martedì 17 maggio 2022

STRIDOR DI DENTI

La mensa ipogea sembrava un grande ambiente cemeteriale. Opprimenti luci al neon abbacinavano i deboli occhi degli avventori e riverberavano sulle piastrelle delle pareti come i raggi di un sole di morte. Il Tecnico appoggiò il suo vassoio al bancone, rassegnandosi a una lunga coda prima di poter arrivare alla cassa. Ogni operaio davanti a lui doveva apporre una firma dopo aver pagato, e questo non snelliva certo il flusso di gente. Quasi tutti quegli uomini di fatica indossavano tute fluorescenti di un color arancione vivissimo: forse era uno stratagemma per renderli sempre ben visibili ed evitare incidenti, permettendo loro al contempo di lavorare anche in condizioni di semioscurità. Le meditazioni del Tecnico erano di un’amarezza infinita. Tutta questa pantomima si ripeteva quotidianamente, come se si fosse formato un anello di tempo chiuso, come se una stringa cosmica avesse sfiorato la sua vita intrappolandolo nell’eterna ripetizione degli stessi istanti. Un loop infinito. Il Giorno della Marmotta, nel film Ricomincio da Capo con Bill Murray. Solo che qui non si trattava di presenziare una cerimonia all’aria aperta, ma di essere murati vivi in un ciclo ininterrotto di agonia esistenziale che non poteva conoscere sbocco. Una disgustosa zaffata richiamò il Tecnico alla dura realtà. Formaggio rancido. L’esalazione proveniva da un piatto sul vassoio dell’operaio davanti a lui. Come guardò, vide una massa di pasta coperta di formaggio grattugiato putrefatto. Quegli incompetenti della cucina lasciavano le formaggiere chiuse senza cambiarne il contenuto per giorni, così vi si producevano orride fermentazioni anaerobie. Il lezzo era insopportabile. Non era semplicemente rancido quel formaggio, era marcio. Il Tecnico fu preso dalla stizza, non capiva come potesse essere ritenuta commestibile una simile schifezza. Sapeva di unghie di piedi lasciate crescere sporche per mesi, di smegma putrido accumulato sotto il glande di un fimotico. Peggio ancora: sapeva di cadavere. L’operaio si voltò, fissando il Tecnico con uno sguardo ebete. Pelle dal colorito scuro, barba ispida più nera della pece, fattezze grossolane e arcata sopracciliare prominente. Certo Lombroso avrebbe pagato a peso d’oro il suo cranio. A quel punto il Tecnico notò una mano dell’operaio, che aveva l’unghia del mignolo insolitamente lunga, come l’artiglio di un rapace. Si vedeva che molta sozzura nera vi era accumulata sotto. Un conato di vomito scosse lo stomaco del Tecnico, nella sua mente non era possibile distinguere il formaggio sparso sulla pasta dall’immondizia dell’unghia del mignolo. Per poco non vomitò lì in mezzo a tutti. A questo punto la fila avanzò, visto che un operaio aveva finito di firmare anche per tre suoi compagni di schiavitù, evidentemente analfabeti. Quando il Tecnico fu davanti alla cassiera tirò un sospiro di sollievo, il formaggiaro si era allontanando portando con sé il suo fetido pasto. Estrasse il portafoglio e diede alla ragazza, Ivanka, un biglietto da dieci euro. La bruna prosperosa prese la banconota, abbozzò un saluto confuso e diede in cambio all’uomo qualche ramino. Afferrò lo scontrino e glielo porse. Il Tecnico non sapeva che farsene, visto che i pasti non erano rimborsabili, ma il regolamento parlava chiaro. Così prese il biglietto, lo accartocciò e se lo mise in tasca, mentre un operaio dietro di lui gli premette sulle mani con il vassoio. – Un attimo di merda, quel Dio! – imprecò il Tecnico. Un travaso di bile lo colpì. “Unica soluzione possibile, il plutonio”, pensò. Quanto era esecrabile la foga di quei subumani, che prima bramavano di sedersi a consumare quello sterco e poi ne avanzavano la maggior parte nei sudici piatti. Reggendo il suo vassoio, si incamminò verso i tavoli della stanza più estrema della struttura. Schivando le figure barcollanti di alcuni materialoni e maledicendo mentalmente la loro rozza natura, riuscì alla fine a raggiungere il suo solito posto. Dietro di lui era seduto il Corvo, un uomo dagli occhi scavati e forse divorato da un tumore. Come ogni giorno stava lì, avvolto nelle sue vesti nere a consumare un magro pasto a base di pesce. Il suo beveraggio consisteva in una piccola caraffa di vino annacquato. Mentre masticava pensava a chissà quali universi lontani. Il suo sguardo assente ricordava talvolta la fissità di un cadavere a cui nessuno avesse pensato di chiudere le palpebre. I Russi cominciarono ad accomodarsi. In realtà nessuno di loro era etnicamente un puro slavo, venivano da qualche misteriosa repubblica transuralica portando le loro incerte favelle, miscugli inestricabili di idiomi turchi e mongolici frammisti a terminologia islamica di lontana origine araba e ad altro materiale lessicale assolutamente non identificabile. A differenza di altri gruppi di operai, questi vestivano di grossolane tute di jeans, di un colore blu uniforme ed intenso. Ecco “Borat”, con la sua figura longilinea, la sua statura di quasi due metri, il suo volto magro e i suoi baffetti corvini. Accanto a lui c’era “Galuba”, un grassoccio uomo caucasoide di mezza età dai capelli grigi, con la faccia rotonda come una luna piena, gli occhi bovini e inespressivi, le ciglia cispose. Di fronte sedeva “Uldin”, dalle sembianze di un antico condottiero degli Unni. Tipicamente mongolico, il suo sguardo aveva un che di intenso e feroce, forse a causa dell’effetto della tipica plica oculare. Incredibile come il Tecnico avesse per mesi e mesi perso tempo ad etichettare quelle stupide persone con un nomignolo. I loro veri nomi gli sarebbero stati sconosciuti per sempre. Oltre quel gruppo, verso l’esterno, sedeva una strana comitiva di uomini dalla pelle scurissima. Dal loro modo di parlare il Tecnico era riuscito a capire che si trattava di Rom. Nascondevano con cura ai datori di lavoro la loro vera origine per non perdere il posto all’istante e per non essere esposti a discriminazioni. Di solito si facevano passare per genti dello Sri Lanka, tanto poi nessuno indagava a fondo. Erano forse i soli a portare un po’ di allegria in quel mortorio senza speranza. Uno di loro, orecchino dorato al lobo dell’orecchio destro, si alzò dal tavolo e passò all’improvviso dal Romanes all’Italiano. - Io sono fiero di essere un terrone! - urlò come un giullare ubriaco. I suoi compagni lo scoppiarono a ridere e lo fecero sedere prima che combinasse qualche danno. Diverse caraffe grandi facevano bella mostra in mezzo alla tavolata, quasi svuotate dal vino che fino a poco prima contenevano. I gitani sogghignarono ancora per un po’ e si scambiarono commenti fragorosi, poi finirono di mangiare e si alzarono. Alcune inservienti di incerta etnia accorsero subito a rimuovere il porcile che si era formato, così in breve tempo altre persone si sarebbero potute sedere.
I soliti “Borat”, “Galuba” e “Uldin” continuavano la loro conversazione fatta di borbottii. A loro si erano aggiunti “Kaspan” e “Boromir”, un grassone biondiccio con occhi azzurrognoli, evidentemente discendente da coloni sovietici. Che buffo. Il Tecnico aveva battezzato “Kaspan” dal cognome di un suo compagno di scuola per via del somatismo vagamente simile. Una volta, era ancora adolescente, era stato invitato da lui nel garage di casa, dove stavano ammucchiate pile di riviste pornografiche illegali, semplicemente allucinanti. Le recuperava dalla cartiera dell’oratorio, così gli aveva detto, dicendo anche che si trattava di materiale “fichissimo” che non avrebbe venduto neanche a peso d’oro. Il Tecnico ricordava ancoro quelle immagini ributtanti: non si pentiva di essere corso via in preda allo schifo e di non aver messo più piede in quel piccolo inferno. I Russi avevano i vassoi ricolmi di pietanze di ogni genere, non esitavano a dissipare i loro buoni comprando primo, secondo, contorno e frutta. Poi mangiavano soltanto una piccola parte di ciò che avevano davanti. Lo spreco nella mensa era incredibile e sistematico. Quando gli operai si alzavano, lasciavano sui tavoli uno spettacolo desolante, un autentico letamaio di avanzi unti mischiati alla rinfusa. Piatti messi uno sull’altro, con pezzi di pollo e masse di pasta che uscivano dalle intercapedini, posate sporche di salive schifose e cosparse di residui di alimenti. Al Tecnico questo faceva riflettere ogni volta. Già di per sé tali abitudini dissipatorie sarebbero state in grado di demolire il mito buonista della fame nel mondo, dato che la gran parte di tali genti proveniva da nazioni in cui imperversava la carestia. Un sorriso beffardo spuntò sul volto del Tecnico. Fosse stato per lui avrebbe trascinato lì per i capelli le maestrine che in tutte le scuole inculcavano idiozie nelle menti infantili, rovinandole per sempre ed impedendo loro di formarsi un’immagine corretta della realtà dei fatti. A sentire quelle troie decerebrate, il terzo e il quarto mondo brulicavano di poveri bambini sempre pronti a divorare qualunque cosa capitasse loro a tiro, condizionati in ogni loro comportamento da una fame inestinguibile. Invece le genti di quei paesi erano anche quelle che avevano più pregiudizi alimentari, tanto che non pochi MANDINGO si rifiutavano di mangiare il cibo che trovavano in Europa. Non ce n’era nessuno che fosse un ghiotto divoratore. Il Tecnico vedeva le stesse scene ogni giorno. Marocchini che continuavano a chiedere con insistenza se nel pesto ci fosse il maiale e così via. Una volta una donna islamica indicò della carne e chiese se fosse suino. Nell’altra vaschetta c’erano delle grasse salsicce. Come l’inserviente addetta alla distribuzione rispose che l’arrosto era di maiale, la donna disse candidamente: “Allora mi dia le salsicce”. Le figure tristi dei Nordafricani avevano qualcosa di sfuggente. Si mettevano tutti tra loro, molti bevevano lattine di energy drink tipo Red Bull nonostante il loro costo fosse proibitivo, forse per esibire un surrogato del vino. Un islamico da solo in mezzo a genti di altra religione poteva bere tranquillamente il vino, ma se c’erano altri suoi compagni non osava, visto che si controllavano a vicenda. Il comportamento immorale di un membro della comunità avrebbe potuto essere riferito all’Imam, dal momento che i delatori erano molto numerosi. “Ecco il Carognaro”, si disse il Tecnico osservando un uomo procedere tra i tavoli abbandonati in cerca di rifiuti. Ormai i Russi se ne erano andati e in tutta l’ala erano rimasti in tre: il Tecnico, il Corvo e il Carognaro. Al Corvo nessuno osava avvicinarsi, la gente pensava che portasse sfiga. Il Carognaro si diresse verso i posti dei Russi e rovistò tra i piatti. Era italiano e aveva tutta l’aria di una persona ben al di sopra di chi lo circondava. Forse ricopriva addirittura un posto di una certa responsabilità, visto che i suoi vestiti erano impeccabili. Nonostante questo, il suo comportamento era al di là di ogni decenza. Con ogni probabilità era l’effetto strisciante dei prioni dell’Alzheimer a spingerlo al contatto con gli avanzi altrui. Prese una forchetta usata e si riempì un piatto di cibi eterogenei, quindi si sedette a mangiare. Non che il Tecnico fosse una persona di grandi appetiti, ma solo guardare quello che restava della sua pasta dal sugo acidulo gli fece venire una nausea insistente. Non poteva sbocconcellare la piccola forma di pane senza provare a calcolare il tenore di larve di coleottero e di blatte nella farina, così decise di lasciar perdere. Versò nel bicchiere quanto rimaneva della sua acqua minerale. In quel momento arrivò il Professore. Era un uomo sulla cinquantina, magro e con i capelli brizzolati. Portava gli occhiali. Depose sul tavolo un vassoio con un piatto di pasta al pomodoro e una bottiglietta d’acqua. “Che stavolta sia solo?”, si domandò il Tecnico, “Che lei l’abbia inculato?”. Non appena finito di formulare quelle oziose domande, ecco che vide arrivare l’amante del Professore, “Ano”. A dire il vero si chiamava Elena, ma il Tecnico l’aveva ribattezzata “Ano” perché era un’anoressica terminale. Le foto di Auschwitz avevano di certo perso ogni loro potere traumatizzante da quando si era potuto constatare che sempre più ragazze si riducevano a scheletri volontariamente, senza nessuna SS che le costringesse, e tutto per la più fatua delle motivazioni: il narcisismo. Se “Ano” si fosse offerta per interpretare una deportata ebrea in un film sull’Olocausto, sarebbe stata perfetta nella parte.
“Ano” era una ragazza dalle lunghe chiome bionde e dagli occhi azzurri. Una volta una collega del Tecnico aveva ironizzato dicendo che era troppo ariana per interpretare il ruolo della gassata ad Auschwitz, ma lui si faceva beffe di simili obiezioni: sapeva bene che gli Ebrei Ashkenaziti avevano il più alto tasso di biondi dagli occhi azzurri del mondo. Detto questo, “Ano” non era ebrea. Era di Parma. Bionda, pettegola e coi dentoni, come tutte le genti di Parma. Le braccia non avevano alcuna muscolatura, a parte forse qualche fibra atrofizzata: soltanto ossa fragili e pelle. Con ogni probabilità si muoveva grazie ai tendini. Le si contavano le costole attraverso la maglietta, i suoi seni erano piccolissimi e vizzi, poco più che rigonfiamenti appena abbozzati. A parte questo, il suo corpo era così poco sessuato che avrebbe potuto essere scambiata per una bambina. L’addome era scavato, il bacino si sarebbe potuto rompere con uno spintone. Il Tecnico dubitava che il Professore la penetrasse, le avrebbe fratturato qualche osso con un paio di spinte. Avrebbe naturalmente potuto possederla more ferarum o farla salire su di lui, ma anche così i pericoli sarebbero stati eccessivi. Era chiaro che lei gli procurava piacere fellandolo. Cos’altro avrebbe potuto fargli se non prenderglielo in bocca e succhiarlo? Ogni volta che “Ano” si sedeva davanti al suo adorato Professore, lo fissava estasiata, con un’espressione assolutamente ebete negli occhi in preda all’ipnosi. Sorrideva vuota, come una vergine di Medjugorie in piena apparizione mariana. Non ci potevano essere dubbi. Non solo leccava e succhiava il Professore, ma gli passava anche la lingua sull’ano. Se lui le avesse detto di farsi defecare in bocca, lei avrebbe aperto la bocca perché lui la usasse come latrina. La cosa che più sorprendeva era però un’altra. “Ano” mangiava. Prendeva sempre un piatto di pasta e una ciotola di mirtilli e non c’erano dubbi che si introducesse queste cose nello stomaco. Il Tecnico sapeva come spiegare anche questo fenomeno. Lo scheletro deambulante ingurgitava tutto e poi si recava immancabilmente al cesso a vomitare. Ogni input doveva corrispondere a un output, per usare un linguaggio per iniziati alla Scienza Occulta dell’Informatica, alla Ghematria dei Bit. Era ben possibile che andasse a vomitare anche dopo aver inghiottito gli impetuosi zampilli di sperma che il Professore le riversava in bocca: ogni apporto calorico, di qualsiasi origine, doveva essere tenuto sotto spietato controllo. L’ennesima ondata di disgusto assalì il Tecnico, che decise di ritornare al suo noioso e logorante lavoro di programmatore. Si sentì in preda a una stanchezza incredibile. Sarebbe uscito e avrebbe percorso un breve tratto di una via coperta di escrementi canini, sui cui lati stavano sorgendo grattacieli tanto alti che una volta ultimati avrebbero oscurato il sole. Tutto un cantiere. Dove prima c’era un centro sociale, ora ferveva l’opera di migliaia e migliaia di formiche in un titanismo, minuscoli atomi di un progetto il cui titanismo aveva qualcosa di cinese.
Nell’attraversare la sezione principale della mensa ctonia, il Tecnico fu colpito dalla figura di un operaio particolarmente grottesco. I suoi tratti erano molto devianti rispetto al valor medio di qualsiasi tipo di umano. “Un uomo di Neanderthal”, venne subito in mente al Tecnico, che si fermò a fissarlo. L’essere aveva una corporatura robusta e tarchiata, muscoli da culturista, duri e lucidi come acciaio. Collo quasi assente, cranio massiccio dall’ossatura spessa. Fronte sfuggente, assenza di mento, arcate sopracciliari prominenti. I capelli, foltissimi, arrivavano quasi alle sopracciglia ed erano di un nero lucente. La barba di due o tre giorni era composta da peli aguzzi la cui area di crescita giungeva fin quasi agli occhi. Il naso era imponente, una cosa mai vista. I denti massicci sembravano pioli. Per il modo di vestire non si distingueva da altri seduti nei tavoli attorno a lui: indossava la tipica tuta arancione fosforescente. Il Tecnico trasecolò. Era come se un uomo di Neanderthal fosse piovuto a Milano dai suoi territori di caccia preistorici, fosse stato ripulito sommariamente, rasato e vestito, gli fosse stata impartita un’istruzione rudimentale consistente di brevi comandi e fosse stato messo a lavorare alla costruzione dei nuovi palazzi regionali. Mangiava a quattro palmenti. Aveva già svuotato tre piatti e si preparava ora a finire il quarto. A quanto pare si nutriva unicamente di carne. Alcuni muratori bergamaschi gli si avvicinarono e lo salutarono usando il loro dialetto. “Ola!”, fece uno di loro. Lui in risposta alzò una mano ed emise un suono stridulo. Inumano. Le vocali erano diverse dalle nostre, nessuno avrebbe saputo trovare un sistema di trascrizione. Quella parola estranea all’umanità sconvolse il Tecnico, che volle avvicinarsi per chiedere informazioni. Non fece in tempo a muovere due passi nella direzione scelta che fu colpito da un malore improvviso. Una sensazione indescrivibile lo attraversò con la potenza di un fulmine. Il campo visivo si offuscò e si rese appena conto che le gambe stavano per cedergli. Cadde come un sacco vuoto, perdendosi nelle nebbie dell’incoscienza. Quando riaprì gli occhi, il Tecnico capì subito che qualcosa non andava. Il pavimento era bianco, sembrava di ceramica. Una grande massa profumata di arrosto stava davanti a lui. Non voleva credere ai suoi sensi: quello era davvero arrosto fumante. Si guardò e vide che era nudo come un verme. I vestiti che indossava erano in qualche modo spariti. Alzando gli occhi verso il soffitto distinse un enorme lampada al neon. Troppo grande, sproporzionata. Un cozzare terribile lo fece piegare in due, assordandolo. Si girò e vide delle aste di acciaio cozzare contro la ceramica del pavimento. Un digrignare tremendo pervadeva l’aria, come se denti giganteschi stridessero l’uno contro l’altro. Ecco che tutto gli si rivelò di colpo come vide il faccione dell’Uomo di Neanderthal sopra di sé, un mostro grande come una casa. Allora comprese di essere nel piatto di quel mostro e di essere stato ridotto per scherzo di un destino atroce e inesplicabile alle dimensioni di un vermicello. Non gli restava altro che correre al riparo. Troppo tardi, era stato visto. Una montagna di carne fu rimossa e scomparve nelle fauci del Neanderthal in men che non si dica, tra rumori assordanti di masticazione. Rimanevano davanti al Tecnico soltanto pochi frammenti inutilizzabili. Il bruto lo fissò con occhi pieni di ferocia e passò all’attacco. Incredibile come avesse appreso bene ad usare le posate, divertendosi a tagliare e al infilzare. Il coltello cozzò contro il piatto emettendo un verso straziante. Il Tecnico non poté far altro che turarsi le orecchie, come per impulso riflesso. Non serviva proprio a nulla: l’eco di quell’insopportabile fischio lo uccideva. Le vene si gonfiavano sul suo collo e sulla sua faccia, tese fino a scoppiare. Sentiva che sarebbe morto per la rottura di un aneurisma o per un infarto entro pochi minuti. Il terrore gli aveva deformato il cuore e faceva pulsare all’impazzata le arterie: nessun sistema cardiovascolare poteva resistere a lungo a una sollecitazione tanto violenta. La forchetta calò con infinita crudeltà proprio mentre i molari cozzavano come Simplegadi. Sembrò alla vittima che i Cieli stessero crollando. I timpani si lacerarono e un dolore sordo gli prese il torace e la schiena, paralizzandolo completamente. Uno dei rebbi più esterno della forchetta gli straziò l’addome. Sangue uscì misto ad intestini e a coaguli fecali spandendosi sull’immacolata ceramica: era la fine. Un altro colpo infilzò il torace, spappolando un polmone e mancando il cuore per un soffio. Con gli ultimi istanti di vita raggelata, l’uomo vide la bocca del Neanderthal avvicinarsi. Gli ultimi pensieri che passarono per la rete neuronale del moribondo erano confuse accozzaglie di reminiscenze scolastiche e di letture di gioventù. Polifemo, Crono divoratore dei suoi stessi figli, Grendel della Stirpe di Caino. Poi il Nulla. 

Marco "Antares666" Moretti

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