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lunedì 23 gennaio 2023

Viaggio in Eschaton 

Sono solo in una navicella progettata per resistere a qualsiasi aggressione astrale. Lo scafo è stato plasmato in una lega biometallica di un vivo color carminio. I motivatori e i motori non sono composti da parti distinte e funzionano seguendo principi fisici sconosciuti a qualsiasi civiltà umana. Attraverso un oblò osservo rapito l'orrore esterno. Gli Alberi di Gonostra fioriscono di bruchi. Gemmano nella tenebra, rischiarandola con i loro colori sgargianti. Seguendo funzioni di accrescimento frattale, le larve germogliano voraci espandendosi come cancri dai tronchi. Crescendo divorano le spore che galleggiano nell'etere nero, e producono altre larve dal loro dorso. Si generano strutture simili a mostruose chiome di gorgoni, che arrivano ad essere grandi come galassie. Giunti al limite estremo, questi esseri si spaccano, si scindono spargendo i loro piccolissimi semi per milioni di anni luce, iniziando nuovi cicli di colonizzazione. 

Marco "Antares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 21 ottobre 2006)  

sabato 21 gennaio 2023

Occhi di falena 
  
Il robot ibrido si muove con lentezza esasperante, destando non poco nervosismo nei torvi scienziati giapponesi accalcati nel laboratorio... 
Un sottile velo di ormoni femminei fa all'improvviso palpitare le antenne biologiche dell'organismo cibernetico, connesse tramite fibre ottiche a un microchip che codifica l'impulso sessuale. Il processore si mette in moto... Le membra meccaniche insettoidi si muovono con crescente prontezza, e inizia l'inseguimento della preda. Il Signor Okahata ammicca soddisfatto ai suoi collaboratori. Rabbrividisco. La mia mente si volge ancora una volta agli Abissi di Abyabp, matrice di Pseudovita... 

Marco "Anares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 22 luglio 2006) 

giovedì 19 gennaio 2023

Naufrago 

Lontano da ogni galassia. Nessun fotone filtra attraverso il buio insondabile. In un piccolo vascello io fluttuo in questo vuoto assoluto. Soltanto un misero guscio di noce, un relitto condannato a un fato di eterna solitudine. Molto raramente, diciamo una volta ogni due o tre anni, una singola molecola d'idrogeno urta contro lo scafo, al che il rivelatore emette un suono stridulo e impulsivo che allieta la mia attesa infinita. Dov'è il quasar più vicino? Dov'è l'ormai obliato calore della luce di una stella, fosse anche così distante da colpire a malapena la mia retina atrofica con l'impressione di un vaghissimo contrasto?

Marco "Antares666" Moretti
(blog connettivista Cybergoth, 26 febbraio 2006) 

martedì 17 gennaio 2023

La Caverna delle Scimmie 

È un luogo abominevole in cui ogni speranza in una umana utopia svanisce, scardinata dalla brutale evidenza della vera origine della Vita. L'archeologo incespica, incapace di reggersi in piedi per lo spettacolo raccapricciante che appare alla sua vista non appena illumina quei diabolici recessi con la sua torcia. Un immenso cimitero di primati... Montagne di scimmie morte in vari stadi di decomposizione si innalzano dovunque come macabre stalagmiti. Tutto è mescolato alla rinfusa, dallo scheletro al cadavere di pochi giorni. Le specie rappresentate sono molteplici: scimpanzé, gorilla, babbuini, ma anche varietà sconosciute, che nessun tassonomo ha mai studiato. È un incubo ad occhi aperti. Dalle masse di carne marcescente si levano lezzi infernali e nuvole di mosche, e i reflui colano confluendo in veri e propri ruscelli di putredine scura. Il fetore è tale da impedire l'esplorazione degli antri più interni. Procedendo tra cagnotti e carcasse, lo studioso arriva fino al centro di quel sacrario maledetto. Lì si estende un lago nero. Sulla riva uno scimpanzé si muove seguendo ritmi ipnotici davanti a una colossale locusta di pietra, e dai suoi gesti sembra che sia in adorazione della mostruosa statua. La debole luce proiettata dalla torcia permette di distinguere la sua sagoma come in un teatrino cinese degli orrori. Attende la morte pregando il Demiurgo del Morbo, colpito da una forma di inesplicabile furore mistico... 

Marco "Antares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 30 settembre 2006)

domenica 15 gennaio 2023

Un luogo orribile

Chiamato Nodaaums. Mi ci trovo senza sapere perché, come se vi fossi stato trasportato in una notte illune, rapito attraverso una porta dimensionale. Il cielo sembra fatto di inchiostro. La sola luce si diffonde da alcune fioche lampade al neon, ed è aggredita dalla tenebra. Sono nudo e confuso, su un molo spettrale. A poco a poco i miei occhi si abituano a quell'oscurità, quel tanto che basta per vedere il mare: una distesa di un liquido nero e denso che sembra petrolio. Sono colto da tremende vertigini nell'osservare le onde imponenti e pesanti che agitano la superficie di veleno. Un forte vento si alza, gelido. Sono del tutto indifeso. Percepisco qualcosa di malvagio in quell'improvviso fortunale. Cerco inutilmente un riparo e mi dirigo verso la terraferma. Scorgo le rovine di un edificio cubico fatto di grandi blocchi di marmo. Dal suo interno emana ORRORE. Rotaie arrugginite mi fanno pensare che un tempo potesse essere una stazione. Il vento aumenta ancora e trascina via cumuli di rifiuti. Le mie capacità empatiche mi fanno precipitare nel panico, come se miliardi di vite umane stroncate dal ferro urlassero simultaneamente in me. 

Marco "Antares666" Moretti
(blog connettivista Cybergoth, 25 settembre 2006)

venerdì 13 gennaio 2023

Il lato oscuro della Luna 

Impenetrabile e duro nero punteggiato di stelle, che come piccoli pugnali trafiggono le retine... I tre astronauti procedono con grande cautela in avanscoperta di quel desolato e sconosciuto scenario. Potenti fari fendono la tenebra del mondo morto e senz'atmosfera. All'improvviso vicino al cratere si rivela al campo visivo un dettaglio inaspettato. Gli astronauti compiono grandi balzi, favoriti dalla gravità lunare, ma ben presto si accasciano a terra, soverchiati da un indicibile campo d'orrore... È come se da quelle rocce irradiasse tutto l'abominio dell'universo... Una sensazione di atroce desolazione li divora, li getta nel panico senza che ci sia una spiegazione plausibile... Fattisi coraggio, i tre riescono alla fine a vincere quel soprannaturale senso di oppressione e raggiungono il punto che ha attratto la loro attenzione. Con incredibile stupore scorgono qualcosa di IMPOSSIBILE: i raggi dei loro fari illuminano la spettrale sagoma del relitto di un caccia bombardiere tedesco della II Guerra Mondiale... 

Marco "Antares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 17 dicembre 2005)

mercoledì 11 gennaio 2023

Due scimmie decapitate 

Giacciono sul tavolo operatorio. Lo scienziato getta nell'inceneritore la testa di una e il corpo acefalo dell'altra. Poi immerge le due parti rimaste in una soluzione vitale che impedisce ai tessuti di decomporsi, mantenendoli vivi a livello cellulare, pur essendo ogni loro sinapsi inattiva. Nessun impulso elettrico attraversa le ramificazioni dendritiche. La testa di scimmia e la scimmia acefala prescelte per l'Esperimento sono a detta di tutti morte. Nessuna autorità religiosa osa sostenere il contrario, e un notaio attesta legalmente la cosa con un sigillo di ceralacca. Ecco che dopo un anno lo scienziato ritorna su questo insano progetto, determinato a distruggere una volta per tutte la Teoria Tomistica della Sostanza... così monta la testa mozzata sul busto dell'altro animale, saldando con pazienza ogni singola terminazione nervosa e rigenerando le cicatrici neurali con flussi dosati di nanorobot. Poi inietta il sangue artificiale nelle arterie, nelle vene, e con un elettrostimolatore dà la scocca fatale al cuore... Pochi istanti dopo la scimmia ibrida APRE GLI OCCHI, e il suo sguardo abissale è animato da aliene scintille di ODIO... 

Marco "Antares666" Moretti
(blog connettivista Cybergoth, 15 dicembre 2005) 

lunedì 9 gennaio 2023

CHIOME IN FIAMME 

La Cometa d’Orrore è in massimo avvicinamento. Emana bagliori di morte azzurrognola dal suo cuore che come un secondo sole bianco acceca le genti, facendo impallidire ogni altra luminaria celeste. Le folle sono in fermento, e ognuno ode nel profondo della sua anima un sinistro stridore di dannazione. La coda di quel messaggero di devastazione è triplice e la sua lunghezza occupa metà della volta celeste, seminando veleno. L’aria tremola, una fatamorgana che impedisce di focalizzare bene i dettagli del mondo visibile. Palazzi fatui vibrano in quella densa atmosfera alterata dal mortifero portento cosmico. Il cuore dei coraggiosi e dei temerari diviene all’improvviso vile. Il cuore dei vili scompare, ed essi supplicano di ricongiungersi ai vermi nel terriccio. Tutte le donne incinte abortiscono. Tutti i sacerdoti si suicidano dopo aver urlato la vanità della loro fede, capendo di colpo chi è il vero Signore dell’Universo. Tutti i potenti battono i denti in preda al terrore, e baratterebbero un’eternità di cancro pur di sfuggire al presente. Dzadara viene! Dzadara è adirato! Il Regno del Caos avvolge tutto con i suoi tentacoli, portando la dissoluzione di ogni struttura sociale nel fango della Cosmonemesi. Nulla potrà sottrarsi alla Morte Cometaria, all’estremo strale sidereo! Il chiarore innaturale dissolve le nubi come effimera neve estiva, riducendole a cernecchi sfilacciati in una lettiera di carboni ardenti. Un rombo lontano echeggia nel labirinto e nei cunicoli uditivi delle masse come un urlo arcano, un tremendo clamore che preme su milioni di timpani, simile a un martello assassino su un’incudine dolorante.  Non sono suoni, ma fluttuazioni che si propagano dalla ferita nel tessuto stesso dell’universo, dal Continuum oscenamente lacerato. Fili di flogisto indaco si dipartono da ogni cosa, richiamando esili saette screziate, finché a tutti è chiaro cosa sta accadendo. I capelli della gente cominciano a prendere fuoco! Lingue di un rosso mai visto prima a memoria d’uomo lambiscono ogni testa nello sfrigolio di una frusta neuronica permanente! I peli bruciano incapaci di consumarsi in quell’infernale etere, parassiti di plasma che agiscono su ogni centro del dolore amplificandone la follia fino al parossismo prigoginico. Come vermi incorruttibili su una stufa al calor bianco, le membra delle genti si contorcono in quell’apoteosi di aberrazione, in quella dilatazione del flusso temporale in una fornace sempiterna. Le urla salgono al cielo, salgono fino al cuore della Cometa come fulmini che danzano su un oceano di crani! Mani ritorte e contratte in crampi cercano in tutti i modi di strapparsi la pelle, di liberarsi di quel supplizio, senza riuscire a trovare la presa. Artigli che scavano invano nelle carni, volti contratti in abominevoli maschere orrorifiche. Fiori incandescenti si muovono al ritmo di tempeste di raggi X durissimi, corpuscoli trascinati nell’Orizzonte degli Eventi di un buco nero che divora miliardi di galassie moribonde. Si possono distinguere tutte le sfumature di un caleidoscopio cromatico alieno in un’orgia sinestetica di disperazione che filtra in ogni singolo quanto di materia. Poltiglia quarkionica vibrante nello stato di massima entropia. Gli esseri umani sono nudi, tuffati nelle profondità solari senza poter morire! Cosa resterà quando il Principe della Cometa sarà passato? Una distesa di cenere inerte? Il brodo primordiale scomposto nei suoi costituenti prebiotici? Un mare senza confini di basalto fuso? Oppure gli stessi elementi senza vita rimarranno intrappolati per sempre in quell’atrocità escatologica, in quella metànoia satanica, in quello straziante Cantico dell’Assurdo? 

Sulla cima dell’arido e pietroso monte Aramonth, l’Eremita osserva la Consumazione dei Secoli, lo scatenarsi delle Forze di Maspigand, distinguendo ogni dettaglio del mondo come se fosse fornito di una vista telescopica. Lui che è stato rifiutato dalla società degli umani, ora gode di un privilegio inatteso, ora gongola nello spettacolo capace di dare senso a un’intera esistenza di privazioni e di umiliazione. Avvolto da un’aureola di fuoco, l’Uomo di Dio si lascia trasportare da un’ebbrezza infinita che trasforma il dolore della combustione in gioia selvaggia. Ogni istante della sua gioventù nella Città dell’Edonismo gli ritorna alla memoria, e sente i risolini di scherno delle giovani donne copulanti. Sente l’egoista felicità delle coppie che ostentavano le loro effusioni nei bistrot e sulle camminate lungo i navigli adorni di fiori variopinti e di afrodisiache fragranze. Percepisce nella sua empatia espansa ogni attimo del piacere di quei petali e di quei pistilli in umido congiungimento, mentre a lui tutto è stato sempre negato. Portatore di un’antica lebbra, erede di una cultura perseguitata, non gli era rimasta altra alternativa che cercare rifugio nelle caverne per sfuggire all’eccessivo dolore. Ora sa finalmente di aver seguito la via giusta, quella che così a lungo gli era parsa soltanto un percorso di dannazione su accidentati dirupi. I suoi piedi nudi si erano tante volte lacerati su quegli spuntoni rocciosi del Deserto senz’Acqua! Ora tocca all’Acqua bruciare! Quelle puttane, quei corrotti che le insozzano, adesso si consumano insieme nel tormento! Invidioso, così lo hanno chiamato innumerevoli volte mentre lo vedevano vagare avvolto in abiti laceri. Inetto, perdente, questo gli dicevano, scientemente crudeli. Lo definivano uno sconfitto nella lotta della biologia, nell’agone spermatico per propagare questa corrotta prigionia nel lurido carapace carnale. Così è sempre stato definito da uomini di affari e politici. Quei boia non facevano questo in quanto spinti da profonde convinzioni filosofiche, ma soltanto perché pareva loro di sentirsi vivi, soltanto avendo qualcuno da disprezzare e da tagliuzzare con oscuro sarcasmo. Mostravano denti e contraevano i diaframmi, ratti glabri e immondi che si sollazzano nella fogna della vita gaudente. Così l’Eremita intona la sua canzone della rivincita contro il genoma brulicante: “Finalmente la loro base è sradicata, il loro seme cancellato! La loro arroganza è un guscio vuoto sotto il calcagno del Giusto! Dzadara avvolge i miei antichi aguzzini nel suo abbraccio crematorio! Questo istante non è solo il più felice della mia intera esistenza terrena, ma di milioni e milioni di vite passate migrando da un involucro corporale all’altro, umano o animale! Questo è il punto terminale della mia Caduta dai Cieli! Questo è il Giorno del Ritorno! Nessuno potrà più farmi pentire di esistere sfoggiando le sue immonde vesti di muscoli, di ossa e di sangue”. Quasi in risposta alle sue turbolente correnti dell’anima, il Buco nel Cielo si apre. Ha l’aspetto di un uomo di ferro, talmente nero che gli stessi fotoni vi affondano senza speranza di poterne uscire. Sembra calare su ogni cosa, anche se i contorni nitidissimi sono immobili. Gelido, inumano, duro nel suo manto metallico di nero stellare, è l’uscio ipergeometrico che dà su un piano di esistenza di una vastità atroce e non euclidea. Quella sfida alla luce è la sua meta, il nero astro che spezzerà ogni suo limite, ogni suo vincolo termodinamico. Fiducioso, l’anacoreta esiliato vi ascende fiammeggiante e in esaltazione, lasciandosi ogni cosa alle spalle senza rimorsi né rimpianti. Anche il grido delle città dannate gli è giunto a noia, perché ha cose più importanti da fare. Sotto la sua ombra fluttuante le chiome sono torce inesauribili e i grattacieli miraggi, ma lui non se ne cura affatto, perché quello è il Momento Perfetto: dopo aver vissuto il respiro degli Eoni sta per tornare a casa. 

Marco "Antares666" Moretti 

giovedì 5 gennaio 2023

LA VESPA DI SMERALDO

1.

Il manager era tornato a casa febbricitante. Non riusciva quasi a reggersi in piedi, e questo non era buono, visto che aveva delle consegne da compiere e pochi giorni per elaborare i grafici. Non c’era nulla che andasse per il verso giusto. Si sedette sulla poltrona del suo monolocale, poco più di un loculo nella gigantesca struttura abitativa, e prese il termometro per misurarsi la temperatura corporea. Solo il pensiero di mangiare qualcosa gli faceva venire la nausea, mentre gli sembrava che gnomi maligni gli stessero picconando il cranio. Dolori articolari, fitte di colite, capogiri. Dopo qualche minuto estrasse il termometro e la lettura non migliorò la sua depressione: aveva un febbrone da cavallo. Si denudò davanti allo specchio e vide sul suo polso destro una specie di piccolo tumore. Non lo aveva notato fino a quel momento. Poi si ricordò che proprio lì era stato punto da uno strano insetto, un leggiadro imenottero dal morso molto doloroso. Solo adesso ci ripensava, a quasi quindici giorni di distanza. Non si sapeva spiegare quell’episodio. Finita una defatigante riunione all’ultimo piano della struttura dirigenziale, si era concesso una boccata d’aria sul terrazzo ed era stato sorpreso dall’insetto, la cui corazza metallica riluceva al sole come una sgargiante gemma verde dai riflessi azzurri. Un attimo e tutto era compiuto. Il pungiglione era penetrato nella pelle del polso dell’uomo, e l’aggressore era fuggito con grande rapidità. Lì per lì il manager non aveva dato peso alla cosa, ma adesso un senso di ansia subliminale gli martellava nelle carotidi. Sentiva sempre più freddo, così dopo essersi sciacquato si asciugò e si mise in kimono. Si distese sul letto. Cercò di distrarsi accendendo il televisore, ma il frastuono dei programmi gli irritava i timpani al punto che gli parve stessero sanguinando. In preda all’ira spense lo schermo. Non riuscì a stare disteso a lungo. Qualcosa lo spinse ad alzarsi e ad andare a bere un bicchier d’acqua. Faceva fatica persino a deglutire. Dovette sforzarsi per riuscire ad assumere un potente antipiretico, ma dopo mezz’ora di agitazione si accorse che non gli aveva affatto giovato: il termometro non voleva saperne di schiodarsi dai 40 °C. Non sarebbe andato al lavoro in tali condizioni, anche a costo di gravi conseguenze. Sentiva che l’intero universo si stava accartocciando su di lui, seppellendolo in una bara di umidi viticci che si restringeva sempre di più, fino a strozzarlo. Un’oscena camicia di forza quantistica. Non fu in grado di chiudere occhio e passò una notte infernale. Alle prime luci dell’alba era in preda a insopportabili vampate di calore, così aprì la finestra. Si guardò allo specchio. Vide allora che il suo addome era coperto di pustole. Si era trasformato in un nerd foruncoloso. Normalmente avrebbe cercato di spremere quelle formazioni cutanee per farne fuoriuscire il pus, ma sentiva che non doveva assolutamente fare una cosa del genere. Ebbe la vaga impressione che una volontà altra stesse guidando i suoi movimenti. Si mise sulla poltrona e cercò di leggere un libro, ma non poteva concentrarsi sulle parole. La cefalea divenne esplosiva e dovette metter via il volume. Sudava freddo. A questo punto si accorse che qualcosa si stava muovendo in lui. Allora vide. Pensò di essere sconvolto da allucinazioni sconosciute persino ai tossici dal sistema nervoso più degradato. Quelle cose uscivano dalla sua pelle! Larve! Vermi simili a grossi cagnotti, lunghi all’incirca come un alluce minore. Scavavano nell’adipe cauterizzando i vasi sanguigni che erano costretti a rosicchiare per farsi strada. Una volta giunti alla piena luce, dalla ferita usciva lo spurgo, simile a diarrea granulosa. Il manager fissava sconvolto la scena. Per quanto la cosa fosse irreale ed impossibile, aveva l’impressione che del sangue mestruale pieno di embrioni abortivi scivolasse via assieme al suo contenuto intestinale. In realtà quel liquame era pus prodotto dall’azione dei parassiti migranti, misto alle loro stesse deiezioni. Già una ventina di vermi marciavano sulla sua pelle, e ogni tanto alzavano il capo come per fiutare l’aria. Se il manager fosse stato in pieno possesso delle sue facoltà mentali, di certo avrebbe cercato di liberarsi da quegli obbrobriosi inquilini, gettandoli lontano da sé o schiacciandoli. Poi sarebbe corso di filato a un pronto soccorso, dove i medici lo avrebbero disinfettato e curato. Invece non fece nulla di tutto questo. Di nuovo quella sensazione di essere posseduto. Sapeva che stava morendo e che non poteva salvarsi in alcun modo, ma che c’era una cosa che doveva assolutamente fare. Depose amorevolmente i vermi sullo specchio accanto alla tazza del cesso, quindi li ricoprì di schiuma da barba. Uno dopo l’altro. E intanto quelli continuavano ad uscire. Sempre più grandi. In tutto ne contò più di centocinquanta. Li trattava tutti allo stesso modo: li nascondeva con la massima cura sotto una coltre di schiuma, senza neanche sapere perché. Uno strano moscerino rosso si avvicinò allo specchio, volteggiando con insistenza, ma non ebbe successo nel suo intento. La schiuma da barba gli riusciva talmente ripugnante che non poté in alcun modo stare nelle vicinanze. Con la stessa rapidità con cui era apparso, il buffo invasore si precipitò verso la finestra e sparì. Il manager si lasciò crollare esausto sulla tazza, e di lì a poco morì, gli organi vitali quasi svuotati dalla famelica covata della vespa di smeraldo. Aveva ormai esaurito il suo compito di incubatrice e di ostetrica. La schiuma da barba si era rivelata perfetta. Permetteva alle larve di respirare e al contempo le difendeva dai ditteri parassiti che davano loro la caccia per penetrarle con il loro ovopositore. 

2.

Dopo due settimane dalla morte del manager, il Signor Schenker si presentò alla sua porta e suonò con insistenza il campanello. Visto che non sortiva alcun effetto, si mise a bussare con tutte le sue forze, sospettando che qualcosa di molto brutto fosse successo. Il tanfo che filtrava dalla soglia recava un’inconfondibile traccia mercaptanica, mista ad afrori che non aveva mai percepito in tutta la sua vita – ma non per questo meno ributtanti. Non solo il Signor Kakui non si era più visto, ma il suo cellulare trillava da giorni in modo insopportabile e stridulo, senza che nessuno si prendesse la briga di rispondere. Stando nel suo gabinetto al piano di sotto, spesso Schenker sentiva distintamente quel fastidioso suono giungere proprio dall’appartamento del manager. Naturalmente avrebbe potuto togliersi dall’impiccio chiamando i pompieri e lasciando fare tutto a loro, ma in tal caso sarebbe stato costretto a compilare una montagna di moduli e a sottoporsi ad un’infinità di tediosi accertamenti. La burocrazia soffocante che imperversava in ogni distretto planetario non rendeva certo agevole la risoluzione di problemi pratici di questo genere. Per giorni il vecchio aveva sperato che qualcun altro si occupasse della cosa, magari un vicino di casa. Come c’era da aspettarsi, questo non era accaduto. Fece ancora un ultimo tentativo, suonando il campanello in continuo per quasi mezzo minuto primo. Esasperato e vedendo che non riceveva risposta, si decise infine ad usare le maniere forti: assestò un bel calcio al battente, facendo saltare via la fragile serratura senza troppe difficoltà. Essere stato un atleta in gioventù aveva i suoi vantaggi... Il tanfo che lo aggredì era più acuto di quello esalante da una bara scoperchiata, e non poté sopportarlo senza indietreggiare di scatto. Si fece coraggio e trattenne stoicamente il respiro, ponendosi un fazzolettino umido davanti al naso per evitare di essere ammorbato. All’inizio era talmente sconvolto da non poter mettere bene a fuoco gli oggetti. Quando la sua visione ritornò nitida, si trovò di fronte a una scena raggelante. Uno sciame di insetti che sembravano frecce di metallo verde intenso ronzava intorno allo specchio imbrattato, mentre altri loro simili erano intenti a rosicchiare quel che restava delle carni putrefatte del Signor Kakui. Grappoli di feci granulari, di color beige, uscivano dalle orbite del morto, la cui agonia sulla tazza irradiava ancora nell’aria. Quelle scorie emanavano un intenso fetore di vomito. La pelle rinsecchita delle labbra e delle guance era stata quasi del tutto erosa, e i denti erano messi in mostra come quelli di un teschio ghignante. Il ventre era stato disciolto dagli acidi ed appariva come un ammasso di sterco compatto da cui fuoriuscivano colonne di gas. I prodotti della fermentazione si facevano strada in quel che restava dei tessuti corrotti emettendo un sinistro crepitio. Naturalmente l’anziano Signor Schenker non capiva nulla di entomologia extrasolare: dato il livello dell’istruzione a cui aveva avuto accesso, non era neppure a conoscenza dell’esistenza di tale disciplina. Con più audacia che buon senso si mise in mente di cacciare quegli ospiti poco graditi servendosi di una scopa che trovò appoggiata a una parete. Come conseguenza della sua stoltezza, ricevette tre punture in pieno volto. Fuggì via barcollando e urlando di dolore, dimenticandosi persino di chiudere la porta. Alcuni dei letali imenotteri approfittarono dell’occasione per uscire sul pianerottolo, volando cauti per la rampa di scale. Presto avrebbero capito che la situazione era loro molto favorevole e sarebbero andati in cerca di nuove vittime seguendo scie feromonali. Schenker si trascinò nell’ascensore e scese fino al piano dove si trovava il suo appartamento. Il pensiero di scendere fino al piano terra e di andare allo studio medico del Dottor Brandauer fece capolino nella sua mente affaticata, solo per scivolare via come una coperta da un dormiente accaldato in preda ad agitazione notturna. Per una frazione di secondo si accorse che qualcosa non quadrava. Non colse il bandolo della matassa. Subito dopo ogni consapevolezza dell’abnormità della situazione si dissolse in un mero formicolio psichico. L’oblio cancellò ogni traccia di quel rigurgito autodifensivo delle sue subroutine cerebrali, facendogli apparire le cose in modo meno drammatico di quanto non fossero in realtà. Un programma chimico di distorsione operava in lui a pieno ritmo, ma non poteva accorgersene perché era in grado di mascherarsi abilmente, scatenando la sua guerra a livello di neurotrasmettitori e di sinapsi. Se il Signor Schenker si fosse sottoposto a una risonanza magnetica, sarebbero emerse profonde alterazioni neurologiche già a quel livello di infestazione. Il punto è che decise di non sottoporsi ad alcun esame. In fondo, questo pensò, i sistemi degli antenati erano i migliori per curare ogni male. La ripugnanza per la Scienza assunse in lui quasi un acme parossistico. Si chiuse nel conforto della propria dimora e spense il telefono cellulare. Fece bollire un po’ d’acqua calda con del sale e la usò per farsi impacchi dove era stato morsicato. Assunse poi l’antidolorifico più antico che l’umanità conoscesse, l’etanolo, attingendolo in forma di distillato quasi puro direttamente da una grossa fiasca. Dopo qualche ora il dolore e il senso di disagio erano del tutto scomparsi. Guardandosi allo specchio, si accorse che il gonfiore al viso si era molto ridotto, e decise che quella era solo un’altra giornata faticosa da dimenticare. “Che idiozia sarebbe stata andare dal medico per così poco”, pensò divertito, stranamente euforico. 

Marco "Antares666" Moretti, 
pubblicato nell'antologia Fantastic-Zen 2 (2010),
edita da EDS (Edizioni Diversa Sintonia). 

martedì 3 gennaio 2023

SKY BEASTS 

Il predatore è chiamato Netcat. Ha la forma di un aereo e sfreccia a reazione nell’atmosfera del gigante gassoso. Ha la sagoma di un nero abissale, e il rostro anteriore è aguzzo come un gigantesco canino di vipera. Si avvicina a un pascolo, dove fluttuano in gran numero i Blogster, flaccidi esseri simili a mongolfiere. Estraggono idrocarburi liquidi da un profondo pozzo convettivo, digerendoli lentamente nelle vastità dei loro stomaci. Grandi come città, questi palloni frenati non possono opporre alcuna difesa all’assalto del Netcat. Un cambiamento della chimica circostante avverte del pericolo in avvicinamento: si diffondono folate di glicoli repellenti misti a metanolo e a densi composti fenolici. L’odore della paura, a cui fa seguito quello della morte.
Il Netcat dilania, strazia, assimila le sue vittime incamerando grandi quantità di metaboliti preziosi per il suo sostentamento. Pieno di energia alcolica, dopo aver seminato lo sterminio, il nero Netcat accende i retrorazzi e fugge via emettendo una mostruosa vampata azzurra dalla cloaca. 

Alcuni Webwind, attratti dai resti della strage, accorrono per avere la loro parte di materiale organico altamente organizzato, prima che l’incombente tempesta ne disperda ogni traccia. Non dissimili dai carognari di altri mondi, non hanno la capacità di dare la caccia a prede vive e ucciderle. Il loro olfatto, sensibilissimo, ha sede in papule disseminate su tutto il corpo, che nella parte anteriore ricorda la forma di un fallo umano in erezione. La coda è simile a quella dei delfini, con una pinna biforcuta orizzontale. Un timone sporge come una barra scura dall’epidermide violetta e coriacea del ventre. I Webwind posizionano quest’appendice con guizzi fulminei degli hub del sistema nervoso, riuscendo così a impostare ogni rotta e a resistere agli improvvisi cambiamenti del vento planetario. L’area in cui le terminazioni olfattive sono più dense e sporgenti è corrispondente alla cavità orale, o meglio all’ingresso dell’apparato digerente. Gradienti anche minimi di composti organici di sintesi biologica li guidano al loro pasto collettivo.
I Webwind più grandi sono lunghi soltanto un decimo di un Netcat medio. Talvolta si avvicinano ai branchi di Blogster per assimilare flussi di escrementi, ma nella maggior parte del tempo preferiscono starsene in disparte in zone di gas più rarefatti, dove i predatori non osano avventurarsi. Le mattanze di Blogster invece li attraggono in modo irresistibile. Alle prime avanguardie seguono poi nuovi esemplari, se le condizioni meteo lo permettono.
Nei Webwind, il sistema digerente è programmato per metabolizzare enormi quantità di materiale nel minor tempo possibile, dovendo poi affrontare lunghi periodi di carestia. Così il cavo orale immette in una specie di aspiratore, atto a convogliare la massima concentrazione di resti organici nel minor tempo possibile. Quando i Webwind sono gonfi, la loro forma cambia. Il dorso, dalla cute coriacea come un carapace, non si deforma, mentre il ventre assume l’aspetto di un pallone ovale. In questo stato l’emissione di gas intestinali si fa imponente. I prodotti digestivi vengono in parte espulsi come propellenti e in parte accumulati in apposite sacche, utili in condizioni di scarsità di cibo. I resti dei Blogster sono ancora nelle sacche ventrali dei Webwind, che già si diffondono i primi effluvi anali, riconoscibili anche a miglia di distanza per la ricchezza di composti ammoniacali. Presto l’intera area sarà ammorbata.
I pochi Blogster superstiti si spostano nell’imbocco del pozzo convettivo per sottrarsi a una simile pestilenza. 

Come tutti i predatori del pianeta gioviano che stiamo studiando, il Netcat è un animale sessuato. In media ci sono soltanto due maschi su circa centocinquanta femmine. Il maschio del Netcat è più piccolo della femmina, raggiungendo a fatica la metà della sua lunghezza. L’accoppiamento avviene secondo dinamiche predatorie. Nella riproduzione di queste fiere non esiste nulla di ciò che il genere umano chiama voluttà: ogni unione è uno stupro.
Sotto una pioggia battente di miscela etano-butano-propano il maschio accelera in direzione della più intensa concentrazione di ormoni femminili, captati dai recettori situati nelle fosse di aerazione del rostro anteriore. Anche solo una piccolissima quantità delle giuste molecole è in grado di provocare tempeste neurochimiche nel sistema nervoso centrale del Netcat maschio. Quando il meccanismo aggressivo si attiva, non c’è niente che possa trattenere il cacciatore: si scaglierà come un dardo nelle vastità aeree fino a raggiungere la sua vittima.
Ecco la fiammata di gas intestinali combusti espandere sempre più la sua scia, mentre la velocità cresce a dismisura. La femmina è stata avvistata e non ha più via di fuga. Le reazioni che avvengono nel gran calderone che è la cloaca della femmina non sono capaci di generare getti paragonabili a quelli del maschio, che riesce a raggiungere facilmente l’obiettivo che si è prefisso. Precipitandosi sottovento, il Netcat maschio ha il vantaggio della sorpresa: in pochi secondi si colloca sul dorso della femmina e fa scattare tutti i rostri laterali, agganciandosi all’esoscheletro dorsale. La scena è grottesca, sembra di assistere a un video pornografico in cui due jumbo jet si danno da fare per copulare. Prima il rostro anteriore del maschio perfora il dorso della vittima per trattenerla in modo più saldo, poi scatta la più acuminata delle appendici maschili, che serve a deporre il seme.
Invano la femmina cerca di scrollarsi di dosso l’aggressore: i suoi rostri laterali, le uniche armi che può utilizzare in questa difficile situazione, sono troppo corti per colpire in modo efficace. In men che non si dica la lucida lama fallica si intrude nel corpo femminile, affondando in profondità ed iniettando nelle viscere palpitanti il liquame seminale. Una serie di getti neri come l’abisso siderale vengono pompati con violenza nelle carni dilaniate.
Completata la sua opera, il predatore sgancia tutti i suoi rostri e si allontana, portato via da una corrente aerea improvvisa. La femmina è lasciata all’atroce dolore che le pervade le interiora, mentre già il materiale genetico maschile si muove al suo interno per organizzare una nuova generazione assassina. 

Tra le specie più notevoli dell’intera fauna del gigante gassoso, il Leviathan è l’unica a mostrare segni di un’intelligenza misurabile, e in effetti paragonabile a quella di un mammifero superiore terrestre. Finora ne sono stati trovati soltanto pochi esemplari, meno di cento nell’intero emisfero settentrionale e circa cinquecento nell’altro emisfero. Non è ancora del tutto chiara la loro natura, difficile da investigare a causa delle dimensioni davvero incredibili. Secondo alcuni studiosi, i Leviathan sarebbero nati nel corso di milioni di anni locali a partire dall’aggregazione fortuita di migliaia di Blogster. Questa tesi non sembra avere molto fondamento, nonostante l’aspetto del Leviathan ricordi vagamente quello di un immenso dirigibile formato da un enorme numero di lobi e sferoidi granulari. Si è potuta dimostrare la presenza di un sistema nervoso altamente organizzato, facente capo a una massa neuronica grossa all’incirca come una megalopoli terrestre. È stata di recente avanzata la proposta di considerare il sistema nervoso del Leviathan come un essere in origine distinto e cresciuto nei tessuti di masse di Blogster agglutinati fino a perdere l’originaria indipendenza. Anche di questa ipotesi non sussistono prove, e sono molti i fatti che non riesce a spiegare.
A causa delle sue dimensioni, il Leviathan non ha nemici naturali: è al di sopra delle nicchie biologiche di pascolo e predazione caratteristiche di questo ecosistema. Per nutrirsi, questo colosso non deve fare nulla: dovunque si trovi utilizza un grande filtro che scandaglia senza sosta l’atmosfera trattenendo i nutrienti, proprio come i fanoni delle antiche balene intrappolavano il krill.
Osservando attentamente le distese incredibilmente vaste della superficie cutanea del Leviathan, è possibile scorgere delle piccole figure semoventi, non più grandi di un essere umano. A dire il vero, la loro sagoma ricorda proprio quella di una persona, dotata di quattro arti e una testa tondeggiante. Il nome dato a questi parassiti è Blogworm. Se visti da vicino, le differenze tra loro e gli umani sono notevoli. La cute dei Blogworm è nera e ha l’apparenza untuosa del petrolio. Le braccia e le gambe non hanno articolazioni e sono più simili a sgraziati tentacoli. Il sistema nervoso è molto primitivo e, a dispetto dell’aspetto vagamente antropoide, i Blogworm non sono in grado di andare oltre la mera esistenza vegetativa. Cercano senza sosta tracce della materia fecale espulsa dagli appositi tubuli situati sull’intero corpo del loro titanico ospite. A volte strisciano sui quattro arti, altre volte si alzano e agitano le loro membra spettrali nel vento eterno. 

Il Cimitero dei Blogster si trova a maggior profondità rispetto ai pascoli. Quando un Blogster muore di morte naturale e si trova in un ambiente inadatto ai carognari, i batteri decompositori ne invadono immediatamente ogni cellula. Non più sostenuta dal galleggiamento generato dai gas propulsivi della digestione, la carcassa tende ad affondare. Se cade all’interno di un pozzo convettivo, il corpo senza vita viene catturato dalle violente correnti discendenti per scomparire nelle profondità del pianeta, dove l’elevatissima temperatura ne provoca la distruzione. Tuttavia, nella maggior parte dei casi i Blogster morti raggiungono una zona ricchissima di ammoniaca, dove si completano i processi di autolisi. In breve tutto quello che rimane di un organismo un tempo imponente è un brodo brunastro che funge da nutrimento per una gran varietà di spazzini simili a vermi. Sono le larve aeree dei Webwind, dei Netcat e di altre specie affini. Una volta espulse dalla loro genitrice, a causa del loro peso queste larve sprofondano negli strati gassosi fino a raggiungere un Cimitero dei Blogster, dove possono nutrirsi e crescere. Un individuo di Webwind allo stadio larvale è grosso più o meno come un braccio umano e ha un colore bianco sporco tendente all’azzurrognolo. Non avendo ancora i propulsori, galleggia grazie alla spinta archimedea nella fogna cadaverica che costituisce il suo habitat. Le larve dei Netcat sono più piccole e hanno una cute segmentata di color blu scuro. La loro forma è simile a quella di un dardo di balestra, e sono presto in grado di dirigere il loro moto tramite propulsori laterali, che con la crescita si atrofizzano e cadono per lasciar posto alla combustione anale dei gas. La libertà di movimento delle larve dei Netcat dà loro un netto vantaggio su quelle dei Webwind, che prosperano soltanto grazie al loro maggior numero e vengono attivamente cacciate. Quando i Netcat e i Webwind immaturi sono cresciuti oltre a un certo stadio, tendono a risalire fino a raggiungere strati atmosferici più rarefatti, in cui completano la loro metamorfosi. 

La tempesta è al culmine della sua potenza, e con essa giunge un terribile strale. Fa irruzione il peggior nemico di ogni essere vivente, pascolante, carognaro o cacciatore: il fulmine. Numerosi biologi sostengono che proprio le scariche elettriche hanno generato la vita sul pianeta gigante a partire da idrogeno, metano, monossido di carbonio, vapore acqueo e ammoniaca. È un fatto che l’ecosistema è sempre stato influenzato da fenomeni elettrici imponenti, responsabili ogni giorno della morte di numerose creature.
Il Netcat sfreccia oltre il muro del suono proprio attraverso le dense nuvole del color della pece, incurante del pericolo. Nero in mezzo al nero, procede verso la sua sconosciuta meta, solo le fiamme dei suoi reattori possono essere distinte a occhio nudo. Dopo aver iniettato il suo seme in una femmina, sente una grande ebbrezza che lo rende immune dalla fastidiosa sensazione che di solito si accompagna al rischio. I razzi della cloaca bruciano al massimo. Il sibilo prodotto dal moto del predatore è assordante, tanto da nascondergli il boato incessante dei tuoni. Le ali spiegate tagliano l’aria come lame di acciaio. Nulla sembra poter resistere a questo mortale distruttore, quando un fulmine si abbatte su di lui. Entra proprio sopra il rostro anteriore, perforando ogni difesa e seguendo una traiettoria contorta nelle carni.
Bruciati i catalizzatori della sintesi degli zuccheri, la scarica elettrica scava una galleria nel sistema digerente, trovando alla fine la sua strada proprio in prossimità dello spermodepositore. Uscito da un foro preternaturale poco al di sopra della regione anale, ecco che la candida folgore riprende la sua strada tra le nubi nere. Fiammate arancioni scaturiscono dal corpo ardente del Netcat, che morto all’istante precipita in picchiata, i razzi ancora funzionanti. Un pennacchio di fumo grigio si alza dalla sommità del muso, confondendosi presto nel cuore dell’uragano.  

Marco "Antares666" Moretti,
pubblicato sul sito connettivista Next-Station.org (2014). 


In seguito il racconto è stato pubblicato col titolo Brani scelti dal “Catalogo delle Specie Extrasolari”, ii edizione nell'antologia connettivista Nuove eterotopie (2017), a cura di Sandro Battisti e Giovanni De Matteo, edita da Delos Digital.

domenica 1 gennaio 2023

STORMI IN PICCHIATA 

Inghilterra. La costiera del luogo un tempo conosciuto come Diacono di Sale. Saltdean. Davanti a me, circospetto e pieno di paure, una villa romana.
I pavimenti della grande sala erano a scacchiera, un motivo davvero insolito. Lo spazio era delimitato da un colonnato arioso. Sentivo su di me l’aria gelida: gli antichi Romani non conoscevano le finestre di vetro: ogni spazio di quell’antica dimora era aperto. Gruppi di statue ornavano i vari aditi. Riconobbi motivi che neanche la mente umana più delirante aveva osato ritrarre prima. Il Cesare Caligola, scolpito nel marmo, sembrava vivo. Alcune sculture lo mostravano nell’atto di ingerire le scorie delle sue molte amanti, mentre in un pezzo davvero unico era impegnato a discorrere con un mostro marino.
Ogni passo mi sembrava una mossa cruciale su una scacchiera ontologica; se avessi indugiato oltre, sarei rimasto paralizzato come l’asino di Buridano. Panni violacei ornavano un grande letto disfatto, la cui fattura era indubbiamente moderna. Non capivo il significato di quel luogo, che non avevo mai visto in vita mia. Forse era il prodotto allucinatorio di qualche mio dimenticato furore bacchico, il residuo di un cattivo viaggio che non voleva saperne di estinguersi, riverberando all’infinito sul pelo della mia autocoscienza martoriata.
Mi sembrava che il tempo fosse congelato. Stavo vivendo, anzi vegetando tra le quinte del Tempo. Non potendone più, uscii da quell’ambiente malsano, tornando sulla via del lungomare che pareva abbracciare l’Infinito, tra massi erratici eiettati da un vulcano in epoca preistorica.
Alzai gli occhi verso la volta celeste. Un ammasso di nubi impenetrabili la rendeva assolutamente grigia, una massa di cervella infette estratte dal cranio del gigante Ymir, viranti al nero in uno scenario di decadenza apocalittica. Strali sulfurei si coglievano all’orizzonte, proprio dove il mare plumbeo moriva, risucchiato dal denso orizzonte degli eventi di un buco nero.
Camminando lungo il viottolo, contemplai per qualche ora i cavalloni del mare ruggente. Masse di acqua grigia come palta, mostruosità eruttanti che parevano sfidare lo stesso principio della mia creazione. Più il cielo si contaminava nel nero petrolifero delle sue sfumature, più le masse bianche di calcare si stagliavano nitide. Il vento spirava talmente forte da darmi fastidio. Sibilava contro i miei timpani, portando cristalli di ghiaccio meteorico sul mio volto antico e petrigno.
Mi rapì un’improvvisa ondata di stanchezza. Bagliori remoti iniziavano ad accendere le nuvole. Fuochi fatui infiammavano le chiome del Dio della Tempesta, ne coglievo l’ultimo balenare giallastro proprio dove la tenebra diurna tendeva ad accumularsi. Tale era il muro d’ombra davanti a me, che decisi di tornare sui miei passi.
Giunto di nuovo nei pressi della villa romana, tutto mi sembrava differente. Non riuscivo a raccapezzarmi: ogni muro, ogni colonna dava al contempo impressione di familiarità e di stranezza. Voltando lo sguardo verso la grande sala dove ero già stato, rimasi abbacinato dal riflesso spettrale di una ragazza bionda che guardava intenta un lungo abito bianco appeso alla parete, ritorto in molteplici pieghe come spire di serpente. Potevo guardare attraverso quella sagoma, tanto era trasparente. In breve tempo la figura scomparve, disperdendosi nel Nulla da cui si era chissà come generata.
All’improvviso mi scosse un rumore assordante proveniente dall’etere cupissimo. Alzai di colpo lo sguardo chiedendomi cosa stesse mai accadendo. Quando compresi, rimasi paralizzato dall’orrore.
Una massa di uccelli gravava su ogni cosa, facendo brulicare di ali l’alto dei cieli. Turbini rimescolavano quella marea compatta di piume brune, e io ebbi l’impressione di trovarmi sull’orlo di un ciclone di proporzioni immani. I versi disperati che provenivano da milioni di gole mi facevano gelare il sangue nelle vene. Stava accadendo qualcosa di mostruoso, portento della Natura turbata, segno della Fine dei Tempi, annientamento di ogni utopia e di ogni umano ideale. Non ebbi nemmeno il tempo di muovermi, di fuggire via, di cercare riparo nella villa romana. Le prime formazioni di uccelli impazziti cominciarono a gettarsi giù a picco. Stridendo in modo atroce, si immersero nelle acque grigie e lutulente del mare.
Una volta inghiottiti dalle onde furenti, non cercavano in alcun modo di ribellarsi, non sbattevano le ali come l’istinto di conservazione avrebbe loro imposto. Simili a missili, conservavano la loro rigidità sprofondando fin nell’abisso.
Mi colpì un mortifero vento di empatia, e sentivo dentro di me, nel midollo, le sensazioni provate da quegli infiniti suicidi. Gli animali non facevano nulla per evitare il loro fato. Accoglievano il soffocamento, facendo entrare l’acqua caustica nei polmoni e negli stomaci, fino a morire in una lenta agonia. Alcuni arrivavano ancora moribondi sul fondo, cercando follemente di scavare col becco, fino a spirare in quella liquida oscurità inospitale.
Non era finita. Avevo gli occhi fissi sulla nemesi dei volatili, cristallizzati nella contemplazione dell’epifania tanatogena. Nuove moltitudini si mossero, un nugolo dopo l’altro, imitando i loro antesignani nella brama di annichilirsi. La catastrofe sembrava ripetersi infinite volte.
Ero sicuro che sarei presto bruciato nel delirio, tanto era la mia partecipazione viscerale a quello sconfinato massacro di esseri consegnati all’asfissia. La Natura doveva essere adirata, nella sua inumana potenza, per spingere a comportamenti così perversi. Ogni morte formava un microscopico tassello di un mosaico nero che si andava componendo nel mio cranio, un tassello rovente che si conficcava nella mia materia grigia, facendo sfrigolare la rete sinaptica. Emisi un urlo che, in quell’istante ne ero certo, nessun essere umano aveva mai emesso in tutta la storia di questo infelice pianeta, mentre le ultime orde alate sciamavano verso la distruzione del respiro nell’inferno subacqueo. 

Marco "Antares666" Moretti,
pubblicato sul sito connettivista Next-Station.org (2010). 

venerdì 24 giugno 2022

VENTO DI LIGURIA

Ricordo ancora nitidamente una violenta risonanza sensoriale, un flash che è stato per me come una finestra aperta su un diverso continuum. Mi trovavo in un periodo oscurissimo della mia miserabile esistenza, confinato mio malgrado in uno squallido paese chiamato Cardano al Campo. Camminavo per la via principale, diretto all’edicolante. Un’inaspettata ventata di Liguria onirica mi ha rapito. All’improvviso ero in un altro luogo. Vedevo portici di mattoni di pietra nuda scavati nei costoni di una montagna, con un cielo rilucente di giallo e di azzurro. Un mare di un turchese intensissimo ruggiva, i cavalloni che cercavano di raggiungere la via lastricata di selciato. L’odore di salsedine penetrava nelle mie narici, il verso dei gabbiani giungeva alle mie orecchie. Ma la cosa più sconvolgente di questa esperienza è che mentre la provavo ero un’altra persona. Avevo l’aspetto di una spia con occhiali neri e portavo con me una valigia il cui contenuto capivo essere di inestimabile valore. Quasi certamente consisteva in microfilm. Mi vedevo anche dall’esterno, come se avessi una coscienza extracorporea in grado di guardare la scena quasi fosse proiettata su un teleschermo. Il mio aspetto era molto diverso da quello che ho in realtà: ero un tipo mediterraneo, con i capelli brizzolati e la barba di due o tre giorni. Avrei potuto passare per una specie di gangster mafioso. I miei pensieri scorrevano in una lingua del tutto diversa dalla mia. In quel nido scavato all’interno di una manciata di secondi nella struttura del Tempo, ero persino ignaro di Cardano al Campo, della lingua italiana, dei miei ricordi. Poi, proprio come era venuta, quella percezione empatica si è dissolta per lasciare il posto al vuoto della mia routine. Ogni cosa mi appariva grigia in modo insopportabile, tanto che ho cercato con ogni sforzo di aggrapparmi alla memoria del mio stato alterato per recuperare quel mondo alternativo, quella Liguria con tutta la sua piena consapevolezza. Non ci sono riuscito, ma sono stato colpito da una fortissima sensazione di déjà vu: ho saputo che avevo già vissuto un’altra volta quelle stesse identiche sensazioni a Milano, mentre camminavo in Piazza del Duomo, sotto un porticato nei pressi della Rinascente. Venivo dalla galleria Vittorio Emanuele II, e nel fissare una colonna ero stato trasportato dalla tiepida brezza di sensazioni sconosciute. Anche in quell’occasione, un forellino nel sacco sensoriale si era chiuso proprio quando pensavo di essere riuscito ad impadronirmi del cronotopo e dei ricordi di questa mia esistenza parallela, impedendomi ogni altra agnizione. Poi c’era stata una specie di formattazione, di oblio. Eppure il déjà vu stesso era un canalicolo che dimostrava la natura complessa dell’evento, riportando in vita ciò che era sepolto. Adesso so per certo che un giorno riuscirò a compiere il salto, a trasferirmi fisicamente dall’altra parte. Verrà un ultimo flash, quello della discontinuità, quello del teletrasporto...

Marco "Antares666" Moretti

mercoledì 8 giugno 2022

UN OSTROGOTO IN IDAHO

Al banchetto nuziale della Principessa Amalaswintha, il nobile Hathureiks aveva bevuto troppo idromele e a causa della sua intemperanza si sentiva gonfio. Chiese così al Re Thiudareiks il permesso di alzarsi dal tavolo per andare a soddisfare i suoi bisogni corporali. Il Grande Re glielo concesse, e così Hathureiks si alzò ed uscì barcollante dalla sala. Dalle finestre entravano refoli di vento. L’aria di Ravenna era fresca, e presto sarebbe calato il tramonto. Mentre si avviava verso le latrine, il nobile inciampò e cadde a terra. Quando si risvegliò, con un gran mal di testa, si accorse con sorpresa di non trovarsi più nella dimora del Re degli Ostrogoti, Thiudareiks, bensì in un pagliaio. L’aria era cambiata, ora aveva una punta di freddo particolarmente fastidiosa. Hathureiks si mise a sedere e si guardò attorno. Tutto ciò che i suoi occhi incontravano gli pareva fuori luogo e stonato. La sua vista fu attirata da un paio di stivali verdognoli, fatti di un materiale che non aveva mai visto in tutta la sua vita. Mentre si domandava che razza di scarpe fossero e chi diamine potesse mai averle fabbricate, cercò di mettersi in piedi. All’improvviso si accorse che il suo gonfiore era sparito, e che anzi aveva una fame terribile, come se tutto il cibo e le bevande che aveva ingurgitato alla festa fossero state già smaltite da molto tempo. Cosa disdicevole per un arimanno, aveva perso la spada, la daga e la cintura. La sua splendida tunica era ora ridotta a brandelli, e anche delle brache non rimaneva granché. Si avviò verso l’ingresso, quando ecco che intravide la sagoma di un uomo.
Hathureiks lo fissò, incuriosito. Si vedeva che era un agricoltore, anche se gli abiti erano di una foggia mai vista prima. Somigliavano solo vagamente ai costumi di un uomo libero dei Goti, nel senso che comprendevano calzoni e una veste affine a una camicia - che non proseguiva oltre la cintola. Poteva star certo che il visitatore non fosse un romano, ma non riusciva a trovare alcun criterio per classificarlo.
- Dannazione! - esclamò l’agricoltore allibito - E tu chi diavolo sei? In vita mia non ho mai visto un uomo come te!
- Manna im Gutthiudos, gabaurans fram kunja Amale. Namo mein Hathureiks - fu la risposta dell’ostrogoto. Entrambi provarono la stranissima sensazione di capire qualcosa di ciò che l’altro aveva detto, pur non afferrando appieno il senso compiuto di ogni parola.
- Ha-thoo-reeks? Uno strano nome! Da dove vieni? - chiese il contadino. Dopo una breve pausa cercò di presentarsi: - Io sono Bernard Faine, di Glenns Ferry, Idaho.
- Ik qam hidre us thiudangardja Thiudareikis Mikilins - affermò Hathureiks cercando di articolare i suoni il meglio possibile, ma l’uomo dell’Idaho non capì affatto la sua risposta. Rimase pensoso per un attimo, mentre osservava l’aspetto di chi aveva di fronte. Era molto alto e magro, di una bellezza insolita per un abitante della Contea di Elmore. Aveva i capelli biondi sciolti che gli arrivavano fino alla cintola, una folta barba dello stesso colore e occhi cerulei. Se fosse stato lavato e agghindato nel modo giusto, le ragazze del paese se lo sarebbero conteso di certo.
La prima cosa che venne in mente a Bernard Faine sulla possibile identità di quel vagabondo fu che si trattasse di una specie di tedesco. Se non fosse stato per la sua strana lingua e i suoi vestiti decisamente inusuali, avrebbe potuto benissimo essere un cantante folk venuto dal Sud e colpito da amnesia.
L’avrebbe portato dai suoi vicini Amish perché gli chiarissero qualcosa, ma al momento era più urgente aiutarlo. Non sembrava essere nel pieno delle sue forze. A questo punto arrivarono il figlio e la figlia di Faine, fiorenti di robusta gioventù. Rimasero basiti nel vedere l’ospite, anche se a causa della loro giovane età non avevano ancora formato pregiudizi troppo solidi. Decisi a comunicare si presentarono, prima lui e poi lei, come Johnny e Kathrine Faine.
Per un istante gli occhi di Hathureiks si illuminarono come il cielo primaverile nel sentirli parlare con il loro accento piano, forse perché gli parve di capire almeno in parte cosa i due stavano dicendo. Qualche parola, qualche fonema frammentario che dimostrava una remota origine comune in quelle stringhe parlate mutuamente incomprensibili. A volte l’ostrogoto trasecolava nell’identificare qualcosa di familiare in mezzo a suoni che sembravano venire da un universo alieno, altre volte invece gli pareva di udire echi dell’ignota lingua latina.
Si presentò a sua volta ai due rampolli, ripetendo la stessa frase che aveva pronunciato per la prima volta davanti all’anziano capofamiglia. Più guardava i tre e più si convinceva che la loro stirpe fosse in qualche modo imparentata con quella dei Goti.
Bernard Faine chiamò sua moglie Ann, che propose a Hathureiks di lasciarsi accompagnare nella fattoria. Lì avrebbe avuto un bagno caldo e sarebbe stato rifocillato. Lui si lasciò docilmente guidare. Quando si fu lavato, gli furono donati abiti nuovi. Non fu facile trovarne della sua misura: alla fine fu rivestito con un elegante completo lasciato alla signora Faine dal suo primo marito all’epoca del divorzio. Non era certo perfetto, ma perlomeno non presentava difficoltà insormontabili all’atto di abbottonare la camicia e di tirare la cerniera dei pantaloni.
A tavola, di fronte a una ciotola piena di latte e di fiocchi di cereali, Hathureiks pronunciò una parola. - Miluks - disse. Bernard Faine ebbe un’illuminazione ed articolò il corrispondente termine inglese. Milk.
La pronuncia della sillaba era oscura, come ormai in tutti gli Stati Uniti, e suonava quasi mook, ma una traccia di articolazione liquida fu sufficiente all’ostrogoto per capire che si trattava di una parola molto simile a quella usata nella sua lingua nativa.
- Millooks - disse a sua volta il capofamiglia, cercando di imitare Hathureiks. - Millooks, latte - ripeté subito dopo, entusiasta.
Kathrine portò in tavola una brocca piena d’acqua. Hathureiks indicò subito il recipiente: - Wato! Thata ist wato!
- Acqua! Questa è acqua! - gli fece eco con gioia il sorridente Bernard Faine, sempre più convinto di aver risolto ogni problema di comunicazione. Water. This is water. La somiglianza era innegabile. Si fece il segno della croce e recitò la consueta preghiera di benedizione, come faceva ogni volta che si accingevano a mangiare. Mentalmente ringraziò il Signore per avergli mandato quell’ospite. Con grande sorpresa di tutti, anche Hathureiks si segnò e recitò quello che sicuramente doveva essere il Padre Nostro nella sua lingua.
- Atta unsar, thu in himinam, weihnai namo thein, qimai thiudinassus theins, wairthai wilja theins, swe in himina jah ana airthai. Hlaif unsarana thana sinteinan gif uns himma daga, jah aflet uns thatei skulans sijaima, swaswe jah weis afletam thaim skulam unsaraim, jah ni briggais uns in fraistubnjai, ak lausei uns af thamma ubilin; unte theina ist thiudangardi jah mahts jah wulthus in aiwins. Amen.
L’ingenua idea che Bernard Faine si stava facendo ne ricevette un po’ un colpo, in quanto la preghiera, pur riconoscibile, si mostrava molto diversa dal corrispondente inglese. Non solo, anche se somigliava di più a quella degli Amish che lui aveva sentito tante volte dai vicini, era comunque lontana. Se la base era di certo uguale a quella dell’inglese e del Pennsylvania Dutch, molte parole erano impenetrabili, e non vi si trovavano affatto termini familiari, che avrebbero dovuto essere simili in tutte le lingue di origine europea. Mentre il capofamiglia meditava su queste cose, l’ostrogoto stava mangiando a quattro palmenti, come se non avesse ingurgitato niente da molti giorni.
Non c’era altra soluzione: era necessario imparare il più possibile da Hathureiks. Nel frattempo disse al figlio di andare a chiamare Amos Guth, che di certo lo avrebbe aiutato a comprendere meglio la situazione. A volte la tecnofobia degli Amish lo angustiava, perché rendeva tutto dannatamente più complicato.
Ora che aveva calmato i morsi della fame, Hathureiks stava impiegando tutte le sue migliori risorse mentali per capire cosa diavolo gli fosse capitato. Una cosa era certa, al di là di ogni dubbio possibile: quello non era il Paradiso promesso dalla Chiesa Ariana, e neppure il Walhalla di cui parlavano i miti pagani della sua gente. Non poteva esserlo. Anche se si stava meglio e più in salute, non vedeva né Wodans né Thunrs sedere sui loro troni, né tantomeno le Orde dei Caduti banchettare. C’era invece gente dall’apparenza comune, che non aveva nessuna caratteristica soprannaturale e non era fatta di puro spirito come angeli e beati. Siccome la ragione doveva in qualche modo essere dei pagani o dei cristiani, si deduceva che quel paese - che contraddiceva ogni racconto - era un paese della Terra degli Umani, popolato da mortali proprio come il paese dei Franchi o quello dei Burgundi. Prova ne era, tra l’altro, il fatto che i nativi avevano bisogno di pregare per ringraziare Dio del cibo.
Doveva esserci stato un grande vento che lo aveva portato oltre le Grandi Montagne, le Alpi, per farlo volare lontano e precipitarlo in una nazione di cui non avrebbe neanche sospettato l’esistenza. Oppure aveva rivissuto l’esperienza dei Sette Savi Dormienti. Si raccontava quella storia persino nella Gutiskandja che aveva visto l’albore dei Goti. Sette cristiani, per sfuggire alle terribili persecuzioni dell’Imperatore Decio, si erano rifugiati in una terra impervia fino ad asserragliarsi in una caverna. Quindi un sonno profondo li avrebbe avvolti facendoli dormire per secoli. Una volta svegli, questi cristiani avrebbero avuto la sorpresa di trovarsi in un mondo che era andato avanti di diversi secoli, un mondo in cui la Fede di Cristo non era più perseguitata con ferocia.
Questa era l’ipotesi che Hathureiks riteneva più probabile. Di certo Bernard Faine non era il dio Wodans, altrimenti sarebbe stato monocolo e non si sarebbe di certo segnato. Ma restava un interrogativo. Se i Sette Savi erano stati fatti dormire da Dio che li voleva salvi dalla furia imperiale, che merito poteva avere lui, un nobile della Corte di Thiudareiks a Ravenna, per essere caduto in uno stato così prodigioso?
Mentre ruminava inconcludenti considerazioni, suonò un campanello. Hathureiks si mise in guardia, perché non aveva mai sentito un suono simile in vita sua. Poi capì che doveva essere l’equivalente del bussare sui battenti o del chiamare a gran voce, perché la porta fu subito aperta. Johnny entrò insieme a un uomo vestito di nero, che salutò e fu fatto accomodare. Bernard Faine lo presentò all’ospite come Amos Guth. Al sentire il suono di quel cognome, Hathureiks fu colto da una grande gioia, perché si pronunciava quasi come il nome del popolo dei Goti.
- Isu thu manna Gutthiudos? Istu razda thein razda Gutne? - gli chiese, pieno di trepidazione, aspettandosi una risposta nella stessa lingua, un appiglio alla realtà conosciuta.
Vedendo che l’uomo vestito di nero era basito e non proseguiva, si presentò brevemente: - Ik im Hathureiks Austragutne, sunus Walareikis Amale.
In realtà la sintassi era molto diversa da quella del Pennsylvanian Dutch, a prescindere da tutto, e l’Amish non la riconobbe; allo stesso modo non riuscì a distinguere i nomi propri di persona e di popolo dai nomi comuni.
- Che razza di tedesco è mai questo? - riuscì infine a dire, pur convinto al pari dell’anziano Faine che quell’idioma fosse in qualche modo connesso alla vasta famiglia delle parlate anglosassoni e germaniche. La giovane Kathrine chiese all’ostrogoto di recitare il Padre Nostro. Così si segnò e iniziò a pregare. Hathureiks, un po’ annoiato, fece altrettanto nella lingua dei Goti.
Come ebbe udito ciò, ad Amos Guth venne un sospetto. Si ricordava vagamente di aver sentito qualcosa di simile in televisione, molti anni prima. Solo che non ricordava il contesto. Si segnò e recitò la preghiera nella sua lingua avita.
- Unser Vadder im Himmel, dei Naame loss heilich sei, dei Reich loss komme. Dei Wille loss gedu sei, uff die Erd wie im Himmel. Unser deeglich Brot gebb uns heit, un vergebb unser Schulde, wie mir die vergewwe wu uns schuldich sinn. Un fiehr uns net in die Versuchung, awwer hald uns vum Iewile. Fer dei is es Reich, die Graft, un die Hallichkeit in Ewichkeit. Amen.
Però, ci siamo quasi, anche se continuo a non capire, pensò Bernard Faine. Amos Guth notò subito la sostanziale identità di diverse radici: unsar, in himinam, namo, thein, qimai, wilja, e via discorrendo, di cui gli balzava all’attenzione la somiglianza ad Unser, im Himmel, Naame, dei, komme, Wille.
Hathureiks dal canto suo si convinse che questo Guth, pur portando il nome delle genti della Gutiskandja, fosse in realtà della stirpe dei Franchi. Gli ricordava vagamente la parlata della prima moglie del suo Sovrano.
All’improvviso l’Amish si ricordò dove aveva sentito la preghiera recitata da Hathureiks. Una decina di anni prima, mentre si trovava proprio dai Faine, non aveva saputo resistere alla tentazione di seguire un programma alla televisione. Era un documentario in bianco e nero, che mostrava lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien in una singolare intervista. Prima di parlare al microfono, Tolkien si era segnato e aveva recitato proprio la stessa formula, anche se la pronuncia era un po’ diversa. Atta unsar... Conclusa la sua preghiera, intesa come esorcismo, l’autore del Signore degli Anelli aveva dichiarato senza mezzi termini che l’intero mondo tecnologico è Mordor, ossia l’Inferno. Questa posizione aveva trovato Guth perfettamente d’accordo. In seguito si era procurato i libri di Tolkien e li aveva letti con grande passione, ed aveva anche trovato traccia di quell’intervista. Aveva anche ritrovato i giornali della biblioteca che riportavano la notizia si diceva che l’esorcismo pronunciato contro i maligni poteri di un semplice microfono era il Padre Nostro in una lingua antica - anche se non ricordava più quale.
- Prendi subito il mio carretto e va’ da mia moglie! Dille che non sarò a casa per pranzo! - chiese a Johnny Faine. Quello che aveva scoperto era troppo importante.
Bernard capì all’istante, così portò in soggiorno un proiettore collegato ad un sofisticato lettore cd e al suo pc. Si mise alla testiera, pronto a registrare ogni output.
Dopo due ore tutti erano ancora lì, con gli occhi sgranati davanti allo schermo.
- Hunds! - disse Hathureiks indicando la figura di un cane. Tutti capirono che la parola dog gli era del tutto sconosciuta, ma riconobbero nel vocabolo da lui indicato il termine inglese hound, usato come lemma tecnico per indicare il segugio.
Quando tutti furono abbastanza pratici dell’altrui lessico di base, cominciarono a sorgere problemi. Amos Guth si rese conto che Hathureiks non poteva capire nessuna parola della lingua dotta, e i corrispondenti che forniva di fronte alle immagini proiettate erano del tutto dissimili. Quando comparve un altare, lui lo definì hunslastaths, mentre l’inglese altar gli suonava una parola aliena. Anziché un equivalente di sacrifice, usava la parola hunsl.
Tutta una serie di parole non gli evocavano assolutamente nulla, anche se qualche volta gli pareva di aver già sentito qualcosa che vi poteva somigliare. I suoi pensieri si arrestarono tutti di colpo quando udì il termine philosophy: non era forse quella Philosophia di cui il precettore Boethius aveva invocato così a lungo la consolazione? Ricordava sempre con affetto quell’uomo di immensa sapienza, così pensò bene di pronunciarne il nome, come per una sorta di associazione freudiana.
- Sebereinus Boethius! - disse. A Guth cadde il telecomando di mano. L’intera faccenda stava sfuggendogli di mano. Questo era decisamente troppo anche per lui.
- Ni kann ik hwat’ist filausaufja, ni thatohun hwat’ist, ak gaman ik thatei Boethius sinteino mathlida bi thizai waiht du alamannam, rodjands razda sildaleika.
Bernard Faine, che si era premunito di un registratore, riuscì a immortalare in un file mp3 quanto detto da Hathureiks. Presto la frase fu tradotta. Tramite la ricerca nella Rete, era stato trovato un dizionario i cui vocaboli collimavano con quelli raccolti. La lingua era etichettata come Gotico, ed era indicata come l’idioma usato da Wulfila per la sua famosa traduzione della Bibbia. L’ostrogoto aveva detto di non sapere cosa fosse la filosofia, di non averne la minima idea, ma di ricordare che Boethius ne parlava sempre a tutti, usando una lingua meravigliosa - e si suppone non comprensibile ai suoi ascoltatori.
Ma com’era possibile tutto questo? Non aveva il benché minimo senso, e su questo sia Faine che Guth concordavano. Non era possibile anche solo pensare che un uomo potesse essere prelevato dall’epoca dei Regni Barbarici e scaraventato nell’Idaho del XXI secolo. Il caso più simile sarebbe stato quello di John Titor, il crononauta che a quanto pare era venuto dal futuro di una linea temporale parallela. Se ne era parlato molto a lungo, senza mai poter arrivare a conclusioni certe. Eppure anche questa analogia sembrava forzata, dal momento che Hathureiks non era giunto dal futuro, bensì dal passato, e non era stato certo sbalzato dal suo cronotopo per mezzo di una qualche tecnologia.
Soltanto dopo una lunghissima discussione Bernard Faine riuscì ad averla vinta e a convincere Amos Guth della plausibilità della teoria del wormhole. Un cunicolo spontaneo si sarebbe formato come un ponte in grado di connettere due regioni molto distanti dello spaziotempo, e un evento estremamente improbabile era occorso: un essere umano ci era passato dentro senza averne alcun danno, riapparendo in un altro luogo e in un altro secolo. Sulla natura di questo cunicolo, regnava il buio concettuale più assoluto.
Una cosa era certa, quale che fosse l’origine di questo incidente cosmico: degli agricoltori di Glenns Ferry non potevano assolutamente gestirlo, pur con tutta la loro buona volontà e la loro istruzione autodidatta. Esisteva una sola alternativa: dovevano recarsi al più presto all’Università dell’Idaho, a Boise. Lì avrebbero potuto di certo sottoporre Hathureiks all’esame di ogni genere di luminari.
Bernard Faine telefonò a Julius Schulz, un suo cugino che lavorava al Dipartimento di Fisica, e gli descrisse in dettaglio la complessa situazione in cui si era venuto a trovare così all’improvviso. Decise che sarebbero partiti la mattina prima dell’alba con la sua macchina, in quanto un viaggio con il carretto di Guth non sarebbe stato auspicabile. Assieme a sua moglie Ann, preparò ogni cosa in fretta e furia. Un solo giorno non sarebbe bastato di certo, così prese con sé un po’ di soldi.
Quando arrivarono al campus, Julius Schulz era già lì ad attenderli, pieno di trepidazione per l’eccezionalità della scoperta che gli avevano comunicato.
- Salve Julius! - lo salutarono. Lui rispose al saluto e strinse loro la mano.
- Questo è Hathureiks l’Ostrogoto! - disse Amos Guth presentando il viaggiatore nel tempo. Era davvero imponente e di una virile bellezza che lo facevano spiccare tra molti uomini, e lo studioso dovette riconoscerlo. Per un attimo nella sua mente si agitò l’idea che Hathureiks rappresentasse un essere primordiale e incontaminato, e che dai suoi tempi l’intera umanità fosse molto degenerata. La consunzione genetica, pensò, per poi cacciare in un angolo del cervello questa locuzione.
- Hails! - disse con impeto Hathureiks. Strinse la mano di Schulz, anche se tra il suo popolo quello non era un saluto, bensì un modo di sancire un contratto. La rapidità con cui aveva imparato molte cose, tra cui l’uso delle forchette, era sorprendente. Pur capendo abbastanza bene l’inglese essenziale, aveva difficoltà ad articolarne i suoni sfuggenti e preferiva usare la lingua dei suoi Padri.
- Non avrei mai pensato di sentire pronunciare la lingua di Wulfila dalla viva voce di un suo parlante! - disse Julius Schulz. Quella singola parola, hails, gli faceva una strana impressione, come di sfasamento. Conosceva bene i Faine e i Guth, e sapeva che erano persone di onestà cristallina, così non gli era mai venuta neanche di striscio l’idea che la faccenda potesse essere un complicato imbroglio.
- Anche per noi è stata una sorpresa, di quelle che non possono che capitare una volta sola nel corso di una vita! - concordò l’Amish.
Bernard Faine propose di andare a mangiare qualcosa, e l’invito fu da tutti ben accolto. Julius Schulz li guidò alla mensa universitaria. Mentre mangiavano, discussero di innumerevoli dettagli. Ogni circostanza fu spiegata più volte con comodo davanti a una birra e a un hamburger, destando un’impressione sempre crescente nel membro del Dipartimento di Fisica. Pur avendo le idee ancora confuse, Bernard Faine fece vertere la conversazione sull’ipotesi del wormhole, chiedendo a suo cugino se un evento simile fosse possibile o se si trattasse di una mera farneticazione fantascientifica.
- In teoria un wormhole dovrebbe formarsi a causa del collasso di una stella supergigante - spiegò Schulz - Una stella con una massa talmente grande da impedire persino la formazione di un orizzonte degli eventi. Uhmm, mi aspetterei di trovarne uno in una regione dello spazio profondo, non certo qui sulla Terra.
Nonostante sempre più voci lo attaccassero nella comunità scientifica, il Principio della Censura Cosmica godeva ancora di un certo credito, e pochi fisici amavano discuterne in pubblico senza un intenso sentore di disagio. Per non parlare della teoria dei Molti Mondi, che era riprovata e tacciata di eresia dagli organi di controllo del pensiero accademico.
Eppure in un qualche modo questa anomalia, questo essere sconveniente, bisognerà pur spiegarlo, pensò il fisico depresso.
- Statemi a sentire - disse dopo una lunga pausa - Dobbiamo cominciare a sottoporre Hathureiks a tutta una serie di esami. Lo porteremo dai medici e dai biologi, che dovranno sottoporlo ad analisi del sangue, elettroencefalogramma e mappatura genetica approfondita. Posso far sì che al caso sia data la massima priorità.
Faine era ansioso di conoscere la verità. - Per noi non ci sono problemi - replicò - Spero che potremo restare al campus per tutto il tempo necessario.
- Certamente - lo rassicurò Julius Schulz - Siete miei ospiti. Dopo le analisi fisiologiche dovremo portarlo al dipartimento di Linguistica e poi a quello di Psicologia. Il soggetto sarà sottoposto a regressione ipnotica.
- Potremo consultare liberamente tutte le informazioni che saranno così ottenute, o sarà un segreto di Stato? - domandò Amos Guth. - Spero che non interverranno i Militari - aggiunse Bernard Faine, angosciato da una simile prospettiva. Più di una volta l’Esercito era intervenuto sottraendo ed occultando per sempre conoscenze che sarebbero state di diritto un patrimonio dell’umanità.
Lo studioso li rassicurò: - Vi posso garantire che avrete libero accesso a tutti i risultati delle analisi, e che l’Esercito non ne saprà nulla. Dopo aver fatto tutti questi studi, verrete da me insieme a Hathureiks al Dipartimento di Fisica. Farò venire anche un filosofo.
Fu così che il nobiluomo ostrogoto fu consegnato all’Università dell’Idaho per gli accertamenti. Ogni volta che finiva un esame e che i risultati venivano elaborati con la massima celerità, Faine e Guth ne venivano informati. Un universitario era stato incaricato da Julius Schulz di spiegare loro ogni cosa, pur senza scendere troppo in incomprensibili dettagli tecnici, in modo che non ci fosse nulla di nascosto.
Ogni test non fece altro che confermare l’origine di Hathureiks. Le tutte le sequenze del DNA mostravano compatibilità con quelle estratte dal materiale archeologico tramite le più moderne tecnologie. Non c’erano dubbi, quello era un membro della famiglia degli Amali, un consanguineo stretto di Thiudareiks, Teodorico il Grande. I marcatori genetici confermavano l’origine scandinava della dinastia. Il sistema immunologico dimostrava che non apparteneva agli ultimi secoli della Storia umana, e per impedire l’insorgere di malattie anche gravi a partire da banali incidenti gli furono iniettati molti sieri. Anche la tolleranza al fondo radioattivo era esigua: se non fossero intervenuti prontamente, sarebbe di certo morto di leucemia o di cancro nel giro di pochi mesi.
- Tu non sai il pericolo che stavi correndo, ragazzo biondo! - gli dicevano sempre i medici con simpatia. Ormai era un simbolo per l’Università, e tutti gli volevano bene. La sua incredibile mitezza contraddiceva tutti i luoghi comuni sui cosiddetti Barbari. Coloro che chiamavano vandali i devastatori e gli imbrattatori, si sarebbero di certo stupiti non poco nel sapere che un uomo così buono era un parente stretto proprio del popolo dei Vandali.
Quando Hathureiks passò al Dipartimento di Psicologia, divenne presto una miniera di informazioni. Tutto ciò che diceva in stato di ipnosi era accuratamente registrato su supporto digitale, trascritto e inviato a una moltitudine di studiosi. Ne emersero l’intera versione della Bibbia di Wulfila, una quindicina di poemi epici pagani del tutto sconosciuti, che parlavano delle origini dei Goti e delle mitiche imprese dei loro sovrani, più un centinaio di bellissime poesie. Alcune erano struggenti, come il Canto di Berigs, altre erano resoconti di battaglie e di antichi massacri.
Il tempo passò. Ci furono poche novità, a parte le telefonate furibonde di Ann Faine che reclamava suo marito, spalleggiata dalla famiglia Guth. Hathureiks in quei giorni era felice come mai era stato nella sua vita passata, e si divertiva a giocare a football americano nella squadra universitaria. Dicevano che sarebbe diventato un campione di importanza mondiale, in quanto senza bisogno di doparsi conseguiva ottimi risultati e ci metteva un immenso entusiasmo. A dispetto della sua fisionomia segaligna, aveva una grande forza, superiore alla media. Era un eccezionale compagno di banchetti per gli studenti. Quando scoprì il whiskey divenne subito un suo fervido estimatore, dichiarando che nemmeno la bevanda più fine servita alla Corte di Thiudareiks poteva competere con quel potente liquore nato dal fuoco. I suoi successi con le donne erano già leggendari dopo una settimana. Ogni notte andava a trovare due o tre ragazze diverse, una dopo l’altra. Si fece la reputazione di uno stallone instancabile, di un amante che tutte si sarebbero contese anche a costo di usare le unghie.
Quando Bernard Faine ed Amos Guth furono convocati nell’Aula Magna, vi trovarono una rappresentanza dell’intermo ambiente accademico di Boise. Professori insigni erano giunti dalla California salendo sul primo aereo.
- Ragazzi, voi diventerete famosi! - disse loro Julius Schulz - Hathureiks è giunto qui da un cronotopo del tutto diverso, e con il suo prezioso contributo ha fatto progredire incomparabilmente molte scienze.
- Immagino che per questo non potrete ridarcelo - azzardò Amos Guth.
- Dobbiamo mandarlo all’Università della California, e credo che vorranno fargli fare il giro del mondo - rispose il fisico - Se resterà tempo.
- Come sarebbe a dire se resterà tempo? - chiese Bernard Faine.
- Quando i Professori avranno finito il loro discorso, venite nel mio ufficio al Dipartimento di Fisica, così vi spiegherò in dettaglio cosa ho scoperto - disse suo cugino, con tono sibillino. I due ebbero uno strano presentimento, ma non dissero nulla. Il discorso, ampolloso e contorto, durò più di un’ora. La cerimonia terminò con abbracci e baci accademici. Sia a Bernard Faine che ad Amos Guth fu conferita una laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere.
Verso sera si recarono da Schulz. Questi li accolse con aria grave e li fece entrare. La sensazione che qualcosa non andasse si intensificò.
Si accomodarono, e il fisico chiese loro se volevano un bourbon. Consapevoli della gravità della situazione e prevedendo una seduta difficile, entrambi accettarono con piacere.
- Nessuno sembra averci pensato - esordì Julius Schulz - In qualsiasi modo Hathureiks sia giunto fin qui dal suo tempo di origine, ora è nel nostro Universo un elemento estraneo. I bilanci di massa-energia non tornano più per causa sua. Può sembrare una cosa insignificante la presenza di un uomo in più in un cosmo tanto vasto, ma qui si viene a toccare la quantistica.
- Temo di non avere nozioni sufficienti per capire argomenti tanto difficili - disse Faine - Figuriamoci poi il mio amico, che notoriamente condanna il mondo moderno, vivendo come nel XVIII secolo.
- Cercherò di spiegarmi in termini più semplici - lo tranquillizzò Schulz - Immagina che tutto l’Universo sia una nuvola composta da innumerevoli goccioline microscopiche. Queste goccioline formano strutture confuse che sono tutte governate però da leggi ferree che non ammettono eccezioni. Che non devono ammetterne.
- In altre parole - disse Amos Guth - Stai parlando di un Disegno Intelligente. Pensavo che voi scienziati negaste Dio.
- Mettiamola così - rispose lo studioso - Nell’ordine che governa il cosmo, tutto è stabilito dai numeri. Se pensi che sia Dio la causa di ciò, per me va benissimo, non è questo il problema. Il problema è che questi numeri, sono etichette che descrivono le goccioline di cui stiamo parlando. Ognuna ha determinati numeri che la distinguono. Il punto è che tutti questi numeri sono tra loro legati. Se ne cambia uno, devono cambiare anche tutti gli altri, all’istante. Cosa accade ora se anche una singola gocciolina che non appartiene all’Universo vi capita dentro per sbaglio? Se una regola che non ammette eccezioni viene difatto violata? Ci sono due soluzioni soltanto. O la gocciolina estranea si dissolve sparendo nel nulla, o viene intaccata e decade l’intera struttura dell’Universo!
Faine era perplesso. - Continuo a non capire - borbottò. In realtà un guizzo una specie di campanello di allarme stava suonando all’impazzata nel suo cranio.
Julius Schulz continuò la sua esposizione.
- Il filosofo Philip Kindred Stein mi ha dato la conferma di tutte le mie deduzioni, gli sembra tutto plausibile. Hathureiks è una chimera, un masso erratico caduto qui da un regno che per quanto ci riguarda dovrebbe appartenere alla non-esistenza, in quanto assolutamente separato dalla struttura olografica del nostro Continuum. Nel migliore dei casi, l’ostrogoto comincerà ad ammalarsi e si disgregherà fino a cadere in polvere e a svanire. Se questo non accadrà, tutto ciò che vediamo sarà condannato. Tutto. Noi, l’intero pianeta, il sistema solare, la nostra galassia, tutto ciò che esiste fin oltre gli oggetti quasi stellari più remoti. Non ci sarà scampo, l’opera che i religiosi pensano essere di Dio sarà corrotta e diverrà un tremolio nel Nulla per poi tacere in eterno.
- Questo Universo potrebbe non avere difese immunitarie sufficienti, potrebbe cadere in trappola - proseguì - Guai se la struttura di Hathureiks fosse stata incorporata nell’Ologramma. Quanto vengo a sapere è molto preoccupante. Mi risulta che abbia amato molte ragazze, e qualcuna di loro potrebbe portare il suo seme nel ventre.
Un terrore abissale si dipinse sui volti di Faine e del suo amico.
- Credo che adesso dovremmo andare da lui e stargli vicini - disse Amos Guth alzandosi dalla sedia. Mentre si avviava alla porta insieme a Bernard Faine, l’occhio gli cadde su un quadro appeso alla parete. Una riproduzione del Violinista di Chagall. Un pezzo di cornice era stato smangiato, come se dei grossi tarli lo avessero rosicchiato. Trasecolando, l’Amish si avvicinò al dipinto, notando la natura frattale di quello sfregio.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 2 giugno 2022

ARCHEOLOGIA TRANSUMANISTA

1. Non licet esse Christianos

Il Dipartimento di Archeologia Sperimentale Transumanista dell'Università di Colonia ferveva di attività. Al team della Dottoressa Louise Kenzler era stata chiesta una ricostruzione minuziosa di un antico marchingegno: un microchip sottocutaneo che all’epoca dell’Imperatore Traiano veniva usato per spiare gli imputati sospettati di Cristianesimo. Ancora non si riusciva a ricostruire l’insieme delle conoscenze cibernetiche dell’Antica Roma, ma tutte le ricerche portavano a supporre che l’Intelligenza Artificiale fosse già molto avanzata nella prima epoca imperiale. Le tecniche di localizzazione indoor furono portate al massimo sviluppo sotto l’Imperatore Decio: sembra che i pochi Paleocristiani scampati alla sua persecuzione siano riusciti a salvarsi per via di un satellite difettoso. Ecco spiegata la leggenda dei Sette Dormienti di Efeso. I superstiti, liberi dal monitoraggio si erano immersi in un sonno criogenico, probabilmente in una cella frigorifera che si trovava nelle profondità di una montagna cava.
Mentre la Dottoressa Kenzler si stava dedicando all’impostazione di un nuovo loop temporale, suo fratello Ulrich entrò nel laboratorio. Il suo volto era abbronzato in seguito a una settimana bianca sull’Himalaya. Era ancora vestito con il completo sciistico, con tanto di reattore dorsale e di stivali completi di retrorazzi. Baciò l’amata sorella e andò nel retro a cambiarsi. Presto sarebbero cominciati i diverbi.

2. Facebook e l’Imperatore Costantino

Il Vescovo di Roma, Silvestro, entrò trafelato nella Stanza Imperiale del Divino Costantino. Aveva un pc portatile con sé, dell’ultimo modello. Come fu ricevuto, mostrò subito all’Imperatore il risultato della sua ricerca in Google.
Vi compariva un commento che Flavio Valerio Costantino aveva lasciato su un blog dieci anni prima. Le lettere latine comparivano come un marchio d’infamia destinato a durare nei secoli, forse per sempre. Eccone la traduzione imbarazzante: Che si fottano i Cristiani e la loro superstizione sanguinaria! Decio non ha finito il suo lavoro!
L’avatar rimandava all’account di Flavius_V_Constantinus, univocamente associato proprio a lui, al figlio di Costanzo Cloro. Era una situazione al limite del surreale, e ora il Vescovo di Roma gliene chiedeva conto. Come poteva questo spietato bestemmiatore fare ora voto che tutti i suoi sudditi seguissero quella che impudentemente chiamava la sua religione? Che faccia tosta di un voltagabbana opportunista! Altro che conversione!
L’Imperatore Costantino salutò il Vescovo Silvestro con un cenno e gli disse di aspettare. Stava discutendo animatamente con la sua concubina, Minervina.
- Guarda che ti ho beccato con quella troia che adesso ha distrutto il suo profilo! - strillò la donna, in preda a un’evidente crisi isterica. La gelosia la divorava.
Un tempo, quando Caio Giulio Cesare era ancora un frugoletto, si stava meglio: non erano ancora giunti i Crononauti ad appestare il mondo con i loro maledetti pc portatili connessi alla Grande Rete Intercosmica. Già quando Cesare era giovane le cose stavano precipitando. Il filmato che lo ritraeva mentre dava in escandescenza perché stava perdendo i capelli era diventato un mito ed era giunto persino nelle terre oltre il Mare Oceano. I Galli e i Libi sghignazzavano vedendo il monarca effeminato scagliare lontano il pettine pieno di capelli e di forfora dopo essersi tinto e cotonato.
“Accidenti ai Crononauti!”, pensò Costantino, fremente per l’ira. “Per colpa loro ogni singolo pensiero lasciato in giro in un attimo di esuberanza rimarrà registrato e documentabile per l’eternità!”
A questo punto il Regista diede il segnale di stop. La simulazione tridimensionale si spense all’improvviso e la rete sinaptica empatica dei sequenziatori fu lasciata in standby. La pausa sarebbe durata due ore, poi sarebbe stata avviata una nuova procedura di calcolo. Anche per quel giorno i Ricostruzionisti avevano fatto un ottimo lavoro. Tutti sapevano che non era facile scavare in quei perigliosi meandri storici, ma alla fine con la tenacia si riusciva sempre a rievocare tutto con precisione micrometrica. Ancora qualche piccolo sforzo, e il backup delle più importanti personalità umane scomparse sarebbe diventato una realtà acquisita.

3. L’epopea del Vescovo Ambrogio

Yoshio Okahata osservava il portone del Duomo di Milano che recava plasmata nel bronzo la vita del Vescovo Ambrogio. In particolare fu colpito dalla penitenza dell’Imperatore Teodosio, inginocchiato davanti ad Ambrogio. Quanto era realistico quel fregio coperto da antica ruggine verdognola! Teodosio contrito dettava qualcosa, mentre Ambrogio lo trascriveva tramite il suo pc portatile. Un Compaq, era evidente. Forse sarebbe stato meglio dire Compaquus, perché si pensava che all’epoca i marchi avessero quasi tutti un suffisso –us poi caduto. Il rito penitenziale sarebbe stato pubblicato su tutti i principali quotidiani online in tempo reale. Il turista giapponese si domandò dove poter reperire le copie di backup di quegli archeositi web ormai scomparsi da tempo immemorabile: era uno storico di fama mondiale, giunto a Milano per studiare le testimonianze del tardo Impero Romano. Scavare nelle polverose miniere di dati era la sua passione, e una commozione sincera lo coglieva fino alle lacrime ogni volta che riportava alla luce qualche dato coerente da quell’oceano di bit fossili.
Quanto era realistico il fregio sulla parte inferiore del portone bronzeo, che illustrava Ambrogio apparso miracolosamente mille anni dopo la sua morte nel bel mezzo della Battaglia di Parabiago! Il Vescovo adorno di porpora impugnava il pastorale, fiero sul suo cavallo impennato, trasmettendo gli ordini attraverso un cellulare Nokia. Gli storici erano quasi all’unanimità sicuri che quello smartphone fosse un Nokia, anche se esisteva uno zoccolo duro di oppositori che sostenevano si trattasse di un Panasonicus.
Si stava facendo tardi. Un bip proveniente dall’orologio da polso scosse Yoshio Okahata dai suoi sogni ad occhi aperti. Il suo tempo libero era appena scaduto, adesso doveva tornare all’Archivio Storico per il turno serale. Per certi versi il suo lavoro non era dissimile da quello degli antichi minatori, solo che si occupava di estrarre dati preziosi che rischiavano altrimenti di andare perduti senza rimedio. Mentre si avviava a passi sostenuti verso il grande palazzo dell’Archivio Storico, Yoshio si sentì fiero di se stesso e del suo prezioso lavoro. Era grazie a persone come lui che la Memoria del Genere Transumano continuava ad esistere.

4. Transhumanist Commercial Partnership 
 
Occhi azzurri come l’antico cielo. Penetranti, abissali, vere e proprie porte su un mondo alieno. Sguardo torvo, sopracciglia inarcate. Baffetti inconsueti, capelli corvini impomatati. All’ultimo piano di un grattacielo di New York, il Direttore della TCP smanettava al suo laptop, seduto su una scrivania di rovere sintetico plasmato da fibre plastiche metallorganiche nei Laboratori dell’Immortalità. Cravatta rossa, lunga. Camicia bianca. Sul lato destro della sua camicia candida pendeva un tesserino di riconoscimento. A sinistra c’era il logo dell’azienda, con l’antico geroglifico IBM bene in vista. A destra recava impresso il nominativo. HITLER, Adolf. Sotto c’era una piccola foto dell'Amministratore Delegato, utile per un riconoscimento immediato, qualora ce ne fosse stato bisogno. Sullo schermo del laptop la chat era accesa. All’altro capo Josif Stalin rispondeva ai messaggi.
Il grande schermo si affievolì e divenne bianco come l’antica neve, ormai da tempo immemorabile scomparsa. Anche l’immagine di Adolf Hitler svanì. Il Ricostruzionista si rivolse al pubblico, esponendo le sorprendenti difficoltà incontrate nella rievocazione di quello che un tempo era noto come “XX-XXI secolo”, che ora tutti conoscevano come Primo Transumanismo. Eppure gli eventi accaduti in quei decenni erano stati fondamentali per la definizione della Nuova Era, il balzo prigoginico che aveva portato alla rapida nascita della Nuova Specie. Nell’udire le parole del Ricostruzionista, dal pubblico salì qualche borbottio. Il Dottor Andrew Gross, che era seduto all’ultima fila, meditò stancamente sul Principio di Indeterminazione di Heisenberg, pensando che forse era già troppo tardi.

Marco "Antares666" Moretti