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sabato 20 agosto 2022


LA MALA ORDINA 

Titolo originale: La mala ordina 
Titolo in inglese: The Italian Connection 
AKA: Manhunt in the City; Manhunt in Milan 
Lingua originale: Inglese
Paese di produzione: Italia, Germania
Anno: 1972
Durata: 97 min
Rapporto: 1,66:1
Genere: Noir, thriller, gangster
Regia: Fernando Di Leo
Soggetto: Fernando Di Leo
Sceneggiatura: Fernando Di Leo, Augusto Finocchi,
     Ingo Hermes
Produttore: Armando Novelli, Ermanno Curti
Casa di produzione: Cineproduzioni Daunia 70, Dear Film
     Produzione, Hermes Synchron
Fotografia: Franco Villa
Montaggio: Amedeo Giomini
Musiche: Armando Trovajoli
Scenografia: Francesco Cuppini
Costumi: Francesco Cuppini 
Trucco: Antonio Mura 
Supervisore alla produzione: Luciano Appignani, 
    Vincenzo Salviani 
Direttore di produzione: Lanfranco Ceccarelli 
Reparto artistico: Tino Avelli, C. Sormani 
Reparto sonoro: Goffredo Salvatori 
Effetti speciali: Basilio Patrizi  
Guardaroba: Alain Reynaud 
Reparto editoriale: Ornella Chistolini  
Continuità: Vivalda Vigorelli 
Interpreti e personaggi: 
    Mario Adorf: Luca Canali
    Henry Silva: David Catania
    Woody Strode: Frank Webster
    Adolfo Celi: Don Vito Tressoldi
    Luciana Paluzzi: Eva Lalli
    Cyril Cusack: Corso
    Franco Fabrizi: Enrico
    Sylva Koscina: Lucia Canali 
    Laura Wendel: Rita Canali
    Francesca Romana Coluzzi: Trini
    Femi Benussi: Anna*
    Peter Berling: Damiano
    Giuseppe Castellano: Piero Panunzio
    Giuliano Petrelli: Francesco
    Domenico Cianfriglia: Gustavino
    Pasquale Fasciano: Dog
    Giovanni Cianfriglia: Peppiniello
    Gianni Macchia: Nicola
    Jessica Dublin: Miss Kenneth
    Empedocle Buzzanca: Vice di Don Vito
    Omero Capanna: Scagnozzo di Don Vito
    Ulli Lommel: Guardiaspalle in corridoio 
    Renato Zero: Hippy con la bombetta
    Franca Sciutto: Ballerina
    Sergio Ammirata: Carlo, il cameriere sodomita 
    Ettore Geri: Barista della discoteca  
    Andrea Scotti: Garo 
    Vittorio Fanfoni 
    Franca Sciutto 
    Pietro Ceccarelli: Scagnozzo di Don Vito 
    Alberto Fogliani: Scagnozzo di Don Vito in garage 
    Enrico Chiappafreddo: Scagnozzo di Don Vito con Nicola  
    Sergio Ammirata: Carlo 
    Lanfranco Ceccarelli: Insegnante di scuola 
    Liliana Chiari: Prostituta 
    Guerrino Crivelli: Barista 
    Fernando Di Leo: Passante 
    Lina Franchi: Prostituta 
    Claudio Morabito: Delinquente 
    Martina Orlop: Ballerina bionda in topless 
    Virgilio Ponti: Pappone 
    Giuliana Ruffini: Prostituta 
    Clemente Ukmar: Barone 
    Mira Vidotto: Prostituta 
    *Nella versione in inglese è Nana, ma nel film in italiano
    si sente in modo nitidissimo Anna
Doppiatori originali:
    Stefano Satta Flores: Luca Canali
    Sandro Iovino: David Catania
    Bruno Alessandro: Frank Webster
    Antonio Guidi: Don Vito Tressoldi
    Noemi Gifuni: Eva Lalli
    Gabriella Genta: Lucia Canali
    Ludovica Modugno: Trini
    Gino Donato: Damiano
    Giorgio Piazza: Corso 
Titolo provvisorio: Ordini dall'altro mondo 
Titoli in altre lingue: 
   Tedesco: Der Mafia-Boss - Sie töten wie Schakale 
   Francese: L'Empire du crime 
   Spagnolo (Spagna): Nuestro hombre en Milán 
   Lituano: Žmogaus medžioklė 
   Russo: Охота на человека 
   Serbo: Po naređenju podzemlja 
   Turco: Gangsterler çarpışıyor 
   Giapponese: 皆殺しハンター (Mina-goroshi Hanta) 

Trama: 
Primi anni '70. Milano brutale e corrotta, ma illuminata da un pallido sole primaverile. Due sicari, l'inespressivo Dave Catania e il colossale mandingo Frank Webster, vengono inviati da New York a Milano dal loro boss Corso, con la missione di trovare e uccidere Luca Canali, un piccolo magnaccia accusato di aver sottratto un carico di eroina della mafia. Il locale boss mafioso Don Vito Tressoldi è sconvolta dall'intrusione degli americani nel suo territorio, ma è costretto a stare al gioco dando ordine di consegnare loro Canali. Schiera così una rete di spie e informatori in tutta la città per trovarlo, ma questi riesce a eludere tutti per un pelo. Per il pappone ha inizio una precipitosa fuga, anche se i suoi stessi amici si rivoltano contro di lui. Tra questi, uno strano sodomita biondiccio, che cerca di consegnarlo ai picciotti.  
Si scopre che il carico di droga è stato effettivamente rubato da Don Vito, che ha provveduto a incastrare Canali, scegliendolo perché è un "pesce piccolo", dotato di bassa "statura criminale". A un certo punto il boss maligno ricorre all'uccisione della moglie e della figlia di Canali per attirarlo allo scoperto. Infuriato, Canali scatena una violenta vendetta contro la mafia, facendo fuori i membri della gang e infine uccidendo lo stesso Don Vito con una revolverata nel cuore, nel suo stesso ufficio. Si tratta di una vera e propria esecuzione: il boss ammette di essersi gravemente sbagliato sulla "statura criminale" di Canali e sulle sue capacità. Così, capendo di aver perduto il suo "onore", chiede di essere soppresso.  
Canali conduce Catania e il mandingo gigantesco, Webster, a uno scontro finale in uno squallidissimo cantiere di demolizione di automobili, dove riesce a ucciderli entrambi, pur rimanendo gravemente ferito nella lotta. Esausto, Canali crolla sul posto di guida di un mezzo d'opera dotato di artigli meccanici, lasciando il finale ambiguo, senza che lo spettatore possa capire se riuscirà a sopravvivere o se le sue ferite sono mortali. 


Recensione: 
Questo film è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia del milieu del regista Di Leo, dopo Milano calibro 9 (1972) e seguito da Il boss (1973), quest'ultimo ambientato in una Palermo anomala, perennemente notturna.   
Il soggetto de La mala ordina è stato tratto dalla raccolta di racconti noir Milano calibro 9 dello scrittore e giornalista di origine ucraina Giorgio Scerbanenco. In particolare, si riconosce facilmente la trama del racconto Milan by Calibro 9
"David e Frank Drewer, killer americani, si recano a Milano per uccidere Giordano, un malavitoso locale. Guidati per i locali della città da una ragazza di nome Francesca, i due killer portano a termine il loro incarico."
(Fonte: Wikipedia) 
Potente, adrenalinico, pervaso in ogni fibra dal profondissimo nichilismo antropologico che costituisce una caratteristica fondante dell'opera di Fernando Di Leo. Il mondo è come una massa di cibo attaccato e corrotto dai bruchi delle tarme: non si trova nemmeno una sua particella che non sia contaminata dall'oscena masticazione dei parassiti e dai loro escrementi! 
Superlativo il grandissimo Mario Adorf! In lui agisce la Forza della Sopravvivenza, che è qualcosa di inenarrabile nella sua coercizione. Egli, colpito da fati avversi, vorrebbe porre fine al tormento degli eventi, ma non gli è concesso di fermarsi neppure per un attimo, pena la morte! Così, tesissimo come un cavo di fibre d'acciaio, diventa una spaventosa macchina di guerra e di morte. L'eroismo entra nelle sue membra e gli permette di aver ragione dei suoi nemici, seppur a carissimo prezzo!  
Ottimo anche Adolfo Celi nel ruolo del Padrino, con quel faccione sardonico e quegli occhi cerulei da cui irradia l'Abisso del Male! Mefistofele ha presieduto alla nascita del personaggio, assieme a tutti i Demoni del Gran Consiglio dell'Inferno!  
Henry Silva è un corpo senz'anima, una specie di golem. Non si scorge alcuna luce nei suoi occhi incapaci di qualsiasi minimo movimento! Agisce spinto da una volontà demoniaca, eseguendo con membra zombesche i comandi che giungono dall'Oltre. 
Il mandingo Woody Strove è reso ancora più odioso dal suo salutismo fanatico, che lo spinge a rifiutare anche una singola goccia di alcol. Parafrasando il Sommo Lovecraft, le sue braccia sono vere e proprie zampe anteriori! Le sue mani sono macine in grado di stritolare. 
Sylva Koscina, è splendida e ha un portamento nobilissimo, anche se mi sembra un po' afflittiva, forse per via del suo ruolo di ex moglie. Terribile la scena in cui viene investita e uccisa assieme alla figlia - una scena che dovrebbe far riflettere chi si culla nell'illusione di una mafia che non uccide donne e bambini. 
Eva Paluzzi è una bellissima fulva, ma trovo il suo personaggio troppo passivo, troppo remissivo. Purtroppo fa una brutta fine, come un agnello sacrificale condotto allo scannatoio. 
Francesca Romana Coluzzi interpreta la contestatrice pasionaria, oltre che zoccolona, che fa la sua bella figura con la parrucca azzurra. A un certo punto dice: "Il negro mi piaceva, mi era venuto di farmelo, ma il bianco proprio no, non mi piaceva". Già solo per via di un mandingo chiamato "negro", sarebbero capaci di censurare il film!
Femi Benussi è molto convincente nel ruolo della fallofora  esuberante e aggressiva, dalla marcata cantilena napoletana.
Compaiono i soliti intensi flussi di pubblicità occulta (in realtà molto esplicita), tanto che vari produttori di liquori, come il whisky J&B e il vermut Punt e Mes, andrebbero accreditati nei dati tecnici assieme ad Armando Novelli e a Ermanno Curti. 


Produzione

Dato che nel cast c'erano almeno tre nazionalità diverse (italiana, tedesca, americana), i dialoghi sul set per la maggior parte delle riprese erano in inglese. Questo è ovvio se si guarda il doppiaggio in lingua inglese; i dialoghi si sincronizzano con le labbra degli attori nella maggior parte delle scene, mentre non lo fanno nelle versioni italiana e tedesca. Per avere un'idea delle parti non in inglese, si rimanda nel seguito all'espressività della prostituta crespa Anna! 

Strane comparse 

In mezzo alla fauna notturna si nota di sfuggita, vestito da Figlio dei Fiori con la bombetta in testa, il famoso Renato Zero. In tutto, questo personaggio controverso è comparso in nove film, dal 1967 al 1979.  

Ulli Lommel, l'attore e regista tedesco noto per le sue collaborazioni con Rainer Werner Fassbinder, appare come comparsa. È un individuo bizzarro con una fisionomia dura e patibolare, che non sfigurerebbe nel mondo dei gorilla e dei gangster. Tra le altre cose, ha diretto La tenerezza del lupo (Die Zärtlichkeit der Wölfe, 1973), incentrato sul serial killer pederasta e cannibale Fritz Haarmann, sorpannominato "Il macellario di Hannover", clinicamente affetto da vampirismo (sindrome di Renfield): ha ucciso alcune vittime recidendo loro la carotide con un morso! 

Un caratteristico insulto napoletano 

Una delle puttane gestite da Luca Canali, delusa, gli urla: "Vaffambocca!" In pratica si augura che il grosso magnaccia sia irrumato da un fallo. L'esclamazione "vaffambocca" (ossia "vai a fare in bocca") è in tutto e per tutto parallela al più noto "vaffanculo" (ossia "vai a fare in culo"). L'origine è dal napoletano 'afammocc, usato molto di frequente in frasi brutali come "'afammocc a chi t'è mmuort, 'afangul a chi t'è strammuort".
Trovo strano che questo insulto non sembri essere molto diffuso al di fuori della Campania. Tutte le sue (rarissime) attestazioni in cui mi sono imbattuto nel mondo della Settima Arte, sono riconducibili a personaggi napoletani. In un film con l'eroico Tomas Milian, non ricordo bene quale, un brigadiere partenopeo apostrofava così un agente veneto biondiccio: "Vaffambocca, Ballarin, tu e l'anima r'o ricchione ca sì". Non è facile ricostruire i dettagli: avvengono distorsioni nei miei banchi di memoria stagnante, ma la sostanza è proprio quella da me riportata! Ai nostri giorni, simili sequenze non potrebbero più essere girate: il politically correct lo impedirebbe sul nascere!  
Mi stupisce enormemente che non si sia diffusa dovunque in Italia l'usanza di dire "vaffambocca" e che la sua applicazione sembri essere riferita soltanto a persone di sesso maschile - quando sappiamo bene che sarebbe più idonea riferita alle zoccole. La crespa prostituta Anna, si guadagnava il pane proprio facendo in bocca, poi apostrofava il suo pappa, che tutto sommato era incredibilmente civile e gentile: nella Milano degli inizi XXI secolo sarebbe stata massacrata a zampate! 


Di Leo e Tarantino 

Anche a costo di finire linciato dal pubblico, dirò senza esitazione che detesto vivamente Quentin Tarantino e le sue opere. A pelle mi dà l'impressione di un personaggio untuoso e turpe. Spiace avere in comune con lui la passione per le pellicole di Fernando Di Leo! È appurato che i due gangster Catania e Webster hanno dato l'ispirazione per i protagonisti del tarantinesco Pulp Fiction (1994), interpretati da John Travolta e da Samuel L. Jackson. 

Tecnicamente non poliziesco

Una cosa salta subito all'occhio. In tutto il film sembra che non esistano Forze dell'Ordine. Ci sono sparatorie, inseguimenti, investimenti, scontri, violenze di ogni genere, eppure nessuno interviene. Si ha una sola menzione dell'esistenza di qualche autorità non appartenente al mondo criminale, quando un giovane freak trova il nerboruto lenone alla porta ed esclama: "C'è uno con la faccia da poliziotto!" Stando così le cose, non si potrebbe ascrivere quest'opera di Di Leo al genere poliziesco o poliziottesco. Eppure, nonostante questi dati di fatto di per sé innegabili, Tarantino ha definito La mala ordina "capolavoro assoluto del genere poliziesco". 

Un universo interconnesso 

Nel film scerbanenchiano Liberi, armati e pericolosi, diretto da Romolo Guerrieri (1976), si ha un esplicito riferimento a La mala ordina. Il titolo della pellicola di Di Leo viene pronunziato a voce alta da uno dei tre protagonisti criminali e borghesi, mentre gli altri due uccidono i gangster in un'autodemolizione. 


Origine e diffusione del cognome Canali 

Dal modo di parlare, si capisce all'istante che Luca Canali è siciliano doc: tipica cantilena, forme pronominali come a mmia, a ttia, ordine SOV della frase e via discorrendo. Eppure al Sud il cognome Canali è rarissimo. È particolarmente diffuso in Lombardia, in Emilia-Romagna e nel Lazio. Certo, il simpatico pappone potrebbe aver preso il cognome dalla madre, che sarà stata del Nord. In fondo anche l'attore, Mario Adorf, che ha padre calabrese e madre tedesca, si trova in una situazione abbastanza simile. Oppure sarà stato proprio il padre a trasmettere a Luca Canali un cognome raro nella sua terra d'origine?   
Per quanto riguarda l'etimologia del cognome, il sito Cognomix riporta quanto segue:
"Dovrebbe derivare, direttamente o tramite una modificazione dialettale, da toponimi quali Canale (TR) - (CN) - (AV) - (BL) - (GE) - (RM) - (TN) - (BO), o dal fatto che la famiglia abitava in prossimità o sulle rive di un canale." 
Questa è la mappa di diffusione per regione: 


Alcune note sul cognome Catania

Mentre il ben noto toponimo siciliano è pronunciato Catània, con l'accento sulla seconda sillaba, il cognome che ne è derivato è pronunciato Catanìa, con l'accento sulla -i-. A prima vista non è facile trovare una chiara spiegazione del curioso fenomeno, anche se non è un caso unico. Ad esempio il cognome siciliano Troja è pronunciato Troìa, anche qui con l'accento sulla -i-. Con ogni probabilità questa inconsueta posizione dell'accanto si deve ad influenza greca. Così il toponimo Kατάνη (Katánē), di origine sicula (dovrebbe significare "grattugia") e pronunciato in epoca bizantina /ka'tani:/, che ha dato direttamente il cognome Catani, è stato adattato in romanzo come Catània, quindi è tornato in greco per effetto boomerang, dando Catanìa, da cui l'omonimo cognome. In latino il toponimo era Catĭna, con la -i- breve e l'accento sulla prima sillaba: /'katina/. Non può aver dato i cognomi di cui ci stiamo occupando. Nemmeno l'arabo è una sorgente plausibile: la città era chiamata Qutāna, ma sono attestate le denominazioni Madīnat-al-fīl "Città dell'elefante" e Balad-al-fīl "Territorio dell'elefante".  


Critica

Mi sono divertito ad assemblare un ricco cut-up raccolto dal sito Il Davinotti. Ne raccomando la lettura.
"Scattante, iperviolento, con una sceneggiatura stringente e un cast di facce da duri, su cui giganteggia un ottimo Adorf, prima piccolo malavitoso smarrito in un gioco più grande di lui, poi implacabile nella sua vendetta"
"Ottima la prova del cast (specie del bravo Mario Adorf), così come la colonna sonora" 
"Musiche di Trovatoli (sic) che si fondono efficacemente con le immagini"
"Adorfiano ed alterno"
"L'inizio è lento ma il film ingrana poco a poco, regalando una seconda parte davvero adrenalinica e mozzafiato"
"Altro potente capitolo del noir italiano, che rispetto a MC9 appare meno cupo e tragico e più essenziale, lineare ed immediato"
"Inferiore al bellissimo Milano calibro 9, anche se ne segue lo stile" 
"Tra i migliori esempi di film di genere italiano, ed ottimo esempio di noir, è anche una delle opere migliori di Fernando Di Leo"
"Bel noir di Di Leo, non all'altezza degli immortali Milano calibro 9 o Il boss, ma comunque buono" 
"Inizio con luci e ombre, parte centrale bella carica per merito di Adorf, finale abbastanza banale" 
"Molto convincente Mario Adorf, nel ruolo di un pappone milanese un po' sbruffone, che viene incastrato dal boss locale" 
"Noir criminale nel quale i pesci grossi vengono sconfitti dalla voglia di vivere di uno rimasto incastrato" 
"Straordinario quadro al contempo pop e verista, ritratto d'ambiente e saggio sulla violenza cinematografica"
"Bravo il protagonista a costruire il personaggio, che da omuncolo dalla lingua lunga si trasforma in vendicatore, quando viene attaccato negli affetti più cari. Nessuna morale. Il boss difenderà nome e credibilità a tutti i costi" 
"Pietra miliare dileiana, liberamente tratta dalla vena noir di Scerbanenco, qui con un "uomo di casino" braccato come nelle più sadiche delle cacce all'uomo"
"Finale memorabile" 
"Morti a non finire in questo boss-movie che dagli Usa muove i suoi tentacoli a Milano alla ricerca di un malandrino da poco"
"Scabro e prototipico"
"il film ancora spaura e avvince per la sua intrinseca natura di fumetto metafisico che trascende tutti i suoi singoli elementi (alcuni dei quali evidentemente dissonanti o persin pressapochisti - leggasi i dialoghi minimali) in un ensemble iconografico che rende sacro il profano e viceversa" 
"A tratti sembra anche meglio di Mc9, ma nel complesso è meno secco" 
"Grezzo, trucido, spietato ma simpatico" 
"Secondo capitolo della cosiddetta trilogia del milieu. È il più debole dei tre ma raggiunge comunque vette di potenza notevoli per il genere criminale all'italiana"
"Di Leo, autore anche del soggetto, è bravo nel descrivere con cura la disperata deriva di un uomo finito in un ingranaggio più grosso di lui"
"Luca Canali è fisiognomicamente animalesco" 
"Un noir... zoomorfo!"
"Al di là del surplus di spot poco occulti (ma questo sappiamo che accadeva a tantissimi film italiani dell'epoca) e di alcuni dialoghi un po' ambigui nonchè di alcune scazzottate che nulla han da invidiare ai film di Bud Spencer, sono anche tante le cose notevoli" 
"Tenuto in piedi da un Adorf come sempre grande e sottovalutato" 
"Le musiche e i continui effetti sonori, dovuti agli scontri tra gli scagnozzi, sono inseriti sempre al punto giusto e non sfociano mai nel banale" 
"Alla cieca furia vendicatrice del protagonista, spesso mostrata con una spietatezza unica, si affianca il lato "debole" della persona con i suoi affetti familiari" 
"Livido, violento, spietato, degno di autori di fama mondiale come Don Siegel e Melville. Sceneggiatura tesa e vibrante" 
"ritmo che decolla lentamente ma che poi vola fino a quota diecimila" 
"A rivederlo oggi ci si accorge quanto sia invecchiato ben poco e di come rimanga piacevolissima la visione: merito di una trama molto semplice, efficace anche per questo"
"Di Leo non si differenzia di molto dagli altri registi del genere di quel periodo. Violenza allo stato puro. Personaggi intelligenti ed originali, ma forse cade un po' nella storia" 
"Erculeo e sanguigno Adorf" 
"Viscerale, crudo, violento" 
"Dopo la superba interpretazione del Rocco Musco di Milano calibro 9 Di Leo promuove Adorf come protagonista assoluto e gli cuce addosso un ruolo perfetto" 
"Raoul Montalbani, Ugo Piazza, Luca Canali, ecc.. ecc... Tutti nomi rimasti nel mito del cinema di genere gangsteristico italiano anni '70; nomi che, anche oggi, i ragazzi delle nuove generazioni ricordano"
"Da vedere e rivedere!" 

martedì 16 agosto 2022


MILANO CALIBRO 9

Titolo originale: Milano calibro 9 
Titolo in inglese: Caliber 9
Lingua originale
Italiano
Paese di produzioneItalia
Anno1972
Durata88 min
Rapporto1,85:1
GenereNoir, poliziesco, thriller
Sottogenere
: Poliziottesco, gangsterologico 
Regia: Fernando Di Leo
Soggetto: Fernando Di Leo, Giorgio Scerbanenco
    (accreditato da IMDb.com
Sceneggiatura: Fernando Di Leo 
Produttore: Ermanno Curti e Armando Novelli
Casa di produzione: Cineproduzione Daunia 70
Distribuzione in italiano: Minerva Pictures
Fotografia: Franco Villa
Montaggio: Amedeo Giomini
Musiche: Luis Enríquez Bacalov e gli Osanna
Scenografia: Francesco Cuppini
CostumiFrancesco Cuppini e Marcella Moretti
TruccoAntonio Mura 
Continuità: Vivalda Vigorelli 
Interpreti e personaggi: 
    Gastone Moschin: Ugo Piazza
    Barbara Bouchet: Nelly Bordon
    Mario Adorf: Rocco Musco
    Frank Wolff: Commissario di polizia
    Luigi Pistilli: Vicecommissario Mercuri *
    Ivo Garrani: Don Vincenzo
    Philippe Leroy: Chino
    Lionel Stander: L'Americano **
    Salvatore Aricò: Luca
    Mario Novelli: Pasquale Tallarico
    Giuseppe Castellano: Nicola
    Ernesto Colli: Alfredo Bertolon 
    Giulio Baraghini: Brigadiere baffuto 
    Giorgio Trestini: Franceschino
    Fortunato Cecilia: Vincenzo Affatato
    Omero Capanna: Uomo con il tick alla spalla
        nelle scene iniziali; uomo ucciso nella piscina
    Mira Vidotto: Prostituta nella villa
    Rossella Bergamonti: Prostituta nella villa
    Marina Brengola: Prostituta nella villa
    Bruno Bertocci: Primo corriere 
    Empedocle Buzzanca: Secondo corriere 
    Imelde Marani: Terzo corriere
    Sergio Serafini: Quarto corriere 
    
Fernando Cerulli: Portiere d'albergo
    Ettore Geri: Barman del night club
    Gastone Pescucci: Funzionario di polizia 
    Alessandro Tedeschi: Corriere tedesco 
    Artemio Antonini: Incappucciato  
    Franco Beltramme: Incappucciato 
    Salvatore Billa: Incappucciato
    Alberto Fogliani: Incappucciato 
    Gilberto Galimberti: Incappucciato 
    Dolores Calò: Cliente del night club 
    Pupita Lea Scuderoni: Ciente del night club 
    Cesare Di Vito: Poliziotto 
    Luigi Antonio Guerra: Poliziotto 
    Mauro Vestri: Poliziotto
    Edda Tiberio: Prostituta 
    Toni Trono (come Tony Trono) 
    Luciano Cecchini 
    * Nella versione in inglese è Fonzino
    ** Nella versione in inglese è The Mikado.
Doppiatori originali: 
    Noemi Gifuni: Nelly Bordon
    Stefano Satta Flores: Rocco Musco
    Sergio Rossi: Commissario di polizia
    Renato Izzo: Vicecommissario Mercuri
    Giacomo Piperno: Chino
    Antonio Guidi: L'Americano 
Titoli in altre lingue: 
   Tedesco: Milano Kaliber 9 
   Francese: Milan calibre 9 
   Spagnolo: Milán, calibre 9
   Russo: Миланский калибр 9 


Trama: 
Primi anni '70. Dopo un periodo in prigione, il piccolo gangster milanese Ugo Piazza viene subito perseguitato dai suoi vecchi soci, guidati da un potente riciclatore conosciuto semplicemente come "L'Americano", che lo crede colpevole di avergli rubato rubato 300.000 dollari durante una consegna, poco prima del suo arresto per rapina. Piazza nega categoricamente il furto, anche sotto coercizione da parte del volubile braccio destro dell'Americano, Rocco Musco. Anche la sua ragazza, la bionda ballerina go-go Nelly Bordon, crede che lui abbia rubato i soldi, così come il lombrosiano commissario di polizia, che tenta invano di convertirlo in un informatore. 
Piazza incontra il suo ex padrino Don Vincenzo, ormai vecchio e cieco, con il suo unico uomo rimasto, Chino. Anche se Rocco si fa beffe dell'autorità di Don Vincenzo, nutre ancora un riluttante rispetto per Chino, che si è rifiutato di lasciare il suo padrino anche dopo che tutti gli altri lo hanno fatto. L'Americano dà a Piazza un ultimatum per restituire i soldi e riprendere a lavorare per lui, ma lui insiste ancora affermando di non averli e di non sapere chi li abbia. Paranoico per altri furti simili, Rocco inizia a brutalizzare e uccidere i suoi corrieri di denaro. 
Piazza viene inviato a uno scambio di 30.000 dollari, che avviene in una sala da bowling. Lo scambio è però interrotto da un misterioso aggressore con una sciarpa bianca, che uccide il loro cliente e ruba la borsa di pelle marrone contenente i soldi. L'Americano dà a Rocco e a Piazza l'ordine di uccidere gli uomini da lui ritenuti responsabili, ma quando i due arrivano a destinazione scoprono che le vittime designate sono Chino e Don Vincenzo. Piazza si rifiuta di uccidere il suo ex padrino, ma Rocco spara a sangue freddo al vecchio, mentre Chino riesce a scappare per un pelo. L'Americano fa picchiare Piazza per la sua insubordinazione e sta per farlo uccidere, tuttavia gli viene risparmiata la vita quando sostiene in modo convincente che dietro il furto dei 30.000 dollari c'erano Rocco e la sua gang. 
L'Americano si ritira in una tenuta rurale con le sue guardie del corpo, tra cui Piazza, ma viene colpito e ucciso in un'imboscata dal vendicativo Chino. Nel corso della strage, Piazza punta la pistola contro gli uomini dell'Americano e li abbatte, prima che Chino muoia per le ferite riportate. A questo punto Piazza si reca in una chiesa abbandonata nelle spettrali campagne fuori Milano e recupera una borsa blu con i 300.000 dollari, rivelando di aver rubato davvero i soldi all'Americano anni prima e di aver orchestrato tutto per farlo uccidere. Viene però fermato dalla polizia per guida con patente scaduta e costretto a recarsi in commissariato per un colloquio. 
Nella sala d'attesa Piazza incontra Rocco, interrogato per il massacro in casa dell'Americano. Rocco, vedendo la borsa contenente il denaro, non mostra animosità e anzi propone a Piazza di entrare in società con lui. Piazza rifiuta e viene rilasciato; subito si dirige a casa di Nelly con i soldi, progettando di fuggire insieme a lei per andare a vivere a Beirut, a quell'epoca capitale della Dolce Vita. La sorpresa che scopre è amarissima: la perfida marchettara Nelly è assieme a Luca, un gangster della banda di Rocco, scelto come amante per via del suo enorme Schwanzstücker. È proprio lui il misterioso uomo con la sciarpa responsabile del furto dei 30.000 dollari al bowling. Nelly aveva cospirato con il suo amante segreto per impadronirsi dei 300.000 dollari da Piazza! Luca spara a Piazza, ancora annichilito dallo stupore, che però riesce ad uccidere Nelly con un solo pugno prima di spirare. Rocco, che aveva seguito Piazza a casa, irrompe e uccide Luca facendogli cozzare la nuca contro uno spigolo, spinto da un impeto di rabbia per il suo tradimento e per aver mancato di rispetto alla statura criminale di Ugo Piazza. I poliziotti, che a loro volta avevano seguito Rocco, lo trascinano lontano dal cadavere insanguinato di Luca. 

Citazioni: 

“Tu uno come Ugo Piazza non lo uccidi a tradimento! Tu a uno come Ugo Piazza non lo devi neanche toccare! Tu a uno come Ugo Piazza non lo devi neanche sfiorare! Tu quando passa uno come Ugo Piazza il cappello ti devi levare! Il cappello ti devi levare! Il cappello ti devi levare!”
(Rocco Musco) 


Recensione: 
Questo è il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del milieu di Fernando Di Leo, che prosegue con La mala ordina (1972) e Il boss (1973). 
Ambientato in una Milano cupa e plumbea, questo è un ottimo film con un robusto Gastone Moschin, scerbanenchiano fino al midollo. Anche quando si vede la luce del sole, è pallida e malata. La tenebra dell'Essere è assoluta, impenetrabile, compatta, così densa che nemmeno un'esigua scintilla può farvi il suo corso. Il concetto stesso di speranza è del tutto assente, non se ne trova nemmeno il minimo abbozzo. Ogni singola sequenza trasuda totale senso di annichilimento: il mondo che il regista ci mostra è uno dei più abissali distretti dell'Inferno. È la Morte Eterna. Molte sono le interpretazioni memorabili. Indimenticabile è il sanguigno Mario Adorf nel ruolo di Rocco Musco, il colossale gangster siciliano e smargiasso, perennemente esagitato. 
Il massacro finale assume proporzioni irreali, quasi genocidarie. Ricorda quei film spaghetti-western in cui nel corso di alcuni regolamenti di conti venivano annientate intere comunità! Le pistole sparano infiniti colpi come se le pallottole scaturissero dal nulla: si assiste in tutto soltanto a un caricamento! Solo i film brasiliani di Glauber Rocha sulle gesta di Antonio das Mortes mostrano sparatorie più prodigiose! Chino, ottimamente interpretato da Philippe Leroy, è una vera e propria macchina da guerra. 
Posso senz'altro dire che aver visionato questa pellicola gangsterologica mi abbia molto giovato. La trovo eccellente!

Milano calibro 9 è il titolo di una raccolta di 22 racconti dello scrittore e giornalista Giorgio Scerbanenco, nato Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko, all'anagrafe italiana Wladimiro Scerbanenko (Kiev, 1911 - Milano, 1969). Fu pubblicata per la prima volta nel 1969. Uno di questi racconti noir si intitola Milan by Calibro 9, ma ha una trama molto diversa ed è stato adattata in un altro film di Di Leo, La mala ordina. Qualcuno pensa che l'ispirazione sia stata tratta da un altro racconto di Milano calibro 9, ossia Stazione centrale ammazzare subito. Non mi pare comunque che ci sia una grande somiglianza, trattandosi della storia di due malviventi, ciascuno dei quali riceve l'incarico di uccidere l'altro. Lo scrittore dalla figura scheletrica, notissimo per i polizieschi-noir, ha scritto anche romanzi di generi molto diversi: fantascienza, western e persino rosa (incredibile dictu). 


Conversazioni sull'origine del crimine 

A un certo punto Di Leo ha pensato di espungere un dialogo particolarmente scomodo tra il commissario fascista e il neocommissario comunista Mercuri, appena promosso e trasferito nell'impervia Lucania (promoveatur ut amoveatur). Il regista riteneva che la conversazione ad alto contenuto politico togliesse forza alla trama, o forse gli è venuto in mente di aver osato troppo. Per fortuna ha deciso di conservare quelle sequenze: il lavoro degli attori Frank Wolff e Luigi Pistilli era così eccellente che non poteva assolutamente essere tagliato. Riporto a pubblica edificazione l'interessante discorso. 

Commissario: "Ah, Mercuri! Signori, il nostro caro Mercuri, funzionario democratico, è stato promosso. Trasferito e promosso. Fategli le vostre congratulazioni. Che, mi vuoi parlare, Mercuri?" 
Neocommissario Mercuri: "Sì, un momento solo." 
Commissario: "Scusatemi, eh. Torno subito. Vieni, vieni."
Neocommissario Mercuri: "So che debbo a lei il mio trasferimento."
Commissario: "Trasferimento d'urgenza e d'ufficio per lei, mio caro commissario Mercuri." 
Neocommissario Mercuri: "Volevo dire che fare il poliziotto in Basilicata o in Lombardia per me è lo stesso. L'importante è saper fare il proprio dovere."
Commissario: "E io non ho dubbi che lei lo sappia fare il suo dovere. Specialmente dove non ci sono ricchi e soprattutto gente come l'Americano." 
Neocommissario Mercuri: "Posso dire qualcosa, senza urtare la sua suscettibilità?"  
Commissario: "È molto difficile urtare la mia suscettibilità. Dica pure, collega."
Neocommissario Mercuri: "Lei è un vecchio poliziotto, cioè un poliziotto vecchio. Sì, lei ha pochi anni più di me, ma ha una mentalità vecchia. E perciò è inadatto a occupare il posto che occupa." 
Commissario: "Ti senti di fottere, eh, Mercuri? E che cosa ci vuoi fare? Io che ho una mentalità arretrata, me ne resto qua, e tu che sei moderno te ne vai a pascolare bello bello le tue pecorelle in Basilicata. Perché, non ti va?" 
Neocommissario Mercuri: "No, io non mi sento di fottere, come dice lei. Volevo soltanto spiegarle due o tre cose, e lei mi permette." 
Commissario: "E come, lo permetto! Ma fa' presto, perché non aggio pigliato ancora o' cafè"
Neocommissario Mercuri: "L'Americano è un effetto e non una causa, come sono effetti tutti i delinquenti. Mi ascolta?"
Commissario: "Sì, sì, la ascolto."
Neocommissario Mercuri: "Lei mi capisce?" 
Commissario: "Finora no. Ma vada avanti. Continui."
Neocommissario Mercuri: "Dicendo che l'Americano e i delinquenti meridionali sono un effetto, intendevo dire questo. La massa dei meridionali che viene a lavorare qui nel Nord fa i mestieri più umili, quelli che da decenni gli altri si rifiutano di fare. Mal pagati, male alloggiati, niente affatto assistiti. Per forza poi diventano delinquenti." 
Commissario: "E basta, Mercuri, aggio capito. Delinquenti si nasce. Per adesso va dove ti hanno mandato, va'. E scrivi una cartolina illustrata, mi raccomando." 

Poco prima i due avevano avuto un altro scambio di opinioni su un tema connesso e cruciale. Questo spiega la particolare avversione di Mercuri per i plutocrati. 

Vicecommissario Mercuri: "Perché non agiamo in modo più massiccio?"
Commissario: "Ah, in modo più massiccio! Ma fammi il piacere: gli uomini chi me li dà? Tu stai qua da poco tempo, ma il nostro organico lo conosci, no?"
Vicecommissario Mercuri: "Facciamoci dare quelli che cacciano chi non ha una casa, che picchiano gli studenti, che disperdono gli operai! Per questa roba agenti ce ne sono!"
Commissario: "Mercuri, non fare il sovversivo! La cittadinanza non ne può più di scioperi e occupazioni abusive: gli agenti occorrono lì!"
Vicecommissario Mercuri: "Ma di quale cittadinanza parla? Dei cosiddetti "benpensanti"?"
Commissario: "Mercuri, tu leggi troppo i giornali di sinistra! Ho capito dove vuoi arrivare, ai ricchi, ma ci sono ricchi e ricchi!"
Vicecommissario Mercuri: "Ma di quali ricchi parla lei?! Di quelli che dicono "paghiamo meglio i terroni"? "Diamo loro le case più abitabili"? Ma ne conosce qualcuno?!"
Commissario: "I ricchi non danno fastidio!" 
Vicecommissario Mercuri: "E no, commissario, li danno eccome! Di che cosa ci stiamo occupando? Di ricchi che mandano i soldi all'estero! Di fastidi ne danno eccome!"
Commissario: "Insomma, Mercuri, tu vuoi fare un comizio. Te l'ho detto: ci sono ricchi e ricchi, e noi lotteremo contro quelli che mandano via i soldi! Mercuri, lo so, tu vuoi una bandiera rossa, ma la questura ne è sfornita. Poliziotti, ricordatevi: la proprietà è un furto. È giusto?" 
Vicecommissario Mercuri: "Sì, commissario, proprio così! Noi della polizia dobbiamo tenerlo presente che la proprietà è un furto! Noi, che finora siamo sempre stati al servizio dei ricchi!" 
Commissario: "A noi spetta soltanto di fare osservare le leggi, e la legge, mio caro Mercuri, è uguale per tutti!" 
Vicecommissario Mercuri: "Uguale per tutti?! Ma mi dica lei quando mai abbiamo manganellato dei ricchi! Oppure i ricchi hanno sempre ragione, e il torto sta sempre dove stanno gli operai, gli studenti e i meridionali?!" 
Commissario: "C'è qualcuno che vuole applaudire, no? E applaudo io! E adesso ascolta, Mercuri, quello che hai detto forse è giusto, forse è sbagliato, non lo so. Però la realtà qua è un'altra. Tu hai fatto il tuo servizio in provincia, e hai avuto a che fare con quattro rubagalline, cose 'e pretura. Qui la lotta è contro l'Americano. Un giro grosso, gente che ce li ha quadrati, e se io mi distraggo, lui me lo fa tanto così! Le belle parole non servono. Tu le hai dette, le belle parole. E a che sono servite? A fare fumo! Ma voi guardate che cacchio mi tocca sentire in questura!"

Ed ecco qualche considerazione sul sistema carcerario e sull'efficacia della pena:  

Commissario: "Come si sta adesso a San Vittore?"
Ugo Piazza: "Un carcere vale l'altro: uno schifo!"
Commissario: "Ah si capisce, adesso si son messi pure a contestare i carceri! San Vittore lo vogliono chiudere, ai detenuti non sta più bene! Vogliono luoghi salubri, spaziosi, vogliono andare in vaganza! Tra poco vorranno le donne come in Messico e finiranno col dargliele! Ci sarà qualche psicologo o sociologo che dirà che è giusto, che fa bene! E già, e questi devono stare bene in carcere, in modo che quando escono sono in perfetta salute!"
Vicecommissario Mercuri: "Be', io credo che un po' male delle carceri italiane lo si possa dire, perché così come sono messe adesso fanno pensare che lo Stato si voglia vendicare sui detenuti. Commissario, per esempio il potere legislativo per le amnistie..." 
Commissario: "Loro prima di delinquere si possono fare i calcoli, visto che è ricorrente, e a volte più volte in un anno. Questo si vede soltanto in un Paese come il nostro che perdona sempre! Ti dico che l'amnistia è uno stimolo a delinquere! Avanti, Piazza, dillo anche tu, di' la verità, tanto puoi dirla: facendo la rapina pensavi sì o no ai benefici dell'amnistia?" 
Ugo Piazza: "Pensavo a non farmi prendere."
Commissario: "Pensavi a quanti anni ti davano e a quanti anni ti saresti fatto realmente in carcere!"
Ugo Piazza: "All'amnistia si pensa quando si è dentro, non prima."

Nessuno dei due funzionari ha davvero ragione sull'ontologia delinquenziale. La vera origine del crimine organizzato non è genetica e non è sociale: è esoterica. La mafia è una vera e propria setta, una forma di religione occulta il cui codice si trasmette da una generazione all'altra. Ha i suoi miti fondanti, i suoi riti di iniziazione, i suoi complessi rituali che regolano ogni aspetto della vita, i suoi tabù, la cui violazione può essere espiata soltanto tramite la morte.  

Razzismo indotto 

L'apparato delle Forze dell'Ordine è composto quasi interamente da meridionali, eppure si nota sia nel Commissario che negli agenti una diffusa avversione nei confronti dei propri conterranei. "Finalmente abbiamo trovato un delinquente che non è meridionale", dice il commissario, che è napoletano. "È un anàrcoco (sic)", sentenzia il brigadiere, un massiccio baffuto. Molti anni fa mi sono imbattuto in un caso simile, che era stato etichettato dalla stampa come "razzismo indotto", in cui un poliziotto di Parigi, di origine magrebina, vessava con particolare accanimento una comunità magrebina non assimilata, comportandosi come un aguzzino e cercando addirittura di imporre la violazione del Ramadan. Anche questa è a tutti gli effetti una forma di autorazzismo, ossia di odio verso la propria stessa etnia. Seppur diverso nell'aspetto, nella sostanza e negli effetti pratici, questo autorazzismo è molto simile alla ripugnante follia woke, quella malattia dello spirito che sostiene l'inesistenza dei popoli, spingendo i dementi che ne sono colpiti a proferire aberrazioni del tipo "non esistono Italiani etnici", "non esistono Tedeschi etnici", "non esistono Francesi etnici", "non esistono Finlandesi etnici" e via discorrendo. 


La pronuncia del commissario 

Nelle conversazioni non mancano tratti "dialettali". Un esempio è l'uso che il Commissario fa di una lenizione molto spinta. Le consonanti /p/, /t/, /k/, /f/, sono realizzate come /b/, /d/, /g/, /v/. Il mutamento però non scatta nei gruppi /sp/, /st/, /sk/ e quando le consonanti sono doppie, /pp/, /tt/, /kk/, /ff/. Anzi, i gruppi /sp/, /st/, /sk/ all'inizio di parola sono realizzati con la sibilante palatalizzata, come /ʃp/, /ʃt/, /ʃk/. Spesso la sibilante /s/ inervocalica è realizzata come /z/ (la cosiddetta "s di rosa") anche quando le vocali appartengono a parole diverse. Ecco alcuni esempi, ben coglibili anche da uno spettatore dall'udito poco attento:   

calcoli => gàlgoli 
come => gome 
commissario => gommissario
continui => gondinui  
delinquenti => delinguendi 
delinquere => delinguere 
furto => vurdo  
mio caro => mio garo 
non sta => non shta
parole => barole 
perdona sempre => berdona zembre  
prima => brima 
proprietà => brobriedà 
provincia => brovingia 
può => buò 
ricordatevi => rigordadevi 
ricorrente => rigorrende 
scrivi => shcrivi 
stesso => shtesso 
tanto => dando 
tempo => dembo 

Detto dal Commissario, "puoi" suona indistinguibile da "buoi" e si fa un'enorme fatica a distinguere le forme verbali "puoi" e "vuoi". Bizzarramente non si nota la lenizione nei segmenti in napoletano genuino, come "aggio pigliato", "aggio capito", "ancora""o' cafè", che mostrano le consonanti sorde /p/, /t/, /k/ e /f/. Non dice *bigliado, *gabido, *angora, *gavè. Queste stranezze sono sempre molto affascinanti e si fa una gran fatica a spiegarle. Una cosa davvero strana: non si conosce il cognome del Commissario! 


L'Americano e i problemi di doppiaggio

Nella versione in inglese, l'Americano è chiamato The Mikado. Il motivo di questa scelta, a prima vista così stravagante, è quella solita del doppiatore raffreddato. La parola "Americano" è stata percepita come qualcosa di simile a "Mikado", per via della difettosa pronuncia di alcune consonanti da parte di un uomo dal naso pieno zeppo di catarro (Americano > *Americado > Mikado). Ecco che il nome distorto è stato quindi frainteso e interpretato come l'appellativo dell'Imperatore del Giappone! Un caso molto simile è quello di Darth Vader, che nella versione in italiano di Star Wars (George Lucas, 1977) è diventato Dart Fener.  
Del tutto incomprensibile è invece il destino del Vicecommissario Mercuri (poi promosso a commissario), che si è visto trasformare prodigiosamente in Fonzino. Qui non c'è nemmeno l'ombra di una somiglianza fonetica e non so dare una ragionevole spiegazione della scelta arbitraria. No, non penso che Fonzino sia un piccolo Fonzie, chiamato così perché vuol fare a tutti i costi il fighetto. 


Il Padrino e i Beati Paoli

Chino: "L'Americano fa troppo chiasso. Bombe, in pieno giorno. Una volta li faceva sparire con più cura."
Ugo Piazza: "Ora ha molta più gente." 
Chino: "Appunto. E più sono e meno si controllano. Lui queste cose le dovrebbe sapere, no? Si vede che impegni grossi ha. Dammi retta, stanne alla larga, Ugo. Non dura."  
Ugo Piazza: "Ah, sai che mi ha detto l'Americano? Che hai esagerato. E vuole delle scuse."  
Chino: "Non voglio avere niente a che fare con lui, nemmeno per delle scuse. Una volta lo stimavo, adesso te l'ho detto, fa troppo chiasso.
Don Vincenzo: "Se continua così, vedrai che faranno l'Antimafia pure per Milano."
Ugo Piazza: "Un'Antimafia per Milano? Ma che c'entra?"
Don Vincenzo: "Niente! Perché, credi che nelle altre parti c'entri? La chiamano "mafia", ma oggi sono... sono bande: bande in lotta e concorrenza tra di loro. La vera mafia non esiste più. Quando quelli della droga vogliono investire i loro guadagni, costruiscono palazzi. E quelli della milizia sparano. Che c'entra la mafia? La vera mafia è morta." 

Don Vincenzo si presenta come un nostalgico di un ideale di "mafia cavalleresca", da lui considerata come una diretta discendenza della setta medievale dei Beati Paoli, simili per impegno a Robin Hood. Il suo racconto è chiaramente una distorsione profonda della realtà, in ogni caso si capisce cosa lo inquieta. Depreca soprattutto la mancanza di discrezione ("l'Americano fa troppo chiasso") e la mancanza di coesione ("bande in lotta e concorrenza tra loro"). Vuole mantenere "zone grigie" ed evitare lo scontro diretto con lo Stato.
Una cosa sorprende molti nella galassia della critica online: la menzione dell'Antimafia in un film del 1972. In effetti, la Direzione Nazionale Antimafia (DNA) e la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) furono istituite nel 1991 su iniziativa di Giovanni Falcone, circa vent'anni dopo gli eventi immaginari narrati dal film. Abbiamo a che fare con una profezia? In realtà penso che non ci sia nessun anacronismo. L'aggettivo "antimafia" esisteva già negli anni '70, come pure la sua forma sostantivata. L'opera di Di Leo potrebbe infatti riferirsi alla Commissione Parlamentare Antimafia, che era stata istituita nel dicembre 1962. Resta in ogni caso un fatto: a Milano fino agli anni '80 dello scorso secolo persisteva nelle istituzioni un atteggiamento di radicale negazione della presenza mafiosa nella metropoli, ben al di fuori del suo contesto di origine. Quindi in un qualche modo si può dire che comunque Di Leo abbia precorso i tempi. 


Curiosità 

La pubblicità occulta è imperante. Il whisky J&B, con la sua tipica etichetta gialla e rossa, è onnipresente, come in molti altri poliziotteschi e non solo. Anche altri prodotti sono messi in bella vista: ricordo che nel secondo film della Trilogia del milieu, oltre al J&B era reclamizzato in modo massiccio il vermut tipicamente milanese (d'adozione) Punt e Mes. In seguito queste pratiche furono vietate.  

La morte di Luca originariamente era più lunga e sanguinosa, ma dovette essere ridimensionata a causa delle lamentele della censura. Probabilmente anche l'invettiva di Rocco doveva essere più lunga e questo spiegherebbe come mai se ne trovino in giro citazioni estese: "Tu uno come Ugo Piazza non lo devi neanche nominare! Tu uno come Ugo Piazza non lo devi neanche guardare!", etc. 

L'attore Frank Wolff è morto suicida poco dopo aver completato le sue scene, quindi il suo doppiaggio in inglese ha dovuto essere completato dal suo frequente co-protagonista ed ex compagno di stanza Michael Forest. Il suicidio di Frank Wolff, forse dovuto a depressione causata da una delusione amorosa, fu davvero terribile: si recise la carotide in una stanza d'albergo, a quanto pare usando la lametta di un rasoio. 

Nel 2006, una sequenza di questo film, con Moschin che torna nella discoteca dove balla Barbara Bouchet, è stata utilizzata dal gruppo Vinylistic come videoclip per la loro canzone Record Player

Gastone Moschin (Ugo Piazza) e Lionel Stander (L'Americano) si sono ritrovati nello stesso anno di uscita di Milano calibro 9, il 1972, a interpretare rispettivamente Don Camillo e Peppone in Don Camillo e i giovani d'oggi, diretto da Mario Camerini. Indimenticabile è poi l'eccellente interpretazione di Stander nella parte del bizzarro Cardinale Maravidi in Nonostante le apparenze... e purché la nazione non lo sappia... All'onorevole piacciono le donne, sempre del 1972, diretto da Lucio Fulci! 


Il tallone d'Achille, la spalla di Sigfrido

Ugo Piazza sembra fatto di acciaio. Impassibile, subisce tutti i colpi dell'avversa fortuna senza mai lasciarsi sfuggire un lamento. In realtà ha un solo punto debole: le femmine. Al loro fascino è molto sensibile. In particolare è fissato con la prostituta bionda che alla fine lo fa ammazzare dal suo nuovo ganzo. Basta poco per essere condotti all'annientamento. 
La morale è lampante, eppure è necessario ripeterla senza sosta, all'infinito: le puttane fanno schifo, sono peggiori dei vermi dei cadaveri! 

Colonna sonora

L'autore è il maestro argentino Luis Enríquez Bacalov, che ha utilizzato le musiche da lui composte per il complesso progressive degli Osanna. Si nota anche l'inserimento di un brano dei New Trolls, intitolato Adagio e tratto dall'album Concerto grosso. 
Queste sono le tracce: 

1. Preludio
2. Tema
3. Variazione I (To Plinius)
4. Variazione II (My Mind Flies)
5. Variazione III (Shuum...)
6. Variazione IV (Tredicesimo cortile)
7. Variazione V (Dianalogo)
8. Variazione VI (Spunti)
9. Variazione VII (Posizione raggiunta)
10. Canzona 


Critica 

Riporto un cut-up ottenuto dalla pagina dedicata al film di Di Leo sul sito Il Davinotti


"Regia e fotografia di altissimo livello e musiche straordinarie"
"Un Moschin superlativo per un film teso, sporco e piuttosto crudele" 
"Se Gastone Moschin appare inespressivo, Mario Adorf risulta caricaturale nel ruolo del solito mafioso siciliano impomatato."
"Un film più strutturato rispetto alla media dei polizieschi italiani"
"Teso, violento, cinico e beffardo, un noir che attinge a Melville e Siegel, ma che marca l'impronta personalissima di Di Leo"
"Colpisce come il protagonista si lasci, almeno apparentemente, scivolare tutto addosso: insulti, minacce, pressioni" 
"Donne inermi percosse a sangue, presunti traditori fatti esplodere con la dinamite... Impensabile poter riproporre nelle sale odierne una pellicola tanto radicale e drasticamente pessimista."
(Invece dovremmo avercelo, il sacrosanto coraggio di farlo!) 
"I primi minuti sono una vetta inviolabile anche per Tarantino e compagnia"
"Se alla solida sceneggiatura che si impreziosisce di spunti sociologico-politici aggiungiamo un cast di altissimo livello (il furioso Adorf, il glaciale Moschin e il tenace Leroy) è impossibile non chinare il capo e applaudire alla maestosità del progetto"
"Memorabile poliziesco fortemente noir di Fernando di Leo: violento, brutale, ma con molto ritmo e ben realizzato" 
"Luigi Pistilli, poliziotto "progressista" contrapposto al "destrorso" Frank Wolff, è un po' manieristico" 
"Comincia così una violenta partita a scacchi in cui ruoli e morale si annullano"
"Il gelido realismo, il pessimismo di fondo, l’esemplare rappresentazione dell’ambiente criminale e lo spessore psicologico dei personaggi, lo rendono una pietra miliare del genere"
"Fernando Di Leo con questo film ha dimostrato cosa sapesse fare: vero cinema" 
"se si pensa che Moschin e Stander erano appena stati Don Camillo e Peppone vengoni (sic) i brividi!"
"Violento quanto basta, ideologicamente agguerritissimo (ancora oggi fanno molto discutere i dialoghi tra Wolff, commissario conservatore e Pistilli, poliziotto progressista in rotta con i superiori) e per certi versi anche profetico"
"Grandi facce, grandi attori: Moschin indecifrabile, Adorf una forza della natura!" 
"Probabilmente il miglior film di Di Leo e uno dei migliori noir di sempre" 
"Cupo, pessimista, imperdibile" 
"Un tuffo negli anni 70 in una Milano autunnale, quando il Duomo era ancora annerito" 
"Più che un film, uno spaccato di storia sociale italiana: potrebbero farlo studiare nelle facoltà di Storia, magari per un esame di Storia contemporanea italiana"
"Più che un poliziesco è un noir dalle atmosfere tese e dure, con un'analisi interna alla società italiana davvero spietata"
"Un incubo nero sognato a occhi aperti"
"la polizia non capisce niente dei delinquenti, di tutte le variabili etiche, esistenziali, estetiche, insospettabili sfumature di un universo che appare uniforme, dominato da un plumbeo ed elementare codice d'onore, e invece è variegato e profondo" 
"Scelta come teatro la plumbea Milano, Di Leo disegna un'esiziale parabola sul potere, capace di perpetrare se stesso attraverso espiazioni, tradimenti e compromessi necessari"
"Particolare Philippe Leroy doppiato in siciliano" 
"Noir da pelle d'oca con musiche fantastiche, una Milano fredda, grigia, cinica e maledetta" 
"Il punto di vista di Fernando Di Leo è forte, tragicamente reale, vergognosamente identico al nostro, abitanti dell’anno 2012" 
"Eccezionale Di Leo che partendo da Scerbanenco delinea un genere che negli anni a seguire produrrà centinaia di (discontinui) cloni."
"Gregari e nemici sono sostanza per far la guerra per il bottino, per la vita e l'onore."
"Film senza fronzoli, dalle inquadrature sporche."
"Ovunque è diventato film di culto: e non a caso."
"Se il personaggio di Pistilli è quasi una caricatura, gli altri sono invece ineguagliabili per tensione emotiva e credibilità: grande Moschin nella sua imperturbabilità, fantastico Adorf nella sua irruenza." 
"Capolavoro di Di Leo che compone un noir antieroico pressoché perfetto e incalzante con evidenti echi melvilliani, dotato di un intreccio torbidissimo e tragico, violento e paranoico in cui si mescolano senso dell'onore, romanticismo e nefandezza."
"Un tuffo negli anni 70 in una Milano autunnale, quando il Duomo era ancora annerito."
"Più che per la sceneggiatura, questa pellicola va protetta come le specie in estinzione per il suo valore storico." 
"Unico appunto: la sparatoria in villa, girata con un po' di leggerezza."
"Cult Assoluto."

Una sorta di "auto-remake" 

Il regista nel 1978 diresse Diamanti sporchi di sangue, che è una riedizione di Milano calibro 9, ambientato però a Roma. La sceneggiatura originale si intitolava proprio Roma calibro 9; il titolo è stato cambiato in fase di lavorazione, dapprima in Diamanti rossi di sangue e quindi nel definitivo Diamanti sporchi di sangue. Questa mania di apportare lievi cambiamenti nei titoli, anche solo in una preposizione o in un articolo, è tipica degli editori di noir, che non riescono a comprendere il suo potenziale di confusione. Nel riadattamento romano la parte dell'equivalente di Ugo Piazza è interpretata da Claudio Cassinelli, mentre a Martin Balsam è toccato il ruolo di un boss molto simile a quello che conosciamo col volto di Lionel Stander. 

Il sequel 

Un sequel del film di Di Leo, Calibro 9, fu girato nel 2020. È stato diretto da Toni D'Angelo e prodotto da Gianluca Curti, il cui padre Ermanno era stato un co-produttore della prima pellicola. Marco Bocci interpreta Fernando Piazza, figlio del personaggio di Moschin, con Barbara Bouchet che riprende la parte di Nelly Bordon (ma come, non era stata uccisa con un pugno?). Tra gli attori c'è anche Michele Placido nella parte di Rocco Musco, oltre ad Alessio Boni e alla russa Kseniya Rappoport. La trama sembra una riedizione: il figlio di Ugo Piazza è sospettato di aver sottratto soldi alla mafia. La mia idea è sempre la stessa: Paganini non ripete. Che necessità c'era di fare un sequel? 

sabato 1 gennaio 2022

 
SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA

Titolo originale: Salò o le 120 giornate di Sodoma
Paese di produzione
: Italia, Francia
Anno
: 1975
Lingua: Italiano, francese, tedesco, sanscrito  
Durata
: 145 min (versione originale)
       117 min (versione rimontata e distribuita)
       111 min (versione italiana censurata)
Genere
: Grottesco, drammatico 
Sottogenere: Pseudo-snuff, scatofilia
Regia
: Pier Paolo Pasolini
Soggetto
: Pier Paolo Pasolini (tratto da Le 120 giornate
     di Sodoma
del Marchese de Sade e dagli scritti di
     Roland Barthes e Pierre Klossowski)
Sceneggiatura
: Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti, Pupi
    Avati (collaboratori non accreditati)
Produttore
: Alberto Grimaldi, Alberto De Stefanis,
    Antonio Girasante (ultimi due non accreditati)
Fotografia
: Tonino Delli Colli
Montaggio
: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi,
    Enzo Ocone
Effetti speciali
: Alfredo Tiberi
Musiche
: Pier Paolo Pasolini, Ennio Morricone
Scenografia
: Dante Ferretti
Costumi
: Danilo Donati
Interpreti e personaggi
    Paolo Bonacelli: Il Duca
    Giorgio Cataldi: Il Monsignore
    Uberto Paolo Quintavalle: L'Eccellenza
    Aldo Valletti: Il Presidente
    Hélène Surgère: La Signora Vaccari
    Elsa De Giorgi: La Signora Maggi
 
   Caterina Boratto: La Signora Castelli
    Sonia Saviange: La Pianista
    Marco Lucantoni: Prima vittima (maschio)
    Anna Troccoli: Prima vittima (femmina)
    Sergio Fascetti: Sergio - vittima (maschio)
    Bruno Musso: Carlo Porro - vittima (maschio)
    Antonio Orlando: Tonino - vittima (maschio)
    Claudio Cicchetti: Vittima (maschio)
    Franco Merli: Franco - vittima (maschio)
    Umberto Chessari: Vittima (maschio)
    Lamberto Book: Lamberto Gobbi (vittima, maschio)
    Gaspare Di Jenno: Vittima (maschio)
    Giuliana Melis: Vittima (femmina)
    Faridah Malik: Fatimah - vittima (femmina)
    Graziella Aniceto: Graziella - vittima (femmina)
    Renata Moar: Vittima (femmina)
    Dorit Henke: Doris - vittima (femmina)
    Antiniska Nemour: Vittima (femmina)
    Benedetta Gaetani: Vittima (femmina)
    Olga Andreis: Eva - vittima (femmina)
    Tatiana Mogilansky: Figlia
    Susanna Radaelli: Figlia
    Giuliana Orlandi: Figlia
    Liana Acquaviva: Figlia
    Rinaldo Missaglia: Collaborazionista (soldato)
    Giuseppe Patruno: Collaborazionista (soldato)
    Guido Galletti: Collaborazionista (soldato)
    Efisio Etzi: Collaborazionista (soldato)
    Claudio Troccoli: Collaborazionista (repubblichino
       di leva)
    Fabrizio Menichini: Collaborazionista (repubblichino
       di leva)
    Maurizio Valaguzza: Bruno - collaborazionista
       (repubblichino di leva)
    Ezio Manni: Ezio - collaborazionista (repubblichino
       di leva e criptocomunista)
    Paola Pieracci: Ruffiana
    Carla Terlizzi: Ruffiana
    Anna Maria Dossena: Ruffiana
    Anna Recchimuzzi: Ruffiana
    Ines Pellegrini: Serva nera 
    Alessandro Gennari: Ufficiale della OVRA
    Dante Trazzi: Reclutatore
Doppiatori originali
    Giancarlo Vigorelli: Il Duca
    Giorgio Caproni: Il Monsignore
    Aurelio Roncaglia: L'Eccellenza
    Marco Bellocchio: Il Presidente
    Laura Betti: La Signora Vaccari 
Titoli in altre lingue: 
   Inglese: Salò, or the 120 Days of Sodom
   Tedesco: Die 120 Tage von Sodom
   Francese: Salò ou les 120 Journées de Sodome
   Spagnolo: Saló o los 120 días de Sodoma
   Svedese: Salò, eller Sodoms 120 dagar
   Russo: Сало, или 120 дней Содома
   Giapponese: ソドムの市 (Sodomu no ichi)
 
Trama: 
Anno del Signore 1944, Marzabotto, Repubblica di Salò. La narrazione si divide in tre parti, in qualche modo ispirate alla geografia dell'Inferno di Dante; in particolare ricalca la tripartizione del Girone dei Violenti. Questa peculiare struttura dantesca si trova già nell'opera di Sade. 
 
1) Antinferno 
Quattro libertini sadiani, i Signori, soprannonimati il Duca, il Monsignore, L'Eccellenza e il Presidente, si chiudono in una villa sontuosa con un gran numero di giovani prigionieri provenienti da familie antifasciste e sovversive, rastrellati dai soldati repubblichini e dalle SS. Siglano quindi un patto di sangue: ciascun Signore dà una propria figlia in sposa a un altro suo pari. Stabiliscono il Codice, che detta alle loro vittime le draconiane regole di condotta, che le degradano a oggetti. La villa è isolata dal resto del mondo, i Signori vi esercitano il potere assoluto. I prigionieri sono destinati a compiere orge sodomitiche, incestuose e adulterine. Gli atti vaginali sono banditi e puniti con l'amputazione di un arto. Anche per il più piccolo e insignificante atto di devozione religiosa è decretata come punizione la morte.
 
2) Girone delle Manie 
La prima Megera, la Signora Vaccari (così chiamata dal cognome del suo primo cliente), descrive le sue esperienze sessuali giovanili seguendo con voce cantilenante le note del piano. Parte da quando aveva sette anni e un professore dall'enorme favone le ha schizzato sulla faccia il materiale genetico, per poi proseguire con descrizioni sempre più hard, come quello del libertino che era schifato dalla visione della sua vulva e che l'ha fatta girare a pancia in giù per iniziarla alla penetrazione anale. I pruriginosi racconti della Signora Vaccari infiammano i Signori, che si abbandonano a sevizie sui gracili corpi delle loro vittime, aiutati dalle reclute repubblichine. Uno di questi militari mette una ragazza corvina a carponi e le infila nell'intestino il gigantesco fallo eretto. Lei urla di strazio, poi si quieta mentre il suo violatore anale la stantuffa. Purtroppo la sequenza viene guastata dall'intervento del laidissimo presidente, un lubrico sodomita passivo che pretende di essere sodomizzato dal giovane: gli impone di estrarre il membro dal budello della fanciulla, quindi se lo spinge tra le chiappe! Come dimenticare la visione incubica del volto distorto e congestionato del Presidente, mentre il bombardiere gli devasta lo sfintere?  
Dopo essersi sfiniti con una giornata di eccessi, i Signori si ritirano in una grande stanza da letto, quindi disquisiscono dottamente su tematiche come l'etica del libertinismo e l'intrinseca anarchia del potere. Tra cicchetti di whisky e ciniche barzellette, citano a memoria testi di Klossowski, Baudelaire, Proust e Nietzsche, talvolta facendo qualche piccola confusione. 
Ogni nuovo giorno, le aberrazioni riprendono vigore. Un ragazzo e una ragazza, entrambi dai capelli biondicci, vengono uniti in un matrimonio farsesco e subito dopo separati. Viene loro impedito di copulare e finiscono sottoposti separatamente a sevizie. Poi le vittime vengono tenute al guinzaglio e viene imposto loro di comportarsi come cani. Ogni dignità umana è annichilita. Il cibo viene gettato o messo in ciotole metalliche. In un'occasione, un boccone di polenta è riempito a bella posta di chiodi: la ragazza che lo porta alla bocca, una delle figlie-spose, subisce lesioni e perde un copioso fiotto di sangue.
 
3) Girone della Merda 
La seconda Megera, la Signora Maggi, intrattiene i Signori e gli ospiti parlando della sua infanzia travagliata, del suo esordio nel mondo della prostituzione, delle sue pratiche anali, oro-anali e scatofile. Narra la storia di un vecchio libertino moribondo, che intendeva spirare adorando il buco del culo di una puttana. Così la Signora Maggi ha avvicinato le sue natiche alla bocca del libertino, che ha le leccato avidamente l'ano infilando la lingua nel budello. Quindi l'adoratore ha chiesto di poter ingurgitare gli escrementi, che lei gli ha prontamente rilasciato in bocca. Si riconosce subito una forma di Viatico Nero, una specie di rito satanico in cui viene parodiata e dissacrata la Transustanziazione. 
Tra le altre cose, la Signora Maggi racconta di aver ucciso sua madre nel corso di un litigio, perché non voleva accettare le sue attività prostitutive. Una prigioniera biondiccia piange a dirotto, perché pensa alla propria madre morta per proteggerla. Il suo strazio eccita i Signori e in particolare il Duca, che defeca uno stronzo scuro sul pavimento e obbliga la vittima a mangiarlo con un cucchiaio. 
Il culmine del Girone è un banchetto fecale a base degli escrementi raccolti dalle vittime, per festeggiare il matrimonio dell'Eccellenza con Sergio, un giovane biondiccio dai capelli mossi vestito da sposa e imboccato con abbondanti forchettate di merda. Viene poi indetto un concorso di bellezza per premiare colui o colei che ha il deretano più bello: prigionieri e prigioniere sono messi a carponi nella semioscurità, in modo tale che nessuno possa indovinare il loro sesso (cosa che potrebbe condizionare il giudizio). Il premio è la morte immediata, tramite una pistolettata in una tempia. Vince Franco, un ragazzo dai tratti somatici marcati, ma la revolverata promessa è a salve: non sfugge ai carnefici che la morte sarebbe una benedizione e che non può essere facilmente concessa.
 
4) Girone del Sangue 
Le danze iniziano con un matrimonio fittizio, in cui il Presidente, il Duca e l'Eccellenza, acconciati come vecchie carampane, si uniscono ad altrettanti soldati. La cerimonia è celebrata dal Monsignore, che poco dopo sarà lui stesso posseduto sodimiticamente da un giovane nerboruto dotato di un colossale cazzone, una vera e propria sciabola di carne che affonda nell'intestino. Dopo essere stato sfondato e riempito di sperma, il Monsignore fa un giro d'ispezione tra i prigionieri nelle loro stanze. Si è instaurato un odioso sistema di tradimenti e delazioni. Tutti iniziano a tradirsi a vicenda in modo sistematico: Claudio rivela che Graziella nasconde una fotografia, Graziella a sua volta rivela che Eva e Antiniska hanno segretamente una relazione sessuale lesbica. Le due amanti, colte in flagrante, denunciano il repubblichino di leva Ezio, accusandolo di copulare ogni notte con una serva africana. I Signori sorprendono gli amanti nudi e avvinghiati. Ezio alza il braccio sinistro col pugno comunista e viene crivellato da molti colpi di arma da fuoco; la serva africana viene fulminata subito dopo con una revolverata nel cranio. Umberto, da vittima che era, viene scelto per sostituire Ezio. L'indomani, il Duca riunisce le vittime per annunciare i nomi di coloro che saranno sottoposti alla punizione capitale tramite tormenti aberranti: sono le quattro figlie-spose, sei ragazzi e sei ragazze, per un totale di sedici. A ciascun condannato viene consegnato un nastro azzurro. Chi non è stato chiamato, se continua la sua collaborazione, può sperare di seguire i Signori a Salò.
La terza Megera, la Signora Castelli narra la storia di un libertino che tortura in modo atroce le vittime usando macchinari manovrati da carnefici vestiti da diavoli. Nel cortile, i condannati vengono straziati, mutilati, marchiati, bruciati, impiccati, scotennati, stuprati, impiccati, mentre ogni libertino sadiano fa il suo turno per contemplare questi orrori, come un voyeur masturbante. La Pianista, affacciatasi alla finestra aperta, si rende improvvisamente conto con orrore delle atrocità che vengono commesse: si getta nel vuoto e muore di colpo nell'impatto, col cranio fracassato.  
 
5) Epilogo 
Due giovani soldati repubblichini, testimoni delle torture e delle uccisioni, ballano assieme qualche goffo passo di valzer. Uno chiede all'altro quale sia il nome della ragazza che lo sta aspettando e questi risponde che si chiama Margherita.
 
Citazioni: 
 
"Tutto è buono quando è eccessivo."
(Il Monsignore) 

"Ebbene sua eccellenza, si è convinto: è dall'abisso di coloro che non godono ciò che godo io e soffrono i peggiori disagi che deriva il fascino di poter dire a se stessi "comunque io sono più felice di questa canaglia che si chiama popolo". Ovunque gli uomini siano uguali e non esista questa differenza nemmeno la felicità esisterà mai."
(Il Duca) 

"Noi Fascisti siamo i soli veri Anarchici. Naturalmente, una volta che ci siamo impadroniti dello Stato. Infatti la sola vera Anarchia è quella del Potere."
(Il Duca)

"Imbecille! Come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell'Eternità, se l'Eternità potesse avere dei limiti?" 
(Il Monsignore) 
 
"Vi renderete conto che non esiste cibo più inebriante, e che i vostri sensi trarranno nuovo vigore per le tenzoni che vi attendono."
(La Signora Maggi, parlando della merda)
 
"Wie ihr wohl wißt, es genügt nicht... den selben Menschen immer wieder zu töten. Es ist dagegen zu empfehlen so viel Wesen wie möglich umzubringen."
("Come ben sai, non è soddisfacente uccidere la stessa persona più e più volte. Sarebbe raccomandabile uccidere quanti più esseri viventi possibile").
(La Signora Castelli)

Dialoghi: 

Il Duca: "Il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana. Il più ambiguo, perché accetta le norme sociali per infrangerle."
Il Monsignore: "C'è qualcosa di più mostruoso del gesto del sodomita, ed è il gesto del carnefice"
Il Duca: "È vero, ma il gesto del sodomita ha il vantaggio di poter essere ripetuto migliaia di volte."
Il Monsignore: "Si può trovare anche il modo di reiterare il gesto del carnefice."  
 
Presidente: "Carlo! Metti le dita così. Sei capace di dire "non posso mangiare il riso" tenendo le dita così?"
Carlo: "Non posso mangiare il riso!"
Presidente Durcet: "E allora mangia la merda!"

Corrispondenze dei Signori nell'opera di Sade: 
 
   Il Duca: Il Duca di Blangis
   Il Presidente: Il Banchiere Durcet (Presidente della Banca
       Centrale)
   Il Monsignore: Il Vescovo
   L'Eccellenza: Il Presidente de Curval (Presidente della
       Corte d'Appello) 
 

Recensione: 
Lo scandalo provocato da questa potente pellicola è stato immenso e non accenna a placarsi. Ancora a distanza di tanti anni, moltissimi commentatori definiscono il capolavoro pasoliniano "violento", "vomitevole", "una pugnalata nello stomaco", "allucinante" e via discorrendo. A dire il vero, posso guardare anche le sequenze più truci con assoluta tranquillità mentre mangio, senza perdere l'appetito. Mi rendo conto che la mia reazione è qualcosa di molto raro. Essendo la mia stirpe destinata all'Estinzione, non ho alcuna paura. Tutto ciò che nella vita mi può capitare, avrà la sua fine quando Azrael verrà a ghermirmi. Così non è per coloro che hanno procreato. Ogni genitore, vedendo Salò, si sentirà invadere dall'inquietudine e dal terrore. Penserà questo: "E se capitasse a mio figlio? E se capitasse a mia figlia?" Oppure: "E se capitasse ai miei nipoti, ai miei pronipoti?"  
Sono stati scritti innumerevoli trattati nel tentativo di spiegare il significato delle sequenze sadiane, ritenute di volta in volta metafore del potere della borghesia, del potere della dittatura fascista, del consumismo, della società edonistica, persino della scuola dell'obbligo. Ecco così che il Duca, il Monsignore, l'Eccellenza e il Presidente acquistano l'apparenza di geroglifici del potere dinastico, religioso, giudiziario ed economico. Tutte questa massa di estenuanti elucubrazioni politiche e sociali lascia il tempo che trova e in fin dei conti non risolve nulla. Sono consapevole che la parola "metafora" era usata dallo stesso regista. Penso che fosse lo spirito di quei tempi, in cui nessuna narrazione era accettata dal pubblico se non era vista come una "metafora" di qualcosa. Trovo che sia necessario andare oltre. Me ne esco così con una chiave d'interpretazione per certi versi rivoluzionaria: e se Salò fosse la pura e semplice storia di un gruppo di carnefici sodomiti e delle pratiche da loro inflitte a vittime inermi? Se fosse da interpretarsi in senso letterale? Se vedo un cazzone che si infila nel culo, perché diamine dovrebbe essere un'allegoria di qualcosa? Semplice. È innanzitutto un cazzone che si infila nel culo! È il potere in sé ciò che il regista ci mostra, il potere dell'essere umano sull'essere umano. In quanto tale, senza infingimenti. Per Caligola era un atto di voluttà infliggere supplizi efferati esercitando un arbitrio assoluto sulle vite dei suoi sudditi, che erano terrorizzati dalla sua presenza. Non c'era alcun bisogno di una spiegazione razionale. È proprio questo che non capiscono i critici cinematografici, i radical chic intellettualoidi, etc.
Troppo spesso si è detto che Salò sarebbe il testamento poetico di Pasolini, ma penso che poche cose siano più lontane dal vero. Egli cercava infatti di realizzare una Trilogia della Morte, contrapposta alla Trilogia della Vita, che era composta da Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974). Ebbene, nelle sue intenzioni Salò doveva essere proprio il primo film della Trilogia della Morte. Si converrà che con un simile progetto in mente, non si fanno testamenti di sorta. Mi piacerebbe riuscire a immaginare come sarebbero stati il secondo e il terzo capitolo della Trilogia della Morte! Purtroppo, non potremo mai nemmeno immaginarcelo.
 
Il potere della censura
 
Se si dovesse fare un riassunto dell'accanita persecuzione giudiziaria che si è abbattuta su questo film, forse non basterebbe un'enciclopedia per esaurire l'argomento. Furono aperti più di 30 processi postumi (secondo alcuni sono stati 31, secondo altri addirittura 33) e la pellicola passò da un sequestro all'altro. Ogni volta che veniva proiettata, c'era qualche grave rogna che portava nuovamente alla sua scomparsa. Trovo difficile mettere a fuoco questo complesso percorso persecutorio. Rimando quindi alle numerose fonti presenti nel vasto Web, in cui si possono trovare dettagli e approfondimenti. Ecco un link che può essere utile:


Pasolini fu assassinato sulla spiaggia dell'Idroscalo di Ostia, il 2 novembre 1975, prima dell'uscita del film. Giuseppe "Pino" Pelosi, un diciassettenne di Guidonia Montecelio già noto come ladro e "ragazzo di vita", fu arrestato e incolpato dell'omicidio. Ammise di aver investito molte volte il corpo del regista con l'automobile, schiacciandolo in seguito a una lite furibonda. Per tale delitto fu quindi condannato, eppure a distanza di molti anni negò ogni coinvolgimento. Il caso rimane irrisolto. Sono state fatte moltissime ipotesi, anche complottistiche, per spiegare l'accaduto. Nessuno potrà mai togliermi dalla mente l'idea che le motivazioni della morte del regista abbiano in qualche modo a che fare con Salò. A parer mio, politici potenti devono aver commissionato l'uccisione, perché non volevano che la popolazione arrivasse a concepire atti sessuali considerati  eversivi. Oggi nel Web si trovano con grande facilità immagini e video di atti di sesso anale e di coprofagia, solo per fare qualche esempio, ma dobbiamo tener conto della realtà dell'Italia dell'epoca, dominata dalla Democrazia Cristiana, in cui non si respirava ed era un problema già menzionare le gambe dei tavoli. Non c'è più la soffocante cappa della censura che rese difficile la vita a Pasolini, ma dobbiamo combattere contro la minaccia del politically correct, ancor più grave e corrosiva.  


L'anarchia di ogni potere 
 
Queste sono le parole del regista sulla sua opera: 

"Il film è preso da ‘Le 120 giornate di Sodoma’ di De Sade, ma è ambientato durante la Repubblica di Salò, cioè tra il ’44 e il ’45. Quindi c’è molto sesso. Ma il sesso che c’è nel film è il tipico sesso di De Sade, la cui caratteristica è esclusivamente sadomasochistica, in tutta l’atrocità dei suoi dettagli e delle sue situazioni. A me questo sesso interessa come interessa a De Sade, per quello che è, ma nel mio film tutto questo sesso assume un significato particolare ed è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano. La mercificazione del corpo umano, la riduzione del corpo umano, è tipica del potere, di qualsiasi potere. Quindi il mio film è un film contro qualsiasi forma di potere e precisamente contro quella che io chiamo l’anarchia del potere, ed è questa la ragione per cui ho scelto Salò e la Repubblica fascista di quel periodo, perché mai come in quel momento il potere è stato anarchico, arbitrario e gratuito, potendo fare qualsiasi cosa". 
 
E ancora: 
 
"Il reale senso del sesso nel mio film è quello che dicevo, cioè una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto. Tutto il sesso di de Sade, cioè il sadomasochismo di de Sade, ha dunque una funzione ben specifica, ben chiara. Cioè quella di rappresentare ciò che il potere fa del corpo umano, la riduzione del corpo umano alla cosa, la mercificazione del corpo. Cioè praticamente l'annullamento della personalità degli altri, dell'altro. È quindi un film non soltanto sul potere, ma su quello che io chiamo "l'anarchia del potere", perché nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune. [...] Questo vuole essere un film sull'inesistenza della storia. Cioè la storia così come vista dalla cultura eurocentrica, il razionalismo e l'empirismo occidentale da una parte, il marxismo dall'altra, nel film vuole essere dimostrato come inesistente... Beh! Non direi per i nostri giorni, lo prendo come metafora del rapporto del potere con chi è subordinato al potere, e quindi vale in realtà per tutti. Evidentemente la spinta è venuta dal fatto che io detesto soprattutto il potere di oggi. È un potere che manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio di culture viventi, reali, precedenti."

Il concetto è sacrosanto: ogni dittatore è anarchico, perché non deve rendere conto a nessuno e non riconosce alcun potere superiore al suo. Ovviamente i suoi sottoposti sono soltanto ingranaggi nel meccanismo di stritolamento. L'anarchia è come la corona, soltanto il Sovrano la può portare. Se a farlo è qualche suddito, allora diventa un crimine e un pericolo.
Facciamo un esempio concreto. Adolf Hitler non amava Max Stirner. Eppure era in tutto e per tutto uno stirneriano puro: solipsista, nichilista, individualista, egoista, capace di affermare l'unico e la sua proprietà. Non tollerava che altri al di sotto di lui portassero avanti queste idee, perché ciò avrebbe significato l'inizio della fine del suo potere.
Naturalmente la parola "anarchia" in questo contesto non ha nulla a che vedere col significato che comunemente le masse le attribuiscono.
 

Aldo Valletti nel ruolo del Presidente

Il fulvo e paonazzo Valletti (Roma, 1930 - Roma, 1992) fu scelto per la sua fisionomia grottesca, per i suoi lineamenti faineschi, da freak. I suoi occhi microscopici e scuri ardono di una luce assolutamente malsana. Quando chiesero a Pasolini perché gli avesse assegnato il ruolo del Presidente, rispose così: "Si tratta di un generico che in più di vent'anni di lavoro non ha mai detto una battuta".
In una intervista sul film, il regista affermò questo: "I signori e i potenti li ho scelti parte tra gli intellettuali in grado di recitare (Uberto Paolo Quintavalle, e alcuni doppiatori), parte tra persone che non dovessero recitare ma solo essere (Giorgio Cataldi e Aldo Valletti), e parte tra attori (Paolo Bonacelli, Elsa de Giorgi)".
Ezio Manni, che interpretò un repubblichino di leva, ebbe a dire: "Valletti era così come lo vedi in Salò, un imbranato. Era dolce, timoroso, a fine giornata si chiudeva in albergo e non usciva più. Diceva che doveva prepararsi per il giorno dopo, poi veniva sul set e sbagliava tutto. Si scordava le battute, si bloccava. Quando doveva torturare i ragazzi con la candela accesa, gli tremava la mano. Nella scena della mia uccisione, non gli sparava la pistola, una frana".
Per questi motivi e per la sua scarsa capacità recitativa che fu scelto di farlo doppiare da Marco Bellocchio, collaboratore di vecchia data del regista.
Uberto Paolo Quintavalle aggiunge altre informazioni non proprio eulogistiche: "Un ex seminarista che non si era poi fatto prete e aveva tirato avanti fino allora, per venticinque o trent'anni cioè, dando ripetizioni di latino e facendo la comparsa all'Opera di Roma o a Cinecittà".  
Eppure la barzelletta del Presidente su Perotto è tuttora definita "agghiacciante". A me sembra del tutto innocua. Eccola. Un uomo deve incontrare un amico di nome Perotto, a notte fonda. Si può immaginare che intenda sodomizzarlo. A un certo punto sente qualcuno muoversi. "Sei Perotto?", chiede. Quello risponde: "Quarantotto!"
Certo, il fatto considerato "agghiacciante" dal pubblico è che la barzelletta è raccontata in presenza di una ragazza sgozzata, uccisa per aver compiuto un atto di devozione religiosa.
 
 
Paolo Bonacelli nel ruolo del Duca

Senza dubbio Paolo Bonacelli, nato a Civita Castellana nel 1937, è il migliore attore tra coloro che hanno recitato in questa pellicola. Lo trovo una spanna al di sopra degli altri. La sua interpretazione incarna alla perfezione lo spirito perverso del Divin Marchese! Sprovvisto di pazienza, vorrebbe piegare l'Universo al suo volere, dando in escandescenze quando per qualche motivo non ci riesce. I suoi tremendi scatti d'ira sono proverbiali. Prima di Salò, Bonacelli aveva al suo attivo una parte di attore in ben 18 film. Tra questi menzioniamo L'arcidiavolo (Ettore Scola, 1966), Giordano Bruno (Giuliano Mondaldo, 1973), il bizzarro Milarepa (Liliana Cavani, 1974) e il profetico La banca di Monate (Francesco Massaro, 1975).
A questo punto devo riportare uno strano fatto che mi è accaduto qualche anno fa. Si tratta di un caso di prosopagnosia. Era il 2020. A causa dei postumi di un'infezione da SARS-CoV-2, il mio cervello ha avuto per quasi un anno gravi difficoltà a riconoscere i volti. Quando vidi una foto del Duca, interpretato magistralmente da Bonacelli, lo scambiai per Ramzan Khadyrov. "Ecco, questo è il ceceno biondiccio!", commentai su Facebook a un carissimo amico, che rimase esterrefatto. In realtà la somiglianza tra l'attore e il politico ceceno è a dir poco vaga. Detto ciò, non credo proprio che Khadyrov sarebbe entusiasta delle attività sodomitiche del Duca! 
 
 
Sul ponte di Perati 

A un certo punto, il Duca biondiccio intona un canto della Brigata Alpina "Julia", seguito dagli altri Signori e da alcuni degli ospiti. Riporto nel seguito il testo completo della canzone, di cui nel film si sente soltanto una sintesi delle prime due strofe. Alcuni versi sono redatti in un veneto molto italianizzato, mentre altri sono in italiano.

Sul ponte di Perati

Sul ponte di Perati
bandiera nera:
l'è il lutto degli Alpini
che va a la guera.

L'è il lutto della Julia
che va a la guera
la meglio gioventù
che va sot'tera.

Sull'ultimo vagone
c'è l'amor mio
col fazzoletto in mano
mi dà l'addio.

Col fazzoletto in mano
mi salutava
e con la bocca i baci
la mi mandava.

Queli che son partiti
non son tornati
sui monti della Grecia
sono restati.

Sui monti della Grecia
c'è la Vojussa
col sangue degli Alpini
s'è fatta rossa.

Un coro di fantasmi
vien zo dai monti:
l'è il coro de li Alpini
che son morti.

Gli Alpini fan la storia,
la storia vera:
l'han scritta con il sangue
e la penna nera.

Alpini della Julia
in alto il cuore:
sul ponte di Perati
c'è il Tricolore!

Il componimento commemora la grande battaglia del Ponte di Perati tra la Grecia e l'Albania (24 aprile 1941), che coinvolse truppe italiane e greche. Dopo sei mesi di combattimenti durissimi e logoranti, la 9° Armata Italiana occupò nuovamente il ponte, congiungendosi con le forze tedesche. Perati è il villaggio di Perat in Albania. 
Il Duca ovviamente considera la bandiera nera menzionata nel canto come il vessillo fascista, derivato direttamente da quello anarchico - piaccia o no. In occasione della proiezione del film il 10 gennaio 1976, ci fu un risvolto penale. L'Associazione Nazionale degli Alpini fu offesa e indignata nell'udire il canto intonato da ripugnanti aguzzini: alle proteste seguì subito una denuncia. I nervi erano scoperti, bastava un nonnulla per finire in tribunale!  


Uberto Paolo Quintavalle nei panni dell'Eccellenza 

L'Eccellenza è un uomo di un'intelligenza vivissima e attento ai dettagli. Scansiona l'intera realtà che si offre ai suoi sensi e la mappa con la potenza delle sue sinapsi. Vuole sapere tutto. In particolare pretende che i racconti sui libertinaggi siano completi della descrizione particolareggiata dei cazzoni smisurati dei protagonisti. Quando ho voluto passare dal personaggio alla conoscenza del suo interprete, sono rimasto sorpreso. L'attore, nato a Milano nel 1926 e deceduto a New York nel 1997, era di famiglia aristocratica, iscritta nel Libro d'Oro della Nobiltà Italiana. Era figlio di Bruno Antonio Quintavalle, Conte di Monasterolo d'Adda, e di Paola Marelli, figlia dell'industriale Ercole Marelli. Era giornalista e scrittore, ma non aveva precedenti esperienze cinematografiche. Collaborò con il Corriere della Sera e proprio nel contesto giornalistico conobbe Pasolini, essendo tra i primi ad essere informato del progetto del film sodomitico. Fu autore di diversi romanzi, tra cui La festa (1953), Code senza lucertola (1965), Il viaggiatore supercompresso (1964), Pao Pao, anticamera del paradiso (1965), Il Dio riciclato (1989) e In cerca di Upamanyu (1995). Devo assolutamente approfondire la conoscenza degli scritti di questo autore.


Giorgio Cataldi nei panni del Monsignore

All'inizio del Girone del Sangue, durante la surreale celebrazione del matrimonio posticcio tra tre dei Signori e gli stalloni, vediamo il Monsignore vestito come un antico sacerdote di Baal. Indossa un surreale abito di porpora che è come un'impalcatura grottesca. Il ministro, nell'atto di officiare le unioni tra i suoi compari travestiti grottescamente da carampane e altrettanti montatori, pronuncia parole incomprensibili che si sentono a malapena. Come le ho udite, mi è parso che avessero la sonorità di un antico idioma della Mezzaluna Fertile. Non sono del tutto sicuro che la formula sia la stessa per tutte le "coppie"; in ogni caso, riascoltando di continuo l'ultima celebrazione, quella in cui la voce dell'officiante è più chiara, sono riuscito a distinguere questo frammento: "atmàn daghishmàn vaesatràn atmanàm mahèma itma samarkàn...". Seguono altre due o tre parole che non sono riuscito in alcun modo a trascrivere. La mia trascrizione potrebbe essere distorta e inesatta. All'inizio ho pensato che questa fosse la perduta lingua di Sodoma. Presto l'illusione è caduta e mi sono accorto che è sanscrito pronunciato in modo approssimativo. Senza approfondire troppo, così di getto si possono tradurre le seguenti parole: 
 
ātman "tu stesso", "il sé"
vaiśastra "governo, regola"
ātmānaṃ "corpo" 
mahema "che possiamo onorare"
samarhana "mostrare onore", "offerta fausta" 
 
Si comprende all'istante che queste traduzioni sono compatibili con una formula nuziale. Così il mistero è risolto. Quello che non è del tutto chiaro è cosa può aver indotto Pasolini a compiere questa scelta. Credo che fosse ben consapevole della necessità di dare una lingua concreta a Sodoma e che per questo abbia ideato la sequenza: voleva attrarre l'attenzione. Ovviamente non era a conoscenza di come si parlasse nella Pentapoli, si è limitato a darcene un'idea e trasmettere il dubbio, l'inquietudine che la conoscenza di tale eredità possa essersi trasmessa in modo esoterico, segreto, dall'epoca di Lot fino ad oggi. Ha così preso il sanscrito, che tanto era conosciuto da ben poche persone in Italia. In fondo, aveva scarsa importanza l'ontologia linguistica sodomitica: Dante Alighieri non sapeva nulla della lingua parlata dai Demoni dell'Inferno, eppure ci ha trasmesso un immortale "Papè Satàn, papè Satàn aleppe".  
Oltre al film sodomitico, l'attore Giorgio Cataldi ha interpretato soltanto La ragazza alla pari (Mino Guerrini, 1975). Non si hanno molte informazioni sulla sua vita: si ignora persino la sua data di nascita, nemmeno si sa se sia tuttora in vita. Dovrebbe essere nato a Roma e apparteneva all'ambiente degradato delle borgate. Fu scoperto da Pasolini, che probabilmente rimase colpito dalla sua espressività e dai suoi occhi cerulei. Avrebbe dovuto interpretare il ruolo del protagonista di Accattone (1961); non poté farlo perché si trovava in prigione e fu così sostituito da Franco Citti. Non comparve nel primo film di Pasolini. Comparve nell'ultimo.
 

Le tre Megere e la Pianista
 
Il duetto comico-grottesco della Signora Vaccari e della Pianista è memorabile. È un numero di bravura recitato in perfetto francese. Pasolini era un entusiasta ammiratore del regista còrso Paul Vecchiali, nato ad Ajaccio nel 1930. In particolare era rimasto impressionato dal film Femmes Femmes (1974), alla cui proiezione aveva assistito a Venezia. Volle così che le sue protagoniste, la bionda Hélène Surgère (1928 - 2011) e la rossiccia Sonia Saviange (vero nome Christine Vecchiali, 1923 - 1987), recitassero proprio in Salò. Il duetto a quanto pare si trova nel film di Vecchiali ed è stato qui riproposto tal quale. Il risultato può dirsi eccellente. Mi piace molto Elsa de Giorgi (1914 - 1997) nel ruolo della Signora Maggi, famosa dovunque per il suo sensualissimo culo. L'attrice era di stirpe nobile, figlia di un'antica famiglia aristocratica umbro-marchigiana, i Giorgi Alberti di Bevagna e Camerino, patrizi di Spoleto. Purtroppo di questi tempi non la ricorda più quasi nessuno, ma è stata un'attrice e una scrittrice molto prolifica; come regista ha diretto il film Sangue più fango uguale logos passione (1974), oggi praticamente introvabile.
La meno riuscita delle tre Megere sembra essere la Signora Castelli, interpretata da Caterina Boratto (1915 - 2010). Forse questa mia impressione deriva dal fatto che la vedo fredda rispetto alle sue compari e che le è stato riservato un ruolo meno prominente. Inoltre va detto che lo spettatore, arrivato in pieno Girone del Sangue già sovraccarico di input sensoriali bizzarri, si trova davanti alle scene di tortura ed è meno incline a prestare troppa attenzione alla figura della tenutaria. 
 

Le feci finte 

Gli escrementi usati nelle scene di coprofagia non erano ovviamente reali, soprattutto per motivi sanitari. Furono realizzati moltissimi stronzi posticci con una grossolana mistura di cioccolato, cacao in polvere, marmellata di arancia amara, canditi e altri ingredienti dai sapori stridenti (sembra che ci fosse anche del formaggio spalmabile, ma non ne sono sicuro). Nessuna fonte riporta contemporaneamente tutti gli ingredienti citati: alcuni menzionano i canditi anziché la marmellata, altri il cacao in polvere anziché il cioccolato; devo dire che non sono riuscito a reperire la ricetta dell'intruglio nel Web. Le reazioni di disgusto erano comunque reali, anche se non arrivano ai conati di vomito che sarebbero stati indotti in molte persone dal materiale fecale autentico. Sembra che il solo Bonacelli abbia gradito molto il dolciume dall'aspetto escrementizio, ingozzandosene con avidità! Non sarebbe male fondare una branca della pasticceria che imita gli escrementi! Non mancherò di tenere informati dei miei esperimenti culinari gli eventuali lettori.
 
Dio! Dio! Perché ci hai abbandonati? 
 
Pasolini non fa mancare nemmeno qualche interessante spunto di riflessione teologica. Una ragazza, immersa in una tinozza piena zeppa di feci calde assieme alle sue compagne, a un certo punto insorge, si leva piena di rabbia ed esclama: "Dio! Dio! Perché ci hai abbandonati?" Il suo urlo disperato riecheggia quello di Cristo sul Golgota, pronunciato poco prima di spirare sulla croce: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni?" (variante: "Elì, Elì, lama sabachthani"). In aramanico significa per l'appunto questo: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?" La risposta che mi sento di dare alla ragazza è la seguente: "Se Dio fosse egli stesso un libertino sadiano, proprio come i quattro Signori, sarebbe tutto più chiaro."  
 
Scomode analogie 
 
Salta agli occhi che il tiranno dotato di maggior potere è proprio la divinità. Che sia il Dio delle religioni abramitiche oppure un qualsiasi essere divino/demoniaco di una qualsiasi tradizione politeista, in fondo poco importa. Il concetto di divinità, introdotto nel mondo a causa della paura, mostra una sorprendente somiglianza con quello di libertino sadiano. La divinità detta la sua legge assurda e arbitraria, costringe l'adoratore con la minaccia, la punizione, l'insopportabile senso di colpa e di peccato. Questo è il fondamento dell'idea stessa di religione normativa, una funesta innovazione formatasi nel Neolitico.  


Il problema del finale 
 
Pasolini a un certo punto si trovò di fronte a una serie di enormi difficoltà. Che conclusione dare alla vicenda dei quattro libertini sadiani? Gli vennero in mente quattro diversi finali alternativi, nessuno dei quali ritenne soddisfacente. Eccoli, in estrema sintesi: 

1) A un certo punto compare una bandiera rossa al vento, con la scritta "È amore".  
2) Tutto finisce nella sala delle orge, coperta da bandiere rosse, in cui vittime e carnefici si scatenano al ritmo del boogie woogie. La bardatura comunista rappresenta l'arrivo di una nuova epoca.
3) I quattro Signori, usciti dalla villa, parlano tra loro, cercando di fare il punto sull'accaduto e sul suo significato. Finiscono quindi con l'autoassolversi, ritenendo le loro uccisioni "insignificanti" in confronto a quanto sta avvenendo nel mondo sconvolto dalla guerra.
4) Due giovani repubblichini, timidi e impacciati, ballano come se fossero ragazzo e ragazza, mentre la radio trasmette una canzone sdolcinata tipica di quei tempi. 
 
I finali 1) e 2) avrebbero mandato tutto in merda. No, non si può smerdare così una sublime sequela di atti di sadismo, sodomia e coprofagia con stronzate politiche banali, retoriche, inconsistenti, stupidissime. Pasolini lo capì all'istante. Sarebbe scaduto nella "morale psichedelica" tanto in voga in quegli anni. Sapete, le idiozie dei nuovi lotofagi che volevano trasformare Stalin in un figlio dei fiori. Il punto è che il regista detestava tutto ciò in modo viscerale. A quanto pare il finale 2) venne realmente girato, anche se non fu poi utilizzato: risultò confuso, caotico, del tutto vano. Il finale 3) avrebbe posto un problema ancora maggiore: siccome i fatti si svolgevano a Marzabotto, come mostrato chiaramente da un cartello stradale, si profilava il grave rischio di far passare il film per una giustificazione o minimizzazione della strage che avvenne in quel luogo il 29 settembre 1944. 
Come si poteva uscire da questo blocco? Pasolini scelse quindi il finale 4), quello dei due ragazzi repubblichini danzanti. 


Curiosità 
 
Maurizio Costanzo lavorò alla prima versione della sceneggiatura. Pupi Avati diede al copione alcuni contributi non accreditati. A quanto pare, chiese in modo esplicito che il suo nome fosse cancellato, forse perché si vergognava. 
 
Gli stalloni, dotati di falli colossali, in realtà portavano protesi peniene fatte di gomma e molto realistiche, tanto che si possono vedere persino le venature del prepuzio. 

Il film ha avuto una diffusione molto limitata a livello mondiale ed è tuttora bandito in molti paesi. Il paese in cui ha avuto una maggior diffusione è la Svezia, dove nel 1976 ha venduto ben 125.000 biglietti. Ciò significa che è stato visionato dall'1,5% della popolazione svedese. 
 
L'enigma del furto delle pizze
 
Nel corso della lavorazione del film, settantaquattro pizze di negativi scomparvero dalle celle frigorigere degli stabilimenti Technicolor di Cinecittà. Furono rubate anche bobine di altri due film: Il Casanova di Federico Fellini (Federico Fellini, 1976) e Un genio, due compari, un pollo (Damiano Damiani, 1975). Le tre pellicole avevano in comune la casa di produzione, la PEA, di proprietà di Alberto Grimaldi. Non si seppe mai chi trafugò questo materiale. Per la sua restituzione fu chiesto un riscatto di cento milioni di lire, ma Grimaldi rifiutò di cedere al ricatto. Il montaggio Salò fu effettuato comunque utilizzando due artifici:
1) i cosiddetti "doppi", ossia le scene girate da un'inquadratura diversa;
2) le pellicole "intermediate", che permisero di ricostruire i negativi tramite una tecnica innovativa messa a punto dalla Kodak.
Le pizze sottratte furono infine ritrovate dai Carabinieri il 2 maggio 1976, dopo l'uscita del film e dopo la morte del regista. È stato ipotizzato che Pasolini sia caduto nell'agguato all'Idroscalo di Ostia in seguito a un'informazione sul supposto ritrovamento delle pizze. Le prove tuttavia non sembrano esserci. 
 

Il genere nazi-erotico 
 
La critica ha spesso considerato Salò come il capostipite del genere nazi-erotico, detto anche nazisploitation, diffuso a metà degli anni '70 dello scorso secolo. Si tratta di una dozzina di pellicole imperniate sugli agghiaccianti esperimenti condotti da carnefici nazisti su prigionieri e prigioniere dei campi di concentramento. Le analogie con l'opera pasoliniana sembrano piuttosto superficiali, limitate all'imitazione di qualche sequenza. È più verosimile che il vero capostipite del nazi-erotico sia Salon Kitty (1976), diretto da Tinto Brass. Tuttavia si deve notare che l'attrice Antiniska Nemour, la provocante brunetta dai capelli crespi e dai vivaci occhi scuri, comparve in un nazi-erotico due anni dopo aver interpretato Salò: è L'ultima orgia del III Reich (1977), diretto da Cesare Canevari. La bella Antiniska mi è molto simpatica perché mi ricorda F., un'amica conosciuta ai tempi di Splinder.
Non sono un patito di film di nazisploitation, tuttavia devo notare che attualmente non potrebbero essere più girati e nemmeno concepiti nell'anticamera del cervello.  
 
Memorie di strani giorni
 
Ero uno studente universitario. Ricordo ancora un viaggio sul treno, in una giornata estiva assolata. C'era un pazzo che enunciava i fondamenti della sua fede. Affermava che il pane mangiato durante il giorno è pane, mentre il pane mangiato durante la notte è sterco. Evocava la coprofagia e menzionava a gran voce il titolo dell'opera del Marchese de Sade, Le 120 giornate di Sodoma. Con ogni probabilità, era rimasto traumatizzato dalle sequenze del film di Pasolini.  
 
Etimologia di Salò 

Il toponimo Salò non ha etimologia chiara. Tuttora rappresenta una grave crux: non si sono trovate proposte convincenti. Bisogna scartare senza indugio le storielle inventate ad hoc da topi di biblioteca ottocenteschi, che vogliono il nome di Salò derivato da un fantomatico lucumone etrusco Saloo o da un'altrettanto insostanziale regina etrusca Salodia. Possiamo dire questo: la forma latina del toponimo, attestata in epoca medievale, è Salodium, da cui deriva l'aggettivo salodiano. Verosimilmente la consonante -d- è antica e non deriva da eufonia, come vorrebbero i romanisti. Varianti di Salodium sono Salude e Salaude. Queste strane variazioni sono antiche e di difficile spiegazione.  Bisogna scartare, alla luce di queste attestazioni complesse, la derivazione dal latino salūs "salute". Nel Web si trova spesso menzionata una derivazione da una voce latina fantomatica, *salodium, che indicherebbe "sale e stanze di cui erano ricche le ville a lago di epoca romana". Si tratta di una formazione artificiosa fatta derivare dall'italiano sala, di chiara origine longobarda. Non poteva esistere in epoca imperiale. Da scartarsi anche l'accostamento al francone *sahla "salice". In realtà la forma germanica è errata, deve essere *salha, come l'antico alto tedesco salaha "salice". La proposta è implausibile già soltanto per la natura inesplicabile del suffisso -od- / -aud- / -ud-. Si potrebbe accostare Salò a idronimi paleoeuropei formati dalla radice *sal-, ma temo che ci vorranno molti anni di studi per arrivare a una conclusione ragionevole. Una curiosità: gli abitanti di Salò in gergo sono chiamati Salàm "Salami" o Salamì "Salamini".