domenica 30 marzo 2014

NON SEQUITUR

E adesso dedichiamoci all'ennesimo caciucco di baggianate, sempre dalla stessa fonte: 
 
"Sorvoliamo pure per ora su Plutarco (nato nel 46 dc), del quale si cita solo (perché nella fantasia della restituta non esiste il suono della V) Oualerios per Valerius, senza maliziosamente mai citare le alternanze Νέρουα, Νέρβα; Σεουῆρος, Σεβῆρος e altre; eppoi, ancor peggio, su Polibio. Se vorrai ti dirò, se non avrai paura dei dati nudi e crudi che distruggono le tue certezze fondate soltanto sull'autorevolezza. Comunque già con Plutarco siamo fuori dai termini della cosiddetta pronunzia classica. In sostanza dire Kikero per Cicero è una bischerata."
Sorvoliamo su Plutarco? Un par de cojjoni, come dicono i Romani in quello che Dante Alighieri chiamava "il più turpe dei volgari", e che invece è particolamente adatto quando si tratta di esporre le inconsistenze al pubblico ludibrio.

Plutarco (46 d.C. ? - 125 d.C. ?) ebbe contatto diretto con la lingua latina in un'epoca ancora non troppo lontana da quella classica, così le sue trascrizioni ci danno un esempio di come il latino era pronunciato dalle classi colte nel I-II secolo d.C. L'idea della pronuncia classica che sparisce da un giorno all'altro seguendo una cronologia da manuale è di una grande ingenuità. Se qualcuno dice bischerate, quello non è Plutarco: molto più facile che le dicano i moderni che all'epoca non erano presenti e che rifiutano di servirsi di argomenti razionali.

Rimando a successivi post per una trattazione più approfondita. Per adesso mi limito a qualche significativo esempio tratto dalle Vite Parallele e contenente trascrizioni di parole latine con C e G davanti a vocali anteriori o al dittongo AE:

lat. ancilia : ἀγκύλια 
lat. Caesar : Καίσαρ 
lat. Celeres : Κέλερας (acc.)
lat. Cicero : Κ
ικέρων 
lat. hoc age : ὃκ ἄγε 
lat. Marcellus : Μ
άρκελλος
lat. Marcius : Μά
ρκιος
lat. Mucius : Μού
κιος
lat. Lucius : Λ
εκιος
lat. Scaevola : Σ
καιλας 
lat. Scipio : Σ
κηπίων 

Né si può argomentare che il greco, non avendo l'affricata palatale, l'avrebbe semplicemente trascritta come una velare: questo non accade  nelle lingue antiche e nemmeno in quelle moderne. I suoni /k/ e /tʃ/ sono molto diversi tra loro: è un inganno scolastico ritenerli simili e parlare di "c dura" e "c molle". L'orecchio di una persona che parla una lingua priva di suoni palatali non ne coglie alcuna somiglianza. Se una lingua non ha
/tʃ/, piuttosto la trascrive con /ts/ o con /s/.

Infatti il greco in epoca bizantina iniziò a trascrivere il suono palatale sviluppatosi nel tardo latino come τζ:
Μουτζιανι per Muciani.

Le alternanze tra
ου e β per trascrivere latino /w/ dimostrano in modo chiaro che questo suono stava assumendo nel I secolo d.C. una pronuncia bilabiale /β/, simile alla nostra /v/ ma realizzata con le labbra unite o avvicinate. Di questo esistono numerose testimonianze anche successive (ad esempio in Velio Longo, II secolo). Il processo tuttavia non era completato all'epoca di cui stiamo trattando, e molti ambienti ancora si pronunciava /w/. Si ha persino testimonianza che tra le plebi e tra popolazioni barbariche esisteva il vezzo di pronunciare addirittura il suono come una /u/ pienamente sillabica. I grammatici dell'epoca condannano la pronuncia trisillabica di venit come *u-e-nit.

Detto questo, non nascondo affatto alternanze come Νέρουα - Νέρβα o Σεουῆρος - Σεβῆρος, e non tremo certo di paura di fronte ad esse: ne sono a conoscenza fin dall'epoca del liceo.

Semplicemente il passaggio da /w/ alla bilabiale /β/ non ha nulla a che fare con la pronuncia della lettera C. Non sequitur. Mostrare che esisteva una pronuncia di V consonantica simile a /v/ non implica affatto che C fosse palatale davanti alle vocali E e I: tra le due cose non esiste nessun nesso logico.

L'argomento presentato è
pseudoscientifico e non ha alcun valore. Si basa infatti sulla convinzione che pronuncia restituta e pronuncia ecclesiastica siano due entità monolitiche, e che una volta trovato un dato che pare contrastare con un dettaglio della pronuncia restituta, questo debba per necessità significare l'affermazione della pronuncia ecclesiastica. Se la Scienza avesse seguito una simile metodologia, non avremmo automobili, frigoriferi, acqua corrente, corrente elettrica, computer, telefonini e quant'altro.

A quanto pare c'è gente che ignora un fatto molto semplice: le lingue cambiano nel tempo, e lo fanno seguendo leggi ben precise. Dove una legge fonetica ammette un'eccezione, quell'eccezione viene spiegata in ciascun caso. Essi pensano che le lingue non siano mai cambiate dall'epoca paleolitica: proiettano ogni caratteristica di una lingua fin nella notte dei tempi. A sentir loro, ci sarebbe persino da dubitare che sappiano della derivazione delle lingue neolatine dal latino volgare: è più facile che pensino al latino come a una lingua che a un certo punto si è spenta, e all'italiano come a una lingua parlata dal volgo fin dall'epoca di Noè.

Non si vede come i "dati di fatto nudi e crudi" possano distruggere le "certezze fondate sull'autorevolezza". Se mi azzardassi a dire una cosa simile al mitico Er Monnezza, lui mi replicherebbe di certo: "distruggono li maccheroni de tu' nonno". Mi limiterò ad affermare che i fatti li spiego secondo la logica, che a quanto pare non sembra essere molto popolare in certi ambienti.

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