Visualizzazione post con etichetta onirostoria. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta onirostoria. Mostra tutti i post

lunedì 20 giugno 2022

CACCIATORI DI PLESIOSAURI

Non ho ricordi chiari di ciò che mi è accaduto subito dopo la morte. So soltanto che a un certo punto ho preso coscienza del mio corpo di spirito, che doveva avere la forma di una specie di palla impalpabile fluttuante nell’aria. I sensi erano molto acuiti rispetto a quando ero in vita. Passavo per paesi e contrade, fiumi e campi coltivati, muovendomi senza che nessuno mi potesse notare.
Dopo un lungo vagabondare mi sono stancato dell’Inghilterra e ho attraversato il mare. Sono così giunto in Irlanda, nella città di Belfast. Era proprio come la ricordavo, gli anni non l’avevano mutata. Mi divertivo ad osservare la gente per le strade servendomi della mia posizione privilegiata. Potevo guardare persino sotto le gonne delle ragazze, ma la cosa per me non era importante, avendo perso ogni passione assieme al mio involucro biologico. Mi piaceva stare lì e mi ci sarei fermato a lungo. Tanto chi mi avrebbe potuto far fretta? Ero immune da ogni necessità, guidato solo da un’astratta curiosità, una specie di prurito epistemologico.
A un certo punto sono rimasto come di sasso. Ho visto Paul Newman. Che ci faceva lì? A parte il fatto che era morto da anni, lo vedevo in carne e ossa, ed era un uomo sui trent’anni. Diamine, forse era solo un sosia! Doveva essere così, ma qualcosa comunque non mi convinceva. Nel crepuscolo, Paul Newman camminava baldanzoso per Donegall Street. Incredibile. Mi sono messo in mente di seguirlo, ed eccolo entrare in un grandioso tempio indù dai colonnati di marmo bianco ingrigito da tempo. Al suo posto ricordavo l’Università. Da quando mi ero disincarnato, la memoria mi restituiva resoconti molto nitidi e privi di distorsione, non mi potevo sbagliare. Ho deciso allora di proseguire per Academy Street, arrivando fino ad una grande piazza al cui centro vi era un’edicola spagnolesca. La giovane donna che la gestiva era la magrissima e bionda Elena G., una mia compagna del liceo. A rigor di logica, quella piazza non avrebbe dovuto esistere.
Ho percorso la strada che mi restava per arrivare al mare in linea d’aria, attraversando gli edifici. Ogni volta che passavo all’interno di una casa, questa era vuota, come se in città non fosse rimasto quasi nessuno.
Quando sono arrivato allo sbocco del grande estuario del Lagan, l’ho costeggiato per un breve tratto. Qui sorgeva un grande campo di lavori forzati: numerosi galeotti vestiti interamente di jeans lavoravano nell’acqua, molti di loro erano incatenati a pilastri lignei tutti incrostati di cozze. Martellavano grosse pietre che affiorano dall’acqua. Altri condannati, impastoiati con catene che li legavano gli uni agli altri, cercavano di portare sulla spiaggia i frammenti di roccia servendosi di cesti sfondati. Al largo il mare diventava profondo.
Forse avrei fatto meglio a tornarmene in Inghilterra. Osservavo il pelo dell’acqua marina liscia come l’olio, quando a un certo punto ho udito un fischio acuto, come quello di una gigantesca pentola a pressione. Qualcosa si strava muovendo nella densa caligine, in lontananza. Determinato a veder meglio, mi sono diretto verso un molo e mi sono inoltrato sulla superficie delle acque, verso la fonte del rumore.
Scorgevo un piccolo oggetto scuro all’orizzonte, simile a un gioiello nero, che si stagliava con inattesa nitidezza tra le confuse forme di quel panorama dantesco. La luce innaturale di quella sorgente nera era come una fata morgana: nonostante mi stessi allontanando sempre più dalla terraferma, rimaneva sempre alla stessa distanza.
Dopo quello che mi è parso un tempo infinito, sono riuscito ad uscire dalla cappa nebbiosa che sembrava avvolgere il mondo. Quello che mi si è rivelato era l’oceano nel suo costante grigiore. Lo stesso cielo che si rifletteva nelle acque era grigio, anche se non c’erano nubi e si vedeva un piccolo sole pallido e biancastro, che a malapena riusciva ad confondere la sagoma della grande luna.
Una lunga barca di legno scuro che avanzava tra le onde ha attratto la mia attenzione proprio quando avevo preso la mia decisione di tornare verso la riva. A bordo c’erano alcuni uomini robusti che parlavano tra loro in un dialetto gaelico molto aspro, mai udito prima. Il loro comandante era albino e aveva occhi rossi come carboni ardenti. Somigliava un po’ a Klaus Kinski, il volto perennemente contratto in un ghigno di sfida, la lunga chioma madida di sudore che ricadeva sulle spalle, candida come neve. Era dotato di un poderoso arpione dalla lama frastagliata, simile a quelli usati dagli antichi balenieri, ma ben più micidiale. I suoi compagni impugnavano armi meno elaborate ma altrettanto letali.
Non mi risultava che appena fuori Belfast ci fossero marinai dediti alla caccia con l’arpione. Non riuscivo a comprendere il contesto. Quando mi sono avvicinato all’imbarcazione, le acque si sono agitate e l’albino ha scagliato la sua arma emettendo un urlo raggelante. Aveva colpito una gigantesca bestia proprio alla base del suo prodigioso collo, facendone schizzare un violento getto di sangue. Una volta recuperato l’arpione, si è messo a tirare con tutte le sue forze la spessa sagola legata al manico per mezzo di un anello di acciaio. Le vene erano in rilievo sulle sue tempie, come cordoni palpitanti, gli occhi infernali stravolti dal delirio. Gli altri uomini della spedizione si avventarono sui pingui fianchi dell’animale che ancora si dibatteva, lacerandolo a più riprese con le loro lame spietate. Solo allora ho capito senza possibilità di dubbio cos’era quella preda. Un plesiosauro!

Marco "Antares666" Moretti

mercoledì 8 giugno 2022

UN OSTROGOTO IN IDAHO

Al banchetto nuziale della Principessa Amalaswintha, il nobile Hathureiks aveva bevuto troppo idromele e a causa della sua intemperanza si sentiva gonfio. Chiese così al Re Thiudareiks il permesso di alzarsi dal tavolo per andare a soddisfare i suoi bisogni corporali. Il Grande Re glielo concesse, e così Hathureiks si alzò ed uscì barcollante dalla sala. Dalle finestre entravano refoli di vento. L’aria di Ravenna era fresca, e presto sarebbe calato il tramonto. Mentre si avviava verso le latrine, il nobile inciampò e cadde a terra. Quando si risvegliò, con un gran mal di testa, si accorse con sorpresa di non trovarsi più nella dimora del Re degli Ostrogoti, Thiudareiks, bensì in un pagliaio. L’aria era cambiata, ora aveva una punta di freddo particolarmente fastidiosa. Hathureiks si mise a sedere e si guardò attorno. Tutto ciò che i suoi occhi incontravano gli pareva fuori luogo e stonato. La sua vista fu attirata da un paio di stivali verdognoli, fatti di un materiale che non aveva mai visto in tutta la sua vita. Mentre si domandava che razza di scarpe fossero e chi diamine potesse mai averle fabbricate, cercò di mettersi in piedi. All’improvviso si accorse che il suo gonfiore era sparito, e che anzi aveva una fame terribile, come se tutto il cibo e le bevande che aveva ingurgitato alla festa fossero state già smaltite da molto tempo. Cosa disdicevole per un arimanno, aveva perso la spada, la daga e la cintura. La sua splendida tunica era ora ridotta a brandelli, e anche delle brache non rimaneva granché. Si avviò verso l’ingresso, quando ecco che intravide la sagoma di un uomo.
Hathureiks lo fissò, incuriosito. Si vedeva che era un agricoltore, anche se gli abiti erano di una foggia mai vista prima. Somigliavano solo vagamente ai costumi di un uomo libero dei Goti, nel senso che comprendevano calzoni e una veste affine a una camicia - che non proseguiva oltre la cintola. Poteva star certo che il visitatore non fosse un romano, ma non riusciva a trovare alcun criterio per classificarlo.
- Dannazione! - esclamò l’agricoltore allibito - E tu chi diavolo sei? In vita mia non ho mai visto un uomo come te!
- Manna im Gutthiudos, gabaurans fram kunja Amale. Namo mein Hathureiks - fu la risposta dell’ostrogoto. Entrambi provarono la stranissima sensazione di capire qualcosa di ciò che l’altro aveva detto, pur non afferrando appieno il senso compiuto di ogni parola.
- Ha-thoo-reeks? Uno strano nome! Da dove vieni? - chiese il contadino. Dopo una breve pausa cercò di presentarsi: - Io sono Bernard Faine, di Glenns Ferry, Idaho.
- Ik qam hidre us thiudangardja Thiudareikis Mikilins - affermò Hathureiks cercando di articolare i suoni il meglio possibile, ma l’uomo dell’Idaho non capì affatto la sua risposta. Rimase pensoso per un attimo, mentre osservava l’aspetto di chi aveva di fronte. Era molto alto e magro, di una bellezza insolita per un abitante della Contea di Elmore. Aveva i capelli biondi sciolti che gli arrivavano fino alla cintola, una folta barba dello stesso colore e occhi cerulei. Se fosse stato lavato e agghindato nel modo giusto, le ragazze del paese se lo sarebbero conteso di certo.
La prima cosa che venne in mente a Bernard Faine sulla possibile identità di quel vagabondo fu che si trattasse di una specie di tedesco. Se non fosse stato per la sua strana lingua e i suoi vestiti decisamente inusuali, avrebbe potuto benissimo essere un cantante folk venuto dal Sud e colpito da amnesia.
L’avrebbe portato dai suoi vicini Amish perché gli chiarissero qualcosa, ma al momento era più urgente aiutarlo. Non sembrava essere nel pieno delle sue forze. A questo punto arrivarono il figlio e la figlia di Faine, fiorenti di robusta gioventù. Rimasero basiti nel vedere l’ospite, anche se a causa della loro giovane età non avevano ancora formato pregiudizi troppo solidi. Decisi a comunicare si presentarono, prima lui e poi lei, come Johnny e Kathrine Faine.
Per un istante gli occhi di Hathureiks si illuminarono come il cielo primaverile nel sentirli parlare con il loro accento piano, forse perché gli parve di capire almeno in parte cosa i due stavano dicendo. Qualche parola, qualche fonema frammentario che dimostrava una remota origine comune in quelle stringhe parlate mutuamente incomprensibili. A volte l’ostrogoto trasecolava nell’identificare qualcosa di familiare in mezzo a suoni che sembravano venire da un universo alieno, altre volte invece gli pareva di udire echi dell’ignota lingua latina.
Si presentò a sua volta ai due rampolli, ripetendo la stessa frase che aveva pronunciato per la prima volta davanti all’anziano capofamiglia. Più guardava i tre e più si convinceva che la loro stirpe fosse in qualche modo imparentata con quella dei Goti.
Bernard Faine chiamò sua moglie Ann, che propose a Hathureiks di lasciarsi accompagnare nella fattoria. Lì avrebbe avuto un bagno caldo e sarebbe stato rifocillato. Lui si lasciò docilmente guidare. Quando si fu lavato, gli furono donati abiti nuovi. Non fu facile trovarne della sua misura: alla fine fu rivestito con un elegante completo lasciato alla signora Faine dal suo primo marito all’epoca del divorzio. Non era certo perfetto, ma perlomeno non presentava difficoltà insormontabili all’atto di abbottonare la camicia e di tirare la cerniera dei pantaloni.
A tavola, di fronte a una ciotola piena di latte e di fiocchi di cereali, Hathureiks pronunciò una parola. - Miluks - disse. Bernard Faine ebbe un’illuminazione ed articolò il corrispondente termine inglese. Milk.
La pronuncia della sillaba era oscura, come ormai in tutti gli Stati Uniti, e suonava quasi mook, ma una traccia di articolazione liquida fu sufficiente all’ostrogoto per capire che si trattava di una parola molto simile a quella usata nella sua lingua nativa.
- Millooks - disse a sua volta il capofamiglia, cercando di imitare Hathureiks. - Millooks, latte - ripeté subito dopo, entusiasta.
Kathrine portò in tavola una brocca piena d’acqua. Hathureiks indicò subito il recipiente: - Wato! Thata ist wato!
- Acqua! Questa è acqua! - gli fece eco con gioia il sorridente Bernard Faine, sempre più convinto di aver risolto ogni problema di comunicazione. Water. This is water. La somiglianza era innegabile. Si fece il segno della croce e recitò la consueta preghiera di benedizione, come faceva ogni volta che si accingevano a mangiare. Mentalmente ringraziò il Signore per avergli mandato quell’ospite. Con grande sorpresa di tutti, anche Hathureiks si segnò e recitò quello che sicuramente doveva essere il Padre Nostro nella sua lingua.
- Atta unsar, thu in himinam, weihnai namo thein, qimai thiudinassus theins, wairthai wilja theins, swe in himina jah ana airthai. Hlaif unsarana thana sinteinan gif uns himma daga, jah aflet uns thatei skulans sijaima, swaswe jah weis afletam thaim skulam unsaraim, jah ni briggais uns in fraistubnjai, ak lausei uns af thamma ubilin; unte theina ist thiudangardi jah mahts jah wulthus in aiwins. Amen.
L’ingenua idea che Bernard Faine si stava facendo ne ricevette un po’ un colpo, in quanto la preghiera, pur riconoscibile, si mostrava molto diversa dal corrispondente inglese. Non solo, anche se somigliava di più a quella degli Amish che lui aveva sentito tante volte dai vicini, era comunque lontana. Se la base era di certo uguale a quella dell’inglese e del Pennsylvania Dutch, molte parole erano impenetrabili, e non vi si trovavano affatto termini familiari, che avrebbero dovuto essere simili in tutte le lingue di origine europea. Mentre il capofamiglia meditava su queste cose, l’ostrogoto stava mangiando a quattro palmenti, come se non avesse ingurgitato niente da molti giorni.
Non c’era altra soluzione: era necessario imparare il più possibile da Hathureiks. Nel frattempo disse al figlio di andare a chiamare Amos Guth, che di certo lo avrebbe aiutato a comprendere meglio la situazione. A volte la tecnofobia degli Amish lo angustiava, perché rendeva tutto dannatamente più complicato.
Ora che aveva calmato i morsi della fame, Hathureiks stava impiegando tutte le sue migliori risorse mentali per capire cosa diavolo gli fosse capitato. Una cosa era certa, al di là di ogni dubbio possibile: quello non era il Paradiso promesso dalla Chiesa Ariana, e neppure il Walhalla di cui parlavano i miti pagani della sua gente. Non poteva esserlo. Anche se si stava meglio e più in salute, non vedeva né Wodans né Thunrs sedere sui loro troni, né tantomeno le Orde dei Caduti banchettare. C’era invece gente dall’apparenza comune, che non aveva nessuna caratteristica soprannaturale e non era fatta di puro spirito come angeli e beati. Siccome la ragione doveva in qualche modo essere dei pagani o dei cristiani, si deduceva che quel paese - che contraddiceva ogni racconto - era un paese della Terra degli Umani, popolato da mortali proprio come il paese dei Franchi o quello dei Burgundi. Prova ne era, tra l’altro, il fatto che i nativi avevano bisogno di pregare per ringraziare Dio del cibo.
Doveva esserci stato un grande vento che lo aveva portato oltre le Grandi Montagne, le Alpi, per farlo volare lontano e precipitarlo in una nazione di cui non avrebbe neanche sospettato l’esistenza. Oppure aveva rivissuto l’esperienza dei Sette Savi Dormienti. Si raccontava quella storia persino nella Gutiskandja che aveva visto l’albore dei Goti. Sette cristiani, per sfuggire alle terribili persecuzioni dell’Imperatore Decio, si erano rifugiati in una terra impervia fino ad asserragliarsi in una caverna. Quindi un sonno profondo li avrebbe avvolti facendoli dormire per secoli. Una volta svegli, questi cristiani avrebbero avuto la sorpresa di trovarsi in un mondo che era andato avanti di diversi secoli, un mondo in cui la Fede di Cristo non era più perseguitata con ferocia.
Questa era l’ipotesi che Hathureiks riteneva più probabile. Di certo Bernard Faine non era il dio Wodans, altrimenti sarebbe stato monocolo e non si sarebbe di certo segnato. Ma restava un interrogativo. Se i Sette Savi erano stati fatti dormire da Dio che li voleva salvi dalla furia imperiale, che merito poteva avere lui, un nobile della Corte di Thiudareiks a Ravenna, per essere caduto in uno stato così prodigioso?
Mentre ruminava inconcludenti considerazioni, suonò un campanello. Hathureiks si mise in guardia, perché non aveva mai sentito un suono simile in vita sua. Poi capì che doveva essere l’equivalente del bussare sui battenti o del chiamare a gran voce, perché la porta fu subito aperta. Johnny entrò insieme a un uomo vestito di nero, che salutò e fu fatto accomodare. Bernard Faine lo presentò all’ospite come Amos Guth. Al sentire il suono di quel cognome, Hathureiks fu colto da una grande gioia, perché si pronunciava quasi come il nome del popolo dei Goti.
- Isu thu manna Gutthiudos? Istu razda thein razda Gutne? - gli chiese, pieno di trepidazione, aspettandosi una risposta nella stessa lingua, un appiglio alla realtà conosciuta.
Vedendo che l’uomo vestito di nero era basito e non proseguiva, si presentò brevemente: - Ik im Hathureiks Austragutne, sunus Walareikis Amale.
In realtà la sintassi era molto diversa da quella del Pennsylvanian Dutch, a prescindere da tutto, e l’Amish non la riconobbe; allo stesso modo non riuscì a distinguere i nomi propri di persona e di popolo dai nomi comuni.
- Che razza di tedesco è mai questo? - riuscì infine a dire, pur convinto al pari dell’anziano Faine che quell’idioma fosse in qualche modo connesso alla vasta famiglia delle parlate anglosassoni e germaniche. La giovane Kathrine chiese all’ostrogoto di recitare il Padre Nostro. Così si segnò e iniziò a pregare. Hathureiks, un po’ annoiato, fece altrettanto nella lingua dei Goti.
Come ebbe udito ciò, ad Amos Guth venne un sospetto. Si ricordava vagamente di aver sentito qualcosa di simile in televisione, molti anni prima. Solo che non ricordava il contesto. Si segnò e recitò la preghiera nella sua lingua avita.
- Unser Vadder im Himmel, dei Naame loss heilich sei, dei Reich loss komme. Dei Wille loss gedu sei, uff die Erd wie im Himmel. Unser deeglich Brot gebb uns heit, un vergebb unser Schulde, wie mir die vergewwe wu uns schuldich sinn. Un fiehr uns net in die Versuchung, awwer hald uns vum Iewile. Fer dei is es Reich, die Graft, un die Hallichkeit in Ewichkeit. Amen.
Però, ci siamo quasi, anche se continuo a non capire, pensò Bernard Faine. Amos Guth notò subito la sostanziale identità di diverse radici: unsar, in himinam, namo, thein, qimai, wilja, e via discorrendo, di cui gli balzava all’attenzione la somiglianza ad Unser, im Himmel, Naame, dei, komme, Wille.
Hathureiks dal canto suo si convinse che questo Guth, pur portando il nome delle genti della Gutiskandja, fosse in realtà della stirpe dei Franchi. Gli ricordava vagamente la parlata della prima moglie del suo Sovrano.
All’improvviso l’Amish si ricordò dove aveva sentito la preghiera recitata da Hathureiks. Una decina di anni prima, mentre si trovava proprio dai Faine, non aveva saputo resistere alla tentazione di seguire un programma alla televisione. Era un documentario in bianco e nero, che mostrava lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien in una singolare intervista. Prima di parlare al microfono, Tolkien si era segnato e aveva recitato proprio la stessa formula, anche se la pronuncia era un po’ diversa. Atta unsar... Conclusa la sua preghiera, intesa come esorcismo, l’autore del Signore degli Anelli aveva dichiarato senza mezzi termini che l’intero mondo tecnologico è Mordor, ossia l’Inferno. Questa posizione aveva trovato Guth perfettamente d’accordo. In seguito si era procurato i libri di Tolkien e li aveva letti con grande passione, ed aveva anche trovato traccia di quell’intervista. Aveva anche ritrovato i giornali della biblioteca che riportavano la notizia si diceva che l’esorcismo pronunciato contro i maligni poteri di un semplice microfono era il Padre Nostro in una lingua antica - anche se non ricordava più quale.
- Prendi subito il mio carretto e va’ da mia moglie! Dille che non sarò a casa per pranzo! - chiese a Johnny Faine. Quello che aveva scoperto era troppo importante.
Bernard capì all’istante, così portò in soggiorno un proiettore collegato ad un sofisticato lettore cd e al suo pc. Si mise alla testiera, pronto a registrare ogni output.
Dopo due ore tutti erano ancora lì, con gli occhi sgranati davanti allo schermo.
- Hunds! - disse Hathureiks indicando la figura di un cane. Tutti capirono che la parola dog gli era del tutto sconosciuta, ma riconobbero nel vocabolo da lui indicato il termine inglese hound, usato come lemma tecnico per indicare il segugio.
Quando tutti furono abbastanza pratici dell’altrui lessico di base, cominciarono a sorgere problemi. Amos Guth si rese conto che Hathureiks non poteva capire nessuna parola della lingua dotta, e i corrispondenti che forniva di fronte alle immagini proiettate erano del tutto dissimili. Quando comparve un altare, lui lo definì hunslastaths, mentre l’inglese altar gli suonava una parola aliena. Anziché un equivalente di sacrifice, usava la parola hunsl.
Tutta una serie di parole non gli evocavano assolutamente nulla, anche se qualche volta gli pareva di aver già sentito qualcosa che vi poteva somigliare. I suoi pensieri si arrestarono tutti di colpo quando udì il termine philosophy: non era forse quella Philosophia di cui il precettore Boethius aveva invocato così a lungo la consolazione? Ricordava sempre con affetto quell’uomo di immensa sapienza, così pensò bene di pronunciarne il nome, come per una sorta di associazione freudiana.
- Sebereinus Boethius! - disse. A Guth cadde il telecomando di mano. L’intera faccenda stava sfuggendogli di mano. Questo era decisamente troppo anche per lui.
- Ni kann ik hwat’ist filausaufja, ni thatohun hwat’ist, ak gaman ik thatei Boethius sinteino mathlida bi thizai waiht du alamannam, rodjands razda sildaleika.
Bernard Faine, che si era premunito di un registratore, riuscì a immortalare in un file mp3 quanto detto da Hathureiks. Presto la frase fu tradotta. Tramite la ricerca nella Rete, era stato trovato un dizionario i cui vocaboli collimavano con quelli raccolti. La lingua era etichettata come Gotico, ed era indicata come l’idioma usato da Wulfila per la sua famosa traduzione della Bibbia. L’ostrogoto aveva detto di non sapere cosa fosse la filosofia, di non averne la minima idea, ma di ricordare che Boethius ne parlava sempre a tutti, usando una lingua meravigliosa - e si suppone non comprensibile ai suoi ascoltatori.
Ma com’era possibile tutto questo? Non aveva il benché minimo senso, e su questo sia Faine che Guth concordavano. Non era possibile anche solo pensare che un uomo potesse essere prelevato dall’epoca dei Regni Barbarici e scaraventato nell’Idaho del XXI secolo. Il caso più simile sarebbe stato quello di John Titor, il crononauta che a quanto pare era venuto dal futuro di una linea temporale parallela. Se ne era parlato molto a lungo, senza mai poter arrivare a conclusioni certe. Eppure anche questa analogia sembrava forzata, dal momento che Hathureiks non era giunto dal futuro, bensì dal passato, e non era stato certo sbalzato dal suo cronotopo per mezzo di una qualche tecnologia.
Soltanto dopo una lunghissima discussione Bernard Faine riuscì ad averla vinta e a convincere Amos Guth della plausibilità della teoria del wormhole. Un cunicolo spontaneo si sarebbe formato come un ponte in grado di connettere due regioni molto distanti dello spaziotempo, e un evento estremamente improbabile era occorso: un essere umano ci era passato dentro senza averne alcun danno, riapparendo in un altro luogo e in un altro secolo. Sulla natura di questo cunicolo, regnava il buio concettuale più assoluto.
Una cosa era certa, quale che fosse l’origine di questo incidente cosmico: degli agricoltori di Glenns Ferry non potevano assolutamente gestirlo, pur con tutta la loro buona volontà e la loro istruzione autodidatta. Esisteva una sola alternativa: dovevano recarsi al più presto all’Università dell’Idaho, a Boise. Lì avrebbero potuto di certo sottoporre Hathureiks all’esame di ogni genere di luminari.
Bernard Faine telefonò a Julius Schulz, un suo cugino che lavorava al Dipartimento di Fisica, e gli descrisse in dettaglio la complessa situazione in cui si era venuto a trovare così all’improvviso. Decise che sarebbero partiti la mattina prima dell’alba con la sua macchina, in quanto un viaggio con il carretto di Guth non sarebbe stato auspicabile. Assieme a sua moglie Ann, preparò ogni cosa in fretta e furia. Un solo giorno non sarebbe bastato di certo, così prese con sé un po’ di soldi.
Quando arrivarono al campus, Julius Schulz era già lì ad attenderli, pieno di trepidazione per l’eccezionalità della scoperta che gli avevano comunicato.
- Salve Julius! - lo salutarono. Lui rispose al saluto e strinse loro la mano.
- Questo è Hathureiks l’Ostrogoto! - disse Amos Guth presentando il viaggiatore nel tempo. Era davvero imponente e di una virile bellezza che lo facevano spiccare tra molti uomini, e lo studioso dovette riconoscerlo. Per un attimo nella sua mente si agitò l’idea che Hathureiks rappresentasse un essere primordiale e incontaminato, e che dai suoi tempi l’intera umanità fosse molto degenerata. La consunzione genetica, pensò, per poi cacciare in un angolo del cervello questa locuzione.
- Hails! - disse con impeto Hathureiks. Strinse la mano di Schulz, anche se tra il suo popolo quello non era un saluto, bensì un modo di sancire un contratto. La rapidità con cui aveva imparato molte cose, tra cui l’uso delle forchette, era sorprendente. Pur capendo abbastanza bene l’inglese essenziale, aveva difficoltà ad articolarne i suoni sfuggenti e preferiva usare la lingua dei suoi Padri.
- Non avrei mai pensato di sentire pronunciare la lingua di Wulfila dalla viva voce di un suo parlante! - disse Julius Schulz. Quella singola parola, hails, gli faceva una strana impressione, come di sfasamento. Conosceva bene i Faine e i Guth, e sapeva che erano persone di onestà cristallina, così non gli era mai venuta neanche di striscio l’idea che la faccenda potesse essere un complicato imbroglio.
- Anche per noi è stata una sorpresa, di quelle che non possono che capitare una volta sola nel corso di una vita! - concordò l’Amish.
Bernard Faine propose di andare a mangiare qualcosa, e l’invito fu da tutti ben accolto. Julius Schulz li guidò alla mensa universitaria. Mentre mangiavano, discussero di innumerevoli dettagli. Ogni circostanza fu spiegata più volte con comodo davanti a una birra e a un hamburger, destando un’impressione sempre crescente nel membro del Dipartimento di Fisica. Pur avendo le idee ancora confuse, Bernard Faine fece vertere la conversazione sull’ipotesi del wormhole, chiedendo a suo cugino se un evento simile fosse possibile o se si trattasse di una mera farneticazione fantascientifica.
- In teoria un wormhole dovrebbe formarsi a causa del collasso di una stella supergigante - spiegò Schulz - Una stella con una massa talmente grande da impedire persino la formazione di un orizzonte degli eventi. Uhmm, mi aspetterei di trovarne uno in una regione dello spazio profondo, non certo qui sulla Terra.
Nonostante sempre più voci lo attaccassero nella comunità scientifica, il Principio della Censura Cosmica godeva ancora di un certo credito, e pochi fisici amavano discuterne in pubblico senza un intenso sentore di disagio. Per non parlare della teoria dei Molti Mondi, che era riprovata e tacciata di eresia dagli organi di controllo del pensiero accademico.
Eppure in un qualche modo questa anomalia, questo essere sconveniente, bisognerà pur spiegarlo, pensò il fisico depresso.
- Statemi a sentire - disse dopo una lunga pausa - Dobbiamo cominciare a sottoporre Hathureiks a tutta una serie di esami. Lo porteremo dai medici e dai biologi, che dovranno sottoporlo ad analisi del sangue, elettroencefalogramma e mappatura genetica approfondita. Posso far sì che al caso sia data la massima priorità.
Faine era ansioso di conoscere la verità. - Per noi non ci sono problemi - replicò - Spero che potremo restare al campus per tutto il tempo necessario.
- Certamente - lo rassicurò Julius Schulz - Siete miei ospiti. Dopo le analisi fisiologiche dovremo portarlo al dipartimento di Linguistica e poi a quello di Psicologia. Il soggetto sarà sottoposto a regressione ipnotica.
- Potremo consultare liberamente tutte le informazioni che saranno così ottenute, o sarà un segreto di Stato? - domandò Amos Guth. - Spero che non interverranno i Militari - aggiunse Bernard Faine, angosciato da una simile prospettiva. Più di una volta l’Esercito era intervenuto sottraendo ed occultando per sempre conoscenze che sarebbero state di diritto un patrimonio dell’umanità.
Lo studioso li rassicurò: - Vi posso garantire che avrete libero accesso a tutti i risultati delle analisi, e che l’Esercito non ne saprà nulla. Dopo aver fatto tutti questi studi, verrete da me insieme a Hathureiks al Dipartimento di Fisica. Farò venire anche un filosofo.
Fu così che il nobiluomo ostrogoto fu consegnato all’Università dell’Idaho per gli accertamenti. Ogni volta che finiva un esame e che i risultati venivano elaborati con la massima celerità, Faine e Guth ne venivano informati. Un universitario era stato incaricato da Julius Schulz di spiegare loro ogni cosa, pur senza scendere troppo in incomprensibili dettagli tecnici, in modo che non ci fosse nulla di nascosto.
Ogni test non fece altro che confermare l’origine di Hathureiks. Le tutte le sequenze del DNA mostravano compatibilità con quelle estratte dal materiale archeologico tramite le più moderne tecnologie. Non c’erano dubbi, quello era un membro della famiglia degli Amali, un consanguineo stretto di Thiudareiks, Teodorico il Grande. I marcatori genetici confermavano l’origine scandinava della dinastia. Il sistema immunologico dimostrava che non apparteneva agli ultimi secoli della Storia umana, e per impedire l’insorgere di malattie anche gravi a partire da banali incidenti gli furono iniettati molti sieri. Anche la tolleranza al fondo radioattivo era esigua: se non fossero intervenuti prontamente, sarebbe di certo morto di leucemia o di cancro nel giro di pochi mesi.
- Tu non sai il pericolo che stavi correndo, ragazzo biondo! - gli dicevano sempre i medici con simpatia. Ormai era un simbolo per l’Università, e tutti gli volevano bene. La sua incredibile mitezza contraddiceva tutti i luoghi comuni sui cosiddetti Barbari. Coloro che chiamavano vandali i devastatori e gli imbrattatori, si sarebbero di certo stupiti non poco nel sapere che un uomo così buono era un parente stretto proprio del popolo dei Vandali.
Quando Hathureiks passò al Dipartimento di Psicologia, divenne presto una miniera di informazioni. Tutto ciò che diceva in stato di ipnosi era accuratamente registrato su supporto digitale, trascritto e inviato a una moltitudine di studiosi. Ne emersero l’intera versione della Bibbia di Wulfila, una quindicina di poemi epici pagani del tutto sconosciuti, che parlavano delle origini dei Goti e delle mitiche imprese dei loro sovrani, più un centinaio di bellissime poesie. Alcune erano struggenti, come il Canto di Berigs, altre erano resoconti di battaglie e di antichi massacri.
Il tempo passò. Ci furono poche novità, a parte le telefonate furibonde di Ann Faine che reclamava suo marito, spalleggiata dalla famiglia Guth. Hathureiks in quei giorni era felice come mai era stato nella sua vita passata, e si divertiva a giocare a football americano nella squadra universitaria. Dicevano che sarebbe diventato un campione di importanza mondiale, in quanto senza bisogno di doparsi conseguiva ottimi risultati e ci metteva un immenso entusiasmo. A dispetto della sua fisionomia segaligna, aveva una grande forza, superiore alla media. Era un eccezionale compagno di banchetti per gli studenti. Quando scoprì il whiskey divenne subito un suo fervido estimatore, dichiarando che nemmeno la bevanda più fine servita alla Corte di Thiudareiks poteva competere con quel potente liquore nato dal fuoco. I suoi successi con le donne erano già leggendari dopo una settimana. Ogni notte andava a trovare due o tre ragazze diverse, una dopo l’altra. Si fece la reputazione di uno stallone instancabile, di un amante che tutte si sarebbero contese anche a costo di usare le unghie.
Quando Bernard Faine ed Amos Guth furono convocati nell’Aula Magna, vi trovarono una rappresentanza dell’intermo ambiente accademico di Boise. Professori insigni erano giunti dalla California salendo sul primo aereo.
- Ragazzi, voi diventerete famosi! - disse loro Julius Schulz - Hathureiks è giunto qui da un cronotopo del tutto diverso, e con il suo prezioso contributo ha fatto progredire incomparabilmente molte scienze.
- Immagino che per questo non potrete ridarcelo - azzardò Amos Guth.
- Dobbiamo mandarlo all’Università della California, e credo che vorranno fargli fare il giro del mondo - rispose il fisico - Se resterà tempo.
- Come sarebbe a dire se resterà tempo? - chiese Bernard Faine.
- Quando i Professori avranno finito il loro discorso, venite nel mio ufficio al Dipartimento di Fisica, così vi spiegherò in dettaglio cosa ho scoperto - disse suo cugino, con tono sibillino. I due ebbero uno strano presentimento, ma non dissero nulla. Il discorso, ampolloso e contorto, durò più di un’ora. La cerimonia terminò con abbracci e baci accademici. Sia a Bernard Faine che ad Amos Guth fu conferita una laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere.
Verso sera si recarono da Schulz. Questi li accolse con aria grave e li fece entrare. La sensazione che qualcosa non andasse si intensificò.
Si accomodarono, e il fisico chiese loro se volevano un bourbon. Consapevoli della gravità della situazione e prevedendo una seduta difficile, entrambi accettarono con piacere.
- Nessuno sembra averci pensato - esordì Julius Schulz - In qualsiasi modo Hathureiks sia giunto fin qui dal suo tempo di origine, ora è nel nostro Universo un elemento estraneo. I bilanci di massa-energia non tornano più per causa sua. Può sembrare una cosa insignificante la presenza di un uomo in più in un cosmo tanto vasto, ma qui si viene a toccare la quantistica.
- Temo di non avere nozioni sufficienti per capire argomenti tanto difficili - disse Faine - Figuriamoci poi il mio amico, che notoriamente condanna il mondo moderno, vivendo come nel XVIII secolo.
- Cercherò di spiegarmi in termini più semplici - lo tranquillizzò Schulz - Immagina che tutto l’Universo sia una nuvola composta da innumerevoli goccioline microscopiche. Queste goccioline formano strutture confuse che sono tutte governate però da leggi ferree che non ammettono eccezioni. Che non devono ammetterne.
- In altre parole - disse Amos Guth - Stai parlando di un Disegno Intelligente. Pensavo che voi scienziati negaste Dio.
- Mettiamola così - rispose lo studioso - Nell’ordine che governa il cosmo, tutto è stabilito dai numeri. Se pensi che sia Dio la causa di ciò, per me va benissimo, non è questo il problema. Il problema è che questi numeri, sono etichette che descrivono le goccioline di cui stiamo parlando. Ognuna ha determinati numeri che la distinguono. Il punto è che tutti questi numeri sono tra loro legati. Se ne cambia uno, devono cambiare anche tutti gli altri, all’istante. Cosa accade ora se anche una singola gocciolina che non appartiene all’Universo vi capita dentro per sbaglio? Se una regola che non ammette eccezioni viene difatto violata? Ci sono due soluzioni soltanto. O la gocciolina estranea si dissolve sparendo nel nulla, o viene intaccata e decade l’intera struttura dell’Universo!
Faine era perplesso. - Continuo a non capire - borbottò. In realtà un guizzo una specie di campanello di allarme stava suonando all’impazzata nel suo cranio.
Julius Schulz continuò la sua esposizione.
- Il filosofo Philip Kindred Stein mi ha dato la conferma di tutte le mie deduzioni, gli sembra tutto plausibile. Hathureiks è una chimera, un masso erratico caduto qui da un regno che per quanto ci riguarda dovrebbe appartenere alla non-esistenza, in quanto assolutamente separato dalla struttura olografica del nostro Continuum. Nel migliore dei casi, l’ostrogoto comincerà ad ammalarsi e si disgregherà fino a cadere in polvere e a svanire. Se questo non accadrà, tutto ciò che vediamo sarà condannato. Tutto. Noi, l’intero pianeta, il sistema solare, la nostra galassia, tutto ciò che esiste fin oltre gli oggetti quasi stellari più remoti. Non ci sarà scampo, l’opera che i religiosi pensano essere di Dio sarà corrotta e diverrà un tremolio nel Nulla per poi tacere in eterno.
- Questo Universo potrebbe non avere difese immunitarie sufficienti, potrebbe cadere in trappola - proseguì - Guai se la struttura di Hathureiks fosse stata incorporata nell’Ologramma. Quanto vengo a sapere è molto preoccupante. Mi risulta che abbia amato molte ragazze, e qualcuna di loro potrebbe portare il suo seme nel ventre.
Un terrore abissale si dipinse sui volti di Faine e del suo amico.
- Credo che adesso dovremmo andare da lui e stargli vicini - disse Amos Guth alzandosi dalla sedia. Mentre si avviava alla porta insieme a Bernard Faine, l’occhio gli cadde su un quadro appeso alla parete. Una riproduzione del Violinista di Chagall. Un pezzo di cornice era stato smangiato, come se dei grossi tarli lo avessero rosicchiato. Trasecolando, l’Amish si avvicinò al dipinto, notando la natura frattale di quello sfregio.

Marco "Antares666" Moretti

lunedì 6 giugno 2022

NUDO, SULLE RIVE DEL MARE DI AZOV

1.

La notte è pervasa da correnti gelide, e io sono nudo. Non ho con me alcun abito, e non capisco come sia potuto accadere. Non vedo nulla, tanto l’oscurità è impenetrabile. Pece che mi copre, inchiostro criogenico che avvolge ogni dettaglio di questo paesaggio invisibile. Sento dell’erba sotto i miei piedi. Forse sono un sonnambulo e non me ne sono mai accorto prima. Mi sembra di cogliere il lontano ululato di un lupo solitario, ma naturalmente questa non può essere che una mia impressione.
Uno strano contrasto lentamente invade i miei occhi, come se qualche fotone avesse cominciato a colpire i miei nervi, fuggito da una sorgente sconosciuta. Ancora qualche minuto ed ecco un debole chiarore all’orizzonte. Penso che stia sorgendo il sole, e cerco la strada di casa. Devo essermi allontanato non poco dalla città durante il mio peregrinare notturno in stato di incoscienza. Non distinguo alcun edificio tra le ombre. Ecco che finalmente la causa di quel lucore si rende manifesta: non è il sole come credevo, ma la luna. Una luna piena, grande, che inonda la terra con il suo benevolo mantello di argento vivo. Quasi faccio fatica a fissarne il volto. Quando guardo attorno a me, tremando per il freddo e per la paura, mi rendo conto che il territorio non ha nulla a che vedere con qualsiasi cosa mi sia nota. Davanti a me si estende un mare grigio, all’orizzonte del quale si possono vedere delle alte catene montuose come miraggi evanescenti. Un mare interno, chiuso. Questa rivelazione è troppo per me. Non riesco a farmene una ragione. Proprio ieri ero incolonnato nel traffico suburbano e ho consumato due ore in coda per giungere distrutto al mio loculo abitativo, dopo il calar del sole. Per miglia e miglia non esiste un solo giardinetto pubblico, solo qualche aiuola rinsecchita sprofondata in un oceano di cemento popolato da esseri più simili a ombre che a umani. Non è possibile che mi sia spinto fin qui con il solo aiuto delle mie gambe, affette da varici per la mia vita anaerobia in ufficio.
Se non trovo qualcosa da mettermi addosso finirò col morire assiderato. Questa consapevolezza mi desta come un pugno nello stomaco dalle mie meditazioni. Un minimo abbassamento della temperatura dell’aria ha innescato ancestrali meccanismi di sopravvivenza. Nulla. Intorno a me non c’è nulla che possa offrirmi riparo, soltanto distese erbose e alberi ritorti. Sento le mie forze mancare, perdersi nella morsa dei brividi. All’improvviso mi sembra di cogliere qualcosa, e la speranza torna a crescere in me. Forse sono i deboli raggi di una torcia quei guizzi di luce pallida che fendono il buio davanti a me…
Quando mi sveglio mi ritrovo a letto, e per qualche istante penso che sia stato soltanto un brutto, orrendo sogno. Mi accorgo però che quello non è il mio letto, quella non è la mia casa. L’ambiente è spoglio e senza ornamenti, il riscaldamento è garantito da una stufa rudimentale fatta di ghisa e alimentata a legna.
- Was istu, adelmanne? – mi chiede una giovane donna. Indossa una strana veste lunga, bianca e grigia, finemente decorata con svastiche, aquile stilizzate e soli i cui raggi interni sembrano fulmini. Ma quello che più mi stupisce è la lingua in cui si è rivolta a me. Sembra una specie di dialetto tedesco, forse tirolese o qualcosa di simile.
- Siltha! Du is manne gutz ja bertz, ik kan’tha! – continua stringendomi una mano e guardandomi con occhi dolci. C’è qualcosa che non va nel suo tedesco. Somiglia a quello che ho imparato a scuola, ma non riesco ad afferrarlo completamente. La pettinatura della ragazza è complicata e anacronistica. I suoi capelli biondi sono raccolti in crocchie e fissati dietro alla nuca con spilloni di rame. Un uomo entra nella camera. Sembra uno Schützen, a conferma della mia ipotesi. Poi ci penso. In Tirolo non esiste il mare. E anche se quella gente fosse tirolese, come ci sarei finito? Lo osservo. Avanza con una certa baldanza. Il naso è paonazzo e l’andatura malferma, è evidente che si è intossicato con qualche bevanda alcolica.
- Bi Wuden heligen, du is gedrunkens! – urla lei. Questa volta capisco alla perfezione la frase, e il senso di irrealtà torna ad aggredirmi. Collego l’accenno a Wotan agli strani disegni sulle vesti della donna e penso che forse sono stato rapito da nostalgici del III Reich.
L’uomo mastica le parole, ma riesce comunque a districarsi abbastanza bene in quella selva di consonanti.
- Ja, ik im gedrunkens, fuls mid mido gudem! – dice ridacchiando per l’ebbrezza, come se qualcosa di irresistibilmente comico avesse colpito la sua attenzione.
- Wem chlaftu den mido? Wis habem niwecht chlef for unsrem barnem du iten ja du wastes gild for mido! – lo aggredisce lei. Mi consolo pensando che dovunque io sia finito, le femmine sono uguali a quelle di qualsiasi altra parte del mondo.
- Ik habeda mild sum dath’ik chlaf fram Russikem – si difende l’ubriaco. La giovane sbianca come se di colpo avesse perso tutto il suo sangue da una ferita invisibile. Leggo il terrore assoluto sul suo volto, come se ne andasse della sopravvivenza di tutta la sua gente.
L’uomo diventa per un istante itterico, quindi inizia a vomitare copiosamente. Sta così male che sembra essere in fin di vita. La moglie cerca di sostenerlo mentre lui si libera di una gran massa di liquame bilioso. Arrivano i figli. Il più adulto dice qualcosa alla madre, riceve delle istruzioni ed esce dalla casa, mentre gli altri due iniziano a darsi da fare per pulire il pavimento. Passano pochi minuti ed ecco la suocera, armata di un grosso randello. È una donna alta e robusta, di aspetto somiglia molto a Ingrid Bergman.
- Arga! – urla all’uomo disteso, e inizia a prenderlo a calci. Gli dà una serie di bastonate, incurante dei suoi lamenti, quindi esplode in un violento attacco verbale: - Bi Wudenes blud! Du is ens fule chliftz! Jaf de Russikens ufkunnen’tha, de sandend hir ene hanse Merene du afslachen allens uns!
I bambini rimuovono il vomito con aria rassegnata, dandosi il cambio per riempire il secchio d’acqua, come se fossero abituati da tempo a scenate simili. Sembra che ce la mettano tutta per far scomparire le prove di un efferato delitto. A riprova di questo mio sospetto, vedo che l’ubriaco viene trascinato dalla matriarca e dalla moglie e condotto in un vano sotterraneo attraverso una botola. Fatto questo, le due donne riemergono nella stanza e posizionano sul passaggio segreto un tappeto.
Il tutto mi pare un po’ troppo per una semplice sbornia, non riesco in alcun modo a ridurre ad una spiegazione razionale il comportamento di quella gente. Forse sono di un puritanesimo estremo, ma tutto il loro terrore e il loro trafficare sembrano piuttosto nati dall’esigenza di nascondere quanto accaduto ad estranei ostili.
Più osservo le cose e collego i dettagli, più assurda mi appare l’ipotesi che si tratti di neonazisti di un isolato villaggio nato da qualche esperimento procreativo. Nessun ritratto di Hitler, nessuno che indossa l’Armband, e non vi è traccia del saluto con il braccio teso. A dire il vero, non vedo neppure un segno che possa indicare una qualche tecnologia da XX secolo. Niente telefono, niente televisione, niente elettricità.

2.

I giorni passano in modo abbastanza tranquillo e senza altri incidenti. Tra l’altro, una volta smaltita la sbronza, l’uomo è ritornato alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse, anche se si capisce che la suocera non gli ha perdonato del tutto la sua bravata. Approfitto del riposo che posso concedermi, e presto riesco a recuperare un po’ di forze. Quando sono abbastanza sano da potermi alzare, mi danno degli abiti tradizionali e mi fanno sedere alla loro tavola. Il vitto è costituito per lo più da latte e da una specie di porridge. Solo raramente viene servita una birra asprigna e leggera, in quantità del tutto insufficiente ad inebriare. Mi impegno al massimo per imparare la loro lingua il più in fretta possibile, facendo anche affidamento sulle mie reminiscenze di tedesco scolastico, e presto riesco seppure in modo stentato a comunicare e ad approfondire la mia conoscenza. Mi rendo conto che la lingua presenta molte caratteristiche del tedesco, ma è differente e non poche parole nulla hanno a che vedere con quelle che mi sono familiari. D’altronde con una maestra adorabile come la ragazza che mi ha curato, non posso che fare progressi strabilianti. Noto però che sta bene attenta a mostrarsi troppo gentile con me in presenza del marito e soprattutto dell’austera matriarca. Non conoscendo i costumi di quella gente in materia di relazioni sessuali, e intuendone anzi la natura puritana, mi astengo dal dar corda a quelli che a volte mi appaiono come velati tentativi di seduzione. Non vorrei trovarmi con la testa rotta dal randello di Ingrid Bergman o con un coltello dell’ubriacone, infilato nel ventre.
Pian piano riesco ad immedesimarsi in quel mondo angusto. L’uomo si chiama Ermenrix e sua moglie Amelswinde. La casa è retta dalla madre di lei, Ermengarde. I tre figli della coppia sono Theoderix, Kunegunde e Hanala. Mi sono presentato loro con il mio vero nome, Gian Marco Stanga, ma a parte una blanda curiosità sul suo strano suono e sulla sua origine esotica, non se la sono sentiti di indagare troppo a fondo sulla mia provenienza. Ho detto loro che vengo dall’Italia, ma il nome della mia terra d’origine non diceva loro nulla, non l’avevano mai sentita nominare. Tutta la loro conoscenza del mondo potrebbe stare nella prima pagina di un quotidiano. Soltanto quando ho detto loro che sono di Venezia, ho avuto un inatteso riscontro: a quanto pare una spedizione di mercanti della Serenissima aveva fatto visita al loro villaggio una ventina di anni prima. Indagando sulle loro pur esigue cognizioni storiche e geografiche, sono riuscito a formarmi un’idea. Non ho più dubbi a proposito di ciò che mi è capitato: per quanto incredibile possa sembrare, sono stato sbalzato dal mio cronotopo e sono finito in una linea temporale parallela. Tutto quello che ho scoperto conferma la mia spiegazione. Siamo in Crimea, nei pressi del Mare di Azov, e le genti che mi hanno dato ospitalità non sono tedeschi del Tirolo, bensì lontani discendenti dei Goti di Re Ermanarico. Sono così tante le cose che vorrei apprendere, ma mi scontro quasi sempre contro gravi limitazioni. Per esempio, quando cerco di capire in che anno siamo, mi accorgo che tale nozione non ha per i miei ospiti alcun senso: essendo rimasti pagani, il computo degli anni a partire dalla nascita di Cristo non è da loro neppure concepito.
Imparare è l’unico modo di non morire di noia: nonostante tutti i miei tentativi, non riesco a convincere nessuno a portarmi fuori di casa. È come se avessero terrore che qualcuno potesse fare la spia vedendo uno sconosciuto nel villaggio. Nel complesso non si può dire che la loro vita sociale sia movimentata. Molto raramente ricevono qualche visita, ma anche se si tratta di parenti stretti, mi costringono a non farmi vedere perché la mia inconsueta fisionomia non desti sospetto e non inciti alla delazione. Matura sempre più in me l’idea che quello non sia un paese libero, ma terra di conquista.
Quando acquisto un po’ più di familiarità con la bella Amelswinde, vengo a sapere cos’è successo la notte in cui ho ripreso i sensi. Ermenrix aveva rubato del miele ai Russi e l’aveva usato per farne un barile di idromele, scolandoselo tutto. Un simile furto sarebbe come minimo stato punito con la morte, se fosse stato scoperto. I miei sospetti trovano conferma. I Russi dominano la Crimea, opprimendo duramente le sue genti. Goti, Greci, Unni, Tartari Crimeani e Khazari sono assoggettati a un durissimo regime fiscale da parte della Repubblica Nichilista di Moscovia. I più temuti tra tutti i soldati Russi sono gli incursori Meren. Scopro che i Meren sono una popolazione che vive nelle regioni degli Urali. Hanno i capelli rossi e gli occhi con la plica mongolica, la pelle così chiara da sembrare anemica. Praticano sacrifici umani e cannibalismo, e sono talmente feroci da essere ritenuti demoni dagli stessi Tartari.

3.

È passato ormai quasi un mese, ma nessuno vuole saperne di lasciarmi andare. Lontano dal mio popolo, non saprei cosa fare, mi dicono. Alla fine, dopo lunghe discussioni, riesco a farmi promettere che mi faranno sapere come arrivare fino a Sebastopoli, dove dovrebbe essere facile trovare una nave diretta a Venezia.
Finalmente si prospetta l’occasione di curiosare un po’ fuori dalle mura domestiche. Ci sarà presto un matrimonio, e nessun membro della famiglia potrà mancare ai festeggiamenti, neppure i bambini. Avranno soltanto due scelte: o portarmi con loro spacciandomi per un improbabile lontano cugino oppure rinchiudermi in casa. Ma queste case non sono certo impenetrabili. Aspetto così che tutti si siano allontanati, quindi forzo la fragile serratura di una porta posteriore ed esco. La visione del villaggio mi colpisce come un pugno allo stomaco. Le poche case hanno il tetto coperto di torba. Ho la conferma dell’assenza dei manufatti tecnologici a cui sono abituato nel mio mondo d’origine. C’è un solo edificio in muratura, del tutto diverso dagli altri. Vi sventola una bandiera rossa con una falce e martello in nero, identica a quella del frontespizio del Libro Nero del Comunismo. Alcuni cavalli sono legati a un palo di ferro arrugginito. C’è anche un’automobile scoperta che si direbbe del primo XX secolo, atta al trasporto di militari. Vedo solo un uomo in uniforme grigia. È seduto vicino alla porta d’ingresso, addormentato con una bottiglia di vodka in mano. Il mio giro di ricognizione ha successo, e prima della fine dei bagordi riesco ad essere di nuovo in casa come se nulla fosse successo. Ciò che ho visto mi lascia perplesso. Ogni casa del villaggio evidentemente corrisponde ad un nucleo familiare più o meno esteso. Alcune stalle e gli attrezzi agricoli indicano quale sia il sostentamento. Un solo forno è usato da tutti per la cottura del pane. I fasti nuziali di questi contadini consistono in un po’ di formaggio, in un maiale arrostito e in qualche bottiglione di idromele, di certo spillati da una riserva tenuta sotto chiave per anni, ben lontana dalla bramosia del non certo astemio Ermenrix. In tutto ci saranno state venti persone al tavolo del banchetto. Non si può certo dire che i Goti di Crimea siano un popolo numeroso e in espansione.
Ormai le prime luci dell’alba stanno comparendo ad Oriente, e il cielo comincia a schiarirsi. Amelswinde, Ermengarde e i bambini rientrano rintronate per il troppo cibo ingerito durante il banchetto. Non vedo però Ermenrix, e quando lo faccio loro notare, si stupiscono e si allarmano. Parlano a lungo tra loro, incerte sul da farsi. A questo punto la porta si apre, e ne entra un giovane uomo alto e biondo, con gli occhi azzurrissimi e il volto pieno di efelidi. Con tutta probabilità è un parente stretto di Amelswinde, forse un suo primo cugino a giudicare dalla somiglianza.
- Dem nachte Ermenrix idda du Russikem bidentz for brinnwate! Hired is alle! – esclama trafelato il gigante ariano. È in allarme, sa per certo che qualcosa di orribile sta per succedere. Le due donne fanno per seguirlo, impugnando dei bastoni e facendo cenno ai bambini di non muoversi per nessun motivo. Capisco che l’ubriacone ha sfidato ogni buon senso ed è andato dai Russi a chiedere dell’acquavite per completare la sua colossale sbornia.
Prima che le donne possano muoversi e dirigersi verso l’ingresso, la porta si apre una seconda volta e ne entra proprio Ermenrix. Barcollante e insanguinato, sembra l’incarnazione di un incubo. Impugna un fucile ancora caldo.
- Enen Russiken kwaldik! – urla. Ha ucciso un russo! All’improvviso si sentono versi raggelanti. Prima che qualcuno possa fermarmi vado alla porta e vedo l’orrore. Una decina di Meren stanno percuotendo a morte dei cavalli con spranghe di ferro, urlando selvaggiamente e ridendo come pazzi. Rompono loro le costole, abbattono colpi spaventosi sul cranio. Vedo uno stallone che barcolla e perde un ruscello di sangue dal naso e dalla bocca. A questo punto uno dei Meren estrae un coltellaccio lungo e acuminato e lo affonda nel torace dell’animale. Appena questi si impenna, cercando di scalciare e di colpire gli aggressori, essi gli squarciano il ventre con le lance, facendone fuoriuscire masse di intestini. Una cavalla viene colpita al collo e stramazza a terra. Non contenti della loro opera, i Meren si accaniscono sui cavalli moribondi con inenarrabile ferocia. Li scorticano, strappano masse di carne dai loro fianchi, tagliano i tendini, fracassano le ossa. Più le vittime sono inermi, più la crudeltà aumenta in un infernale crescendo. È un incubo. Non appena riesco a vincere l’orrore e la paura, rientro in casa e chiudo la porta col chiavistello. Troppo tardi. Dopo pochi istanti dei colpi di fucile la fanno saltare, e due Meren fanno irruzione nella casa.
Visti da vicino sono ancora più terribili. Occhi a mandorla, di un grigio glaciale, che irradiano un odio demoniaco verso ogni vivente. I capelli sono di un color rosso che avevo finora visto solo in alcuni inglesi. Portano lunghi baffi, anch’essi rutili. Indossano al braccio destro un Armband del color del sangue con la falce e il martello in nero. Quella vista mi sembra irreale, ma presto ciò che si scatena mi desta dalla mia ipnosi. Uno dei due incursori spara a sangue freddo e uccide Ermengarde. Amelswinde cade subito dopo, accasciandosi sul pavimento con la gola recisa. Arrivano altri soldati della stessa orribile etnia. Mentre alcuni catturano i bambini e li portano via per sacrificarli ai loro demoni, altri spogliano Ermenrix, gli bucano l’addome con i coltelli, quindi si calano i pantaloni e lo violentano a turno usando quei fori come cavità sessuali. Il gigante biondo dal volto lentigginoso trema come un fuscello, terrorizzato fin nel midollo osseo. Paralizzato contro la parete, si augura solo di morire in fretta, spera che un colpo parta e lo raggiunga in fronte. Capisco dall’odore che ha rilasciato gli escrementi. In quella girandola di atrocità, nessuno sembra essersi accorto di me, mingherlino come sono. Approfitto dell’attimo favorevole per afferrare il fucile con cui il povero Ermenrix ha ucciso un russo e faccio partire un colpo, spappolando il cranio di un Meren.
Il tempo sembra essersi fermato. L’arma mi cade di mano. I carnefici si girano verso di me, fissandomi con un’intensità insopportabile. L’unica cosa che ricordo è quello sguardo assassino, assolutamente inumano.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 2 giugno 2022

ARCHEOLOGIA TRANSUMANISTA

1. Non licet esse Christianos

Il Dipartimento di Archeologia Sperimentale Transumanista dell'Università di Colonia ferveva di attività. Al team della Dottoressa Louise Kenzler era stata chiesta una ricostruzione minuziosa di un antico marchingegno: un microchip sottocutaneo che all’epoca dell’Imperatore Traiano veniva usato per spiare gli imputati sospettati di Cristianesimo. Ancora non si riusciva a ricostruire l’insieme delle conoscenze cibernetiche dell’Antica Roma, ma tutte le ricerche portavano a supporre che l’Intelligenza Artificiale fosse già molto avanzata nella prima epoca imperiale. Le tecniche di localizzazione indoor furono portate al massimo sviluppo sotto l’Imperatore Decio: sembra che i pochi Paleocristiani scampati alla sua persecuzione siano riusciti a salvarsi per via di un satellite difettoso. Ecco spiegata la leggenda dei Sette Dormienti di Efeso. I superstiti, liberi dal monitoraggio si erano immersi in un sonno criogenico, probabilmente in una cella frigorifera che si trovava nelle profondità di una montagna cava.
Mentre la Dottoressa Kenzler si stava dedicando all’impostazione di un nuovo loop temporale, suo fratello Ulrich entrò nel laboratorio. Il suo volto era abbronzato in seguito a una settimana bianca sull’Himalaya. Era ancora vestito con il completo sciistico, con tanto di reattore dorsale e di stivali completi di retrorazzi. Baciò l’amata sorella e andò nel retro a cambiarsi. Presto sarebbero cominciati i diverbi.

2. Facebook e l’Imperatore Costantino

Il Vescovo di Roma, Silvestro, entrò trafelato nella Stanza Imperiale del Divino Costantino. Aveva un pc portatile con sé, dell’ultimo modello. Come fu ricevuto, mostrò subito all’Imperatore il risultato della sua ricerca in Google.
Vi compariva un commento che Flavio Valerio Costantino aveva lasciato su un blog dieci anni prima. Le lettere latine comparivano come un marchio d’infamia destinato a durare nei secoli, forse per sempre. Eccone la traduzione imbarazzante: Che si fottano i Cristiani e la loro superstizione sanguinaria! Decio non ha finito il suo lavoro!
L’avatar rimandava all’account di Flavius_V_Constantinus, univocamente associato proprio a lui, al figlio di Costanzo Cloro. Era una situazione al limite del surreale, e ora il Vescovo di Roma gliene chiedeva conto. Come poteva questo spietato bestemmiatore fare ora voto che tutti i suoi sudditi seguissero quella che impudentemente chiamava la sua religione? Che faccia tosta di un voltagabbana opportunista! Altro che conversione!
L’Imperatore Costantino salutò il Vescovo Silvestro con un cenno e gli disse di aspettare. Stava discutendo animatamente con la sua concubina, Minervina.
- Guarda che ti ho beccato con quella troia che adesso ha distrutto il suo profilo! - strillò la donna, in preda a un’evidente crisi isterica. La gelosia la divorava.
Un tempo, quando Caio Giulio Cesare era ancora un frugoletto, si stava meglio: non erano ancora giunti i Crononauti ad appestare il mondo con i loro maledetti pc portatili connessi alla Grande Rete Intercosmica. Già quando Cesare era giovane le cose stavano precipitando. Il filmato che lo ritraeva mentre dava in escandescenza perché stava perdendo i capelli era diventato un mito ed era giunto persino nelle terre oltre il Mare Oceano. I Galli e i Libi sghignazzavano vedendo il monarca effeminato scagliare lontano il pettine pieno di capelli e di forfora dopo essersi tinto e cotonato.
“Accidenti ai Crononauti!”, pensò Costantino, fremente per l’ira. “Per colpa loro ogni singolo pensiero lasciato in giro in un attimo di esuberanza rimarrà registrato e documentabile per l’eternità!”
A questo punto il Regista diede il segnale di stop. La simulazione tridimensionale si spense all’improvviso e la rete sinaptica empatica dei sequenziatori fu lasciata in standby. La pausa sarebbe durata due ore, poi sarebbe stata avviata una nuova procedura di calcolo. Anche per quel giorno i Ricostruzionisti avevano fatto un ottimo lavoro. Tutti sapevano che non era facile scavare in quei perigliosi meandri storici, ma alla fine con la tenacia si riusciva sempre a rievocare tutto con precisione micrometrica. Ancora qualche piccolo sforzo, e il backup delle più importanti personalità umane scomparse sarebbe diventato una realtà acquisita.

3. L’epopea del Vescovo Ambrogio

Yoshio Okahata osservava il portone del Duomo di Milano che recava plasmata nel bronzo la vita del Vescovo Ambrogio. In particolare fu colpito dalla penitenza dell’Imperatore Teodosio, inginocchiato davanti ad Ambrogio. Quanto era realistico quel fregio coperto da antica ruggine verdognola! Teodosio contrito dettava qualcosa, mentre Ambrogio lo trascriveva tramite il suo pc portatile. Un Compaq, era evidente. Forse sarebbe stato meglio dire Compaquus, perché si pensava che all’epoca i marchi avessero quasi tutti un suffisso –us poi caduto. Il rito penitenziale sarebbe stato pubblicato su tutti i principali quotidiani online in tempo reale. Il turista giapponese si domandò dove poter reperire le copie di backup di quegli archeositi web ormai scomparsi da tempo immemorabile: era uno storico di fama mondiale, giunto a Milano per studiare le testimonianze del tardo Impero Romano. Scavare nelle polverose miniere di dati era la sua passione, e una commozione sincera lo coglieva fino alle lacrime ogni volta che riportava alla luce qualche dato coerente da quell’oceano di bit fossili.
Quanto era realistico il fregio sulla parte inferiore del portone bronzeo, che illustrava Ambrogio apparso miracolosamente mille anni dopo la sua morte nel bel mezzo della Battaglia di Parabiago! Il Vescovo adorno di porpora impugnava il pastorale, fiero sul suo cavallo impennato, trasmettendo gli ordini attraverso un cellulare Nokia. Gli storici erano quasi all’unanimità sicuri che quello smartphone fosse un Nokia, anche se esisteva uno zoccolo duro di oppositori che sostenevano si trattasse di un Panasonicus.
Si stava facendo tardi. Un bip proveniente dall’orologio da polso scosse Yoshio Okahata dai suoi sogni ad occhi aperti. Il suo tempo libero era appena scaduto, adesso doveva tornare all’Archivio Storico per il turno serale. Per certi versi il suo lavoro non era dissimile da quello degli antichi minatori, solo che si occupava di estrarre dati preziosi che rischiavano altrimenti di andare perduti senza rimedio. Mentre si avviava a passi sostenuti verso il grande palazzo dell’Archivio Storico, Yoshio si sentì fiero di se stesso e del suo prezioso lavoro. Era grazie a persone come lui che la Memoria del Genere Transumano continuava ad esistere.

4. Transhumanist Commercial Partnership 
 
Occhi azzurri come l’antico cielo. Penetranti, abissali, vere e proprie porte su un mondo alieno. Sguardo torvo, sopracciglia inarcate. Baffetti inconsueti, capelli corvini impomatati. All’ultimo piano di un grattacielo di New York, il Direttore della TCP smanettava al suo laptop, seduto su una scrivania di rovere sintetico plasmato da fibre plastiche metallorganiche nei Laboratori dell’Immortalità. Cravatta rossa, lunga. Camicia bianca. Sul lato destro della sua camicia candida pendeva un tesserino di riconoscimento. A sinistra c’era il logo dell’azienda, con l’antico geroglifico IBM bene in vista. A destra recava impresso il nominativo. HITLER, Adolf. Sotto c’era una piccola foto dell'Amministratore Delegato, utile per un riconoscimento immediato, qualora ce ne fosse stato bisogno. Sullo schermo del laptop la chat era accesa. All’altro capo Josif Stalin rispondeva ai messaggi.
Il grande schermo si affievolì e divenne bianco come l’antica neve, ormai da tempo immemorabile scomparsa. Anche l’immagine di Adolf Hitler svanì. Il Ricostruzionista si rivolse al pubblico, esponendo le sorprendenti difficoltà incontrate nella rievocazione di quello che un tempo era noto come “XX-XXI secolo”, che ora tutti conoscevano come Primo Transumanismo. Eppure gli eventi accaduti in quei decenni erano stati fondamentali per la definizione della Nuova Era, il balzo prigoginico che aveva portato alla rapida nascita della Nuova Specie. Nell’udire le parole del Ricostruzionista, dal pubblico salì qualche borbottio. Il Dottor Andrew Gross, che era seduto all’ultima fila, meditò stancamente sul Principio di Indeterminazione di Heisenberg, pensando che forse era già troppo tardi.

Marco "Antares666" Moretti

domenica 13 giugno 2021

 
LA LEGGENDA VICHINGA 
 
Titolo originale: The Saga of the Viking Women and Their 
     Voyage to the Waters of the Great Sea Serpent 
Aka: Viking Women and the Sea Serpent;
       Le donne vichinghe e il dio serpente
Lingua: Inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1957
Durata: 66 min
Colore: B/N
Rapporto: 1,85:1
Genere: Avventura, fantastico
Regia: Roger Corman
Soggetto: Irving Block
Sceneggiatura: Lawrence L. Goldman
Produttore: Roger Corman
Produttore esecutivo: Samuel Z. Arkoff, James H. Nicholson 
Casa di produzione: Malibu Productions 
Direttore artistico: Robert "Bob" Kinoshita
Fotografia: Monroe P. Askins
Effetti speciali: Irving Block, Louis DeWitt, Jack Rabin
Musiche: Albert Glasser
Costumi: Gwen Fitzer
Trucco: Harry Ross 
Fonico: Herman Lewis
Interpreti e personaggi:
    Abby Dalton: Desir
    Susan Cabot: Enger
    Bradford "Brad" Jackson: Vedric
    June Kenney: Asmild
    Richard Devon: Stark
    Betsy Jones-Moreland: Thyra
    Jonathan Haze: Ottar
    Jay Sayer: Senya
    Lynette "Lynn" Bernay: Dagda
    Sally Todd: Sanda
    Gary Conway: Jarl
    Michael "Mike" Forest: Zarko 
    Herman Hack: Cavaliere Grimault 
    Signe Hack: Donna Grimault
    Wilda Taylor: Danzatrice Grimault 
    Ross Sturlin: Guerriero Grimault 
Titoli in altre lingue: 
    Spagnolo (Spagna): Las mujeres vikingo y la serpiente del mar
    Spagnolo (Messico): La serpiente del averno 
    Spagnolo (Perù): Mujeres vikingos  
    Spagnolo (Venezuela): La leyenda de las vikingas y su viaje
         a las aguas del gran dios serpiente 
    Russo: Сага о женщинах-викингах и об их путешествии
         по водам Великого Змеиного Моря 
    Serbo: Saga o vikinškim ženama i njihovom putovanju
        do voda Velike morske zmije
Budget: 65.000 dollari US
 
Trama: 
In una fantomatica terra nordica chiamata Stannjold tumultua senza sosta un gruppo di donne guidate dalla splendida Desir. Sono autentiche virago. I loro uomini sono scomparsi e devono essere ritrovati ad ogni costo, giusto per essere randellati a dovere. Il clima di Stannjold è tropicale, vi splende perennemente il solleone e tutte vanno in giro mezze nude. Desir e le sue seguaci salpano su una lunga nave e in seguito a un vortice marino fanno naufragio in una terra sconosciuta, oltre il Mare Sconosciuto. Qui trovano i loro uomini imprigionati nelle miniere da guerrieri di un popolo crudele che somiglia per aspetto fisico e per costumi agli Unni. Sono i Grimault, crudeli e dai capelli corvini. Sono governati dal tiranno Stark. Dopo mille peripezie, le donne vichinghe riescono a liberare i loro uomini, il cui capo è Vedric, raggiungendo così la costa. Qui avviene un drammatico confronto con i Grimault. Il figlio effeminato del tiranno Stark viene colpito da Thor, che lo uccide con la folgore. Gli uomini e le donne di Stannjold riescono a impadronirsi di un'imbarcazione, prendendo il largo. Affrontano una gigantesca lucertola gommosa scaturita da un immane gorgo, piena di creste che paiono condilomi venerei acuminati, e la uccidono servendosi di una minuscola spada, la cui punta non è certo acuminata. Secondo l'idea del regista, anche un coltellino svizzero sarebbe bastato a squarciare quella massa gelatinosa! Prima di spirare per l'esigua puntura, il mostro marino distrugge con le sue convulsioni la barca dei Grimault lanciata all'inseguimento dei Vichinghi gloriosi. Evidentemente i Grimault erano un popolo piccolissimo: il potere di Stark è distrutto nell'incidente e non giungono altre minacce. Così gli eroici Vichinghi e le loro robuste compagne riescono a raggiungere la torrida patria.
 
Recensione:  
Questo film è un autentico escremento di celluloide, come a volte sono i prodotti di Corman (altri sono invece notevoli). Non penso che esista una sola ragione al mondo perché si debbano vedere simili porcherie. A spingermi deve essere il mio innato masochismo. Qui siamo addirittura a livelli di autolesionismo. Certo, la sensibilità era molto diversa all'epoca in cui la pellicola cormaniana fu distribuita. Senza dubbio lo era anche la mia: non ero ancora nato! 

 
L'onirostorico Paese di Stannjold 
 
All'inizio della pellicola viene mostrata una mappa con la geografia del Nord tropicale cormaniano. Si nota all'istante una cosa stravagante: quella che ora è la Danimarca è invece denominata "Stonjold", mentre "Land of the Danes" (ossia "Terra dei Danesi") indica la costa meridionale del Mar Baltico. Il regista immagina che in seguito quattro o cinque Danesi sarebbero migrati a nord, stanziandosi nella terra di Stannjold e imponendosi sui quattro o cinque nativi, cambiando il nome alla nazione. Secondo l'idea di Corman e di Goldman, tutti i popoli dell'antico Settentrione sarebbero stati talmente esigui come consistenza numerica da poter essere spazzati via da una semplice epidemia di raffreddore! Non ci si possono aspettare idee realistiche sulle antiche migrazioni da individui con una conoscenza tanto limitata. Non mancano gli anacronismi, che sono abbastanza gratuiti e insensati. Vediamo che i Grimault hanno un immenso castello dotato di merli, come se potessero servirsi di una tecnologia assai avanzata e di una grandissima abbondanza di manodopera, ma questo non risulta: sono quattro gatti! Il Re Harald Dente Azzurro non avrebbe potuto concepire nulla di simile, pur essendo la Danimarca tanto popolosa e potente da inviare spedizioni a devastare l'Inghilterra. Se la narrazione del film di Corman è un'ucronia, non siamo in grado di determinare il Punto di Divergenza. Non siamo in grado perché non c'è. Si tratta di un delirio onirostorico, quale può essere concepito in un sogno provocato dall'eccessiva quantità di formaggio ingerito prima di coricarsi.  

 
Una profonda ignoranza del norreno 

Chiaramente Corman non conosceva l'antico nordico. Nemmeno Goldman ne sapeva granché. Probabilmente non avevano la benché minima natura di che lingua fosse. Se qualcuno avesse detto loro che parole inglesissime come big, black, window, fellow, skipper, they, take, call, cast, get e molte altre sono in realtà prestiti dalla lingua dei Vichinghi, ne sarebbero rimasti sconvolti. In ogni caso, il regista e lo sceneggiatore sono riusciti a escogitare alcune cose notevoli, anche se a tratti grottesche. Forse ce l'hanno fatta per puro caso.     
L'antroponimo femminile Desir sembra semplicemente un prestito dall'antico francese desire, che significa "Desiderio". C'è anche un'altra possibilità. In norreno esiste la parola Dísir che indica alcune divinità femminili minori invocate soprattutto in occasione della morte. La forma singolare è dís, il suffisso -ir indica il plurale. In norreno non si hanno forme plurali usate come antroponimi, cosa che già di per sé rende questa etimologia implausibile. I problemi fonetici potrebbero risolversi facilmente se pensassimo che lo sceneggiatore abbia trascritto con una -e- la vocale lunga /i:/ del norreno. 
L'antroponimo femminile Dagda corrisponde al teonimo maschile irlandese Dagda. Come il nome della divinità Dagda è dal protoceltico *dago-dēwos "Buon Dio", Corman ha escogitato un femminile Dagda, la cui protoforma sarebbe *dago-dēwā "Buona Dea". Non sembra difficile né irrazionale, anche se questo nome non risulta attestato. Non credo che lo sceneggiatore conoscesse le lingue celtiche e la loro origine: è più facile pensare che abbia preso il nome a caso da qualche scritto sull'antica Irlanda, scegliendolo soltanto per via della sua sonorità.
L'antroponimo femminile Enger ha una terminazione tipica di un nome maschile. Dovrebbe derivare dal norreno engr "stretto", ma non ha alcuna corrispondenza nella reale antroponimia della Scandinavia: ha tutta l'aria di essere stato inventato di sana pianta. Non ha alcun senso pensare che possa essere derivato da engi "nessuno; nulla" (negazione di einn "uno" tramite il suffisso -gi). 
L'antroponimo femminile Thyra è una latinizzazione del nome della madre del Re Harald Dente Azzurro (Haraldr Blátǫnn), Thurvi (antico danese Þurvi). In islandese moderno è Þuri. Si nota che la vocale tonica è breve. L'etimologia è incerta. Gli accademici concordano nel considerare il nome un derivato del teonimo Thor (Þórr). In effetti si potrebbe ricostruire una protoforma *Þunra-wīχō "Consacrata a Thor" (cfr. gotico weihs "santo", weiha "prete"). La fonetica è altamente irregolare. 
L'antroponimo femminile Asmild viene dal norreno áss (ǫ́ss) "divinità della stirpe degli Asi" (pl. Æsir "gli Asi"), dal protogermanico *ansuz. Il secondo membro del composto viene dall'aggettivo mildr "mite" (femminile mild), che corrisponde all'inglese mild "mite". Non ho presenti attestazioni di questo nome nelle saghe, ma in Danimarca esistono famiglie il cui cognome è Asmild.  
L'antroponimo maschile Ottar (norreno Óttarr) è ben attestato e deriva regolarmente da una protoforma *Ōχti-χarjaz "Esercito del Terrore". La somiglianza di Ottar col norreno otr "lontra" è soltanto casuale. 
L'antroponimo maschile Jarl significa "Conte" ed è una parola norrena ben conosciuta, che deriva dalla protoforma *irilaz "nobiluomo". Più che altro è un titolo, anche se a rigor di logica potrebbe benissimo essere usato come nome proprio di uomo. 
L'antroponimo maschile Vedric pare più che altro di origine celtica. Lo faccio facilmente derivare dal protoceltico *Widu-rīks "Re dei Boschi", nonostante la leggera anomalia del vocalismo. In norreno ci aspetteremmo *Viðrekr, la cui trasposizione cormaniana attesa sarebbe stata *Vidric anziché Vedric. In Norvegia esiste una fattoria chiamata Vidringstad, il cui nome può essere derivato proprio dall'antroponimo *Viðrekr, che ha un perefetto corrispondente nell'antico alto tedesco Witrih
Il nome del tiranno Stark è trasparente e ben comprensibile: è derivato dal norreno sterkr "forte" (anche starkr), a sua volta dal protogermanico *starkuz / *starkjaz. Dalla stessa radice è stato formato il nome dell'eroe Starkaðr, che non temeva alcuna potenza soprannaturale eccetto il Dio Thor. 
Due nomi dei Grimault risultano assolutamente privi di connessioni col norreno: Zarko e Senya. Un verbo to zark, sinonimo di to fuck "fottere", è stato coniato dallo scrittore, sceneggiatore e umorista britannico Douglas Noel Adams, autore della famosa Guida galattica per autostoppisti (The Hichhicker's Guide to the Galaxy), romanzo del 1978 - molto dopo il film di Corman. L'imperativo zark off "fottiti" suona quasi come Zarko. Non so se Adams abbia preso l'idea dall'antroponimo goldmaniano; non si può escludere, anche se mi sembra piuttosto improbabile. Cosa curiosa, in armeno zark significa "colpire, battere" e potrebbe essere la fonte sia del neologismo di Adams che del nome del personaggio del film di Corman. Forse il tramite di queste bizzarre creazioni lessicali è stato un discendente di immigrati armeni, la cui identità ci sarà sconosciuta per sempre.  
Per il resto non ci sono dubbi: la lingua nativa dei Grimault non è il norreno. Il tiranno Stark afferma in un'occasione di aver imparato qualche parola dai prigionieri, anche se risulta che non ci siano difficoltà di comprensione tra lui e le donne vichinghe. Questa è una cosa ben stravagante. Da che mondo è mondo, sono i prigionieri ad imparare per necessità qualche parola della lingua dei loro carcerieri, non il contrario. Le comunicazioni sono spesso difficili quando i prigionieri non hanno alcuna conoscenza della lingua del paese in cui sono detenuti. Si riporta il caso di un danese che fu imprigionato dai Franchi di Carlomagno. Paolo Diacono fu incaricato dal Re di comunicare con questo vichingo, perché nessuno comprendeva le sue parole, nessuno riusciva a farsi capire. Non funzionavano né la lingua germanica del sovrano e della sua corte, né la lingua protofrancese dei sudditi. Paolo Diacono cercò di farsi capire usando il longobardo e il latino, senz'altro risultato che il riconoscimento dei nomi di due divinità adorate dal danese, riportati come Waten (ossia Odino) e Thonar (ossia Thor) - e solo perché erano simili alle corrispondenti forme longobarde. Per ulteriori dettagli di questa vicenda poco conosciuta si rimanda al datato ma interessantissimo Des Paulus Diaconus Leben und Schriften (Dahn, 1876). 
 
 
 
Etimologia di Stannjold 
 
Il fantatoponimo Stannjold (variante Stonjold) non ha alcuna etimologia credibile. Forse lo sceneggiatore voleva suggerire un'origine dall'inglese stone "pietra", anglosassone stān, il cui corrispondente in norreno è però steinn. In ultima analisi tutte le forme storiche provengono dal protogermanico *stainaz attraverso mutamenti molto facili da comprendere. All'origine delle elucubrazioni di Goldman doveva esserci l'idea di una lingua germanica settentrionale diversa dal norreno, poi perduta nel tumulto della Storia, che avesse *stánn, *stónn "pietra" anziché steinn. Anche senza considerate che la Danimarca non è un paese di rupi e scogliere (né lo era nemmeno in epoca antica), resta il fatto che l'elemento -jold sembra privo di qualsiasi parentela discernibile. Non è plausibile una sua connessione col norreno jól "metà inverno", dato che non si spiegherebbe la terminazione -d e non ne verrebbe fuori alcuna semantica credibile. La vera atrocità in questa creazione deforme è senz'altro la pronuncia: Stannjold suona /'stɔndʒold/, con un'orrida consonante postalveolare! 
 

Etimologia di Grimault
 
L'origine dell'etnonimo Grimault è dal norreno grimmr "crudele", a sua volta dal protogermanico *grimmaz "crudele, severo". Potrebbe essere in qualche modo l'equivalente dell'aggettivo grimm-úðigr "feroce". La terminazione richiama il tipico suffisso accrescitivo e peggiorativo -ault, tipico dell'antico francese, di origine germanica (*-waldaz, che in norreno ha dato origine all'elemento antroponimico -(v)aldr). Meno plausibile mi pare una proposta di derivazione da gríma "maschera, travestimento che nasconde il capo". La pronuncia di Grimault nella versione originale del film dovrebbe essere /'gɹɪmoʊlt/. Si registrano nel Web un paio di varianti ortografiche dell'etnonimo: Grimolt e Grimold.
 
Vino d'uva per i Grimault  

Nel corso dell'improbabile festa in onore delle donne vichinghe giunte dal Sud, una rozza serva dei Grimault porta loro una brocca piena di vino rosso. Si tratta certamente di succo d'uva fermentato, non possono esserci dubbi al riguardo. Si direbbe che la Terra immaginata da Corman e da Goldman si trovasse in un periodo interglaciale, caldissimo, in grado di far crescere l'uva anche nelle regioni polari più impervie.  
 

Thor e l'omosessualità
 
Verso il finale del film Thor fulmina un arga. Senya, il gracile e inetto figlio del Re dei Grimault, è evidentemente un omosessuale effeminato che assume ruoli passivi con i guerrieri, comportandosi come una giumenta con gli stalloni (era questo il modo di dire usato nella Scandinavia pagana per descrivere la situazione). Per questo motivo Senya è odiato dalla divinità uranica dei Vichinghi, che lo abbatte senza pietà scagliandogli contro i suoi strali. Qual è il motivo di questo odio, che al giorno d'oggi sarebbe definito "omofobia"? Semplice: Thor era adorato come divinità dei fenomeni celesti e della fertilità. Era diffusa tra le genti del Nord l'assurda convinzione che il sesso anale, anche tra uomini, potesse essere fecondo e portare alla nascita di sventurati. Si credeva nella reale esistenza del parto anale. Ovviamente Thor, che benediceva gli sposi e favoriva la procreazione, era offesissimo dalla generazione di bambini tramite l'intestino. La reazione era prevedibile: scagliava la folgore! Nella mitologia esiste il caso di Loki, che ha ingerito il cuore ancora caldo della gigantessa Angrboða appena bruciata sul rogo, rimanendo in un innaturale stato di gravidanza. I frutti di tale orrida fecondazione erano mostri: il lupo Fenrir, il Serpente del Mondo (Jǫrmungandr) e la Signora degli Inferi, Hel. Con un altro parto anale Loki ha dato alla luce il cavallo Sleipnir, dotato di otto zampe, che è diventato il destriero di Odino. Per concepirlo, l'ambiguo Loki si era trasformato in una giumenta, venendo montato da uno stallone eccitato. Quando aveva la forma di una cavalla, l'ambigua divinità era dotata di una fica. Ritornato nella sua forma naturale, questa fica era scomparsa e restava soltanto l'intestino retto come unica risorsa per far uscire la vita che era stata concepita nel ventre. A differenza delle molte inconsistenze mostrate nelle sequenze della pellicola di Corman, questa trovata di Thor che fulmina Senya sembra abbastanza verosimile e dotata di buone basi filologiche. 

 
Altre assurdità e incongruenze 
 
Il culto di Thor mostrato nel film è amministrato dalla bruna Enger, che ne è la sacerdotessa, cosa già di per sé abbastanza anomala. Inoltre è pieno zeppo di concetti cristiani, come ad esempio un'altisonante quanto vana menzione della rinuncia ai piaceri della carne. Ciò è di una palese assurdità, visto che nella mitologia nordica Thor è descritto come un formidabile mangiatore e bevitore! Un'altra assurdità è un'invocazione pronunciata da Vedric nell'atto di scagliare la sua spada dalla punta smussata contro il mostro marino: "Che Thor abbia pietà delle nostre anime!" C'è stata una fase di commistione tra il Cristianesimo e il culto degli antichi Dei, cosa che può essere ben documentata da molte fonti storiche attendibili, eppure sono certo che le cose non siano andate come le ha descritte Corman.  
 
 
Curiosità varie 

Il regista in un'occasione ebbe a dire: "Il titolo completo è The Saga of the Viking Women and Their Voyage to the Waters of the Great Sea Serpent. Non siamo riusciti a trovare un modo per mettere il titolo in due o tre parole, quindi ho detto "andiamo all'altro estremo e diamo loro il titolo più lungo che abbiano mai visto per poi usare il più grande cliché nelle immagini storiche dell'epoca, che è quello di aprire con un libro di pelle incisa, una mano che entra e apre la copertina del libro, e c'è il titolo del film." Avevo un vago sospetto che il geniale cineasta facesse uso di sostanze pregiate. Dopo aver letto queste sue considerazioni stravaganti, ne ho l'assoluta certezza. 
 
A quanto pare Senya, il principe arga, nella versione in inglese ha un fortissimo accento di Brooklyn, cosa grottesca che ha portato un commentatore a schernire il film ("I didnt' realize that the Grimolts originally hailed from Brooklyn"). Un'irrisione giustissima, ci tengo a precisare.  

Conclusioni 

In sostanza, l'unico aspetto positivo di quest'opera di Corman sono le sensualissime creature femminili!