venerdì 4 marzo 2016

IL VIAGGIO TRANSOCEANICO DELL'INCA TOPA YUPANQUI: UN'UTOPIA ONIROSTORICA

Una storia mirabolante che ha per protagonista l'Inca Tupac Yupanqui (1430 - circa 1475) ci è stata tramandata nelle cronache incaiche da Pedro Sarmiento de Gamboa, Martín de Murúa e Miguel Cabello de Balboa. In sintesi, si racconta che il sovrano abbia intrapreso la via del mare su grandi zattere con ben 20.000 uomini, facendo ritorno dopo nove mesi e portando con sé un bottino alquanto strano: uomini dalla pelle nera, una sedia di ottone e la mandibola di un grande quadrupede, che gli Spagnoli hanno in seguito identificato con un cavallo.

Questo è il testo originale in lingua spagnola di Pedro Sarmiento de Gamboa:

“Andando Topa Inga Yupanqui conquistando la costa de Manta y la isla de la Puná y Túmbez, aportaron allí unos mercaderes que habían venido por la mar de hacia el poniente en balsas, navegando a la vela. De los cuales se informó de la tierra de donde venían, que eran unas islas, llamadas una Auachumbi y otra Niñachumbi, adonde había mucha gente y oro. Y como Topa Inga era de ánimos y pensamientos altos y no se contentaba con lo que en tierra había conquistado, determinó tentar la feliz ventura que le ayudaba por la mar… y… se determinó ir allá. Y para esto hizo una numerosísima cantidad de balsas, en que embarcó más de veinte mil soldados escogidos”. Y concluye la crónica: “Navegó Topa Inga y fue y descubrió las islas Auachumbi y Niñachumbi, y volvió de allá, de donde trajo gente negra y mucho oro y una silla de latón y un pellejo y quijadas de caballo…”.

El hecho es tan inusitado que Sarmiento se ve obligado a explicar: “Hago instancia en esto, porque a los que supieren algo de Indias les parecerá una caso extraño y dificultoso de creer”. 

Questa invece è la versione di Miguel Cabello de Balboa: 

“De este viaje, [Topa Inga Yupangui] se alejó de tierra más [de lo] que se puede fácilmente creer, mas cierto afirman los que sus cosas de este valeroso Inga cuentan, que de este camino se detuvo por la mar duración y espacio de un año y dicen más que descubrió ciertas islas a quien llamaron Hagua Chumbi y Nina Chumbi. Qué islas estas sean   en   el   Mar   del   Sur   (en   cuya   costa   el   Inga   se   embarcó),   no   lo   osaré determinadamente afirmar, ni qué tierra sea la que pueda presumirse ser hallada en esta navegación”.

Come interpretare queste portentose narrazioni? Ogni tentativo che si possa concepire per collocarle in un contesto reale appare votato al fallimento.

La cosa più logica che possiamo pensare è che l'Inca abbia raggiunto le isole conosciute ai nostri giorni come Galápagos o Encantadas. La descrizione geografica è a prima vista compatibile: l'isola di Niñachumbi (Nina Chumbi), alla lettera "Cintura di Fuoco", può ben essere La Isabela, che ha forma allungata e su cui si trovano ben cinque vulcani. Non va però nascosto che l'isola di Auachumbi (Hagua Chumbi), alla lettera "Cintura Esterna", non trova a parer mio alcuna reale corrispondenza nelle caratteristiche morfologiche dell'arcipelago. Occorre precisare che le isole Galápagos erano disabitate prima della loro scoperta casuale ad opera di Tomás de Berlanga nel 1535. Thor Heyerdahl, che godette negli anni '70 dello scorso secolo di una grande fama per via dei suoi viaggi transoceanici compiuti con la zattera Kon-Tiki e delle sue singolari teorie, riteneva che l'isola fosse già visitata e abitata regolarmente prima dell'arrivo degli Spagnoli. A riprova di questo indicò una certa quantità di vasellame peruviano. Tuttavia non è stato possibile datare i frammenti con sicurezza, e potrebbe anche darsi che il vasellame sia stato portato nell'arcipelago da navigatori spagnoli che se ne servivano per i loro quotidiani usi potori. Thor Heyerdahl non sarebbe mai stato in grado di fornire prove irrefutabili di stanziamenti preispanici. Esiste poi un altro dettaglio non trascurabile. Lo scopritore delle Galápagos ci testimonia che gli animali delle isole erano mansueti e non temevano l'uomo - cosa che non sarebbe stata possibile se la presenza umana fosse stata sufficientemente antica. Inoltre non si può per nessuna ragione trovare in tale arcipelago alcun manufatto di ottone, e neppure animali simili a cavalli. Una pelle di mammifero marino avrebbe potuto anche essere scambiata per il resto di un cavallo dai narratori spagnoli, ma per i restanti trofei non ci sono spiegazioni possibili. Quindi la destinazione di Tupac Yupanqui deve essere stata un'altra, oppure egli ha compiuto davvero il viaggio arrivando alle Galápagos, ma tutto il resto (le genti dalla pelle nera, la sedia d'ottone, etc.) è mera invenzione.

Numerose sono state le ipotesi fatte nel tentativo di razionalizzare la storia dei viaggi di Tupac Yupanqui. Si è pensato all'Isola di Pasqua, anch'essa al centro delle fantasie di Thor Heyerdahl. I nativi non sono più scuri di pelle degli antichi peruviani, semmai più chiari, inoltre non conoscevano la metallurgia né gli animali da traino. Tutti i loro manufatti erano ricavati dal legno, dalle conchiglie, dai gusci di tartarughe marine, dalla pietra. Siamo daccapo: incongruenze simili a quelle già viste nel caso delle Galápagos emergono e vanificano l'identificazione. Sul problema dei contatti precolombiani tra le genti di Rapa Nui e quelle dell'America Meridionale si è scritto molto. Sembra che nel corredo genetico di alcuni Pascuensi si sia trovata una certa percentuale di materiale attribuibile a contatti con Amerindiani (circa l'8%), ma i connubi potrebbero benissimo essere avvenuti in un'epoca successiva ai primi contatti con gli Europei - anche considerando la storia di deportazione e schiavitù degli isolani, che potrebbe aver portato a connubi con meticci sul continente. Alcuni pensano che siano stati i Polinesiani a raggiungere l'America, portando con sé alcune donne della terraferma. In ogni caso, non sembra che il viaggio di Tupac Yupanqui ci azzecchi molto. Suggerisco la lettura di questo interessante articolo: 


Mangareva apparirebbe a prima vista promettente, visto che tra i suoi sovrani annovera un certo Tupa, per giunta ricordato come uno straniero arrivato su zattera. Nonostante l'assonanza affascinante, non siamo affatto sicuri che si tratti del sovrano incaico. Un'assonanza di questo genere è molto facile a prodursi in una lingua polinesiana, la cui fonotattica ammette soltanto sillabe aperte. Come risaputo, gli stessi spagnoli hanno adattato il nome originale dell'Inca, Tupaq, trascrivendolo come Topa. È anche possibile che un polinesiano avrebbe trascurato la consonante postvelare finale -q, di suono molto aspro, ma questo non è affatto detto. Concreta è la possibilità che un indigeno di Mangareva avrebbe piuttosto adattato Tupaq come *Tupaka.  

In un blog, Articulos Cortos sobre el Peru antiguo, si parla di Tahiti e si identificano le isole descritte dai cronisti spagnoli con Huahine Nui e Huahine Iti, che l'autore interpreta dolosamente come "Cintura Grande" e "Cintura Piccola". Questo blogger non ha alcuna familiarità con le lingue austronesiane, o più in generale con qualsiasi lingua non sia quella ispanica. Il vocabolo tahitiano huahine non è affatto privo di traduzione, come egli sostiene. Significa pudendum muliebre, ossia vulva. In altre parole, è quel buco che le genti di questo paese idolatrano e a cui danno il nome di fica. Non dunque "Cintura Grande" e "Cintura Piccola", ma "Grande Fica" e "Piccola Fica". I toponimi non corrispondono affatto a quelli riportati da Sarmiento de Gamboa e dagli altri cronisti: il riferimento a un ipotetico termine per "cintura" è una pia illusione, al suo posto c'è la fica, non si fa menzione né del fuoco né dell'esterno. Per il resto, l'autore del blog riporta numerose inconsistenze. Ad esempio afferma il seguente sproposito: 

"Auachumbi y Niñachumbi son nombres que muy probablemente se fueron transformando al quechua, aunque “aua” y “niña” no tengan ningún significado reconocible (o sí, no lo sé)."  

I due toponimi sono certamente Quechua, anche se la trascrizione lascia a desiderare. I vocaboli hawa "fuori" (Ayakuchu hawa, Qhochapampa jawa /'xawa/, Qosqo hawa, Qasamarka sawa, Tucumán aa, etc.) e nina "fuoco" (comune a tutte le varietà) appartengono al lessico di base della lingua incaica. Ovviamente una persona può ignorare queste parole e nessuno può fargliene una colpa. È invece colpevole avere la possibilità di fare ricerche per appurare la verità su un argomento e non farlo, per poi asserire il falso a bella posta e diffondere disinformazione. Questo sembra proprio essere il caso.  

Se anche la spedizione incaica si fosse spinta fino in Melanesia, dove avrebbe scoperto genti dalla pelle nera, non avrebbe potuto trovarvi manufatti in leghe metalliche e neppure bestiame.

A questo punto, se volessimo salvare la storicità del racconto, resterebbero altre due possibilità: le Filippine e il Giappone. Entrambe le destinazioni sono a mio avviso troppo remote per essere prese in considerazione. Nelle Filippine sono tuttora stanziate popolazioni antichissime che gli Spagnoli chiamarono Negritos, stupiti dalla somigianza con i neri d'Africa, a parte la bassa statura. Si tratta degli Aeta e degli Ati, i discendenti di uno dei più antichi popolamenenti umani, di cui restano come testimonianza le popolazioni native della Papua Nuova Guinea, della Melanesia e delle Andamane. In Giappone simili pigmoidi dalla pelle scura dovevano essere presenti in epoca preistorica. Le difficoltà poste dall'ipotesi di un viaggio fino nelle Filippine o in Giappone sono insormontabili. Si capisce come l'arrivo di zattere dall'Oceano sarebbe stato un evento eccezionale anche in un paese come il Giappone, che aveva una civiltà molto progredita e la capacità di registrare gli eventi tramite la scrittura: sicuramente se ne troverebbe menzione nelle cronache locali. Allo stesso modo le Filippine non erano così isolate e tagliate fuori da influenze esterne come si potrebbe credere. È riportato che l'Islam cominciò a diffondersi nelle isole di Sulu e di Mindanao a partire dal XIII secolo, arrivando nei dintorni di Manila nella seconda metà del XVI secolo. La stessa venuta di esploratori europei si colloca in un tempo non troppo lontano da quello del fantomatico viaggio di Tupac Yupanqui, che avrebbe lasciato qualche traccia nella memoria degli isolani. Nel 1521 il navigatore portoghese Magellano a capo di una spedizione spagnola sbarcava nell'arcipelago, finendo ucciso in una rivolta dei nativi; nel 1565 veniva stabilita la prima colonia spagnola.

Analizzando bene tutta questa considerevole mole di informazioni, pensiamo alle difficoltà incredibili che l'impresa avrebbe comportato. Cosa avrebbero fatto l'Inca e il suo seguito in Polinesia? Anche se fossero giunti davvero fino a Rapa Nui, a Mangareva, a Tahiti o nelle Filippine, come avrebbero potuto ritrovare facilmente la rotta per fare ritorno a casa? Avrebbero condotto con sé genti negroidi, ma non gli ottimi navigatori polinesiani? Non avrebbero abbandonato le zattere utilizzando le migliori imbarcazioni della Polinesia? Le cronache ci parlano infatti di un viaggio transoceanico con ritorno. Eppure le possibilità di perdersi e di finire col morire di inedia nel bel mezzo dell'Oceano sarebbero state soverchianti. Per queste fondate ragioni sono incline a pensare che l'impresa marittima dell'Inca non sia un genuino fatto storico e che riguardi piuttosto il concetto di onirostoria.

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