di vista teologico. Una delle prove tradizionali dell'esistenza di Dio è il consensus gentium. Ogni popolo, per quanto malvagio e perverso (e chi non è cristiano è ovviamente perverso e malvagio) ha comunque un'idea di Dio, una qualche forma di religione. Trovare popoli che non hanno idee riconducibili all'idea euromediterranea di "Dio" e di "religione", per loro fu fonte di infinito smarrimento. Da una parte sembrava preclusa la possibilità di comunicare con questi popoli: come si fa a tradurre la Bibbia in una lingua che non ha i termini base per esprimere il senso religioso? Ma la loro stessa fede sembrava messa in dubbio. Alla fine alcuni di loro, riscontrando presso quasi tutte le popolazioni, se non una qualche idea di Dio, almeno delle pratiche esorcistiche per allontanare il male, conclusero che, se non è universale l'idea di Dio, è universale quella del Demonio.

Dall'articolo sembra di capire che la prima scoperta di Everett sia appunto che queste persone non hanno nessun bisogno di essere convertite al cristianesimo. Per un missionario, è chiaramente una tragedia infinita. Quello che si dice della lingua (di cui so solo quello che ho letto in quell'articolo) in fondo è prevedibile. Popolazioni che vivono secondo modalità di caccia e raccolta, non hanno una coscienza del trascorrere del tempo. Vivono nel presente. Non coltivano. Non conservano la carne (questo punto mi sembra decisivo). Non pianificano la loro vita, per questo non hanno bisogno di strutture logiche e linguistiche complesse. Non hanno, presumibilmente, un'idea di proprietà privata. Non so se mancano del tutto dell'idea di numero, come è detto nell'articolo, ma è chiaro che la numerazione e il calcolo  sono strettamente legati all'idea di proprietà: "Dove sono i miei teschi di tapiro? Ne avevo diciotto, li ho contati proprio ieri, e adesso ce ne sono solo quindici! Chi mi ha rubato i miei teschi di tapiro?" Purtroppo nell'articolo non viene detto nulla sulla struttura familiare, che però nelle popolazioni che vivono a quello stadio di civiltà deve essere piuttosto lasca: "Quante mogli hai? Quanti figli hai?" "Eh... tanti..."

Insomma, non vorrei fare troppo l'analista dilettante, ma mi sembra che il signor Everett se la sia presa con Chomsky per non dover prendere di petto il Padreterno.  

Penso che il problema sia molto più profondo di quanto il Pistone possa immaginare. 

Interpretazione di Everett e reazione chomskiana 

Secondo Everett la lingua dei Pirahã sarebbe un esempio di idioma primordiale. La teoria da lui sostenuta implica che l'origine del linguaggio simbolico umano sia da ricercarsi nella specie Homo erectus. Il Pirahã sarebbe dunque un campione significativo delle lingue più antiche degli ominidi  dotati di sufficiente complessità cerebrale per articolare suoni e pensare con simboli, lingue anteriori alla stessa diffusione di Homo sapiens, ossia preadamitiche. Le sue peculiarità dimostrerebbero che le lingue sono nate come strumento di comunicazione e non di computo, come invece sostenuto da Chomsky e dai suoi mirmidoni. I Pirahã sarebbero rimasti talmente isolati da mantenere una cultura e un mondo concettuale non influenzato da sviluppi che si sono imposti nella maggior parte dell'umanità. In realtà non esistono lingue primitive. Questo ci dice l'evidenza. Anche il Pirahã è il risultato di una continua evoluzione fonetica e semantica che dura dalla notte dei tempi, a partire da una protolingua preistorica che oggi sarebbe irriconoscibile. Nonostante l'estrema lontananza dai nostri schemi logici e le sue carenze, dà comunque prova di una sua intrinseca complessità. A quanto ho appreso, Chomsky ha reagito a queste tesi in modo furibondo, accusando Everett di essere un "ciarlatano". Cercando in tutti i modi di occultare lo scandalo, il linguista ashkenazita idolatrato dai radical chic ha sostenuto in sintesi qualcosa di questo genere: i Pirahã sarebbero predisposti dalla Natura alla comprensione di proposizioni ricorsive, come tutti gli esseri umani, anche se poi per qualche misterioso, imperscrutabile motivo hanno deciso di non servirsene; potendo enumerare gli enti, avrebbero scelto di non farlo, a causa di una qualche specie di agnosia. 

Ordalia su Chomsky!

Spingo ogni ragionamento ai suoi limiti. Così, partendo dalla teoria di Noam Chomsky, vedo dove ci condurrebbe se restasse passo dopo passo coerente con le proprie premesse. Il risultato ha tutto il sapore del paradosso, come mi accingo a dimostrare. Appurato che per i grammatici generativi le lingue impossibili sono quelle che non hanno la ricorsività, e che tutte le lingue umane hanno la ricorsività (questo è il dogma fondante della loro setta), essi sono tenuti a una deduzione potenzialmente devastante: la lingua Pirahã non è una lingua umana. Sarebbe quindi d'obbligo postulare, se si portassero alle estreme conseguenze le dottrine chomskiane, che i Pirahã non sono realmente esseri umani, bensì ominidi. Questi poveri nativi si dovrebbero quindi ascrivere a una specie ominide finora sconosciuta, che potrebbe benissimo essere etichettata come Homo nambiquarensis pirahã. Oppure dovremmo pensare che i Pirahã siano sì appartenenti a Homo sapiens, ma che abbiamo vissuto così a lungo con ominidi di specie diversa da adottare una lingua non umana? Avrebbero perso una parte del corredo logico umano stando con esseri che tecnicamente sarebbero definibili come "subumani"? Va da sé che simili conclusioni non sarebbero soltanto definibili come razzismo: saremmo addirittura di fronte a un caso di infraspeciazione. Dunque il chomskismo, se si ammettesse la natura non ricorsiva del Pirahã, porterebbe all'infraspeciazione. Curioso che il mondo intellettuale dei Figli Americani di Ashkenaz, così impegnato sul fronte dell'antirazzismo e della democrazia, produca poi simili gemme, tali da fare impallidire le dottrine di Gobineau. Tra Noam Chomsky e Philip Roth, direi che non so chi ritenere il più abile produttore di vasi di Pandora. 

Nessun commento:

Posta un commento