lunedì 6 giugno 2022

NUDO, SULLE RIVE DEL MARE DI AZOV

1.

La notte è pervasa da correnti gelide, e io sono nudo. Non ho con me alcun abito, e non capisco come sia potuto accadere. Non vedo nulla, tanto l’oscurità è impenetrabile. Pece che mi copre, inchiostro criogenico che avvolge ogni dettaglio di questo paesaggio invisibile. Sento dell’erba sotto i miei piedi. Forse sono un sonnambulo e non me ne sono mai accorto prima. Mi sembra di cogliere il lontano ululato di un lupo solitario, ma naturalmente questa non può essere che una mia impressione.
Uno strano contrasto lentamente invade i miei occhi, come se qualche fotone avesse cominciato a colpire i miei nervi, fuggito da una sorgente sconosciuta. Ancora qualche minuto ed ecco un debole chiarore all’orizzonte. Penso che stia sorgendo il sole, e cerco la strada di casa. Devo essermi allontanato non poco dalla città durante il mio peregrinare notturno in stato di incoscienza. Non distinguo alcun edificio tra le ombre. Ecco che finalmente la causa di quel lucore si rende manifesta: non è il sole come credevo, ma la luna. Una luna piena, grande, che inonda la terra con il suo benevolo mantello di argento vivo. Quasi faccio fatica a fissarne il volto. Quando guardo attorno a me, tremando per il freddo e per la paura, mi rendo conto che il territorio non ha nulla a che vedere con qualsiasi cosa mi sia nota. Davanti a me si estende un mare grigio, all’orizzonte del quale si possono vedere delle alte catene montuose come miraggi evanescenti. Un mare interno, chiuso. Questa rivelazione è troppo per me. Non riesco a farmene una ragione. Proprio ieri ero incolonnato nel traffico suburbano e ho consumato due ore in coda per giungere distrutto al mio loculo abitativo, dopo il calar del sole. Per miglia e miglia non esiste un solo giardinetto pubblico, solo qualche aiuola rinsecchita sprofondata in un oceano di cemento popolato da esseri più simili a ombre che a umani. Non è possibile che mi sia spinto fin qui con il solo aiuto delle mie gambe, affette da varici per la mia vita anaerobia in ufficio.
Se non trovo qualcosa da mettermi addosso finirò col morire assiderato. Questa consapevolezza mi desta come un pugno nello stomaco dalle mie meditazioni. Un minimo abbassamento della temperatura dell’aria ha innescato ancestrali meccanismi di sopravvivenza. Nulla. Intorno a me non c’è nulla che possa offrirmi riparo, soltanto distese erbose e alberi ritorti. Sento le mie forze mancare, perdersi nella morsa dei brividi. All’improvviso mi sembra di cogliere qualcosa, e la speranza torna a crescere in me. Forse sono i deboli raggi di una torcia quei guizzi di luce pallida che fendono il buio davanti a me…
Quando mi sveglio mi ritrovo a letto, e per qualche istante penso che sia stato soltanto un brutto, orrendo sogno. Mi accorgo però che quello non è il mio letto, quella non è la mia casa. L’ambiente è spoglio e senza ornamenti, il riscaldamento è garantito da una stufa rudimentale fatta di ghisa e alimentata a legna.
- Was istu, adelmanne? – mi chiede una giovane donna. Indossa una strana veste lunga, bianca e grigia, finemente decorata con svastiche, aquile stilizzate e soli i cui raggi interni sembrano fulmini. Ma quello che più mi stupisce è la lingua in cui si è rivolta a me. Sembra una specie di dialetto tedesco, forse tirolese o qualcosa di simile.
- Siltha! Du is manne gutz ja bertz, ik kan’tha! – continua stringendomi una mano e guardandomi con occhi dolci. C’è qualcosa che non va nel suo tedesco. Somiglia a quello che ho imparato a scuola, ma non riesco ad afferrarlo completamente. La pettinatura della ragazza è complicata e anacronistica. I suoi capelli biondi sono raccolti in crocchie e fissati dietro alla nuca con spilloni di rame. Un uomo entra nella camera. Sembra uno Schützen, a conferma della mia ipotesi. Poi ci penso. In Tirolo non esiste il mare. E anche se quella gente fosse tirolese, come ci sarei finito? Lo osservo. Avanza con una certa baldanza. Il naso è paonazzo e l’andatura malferma, è evidente che si è intossicato con qualche bevanda alcolica.
- Bi Wuden heligen, du is gedrunkens! – urla lei. Questa volta capisco alla perfezione la frase, e il senso di irrealtà torna ad aggredirmi. Collego l’accenno a Wotan agli strani disegni sulle vesti della donna e penso che forse sono stato rapito da nostalgici del III Reich.
L’uomo mastica le parole, ma riesce comunque a districarsi abbastanza bene in quella selva di consonanti.
- Ja, ik im gedrunkens, fuls mid mido gudem! – dice ridacchiando per l’ebbrezza, come se qualcosa di irresistibilmente comico avesse colpito la sua attenzione.
- Wem chlaftu den mido? Wis habem niwecht chlef for unsrem barnem du iten ja du wastes gild for mido! – lo aggredisce lei. Mi consolo pensando che dovunque io sia finito, le femmine sono uguali a quelle di qualsiasi altra parte del mondo.
- Ik habeda mild sum dath’ik chlaf fram Russikem – si difende l’ubriaco. La giovane sbianca come se di colpo avesse perso tutto il suo sangue da una ferita invisibile. Leggo il terrore assoluto sul suo volto, come se ne andasse della sopravvivenza di tutta la sua gente.
L’uomo diventa per un istante itterico, quindi inizia a vomitare copiosamente. Sta così male che sembra essere in fin di vita. La moglie cerca di sostenerlo mentre lui si libera di una gran massa di liquame bilioso. Arrivano i figli. Il più adulto dice qualcosa alla madre, riceve delle istruzioni ed esce dalla casa, mentre gli altri due iniziano a darsi da fare per pulire il pavimento. Passano pochi minuti ed ecco la suocera, armata di un grosso randello. È una donna alta e robusta, di aspetto somiglia molto a Ingrid Bergman.
- Arga! – urla all’uomo disteso, e inizia a prenderlo a calci. Gli dà una serie di bastonate, incurante dei suoi lamenti, quindi esplode in un violento attacco verbale: - Bi Wudenes blud! Du is ens fule chliftz! Jaf de Russikens ufkunnen’tha, de sandend hir ene hanse Merene du afslachen allens uns!
I bambini rimuovono il vomito con aria rassegnata, dandosi il cambio per riempire il secchio d’acqua, come se fossero abituati da tempo a scenate simili. Sembra che ce la mettano tutta per far scomparire le prove di un efferato delitto. A riprova di questo mio sospetto, vedo che l’ubriaco viene trascinato dalla matriarca e dalla moglie e condotto in un vano sotterraneo attraverso una botola. Fatto questo, le due donne riemergono nella stanza e posizionano sul passaggio segreto un tappeto.
Il tutto mi pare un po’ troppo per una semplice sbornia, non riesco in alcun modo a ridurre ad una spiegazione razionale il comportamento di quella gente. Forse sono di un puritanesimo estremo, ma tutto il loro terrore e il loro trafficare sembrano piuttosto nati dall’esigenza di nascondere quanto accaduto ad estranei ostili.
Più osservo le cose e collego i dettagli, più assurda mi appare l’ipotesi che si tratti di neonazisti di un isolato villaggio nato da qualche esperimento procreativo. Nessun ritratto di Hitler, nessuno che indossa l’Armband, e non vi è traccia del saluto con il braccio teso. A dire il vero, non vedo neppure un segno che possa indicare una qualche tecnologia da XX secolo. Niente telefono, niente televisione, niente elettricità.

2.

I giorni passano in modo abbastanza tranquillo e senza altri incidenti. Tra l’altro, una volta smaltita la sbronza, l’uomo è ritornato alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse, anche se si capisce che la suocera non gli ha perdonato del tutto la sua bravata. Approfitto del riposo che posso concedermi, e presto riesco a recuperare un po’ di forze. Quando sono abbastanza sano da potermi alzare, mi danno degli abiti tradizionali e mi fanno sedere alla loro tavola. Il vitto è costituito per lo più da latte e da una specie di porridge. Solo raramente viene servita una birra asprigna e leggera, in quantità del tutto insufficiente ad inebriare. Mi impegno al massimo per imparare la loro lingua il più in fretta possibile, facendo anche affidamento sulle mie reminiscenze di tedesco scolastico, e presto riesco seppure in modo stentato a comunicare e ad approfondire la mia conoscenza. Mi rendo conto che la lingua presenta molte caratteristiche del tedesco, ma è differente e non poche parole nulla hanno a che vedere con quelle che mi sono familiari. D’altronde con una maestra adorabile come la ragazza che mi ha curato, non posso che fare progressi strabilianti. Noto però che sta bene attenta a mostrarsi troppo gentile con me in presenza del marito e soprattutto dell’austera matriarca. Non conoscendo i costumi di quella gente in materia di relazioni sessuali, e intuendone anzi la natura puritana, mi astengo dal dar corda a quelli che a volte mi appaiono come velati tentativi di seduzione. Non vorrei trovarmi con la testa rotta dal randello di Ingrid Bergman o con un coltello dell’ubriacone, infilato nel ventre.
Pian piano riesco ad immedesimarsi in quel mondo angusto. L’uomo si chiama Ermenrix e sua moglie Amelswinde. La casa è retta dalla madre di lei, Ermengarde. I tre figli della coppia sono Theoderix, Kunegunde e Hanala. Mi sono presentato loro con il mio vero nome, Gian Marco Stanga, ma a parte una blanda curiosità sul suo strano suono e sulla sua origine esotica, non se la sono sentiti di indagare troppo a fondo sulla mia provenienza. Ho detto loro che vengo dall’Italia, ma il nome della mia terra d’origine non diceva loro nulla, non l’avevano mai sentita nominare. Tutta la loro conoscenza del mondo potrebbe stare nella prima pagina di un quotidiano. Soltanto quando ho detto loro che sono di Venezia, ho avuto un inatteso riscontro: a quanto pare una spedizione di mercanti della Serenissima aveva fatto visita al loro villaggio una ventina di anni prima. Indagando sulle loro pur esigue cognizioni storiche e geografiche, sono riuscito a formarmi un’idea. Non ho più dubbi a proposito di ciò che mi è capitato: per quanto incredibile possa sembrare, sono stato sbalzato dal mio cronotopo e sono finito in una linea temporale parallela. Tutto quello che ho scoperto conferma la mia spiegazione. Siamo in Crimea, nei pressi del Mare di Azov, e le genti che mi hanno dato ospitalità non sono tedeschi del Tirolo, bensì lontani discendenti dei Goti di Re Ermanarico. Sono così tante le cose che vorrei apprendere, ma mi scontro quasi sempre contro gravi limitazioni. Per esempio, quando cerco di capire in che anno siamo, mi accorgo che tale nozione non ha per i miei ospiti alcun senso: essendo rimasti pagani, il computo degli anni a partire dalla nascita di Cristo non è da loro neppure concepito.
Imparare è l’unico modo di non morire di noia: nonostante tutti i miei tentativi, non riesco a convincere nessuno a portarmi fuori di casa. È come se avessero terrore che qualcuno potesse fare la spia vedendo uno sconosciuto nel villaggio. Nel complesso non si può dire che la loro vita sociale sia movimentata. Molto raramente ricevono qualche visita, ma anche se si tratta di parenti stretti, mi costringono a non farmi vedere perché la mia inconsueta fisionomia non desti sospetto e non inciti alla delazione. Matura sempre più in me l’idea che quello non sia un paese libero, ma terra di conquista.
Quando acquisto un po’ più di familiarità con la bella Amelswinde, vengo a sapere cos’è successo la notte in cui ho ripreso i sensi. Ermenrix aveva rubato del miele ai Russi e l’aveva usato per farne un barile di idromele, scolandoselo tutto. Un simile furto sarebbe come minimo stato punito con la morte, se fosse stato scoperto. I miei sospetti trovano conferma. I Russi dominano la Crimea, opprimendo duramente le sue genti. Goti, Greci, Unni, Tartari Crimeani e Khazari sono assoggettati a un durissimo regime fiscale da parte della Repubblica Nichilista di Moscovia. I più temuti tra tutti i soldati Russi sono gli incursori Meren. Scopro che i Meren sono una popolazione che vive nelle regioni degli Urali. Hanno i capelli rossi e gli occhi con la plica mongolica, la pelle così chiara da sembrare anemica. Praticano sacrifici umani e cannibalismo, e sono talmente feroci da essere ritenuti demoni dagli stessi Tartari.

3.

È passato ormai quasi un mese, ma nessuno vuole saperne di lasciarmi andare. Lontano dal mio popolo, non saprei cosa fare, mi dicono. Alla fine, dopo lunghe discussioni, riesco a farmi promettere che mi faranno sapere come arrivare fino a Sebastopoli, dove dovrebbe essere facile trovare una nave diretta a Venezia.
Finalmente si prospetta l’occasione di curiosare un po’ fuori dalle mura domestiche. Ci sarà presto un matrimonio, e nessun membro della famiglia potrà mancare ai festeggiamenti, neppure i bambini. Avranno soltanto due scelte: o portarmi con loro spacciandomi per un improbabile lontano cugino oppure rinchiudermi in casa. Ma queste case non sono certo impenetrabili. Aspetto così che tutti si siano allontanati, quindi forzo la fragile serratura di una porta posteriore ed esco. La visione del villaggio mi colpisce come un pugno allo stomaco. Le poche case hanno il tetto coperto di torba. Ho la conferma dell’assenza dei manufatti tecnologici a cui sono abituato nel mio mondo d’origine. C’è un solo edificio in muratura, del tutto diverso dagli altri. Vi sventola una bandiera rossa con una falce e martello in nero, identica a quella del frontespizio del Libro Nero del Comunismo. Alcuni cavalli sono legati a un palo di ferro arrugginito. C’è anche un’automobile scoperta che si direbbe del primo XX secolo, atta al trasporto di militari. Vedo solo un uomo in uniforme grigia. È seduto vicino alla porta d’ingresso, addormentato con una bottiglia di vodka in mano. Il mio giro di ricognizione ha successo, e prima della fine dei bagordi riesco ad essere di nuovo in casa come se nulla fosse successo. Ciò che ho visto mi lascia perplesso. Ogni casa del villaggio evidentemente corrisponde ad un nucleo familiare più o meno esteso. Alcune stalle e gli attrezzi agricoli indicano quale sia il sostentamento. Un solo forno è usato da tutti per la cottura del pane. I fasti nuziali di questi contadini consistono in un po’ di formaggio, in un maiale arrostito e in qualche bottiglione di idromele, di certo spillati da una riserva tenuta sotto chiave per anni, ben lontana dalla bramosia del non certo astemio Ermenrix. In tutto ci saranno state venti persone al tavolo del banchetto. Non si può certo dire che i Goti di Crimea siano un popolo numeroso e in espansione.
Ormai le prime luci dell’alba stanno comparendo ad Oriente, e il cielo comincia a schiarirsi. Amelswinde, Ermengarde e i bambini rientrano rintronate per il troppo cibo ingerito durante il banchetto. Non vedo però Ermenrix, e quando lo faccio loro notare, si stupiscono e si allarmano. Parlano a lungo tra loro, incerte sul da farsi. A questo punto la porta si apre, e ne entra un giovane uomo alto e biondo, con gli occhi azzurrissimi e il volto pieno di efelidi. Con tutta probabilità è un parente stretto di Amelswinde, forse un suo primo cugino a giudicare dalla somiglianza.
- Dem nachte Ermenrix idda du Russikem bidentz for brinnwate! Hired is alle! – esclama trafelato il gigante ariano. È in allarme, sa per certo che qualcosa di orribile sta per succedere. Le due donne fanno per seguirlo, impugnando dei bastoni e facendo cenno ai bambini di non muoversi per nessun motivo. Capisco che l’ubriacone ha sfidato ogni buon senso ed è andato dai Russi a chiedere dell’acquavite per completare la sua colossale sbornia.
Prima che le donne possano muoversi e dirigersi verso l’ingresso, la porta si apre una seconda volta e ne entra proprio Ermenrix. Barcollante e insanguinato, sembra l’incarnazione di un incubo. Impugna un fucile ancora caldo.
- Enen Russiken kwaldik! – urla. Ha ucciso un russo! All’improvviso si sentono versi raggelanti. Prima che qualcuno possa fermarmi vado alla porta e vedo l’orrore. Una decina di Meren stanno percuotendo a morte dei cavalli con spranghe di ferro, urlando selvaggiamente e ridendo come pazzi. Rompono loro le costole, abbattono colpi spaventosi sul cranio. Vedo uno stallone che barcolla e perde un ruscello di sangue dal naso e dalla bocca. A questo punto uno dei Meren estrae un coltellaccio lungo e acuminato e lo affonda nel torace dell’animale. Appena questi si impenna, cercando di scalciare e di colpire gli aggressori, essi gli squarciano il ventre con le lance, facendone fuoriuscire masse di intestini. Una cavalla viene colpita al collo e stramazza a terra. Non contenti della loro opera, i Meren si accaniscono sui cavalli moribondi con inenarrabile ferocia. Li scorticano, strappano masse di carne dai loro fianchi, tagliano i tendini, fracassano le ossa. Più le vittime sono inermi, più la crudeltà aumenta in un infernale crescendo. È un incubo. Non appena riesco a vincere l’orrore e la paura, rientro in casa e chiudo la porta col chiavistello. Troppo tardi. Dopo pochi istanti dei colpi di fucile la fanno saltare, e due Meren fanno irruzione nella casa.
Visti da vicino sono ancora più terribili. Occhi a mandorla, di un grigio glaciale, che irradiano un odio demoniaco verso ogni vivente. I capelli sono di un color rosso che avevo finora visto solo in alcuni inglesi. Portano lunghi baffi, anch’essi rutili. Indossano al braccio destro un Armband del color del sangue con la falce e il martello in nero. Quella vista mi sembra irreale, ma presto ciò che si scatena mi desta dalla mia ipnosi. Uno dei due incursori spara a sangue freddo e uccide Ermengarde. Amelswinde cade subito dopo, accasciandosi sul pavimento con la gola recisa. Arrivano altri soldati della stessa orribile etnia. Mentre alcuni catturano i bambini e li portano via per sacrificarli ai loro demoni, altri spogliano Ermenrix, gli bucano l’addome con i coltelli, quindi si calano i pantaloni e lo violentano a turno usando quei fori come cavità sessuali. Il gigante biondo dal volto lentigginoso trema come un fuscello, terrorizzato fin nel midollo osseo. Paralizzato contro la parete, si augura solo di morire in fretta, spera che un colpo parta e lo raggiunga in fronte. Capisco dall’odore che ha rilasciato gli escrementi. In quella girandola di atrocità, nessuno sembra essersi accorto di me, mingherlino come sono. Approfitto dell’attimo favorevole per afferrare il fucile con cui il povero Ermenrix ha ucciso un russo e faccio partire un colpo, spappolando il cranio di un Meren.
Il tempo sembra essersi fermato. L’arma mi cade di mano. I carnefici si girano verso di me, fissandomi con un’intensità insopportabile. L’unica cosa che ricordo è quello sguardo assassino, assolutamente inumano.

Marco "Antares666" Moretti

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