lunedì 25 novembre 2019

TRANSAZIONI

Al mio ingresso nel locale fui colpito  da una ventata di odore acre e nauseabondo: una mescolanza di sudore ascellare e inguinale, maschile e femminile, fumo di narghilè, profumi  dozzinali. Un vero e proprio uppercut olfattivo. Vacillai per un istante. Sabrina, la donna con cui avevo deciso di trascorrere la serata, mi precedeva. Pagai alla cassa per entrambi, affidai il cappotto alla guardarobiera sudamericana e mi immersi nella calca. La mia compagna pareva perfettamente a proprio agio in mezzo a quegli afrori animaleschi. La sala era affollata di energumeni tatuati dall’aspetto patibolare e donne abbigliate come battone. Gli altoparlanti trasmettevano a volume altissimo motivi musicali in lingua spagnola. “Prendiamo qualcosa da bere?”, domandò Sabrina. Mi diressi al bar e ordinai due cocktail. Il barista, un tipo con l’aria da galeotto, mi servì due cocktail a base di vodka di infima qualità. Sabrina aveva già fatto amicizia con una perfetta sconosciuta, un troione di provenienza balcanica. Le passai il bicchiere.
“Vado a sedermi.”
Non c’era traccia di divanetti liberi. Guardandomi intorno riconobbi con stupore un tale conosciuto molti anni prima, appollaiato tutto solo su una seggiola in un angolo del locale. Era un insegnante di religione, un personaggio ambiguo. Mi avvicinai.
“Salve, si ricorda di me?”
“Certo, l’ho riconosciuta appena l’ho vista entrare. Come sta?”
“Bene. Lei?”
“Carina la sua fidanzata.”
“Non è la mia fidanzata. E’ una tipa con cui esco.”
“Capisco. Lei mi è sempre parso una persona seria, affidabile. Potrei chiederle un favore?”
“Sentiamo.”
“Dovrei sbrigare una faccenda ma non posso procedere personalmente. Le interessano mille euro?”
“Dipende dalla faccenda.”
“Ho un pacco in cantina e vorrei liberarmene.”
“Quanto pesa questo pacco?”
“78 kg”
“Voluminoso, direi. Ed è stabile?”
“No, si muove, questo è il punto. Gradirei stabilizzarlo, capisce?”
“E non può provvedere da sé?”
“Non ci riesco, per questo mi serve un aiuto.”
“Mille euro non compensano il rischio.”
“Facciamo duemila?”
“Sta scherzando? Diecimila o non se ne parla.”
“No no, è troppo… Cinquemila al massimo.”
“Per cinquemila le stabilizzo il pacco ma allo smaltimento ci pensa lei.”
“Va bene.”
“Mi dia il suo numero.”
Registrai il numero tra i contatti del cellulare e mi allontanai. Sabrina stava ballando in pista con il troione balcanico.
Le feci segno di avvicinarsi.
“Questo posto puzza e la musica fa schifo. Io non ci resto un solo minuto di più.”
“A me piace.”
“Come preferisci. Fatti riaccompagnare a casa dalla signora, allora. Hasta la vista.”
Le voltai le spalle senza prestare la minima attenzione alle sue recriminazioni, ritirai il cappotto al guardaroba e mi levai di torno.
L’indomani inviai un messaggio al prof con un burner phone pagato venti euro.
“Mi dia il suo indirizzo.”
La risposta arrivò all’istante.
Due ore dopo, bussavo alla sua porta. L’abitazione dell’insegnante pareva uscita dalle pagine di Edgar Allan Poe: una villetta a due piani, fatiscente, in preda al disfacimento. Lo specchio di una psiche devastata, prossima al crollo.
Prima di farmi entrare sbirciò furtivamente tutto intorno, come se temesse di essere spiato.
“Si accomodi.”
“Prima di accettare l’incarico, voglio vedere il pacco.”
“Va bene. E’ armato?”
“Lo sono sempre.”
 “Le faccio strada.”
“Un attimo.” Indossai una maschera da giocatore di hockey.
Scendemmo in cantina.
Era un locale angusto, l’aria sapeva di muffa. Il prof accese la luce.
Una figura umana incatenata a una colonna, giaceva a terra, distesa su un sacco a pelo.
Era un uomo sui sessant’anni, imbavagliato e dall’aria terrorizzata.
“Vede?”
Risalimmo.
“Allora, accetta?”
“Prima voglio sapere chi devo uccidere.”
“E’ un preside. Non le occorre sapere altro.”
“Lo decido io cosa mi occorre o no. Perché lo vuole morto?”
“Perché è uno stronzo, mi ha reso la vita impossibile.”
“Ok.”
“Allora è d’accordo?”
“Prima i soldi.”
“Non li ho qui con me.”
“Non si faccia sentire sino a quando non li avrà disponibili, tutti e sull’unghia, in banconote da 50. E si ricordi che allo smaltimento dovrà provvedere di persona. Sacchi neri della spazzatura ne ha? Un vecchio impermeabile?”
“Sì sì.”
“Serviranno anche un secchio e parecchi stracci.”
“La prossima volta mi faccia trovare i soldi. E niente stronzate, intesi?”
“Intesi.”
Stavo per salire in macchina quando squillò il cellulare. Era Sabrina.
“Cazzo vuole sta puttana di merda?”. Rifiutai la chiamata.
Appena a casa controllai il funzionamento della motosega. Era a posto. Tirai fuori dalla sgabuzzino gli stivali di gomma. Avrei utilizzato la visiera protettiva che impiegavo solitamente con il decespugliatore, per evitare gli schizzi di sangue in faccia durante il depezzamento della salma.
L’indomani mattina ricevetti una chiamata dal prof.
“Quando può venire?”.
“C’è il fluido?”
“Tutto quanto.”
“Alle 21. Mi faccia trovare il cancello aperto.”
Trovai il cancello aperto e il prof seduto in veranda.
Prelevai il materiale da lavoro dal bagagliaio.
“Non perdiamo tempo.”
Appena dentro casa, poggiai il borsone in corridoio.
“I soldi.”
Il prof prese una busta dal ripiano di un mobile.
Era gonfia di pezzi da cinquanta. Li contai: c’erano tutti.
Suddivisi il malloppo e lo riposi nelle tasche capienti del giubbotto, chiudendo le cerniere.
“Secchio, stracci e sacchi neri sono già in cantina?”
“Sì.”
“Disponga gli stracci sul pavimento, tutto intorno al suo ospite temporaneo. Appena ha terminato, risalga. Ha con sé le chiavi del lucchetto?”
Mi osservò come inebetito.
“Allora?”
“Ce le ho.”
“Si muova.”
Mi tolsi le scarpe e calzai gli stivali di gomma, indossai i guanti in pelle e l’impermeabile di plastica.
Avvitai il soppressore di suono alla Glock 17 e rimasi in attesa.
Il prof tornò dopo poco.
“Metta l’impermeabile. Guanti da lavoro ne ha?”
Il prof assentì.
Indossai cuffia e visiera protettiva e sollevai il borsone: “Diamoci da fare.”
Scendemmo in cantina.
Appena entrati, mirai alla testa del sequestrato e gli piantai due proiettili nel cranio, nel giro di un secondo.
Il prof rimase scioccato dalla fulmineità dell’azione.
“Sciolga le catene al preside, forza.”
Il cadavere si afflosciò sugli stracci.
“Prenda il secchio e sollevi il morto.”
“Ma pesa.”
“Non rompere il cazzo. Sollevalo quel tanto che basta per far pendere la testa sul secchio.”
Presi dal borsone il coltello da sub e tagliai la gola al preside.
Il sangue sprizzò copioso nel secchio.
“Facciamo scendere il grosso.”
“Pesa troppo.”
Lo aiutai a tenere sollevato il cadavere.
“Può bastare.”
Adagiammo la salma e la svestimmo.
“Adesso viene la parte brutta.”
Tirai fuori dal borsone la motosega.
“Sollevagli la gamba sinistra e tienila stretta per il piede. Hai capito?”
Il prof, bianco come un cencio, fece segno di sì.
Avviai la motosega, tagliai gambe e braccia e decapitai il cadavere.
“Prendi quel cazzo di sacchi neri e sistema un pezzo per sacco. Il torso è un problema. Dovrò sventrarlo e svuotarlo.”
Il prof fu colto dai conati di vomito.
“Se mi rigetti addosso ti sparo. Non scherzo.”
Gli passò subito la voglia.
Al termine dell’operazione, eravamo imbrattati di sangue e altri fluidi innominabili, come due macellai.
Sul pavimento della cantina giacevano nove sacchi neri, due dei quali contenenti stracci imbrattati di sangue e abiti.
“Il preside aveva con sé portafoglio e documenti quando lo hai sequestrato, suppongo.”
“Sì.”
“Falli sparire, distruggili questa notte stessa.”
Con uno straccio, ripulii, per quanto possibile, la motosega.
“Non fare la stronzata di abbandonare i sacchi neri tutti nello stesso posto, capito? Sparpagliali in giro. E fa’ attenzione alle telecamere vicino ai cassonetti. Anche il tuo impermeabile e le scarpe devono sparire. Prendimi un sacco nero. Vuoto.”
Risalimmo al pianterreno.
Mi tolsi  visiera, stivali, impermeabile di gomma e li riposi nel sacco.
“Di questi mi occupo io. Tu pensi al resto, e senza perdere tempo. Vatti a fare una doccia prima di uscire, che hai i capelli unti di sangue rappreso.”
Accostai il più possibile l’auto all’ingresso col bagaglio aperto. Caricai la mia roba.
“Entro 12 ore devi far sparire tutto quello che c’è in cantina. Svuota il secchio nel cesso. Quando hai finito, avvertimi. Se ti dimentichi di farlo, verrò a cercarti e non sarò di buon umore.”.
Misi in moto e me ne andai.
Sbirciando nello specchietto retrovisore, vidi il prof chiudere il cancello e rientrare in casa.
Ventiquattro ore dopo, ricevetti un messaggio laconico: “Sistemato”.
Distrussi il cellulare.
La questione poteva dirsi chiusa. 
 
Pietro Ferrari, novembre 2019

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