giovedì 5 gennaio 2023

LA VESPA DI SMERALDO

1.

Il manager era tornato a casa febbricitante. Non riusciva quasi a reggersi in piedi, e questo non era buono, visto che aveva delle consegne da compiere e pochi giorni per elaborare i grafici. Non c’era nulla che andasse per il verso giusto. Si sedette sulla poltrona del suo monolocale, poco più di un loculo nella gigantesca struttura abitativa, e prese il termometro per misurarsi la temperatura corporea. Solo il pensiero di mangiare qualcosa gli faceva venire la nausea, mentre gli sembrava che gnomi maligni gli stessero picconando il cranio. Dolori articolari, fitte di colite, capogiri. Dopo qualche minuto estrasse il termometro e la lettura non migliorò la sua depressione: aveva un febbrone da cavallo. Si denudò davanti allo specchio e vide sul suo polso destro una specie di piccolo tumore. Non lo aveva notato fino a quel momento. Poi si ricordò che proprio lì era stato punto da uno strano insetto, un leggiadro imenottero dal morso molto doloroso. Solo adesso ci ripensava, a quasi quindici giorni di distanza. Non si sapeva spiegare quell’episodio. Finita una defatigante riunione all’ultimo piano della struttura dirigenziale, si era concesso una boccata d’aria sul terrazzo ed era stato sorpreso dall’insetto, la cui corazza metallica riluceva al sole come una sgargiante gemma verde dai riflessi azzurri. Un attimo e tutto era compiuto. Il pungiglione era penetrato nella pelle del polso dell’uomo, e l’aggressore era fuggito con grande rapidità. Lì per lì il manager non aveva dato peso alla cosa, ma adesso un senso di ansia subliminale gli martellava nelle carotidi. Sentiva sempre più freddo, così dopo essersi sciacquato si asciugò e si mise in kimono. Si distese sul letto. Cercò di distrarsi accendendo il televisore, ma il frastuono dei programmi gli irritava i timpani al punto che gli parve stessero sanguinando. In preda all’ira spense lo schermo. Non riuscì a stare disteso a lungo. Qualcosa lo spinse ad alzarsi e ad andare a bere un bicchier d’acqua. Faceva fatica persino a deglutire. Dovette sforzarsi per riuscire ad assumere un potente antipiretico, ma dopo mezz’ora di agitazione si accorse che non gli aveva affatto giovato: il termometro non voleva saperne di schiodarsi dai 40 °C. Non sarebbe andato al lavoro in tali condizioni, anche a costo di gravi conseguenze. Sentiva che l’intero universo si stava accartocciando su di lui, seppellendolo in una bara di umidi viticci che si restringeva sempre di più, fino a strozzarlo. Un’oscena camicia di forza quantistica. Non fu in grado di chiudere occhio e passò una notte infernale. Alle prime luci dell’alba era in preda a insopportabili vampate di calore, così aprì la finestra. Si guardò allo specchio. Vide allora che il suo addome era coperto di pustole. Si era trasformato in un nerd foruncoloso. Normalmente avrebbe cercato di spremere quelle formazioni cutanee per farne fuoriuscire il pus, ma sentiva che non doveva assolutamente fare una cosa del genere. Ebbe la vaga impressione che una volontà altra stesse guidando i suoi movimenti. Si mise sulla poltrona e cercò di leggere un libro, ma non poteva concentrarsi sulle parole. La cefalea divenne esplosiva e dovette metter via il volume. Sudava freddo. A questo punto si accorse che qualcosa si stava muovendo in lui. Allora vide. Pensò di essere sconvolto da allucinazioni sconosciute persino ai tossici dal sistema nervoso più degradato. Quelle cose uscivano dalla sua pelle! Larve! Vermi simili a grossi cagnotti, lunghi all’incirca come un alluce minore. Scavavano nell’adipe cauterizzando i vasi sanguigni che erano costretti a rosicchiare per farsi strada. Una volta giunti alla piena luce, dalla ferita usciva lo spurgo, simile a diarrea granulosa. Il manager fissava sconvolto la scena. Per quanto la cosa fosse irreale ed impossibile, aveva l’impressione che del sangue mestruale pieno di embrioni abortivi scivolasse via assieme al suo contenuto intestinale. In realtà quel liquame era pus prodotto dall’azione dei parassiti migranti, misto alle loro stesse deiezioni. Già una ventina di vermi marciavano sulla sua pelle, e ogni tanto alzavano il capo come per fiutare l’aria. Se il manager fosse stato in pieno possesso delle sue facoltà mentali, di certo avrebbe cercato di liberarsi da quegli obbrobriosi inquilini, gettandoli lontano da sé o schiacciandoli. Poi sarebbe corso di filato a un pronto soccorso, dove i medici lo avrebbero disinfettato e curato. Invece non fece nulla di tutto questo. Di nuovo quella sensazione di essere posseduto. Sapeva che stava morendo e che non poteva salvarsi in alcun modo, ma che c’era una cosa che doveva assolutamente fare. Depose amorevolmente i vermi sullo specchio accanto alla tazza del cesso, quindi li ricoprì di schiuma da barba. Uno dopo l’altro. E intanto quelli continuavano ad uscire. Sempre più grandi. In tutto ne contò più di centocinquanta. Li trattava tutti allo stesso modo: li nascondeva con la massima cura sotto una coltre di schiuma, senza neanche sapere perché. Uno strano moscerino rosso si avvicinò allo specchio, volteggiando con insistenza, ma non ebbe successo nel suo intento. La schiuma da barba gli riusciva talmente ripugnante che non poté in alcun modo stare nelle vicinanze. Con la stessa rapidità con cui era apparso, il buffo invasore si precipitò verso la finestra e sparì. Il manager si lasciò crollare esausto sulla tazza, e di lì a poco morì, gli organi vitali quasi svuotati dalla famelica covata della vespa di smeraldo. Aveva ormai esaurito il suo compito di incubatrice e di ostetrica. La schiuma da barba si era rivelata perfetta. Permetteva alle larve di respirare e al contempo le difendeva dai ditteri parassiti che davano loro la caccia per penetrarle con il loro ovopositore. 

2.

Dopo due settimane dalla morte del manager, il Signor Schenker si presentò alla sua porta e suonò con insistenza il campanello. Visto che non sortiva alcun effetto, si mise a bussare con tutte le sue forze, sospettando che qualcosa di molto brutto fosse successo. Il tanfo che filtrava dalla soglia recava un’inconfondibile traccia mercaptanica, mista ad afrori che non aveva mai percepito in tutta la sua vita – ma non per questo meno ributtanti. Non solo il Signor Kakui non si era più visto, ma il suo cellulare trillava da giorni in modo insopportabile e stridulo, senza che nessuno si prendesse la briga di rispondere. Stando nel suo gabinetto al piano di sotto, spesso Schenker sentiva distintamente quel fastidioso suono giungere proprio dall’appartamento del manager. Naturalmente avrebbe potuto togliersi dall’impiccio chiamando i pompieri e lasciando fare tutto a loro, ma in tal caso sarebbe stato costretto a compilare una montagna di moduli e a sottoporsi ad un’infinità di tediosi accertamenti. La burocrazia soffocante che imperversava in ogni distretto planetario non rendeva certo agevole la risoluzione di problemi pratici di questo genere. Per giorni il vecchio aveva sperato che qualcun altro si occupasse della cosa, magari un vicino di casa. Come c’era da aspettarsi, questo non era accaduto. Fece ancora un ultimo tentativo, suonando il campanello in continuo per quasi mezzo minuto primo. Esasperato e vedendo che non riceveva risposta, si decise infine ad usare le maniere forti: assestò un bel calcio al battente, facendo saltare via la fragile serratura senza troppe difficoltà. Essere stato un atleta in gioventù aveva i suoi vantaggi... Il tanfo che lo aggredì era più acuto di quello esalante da una bara scoperchiata, e non poté sopportarlo senza indietreggiare di scatto. Si fece coraggio e trattenne stoicamente il respiro, ponendosi un fazzolettino umido davanti al naso per evitare di essere ammorbato. All’inizio era talmente sconvolto da non poter mettere bene a fuoco gli oggetti. Quando la sua visione ritornò nitida, si trovò di fronte a una scena raggelante. Uno sciame di insetti che sembravano frecce di metallo verde intenso ronzava intorno allo specchio imbrattato, mentre altri loro simili erano intenti a rosicchiare quel che restava delle carni putrefatte del Signor Kakui. Grappoli di feci granulari, di color beige, uscivano dalle orbite del morto, la cui agonia sulla tazza irradiava ancora nell’aria. Quelle scorie emanavano un intenso fetore di vomito. La pelle rinsecchita delle labbra e delle guance era stata quasi del tutto erosa, e i denti erano messi in mostra come quelli di un teschio ghignante. Il ventre era stato disciolto dagli acidi ed appariva come un ammasso di sterco compatto da cui fuoriuscivano colonne di gas. I prodotti della fermentazione si facevano strada in quel che restava dei tessuti corrotti emettendo un sinistro crepitio. Naturalmente l’anziano Signor Schenker non capiva nulla di entomologia extrasolare: dato il livello dell’istruzione a cui aveva avuto accesso, non era neppure a conoscenza dell’esistenza di tale disciplina. Con più audacia che buon senso si mise in mente di cacciare quegli ospiti poco graditi servendosi di una scopa che trovò appoggiata a una parete. Come conseguenza della sua stoltezza, ricevette tre punture in pieno volto. Fuggì via barcollando e urlando di dolore, dimenticandosi persino di chiudere la porta. Alcuni dei letali imenotteri approfittarono dell’occasione per uscire sul pianerottolo, volando cauti per la rampa di scale. Presto avrebbero capito che la situazione era loro molto favorevole e sarebbero andati in cerca di nuove vittime seguendo scie feromonali. Schenker si trascinò nell’ascensore e scese fino al piano dove si trovava il suo appartamento. Il pensiero di scendere fino al piano terra e di andare allo studio medico del Dottor Brandauer fece capolino nella sua mente affaticata, solo per scivolare via come una coperta da un dormiente accaldato in preda ad agitazione notturna. Per una frazione di secondo si accorse che qualcosa non quadrava. Non colse il bandolo della matassa. Subito dopo ogni consapevolezza dell’abnormità della situazione si dissolse in un mero formicolio psichico. L’oblio cancellò ogni traccia di quel rigurgito autodifensivo delle sue subroutine cerebrali, facendogli apparire le cose in modo meno drammatico di quanto non fossero in realtà. Un programma chimico di distorsione operava in lui a pieno ritmo, ma non poteva accorgersene perché era in grado di mascherarsi abilmente, scatenando la sua guerra a livello di neurotrasmettitori e di sinapsi. Se il Signor Schenker si fosse sottoposto a una risonanza magnetica, sarebbero emerse profonde alterazioni neurologiche già a quel livello di infestazione. Il punto è che decise di non sottoporsi ad alcun esame. In fondo, questo pensò, i sistemi degli antenati erano i migliori per curare ogni male. La ripugnanza per la Scienza assunse in lui quasi un acme parossistico. Si chiuse nel conforto della propria dimora e spense il telefono cellulare. Fece bollire un po’ d’acqua calda con del sale e la usò per farsi impacchi dove era stato morsicato. Assunse poi l’antidolorifico più antico che l’umanità conoscesse, l’etanolo, attingendolo in forma di distillato quasi puro direttamente da una grossa fiasca. Dopo qualche ora il dolore e il senso di disagio erano del tutto scomparsi. Guardandosi allo specchio, si accorse che il gonfiore al viso si era molto ridotto, e decise che quella era solo un’altra giornata faticosa da dimenticare. “Che idiozia sarebbe stata andare dal medico per così poco”, pensò divertito, stranamente euforico. 

Marco "Antares666" Moretti, 
pubblicato nell'antologia Fantastic-Zen 2 (2010),
edita da EDS (Edizioni Diversa Sintonia). 

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