sabato 8 febbraio 2020

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL CASO DI CEPHALOEDIUM 'CEFALÙ'

Il toponimo siciliano Cefalù (provincia di Palermo) risale al latino Cephaloedium, a sua volta di origine greca. Queste sono alcune attestazioni antiche:
 
Cephaloedium (Strabone)
Cephaloedis (Tolomeo, Plinio)
Cephaledum (Tavola di Peutinger) 
 
Etimologia: Si tratta di un nome derivato dal greco κεφαλή (kephale) "testa", attribuito in origine a una roccia sulla riva del mare. Secondo alcuni questa roccia doveva avere una forma bizzarra, che ricordava vagamente quella di una testa umana. Secondo il mio parere non ce n'è alcun bisogno: i Greci devono aver interpretato con falsa etimologia una precedente forma fenicia, analoga all'ebraico e all'aramaico kepha "roccia".

Vediamo che il latino volgare mostrava un esito -e- del dittongo -oe- in questo toponimo: è proprio il Cephaledum che compare nella Tabula Peutingeriana. Tuttavia un esito di gran lunga più comune aveva il dittongo integro oe, pronunciato /oe/ o /oi/ e poi mutato in -u- nella forma romanza Cefalù. Il suffisso di origine è il greco -oidis, che deriva direttamente da un precedente -*o-wid- "che ha l'aspetto di". Errano quindi coloro che pretendono di attribuire al latino di epoca classica la pronuncia ecclesiastica prevalente nel sistema scolastico italiano, ritenendola valida fin dalla più lontana epoca preistorica.  
 
Veniamo ora alla consonante iniziale c-, che in Cefalù è attualmente il suono chiamato "molle" dagli insegnanti e che noi preferiamo chiamare palatale o postalveolare. In greco antico il suono era "duro", ossia velare, /k/. Non conta nulla il fatto che nel greco moderno si sia sviluppata una palatalizzazione e il suono sia pronunciato /kj/ (quella che le genti chiamerebbero la chi- di chiesa). Meno ancora rileva il fatto che questo suono nei moderni dialetti grecanici sia realizzato come la nostra postalveolare /tʃ/ (quella che le genti chiamerebbero la c- di cena): si tratta di un mutamento del tutto naturale. Non si possono usare pronunce attuali, la cui origine è ben chiara e documentabile, per proiettarle all'infinito nel più remoto passato. 

C.H. Grandgent riporta che in Sicilia l'antica velare /k/ si è mantenuta anche davanti a vocale anteriore /e/ e /i/ più a lungo che in altri luoghi della Romània, anche se alla fine si è palatalizzata. Si veda il paragrafo 258 (C e G davanti a vocali palatali) del manuale Introduzione allo studio del latino volgare edito dalla Cisalpino-Goliardia (pag. 144): 
 
"Nella Sardegna centrale, in Dalmazia, in Illiria k' non progredì, e in Sicilia, nell'Italia meridionale, in Dacia il grado k' si è conservato, a quanto pare, più che nella maggior parte delle altre regioni".    
 
A riprova di tutto questo, facciamo notare che in arabo Cefalù è chiamata Gafludi. Evidentemente quando i Saraceni sono giunti in Sicilia hanno adottato un toponimo pronunciato /ke'flu:di(u)/, adattando la /k/ iniziale con una sonora /g/. Cosa bizzarra, visto che in arabo tale suono è abbastanza problematico. L'antico suono protosemitico /g/ è stato palatalizzato in /dʒ/ (la g- di gelo); soltanto la varietà egiziana ha un suono velare nelle parole ereditate. Sarebbe stato più semplice mantenere la consonante sorda /k/, ma è indubitabile che se il toponimo avesse già avuto una consonante postalveolare nel volgare romanzo, l'esito arabo sarebbe stato molto diverso.

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