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lunedì 18 ottobre 2021

LO STRANO CASO DEL CONTADINO SAPIENTE DI PEVERAGNO

Spesso emergono dai miei banchi di memoria stagnante scintille davvero mirabili. Ricordo ancora quando ero un adolescente foruncoloso e guardavo volentieri Portobello, la trasmissione di Enzo Tortora (RIP). I Millennials non ne sanno nulla, men che meno quelli della Generazione Z: sono persino incapaci di concepire un mondo senza gli smartphone e la connessione a Internet. Eppure un simile mondo è esistito e ne sono testimone. All'epoca Portobello aveva un enorme successo e in molti non vedevano l'ora che arrivasse la serata in cui andava in onda quel mercatino esotico, che rendeva note al grande pubblico cose stranissime, neppure immaginate nei sogni. Ricordo ancora oggi argomenti affascinanti di cui venni a conoscenza in gioventù. Fu allora che si risvegliò in me un grande interesse per le minoranze linguistiche e per le parlate criptiche. Una sera fu presentato il gergo degli ombrellai di una vallata del Piemonte, in cui le ragazze erano chiamate megèire, ossia "megere". Tutto ciò mi divertì moltissimo. Una sera fu presentata una comunità che parlava un idioma germanico, non rammento se fossero Cimbri o Walser. Mi è però rimasto impresso che si riunivano per giurare intorno a un grande albero considerato sacro, una quercia o forse un olmo. Mi sembra ancora ieri quando, un'altra sera, alcune persone di Carloforte, in Sardegna, presentarono al pubblico la loro lingua ancestrale, che era una varietà di genovese. Tortora aveva spiegato che quella lingua si chiamava Tabarkino e che derivava il suo nome dall'isola di Tabarka, in Tunisia, che era stata popolata da coloni genovesi venuti da Pegli. Ogni volta erano nuove meraviglie. Rimasi terrorizzato quando furono presentati terribili feticci di stregoneria, credo che fossero provenienti dalla Campania: masse immonde simili a pappagallini che si formavano nei materassi di piume e provocavano deperimento, bambole con spilli conficcati negli occhi, racconti di fattucchiere che scagliavano malefici facendo morire il pollame.

Accadde infine che una sera Enzo Tortora presentò un anziano contadino che abitava a Peveragno, un antico borgo in provincia di Cuneo, in Piemonte. Cosa aveva di particolare quest'uomo gracile e dall'indole vivace? La sua dote era ben rara. Parlava correntemente il latino e sapeva recitare a menadito l'Eneide. Cosa ancor più notevole, aveva appreso da autodidatta la lingua di Roma e l'opera di Virgilio, facendo affidamento soltanto sulle sue forze e sul suo ingegno. Questo mi sono detto: "Ormai quell'inconsueto latinista sarà certamente defunto, non fosse altro che per ragioni anagrafiche. Non sarà facile ormai trovare tracce della sua esistenza". Invece, incredibile dictu, sembra che egli sia tuttora in vita. Ho trovato un sito web che ne fa menzione. Me lo ricordavo un po' diverso da come appare nella fotografia che ho trovato in Rete, ma è senza dubbio lui. Ai tempi di Portobello non portava la barba e mi sembrava un po' raggrinzito, anche se la forma del cranio, così caratteristica, è senza dubbio quella e mi è rimasta impressa. Evidentemente le mie memorie sono state soggette a una processo di profonda distorsione percettiva, anche se non così radicale da impedire il riconoscimento. Si direbbe addirittura che il peveragnese sia ringiovanito! Ecco la pagina in cui si parla di lui:
 

Questa è la presentazione: 
 
ANGELO MERLATTI (Mondovì, 1937), contadino amante del latino, da lunghi anni usa questo idioma come lingua di conversazione avendola studiata da autodidatta (dice di sé: «Totam per vitam agros colui. Lucretio Vergilioque magistris, linguae nullo adiuvante studui latinae»). 
 
Tra i suoi capolavori, consultabili sul sito, si possono elencare questi: 
 
Dis aliter visum 
Casus dolens 
Meminisse iuvabit 
Linguae latinae reditus ad vitam Pamparati 
Sunt lacrimae rerum 
Habet hoc voluptas 
Vetera iuvat retractare 
Igne perenni lucet in medio focus amicus 
Patris morientis recordatio et memoria

Non è affatto comune questa dote di saper conversare in una lingua appresa dai libri. In genere i libri trasmettono una conoscenza legnosa, non duttile né malleabile, inadatta ad esprimere concetti in modo fluido. Chi ha studiato sui libri il latino (o l'inglese, non cambia molto), in genere pensa nella propria lingua e traduce mentalmente, applicando regoline, regolette, regolucce e regolacce. Si capisce invece che il contadino di Peveragno è in grado di pensare spontaneamente in latino senza dover applicare alcuna traduzione a pensieri formulati nella propria lingua nativa. Questo è certamente un fatto singolare e prodigioso che merita ulteriori studi. Per certi versi la sua figura mi ricorda quella di Vilgardo di Ravenna, che nel X secolo aveva avuto una visione di Virgilio, Orazio e Giovenale, rimanendone illuminato e proclamando che la Verità si trova negli scritti degli Autori dell'Antichità.  

Tempo fa scrissi di getto questi appunti, quando ancora facevo affidamento sui soli ricordi di Portobello, senza sapere che l'uomo fosse ancora in vita e ben operante:

"Il contadino di Peveragno era davvero un sapiente. Nel suo campo di studio senza dubbio lo era. Tale campo era il latino scolastico. Tuttavia di linguistica storica, di filologia romanza, di indoeuropeistica e simili, non sembrava sapere granché. Da quello che rammento, non applicava la metrica latina alla lettura dei versi di Virgilio: non usava le elisioni e gli accenti mobili così tipici della poesia. Pronunciava ogni singola parola come facevano i preti, come si faceva a scuola. Che significa? Del suo mondo, sapeva tutto. Il punto è che il suo mondo non era realmente l'antica Roma: era invece in qualche modo una sua costruzione mentale, un mondo fantomatico inventato dalla scuola, dalle sue secolari stratificazioni."  

Quando si proiettano immagini mentali di Roma nel passato, queste sono drammaticamente diverse dalla vera antica Roma. Mi domando cosa direbbe un latinista odierno se tornasse indietro nel tempo grazie a una mirabile macchina e sentisse l'Imperatore Augusto dire "DA MI AQUA CALDA" anziché "DA MIHI AQUAM CALIDAM". Tutti abbiamo bene in mente gli eccessi degli insegnanti del liceo, quelle -M finali potenti e assordanti come muggiti taurini, quel pronome MIHI pronunciato con due I staccate, anzi, addirittura con tre o quattro I: MIIII. Nel Medioevo invece si intercalava una consonante velare e si pronunciava MICHI. Non dobbiamo mai dimenticarcelo: Virgilio, se avesse sentito un moderno declamare i versi dell'Eneide, si sarebbe chiesto che razza di sannita o di umbro fosse mai quello che aveva davanti! Eppure, il contadino di Peveragno non resterebbe senza risorse in una situazione tanto sorprendente: se fosse proiettato all'epoca di Cicerone e di Cesare, saprebbe imparare con prontezza la pronuncia autentica degli Antichi e conversare con loro con la massima naturalezza, in breve volgere di tempo. Probabilmente all'inizio rimarrebbe esterrefatto, ma questo stupore non durerebbe a lungo: si metterebbe in opera in lui quella stessa sete di Conoscenza che lo ha portato ad apprendere la lingua scritta senza aiuto alcuno, giungendo a produrre testi che potrebbero essere stati vergati dallo stesso Virgilio.
 
Il problema della "riallocazione" del passato

Gli eternisti sostengono che se possiamo pensare agli eventi passati, è perché in qualche modo questi eventi esistono tuttora. Se gli istanti trascorsi non avessero realtà, se avessero smesso di sussistere - questo è l'argomento eternista - non sarebbero concepibili e non potremmo far riferimento a loro nella nostra mente. Così i filosofi che si occupano della natura del tempo, sono convinti che per negare che gli eventi passati esistano tuttora, sia necessaria una loro "riallocazione" nel presente. 
Lo studioso islandese Rögnvaldur Ingthorsson, che è un sobrio presentista, ritiene che sia inutile riempire il presente di entità astratte come gli eventi passati soggetti a questa "riallocazione"


Direi che non dovremmo parlare di "riallocazione", in alcun caso. Nulla viene davvero riallocato. Il passato non esiste più. Noi ne parliamo soltanto, unicamente tramite i suoi FOSSILI NEL PRESENTE. Siamo del tutto ciechi al passato. Possiamo riferirci al passato ed averne cognizione soltanto perché ne perdurano tracce analizzabili nel presente, che sono come le ammoniti visibili tuttora nelle sezioni di marmo che costituiscono il pavimento dell'ultimo piano della libreria Feltrinelli nella sede della Stazione Centrale di Milano. Un pavimento simile si trova sul pavimento del porticato di Piazza del Duomo, sempre a Milano. Quante volte ho meditato sulle conchiglie mineralizzate! Quei molluschi vissero molti milioni di anni fa, eppure qualcosa di loro è ancora coglibile dai nostri sensi, inglobato nel minerale. Da quei resti possiamo dedurre molto, ma non sarà mai come vedere davanti ai propri occhi un'ammonite viva. Il fatto che parliamo di entità come lo xenomorfo o Mickey Mouse non implica per necessità la loro reale esistenza in qualche recesso di un Multiverso forse soltanto fantomatico. Lo xenomorfo e Mickey Mouse esistono a livello iconografico nel nostro presente e non sono diversi da qualsiasi altro ente di cui abbiamo piena consapevolezza.
 
Che dire quindi della nostra capacità di raggiungere l'Episteme? Possiamo davvero conoscere una civiltà morta da secoli? Le cose stanno così: esistono tante copie dell'Antica Roma e della sua lingua quante sono le persone che la studiano e che la sognano. Sono tutte proiezioni di fossili che si trovano nel nostro presente, ma rielaborate e fabbricate da menti diverse. Ognuna di queste rappresentazioni mentali è soltanto uno scheletro della realtà, non ha in sé nulla di vero. Ancora lungo ed estenuante è il cammino verso l'effettiva capacità di cogliere il Noumeno!  

giovedì 14 ottobre 2021

RELITTI ALANICI, CELTICI E PRE-CELTICI NEGLI ARGOT DELLE ALPI PIEMONTESI E FRANCESI

Scorrendo l'opera di Albert Dauzat, Les Argots des Métiers Franco-Provençaux (1917), mi sono imbattuto in qualcosa di inatteso e sorprendente, scorrendo una lista di vocaboli dell'argot dei minatori di Usseglio, nell'Alta Valle della Stura, nel Piemonte alpino. Subito mi è caduto l'occhio su una parola: 
 
dána "acqua" 
 
Non ci sono dubbi sul fatto che si tratta di un vocabolo dell'antica lingua degli Alani, appartenente al ceppo iranico e giunta in Europa occidentale all'epoca della fine dell'Impero Romano. Gli attuali eredi di questo popolo glorioso vivono nel lontanissimo Causaco: sono gli Osseti, che hanno fama di grande valore guerriero e di essere implacabili nella vendetta; le loro donne sono di un'incredibile bellezza. 
 
Questa è la protoforma proto-indoiranica ricostruibile a partire dai dati delle lingue iraniche e indoarie:  

Proto-indoiranico: *dáHnu "acqua; fiume; succo"
 Proto-iranico: *dānu "fiume"
  Avestico: *dānu "fiume"
  Proto-scitico: *dānu "acqua; fiume"
    Alanico: *dān "acqua; fiume"
      Jassico: dan "acqua; fiume"
      Ossetico: дон (don) "acqua; fiume"
  Sanscrito: दानु dānu "goccia, rugiada" 
 
Idronimi slavi di chiara origine alanica:
  Don < *Dānu "Fiume"
  Dnepr < *Dānu apara "Fiume più lontano"
  Dnestr  < *Dānu nazdya "Fiume vicino"
 
La stessa radice, che Marija Gimbutas considerava preindoeuropea e nome della Grande Madre (Dana, Ana), si trova attestata nelle lingue celtiche, con ogni probabilità come resto di un precedente sostrato. In genere è considerarla inseparabile dalle attestazioni nelle lingue indoiraniche, anche se si può dimostrare che non tutto fila così liscio. Questi sono i dati relativi alle lingue celtiche insulari:   

Proto-Celtico: *Dānu- "Dea del Fiume"
  Irlandese antico: *Danu "Dea del Fiume" (gen. Danann)
  Gallese medio: Dôn, nome di una figura mitologica
    (presupposta femminile, anche se il genere non è indicato) 

L'attuale toponimo Doncaster (South Yorkshire, Inghilterra), documentato in latino come Dānum, deriva proprio dal britannico *Dānu-.

Nota:
Il nominativo dell'antico irlandese, *Danu, non è realmente attestato, bensì ricostruito dagli studiosi della fine del XIX secolo a partire dal genitivo Danann (irlandese medio Danand, Donand), che ha una vocale breve. A quanto ne so, il nome si trova soltanto nell'etnonimo mitico Túatha Dé Danann, generalmente tradotto come "Popolo della Dea Danu". Questo però è errato: una traduzione senza dubbio più corretta è "Popoli del Dio di Danann" (al plurale). La ricostruzione di *Danu presenta comunque gravi problemi fonetici e morfologici. Fatta per analogia di Ériu "Irlanda" (genitivo Érenn "dell'Irlanda), non tiene conto di questo fatto: un proto-celtico finale di parola si conserva in antico irlandese se preceduto da un'approssimante, mentre si dilegua se preceduto da altra consonante. Così Ériu termina in -u perché proviene da un precedente *Īwerijū (a sua volta da *Pīwerijū, alla lettera "Terra Grassa"). Così ci aspetteremmo che *Danu sia da un proto-celtico *Danijū. Una protoforma *Danū avrebbe dato invece *Daun. I filologi che hanno ricostruito *Danu non andavano tanto per il sottile: per loro Ériu "Irlanda" era corradicale del sanscrito ārya- "nobile" (da cui Ariani).

Esiste un importante derivato della radice *dānu-, attestato sia in Britannia che nel Continente: 

Proto-celtico: *Dānuwijos / *Dānowijos (idronimo)
  Gallese: Donwy (idronimo)
  Prestiti:
   => Greco antico: Δανούιος (Danóuios), Δανούβιος
     (Danóubios) "Danubio"
   => Latino: Dānuvius, Dānubius "Danubio"
   => Proto-germanico: *Dōnawjaz "Danubio" 

Antico inglese: Dōnua "Danubio"
   => Norreno: Dónua "Danubio"
Antico alto tedesco: Tuonouwa, Duonowa, Tuonouwe
    "Danubio" 
Medio basso tedesco: Dônouw, Dônouwe, Dunouw,
    Dunouwe "Danubio"
Gotico: *Donawi
  => Greco: Δούναβης (Dúnavis)
  => Slavo ecclesiastico: Dunavŭ 
        Russo: Дунай (Dunáj)
 
Analizzando i dati riportati, il dubbio che può venire è questo: il termine dána "acqua" dell'argot di Usseglio potrebbe essere di origine celtica o paleo-europea anziché alanica. Tuttavia ci sono complicazioni di non poco conto che mi portano a scartare questa ipotesi. Il teonimo antico irlandese *Danu mostra una vocale breve e non è adatto alla comparazione con l'idronimo *Dānuwijos / *Dānowijos. Esiste un altro teonimo femminile irlandese che è stato considerato un sinonimo di *Danu, anche se senza fondamento alcuno: Anu, Ánu (genitivo Anann, Ánann). Come si vede, ha una vocale brevo o lunga, ma manca di consonante iniziale. Questo parrebbe dare ragione alle tesi di Gimbutas, ma non bisogna dimenticarsi che Anu non è plausibilmente un sinonimo di *Danu. A quanto appurato, è più probabile che sia un epiteto della Dea della Guerra Mórrígan: come tale è indicato nel Lebor Gabála Érenn (Libro delle Invasioni dell'Irlanda). In totale, non si trova nelle lingue celtiche conosciute un concreto vocabolo *dānu- col significato di "acqua" che possa essere sopravvissuto fino a diventare l'argotico dána. Potrebbe essere pre-celtico, ma di fronte a qualcosa di postulato sulla base dell'antica idronimia, è preferibile qualcosa di attestato in epoca molto più recente, come per l'appunto la lingua degli Alani. 
 
Ulteriori analisi lessicali
 
Ora ci chiediamo se si possano scoprire nel gergo piemontese di Usseglio altri relitti alanici. A una prima occhiata, considerando le mie limitate conoscenze, ho pensato che non ce ne fossero. In ogni caso, non ci si può certo limitare a un'indagine superficiale. Cominciamo con l'elencare alcune parole. Alcune voci sono abbastanza banali, altre sono comuni a molti argot e furbeschi d'Italia, altre ancora sono di estremo interesse. Ecco un breve elenco, sempre tratto dal lavoro di Dauzat:
 
áfru "uova" 
arkist "soldato" (dal nome dell'archibugio)
armáji "vacca"
béra "pecora" 
bernia "soldi"
brüna "sera" (è il furbesco bruna)
ciamba "settimana" 
címa "vino"  
cípru "coltello"
dartún "pane" (cfr. Spasell arton "pane") 
ganéla "donna" 
kalagn "luna" 
kéla "formaggio" 
koiz "casa" 
krurina "carne" 
pija "vino" 
rébu "legno" 
ténu "fuoco" 
tiná "cuocere"  
tril "paese, villaggio" 
trisá "mangiare"
trumba "spia" (è come l'italiano tromba
vergne "città", "Torino"
vorp "pane" 
 
Considero sommamente utili queste operazioni di scrutinio di glossari più o meno estesi. Ecco un'altra parola possibilmente formata da una radice iranica, che sono incline ad attribuire agli Alani: 
 
krurina "carne"  
 
Queste sono le corrispoindenze iraniche che ho potuto reperire nel dizionario di Julius Pokorny, elencate sotto la radice proto-indoeuropea da lui ricostruita come kreu- , kreuǝ- : krū- ; kreus- , krus- "sangue, carne cruda; crosta, ghiaccio":
 
Avestico: xrūra- "sanguinante; sanguinario, crudele"; 
    xrvant- "terribile; sanguinario"
    xrū- (accusativo xrūm) "pezzo di carne insanguinata"
    xrvi-dru- "che brandisce un'arma di legno insanguinata"
    xrvīsyant- "sanguinario; terrificante"
    xrūma- "orribile"
    xrūnya- "crimine sanguinoso; abuso sanguinoso"
    xrūta- "orribile; crudele"
    xrūždra- "duro"
    xraoždva- "duro" 

Scitico: Xrohu-kasi- "Scintillante di Ghiaccio", donde "Caucaso" 

Resta il fatto che non abbiamo ancora una certezza assoluta.
1) Non sono riuscito a trovare informazioni sull'evoluzione del gruppo consonantico *χr- in ossetico; non sembra comunque implausibile che si sia conservato, finendo poi adattato in kr- in una lingua romanza; 
2) Non sono riuscito a trovare derivati ossetici di una radice proto-iranica *χrūra-
3) Il suffisso -in- di krurina è oscuro;
4) Esistono sia in celtico che in latino derivati della stessa radice proto-indoeuropea *krewh2- "sangue (fuori dal corpo)":
   Proto-celtico: *krūs / *krowos "sangue" 
      Irlandese antico: crú "sangue"; cró "morte violenta";
          "wergild
   Latino: cruor "sangue versato" (genitivo cruōris);
       cruentus "sanguinario" 
 
Tuttavia si noterà che né in celtico né in latino esistano derivati credibili che possano confrontarsi con la parola argotica krurina "carne". 

Il nome alanico del pane

In altri argot ecco che troviamo un vocabolo la cui attribuzione alla lingua degli Alani può dirsi sicura. 
 
Alta Savoia, argot dei muratori di Tarentaise: dzou "pane" 
Alta Savoia, argot dei vogatori: chou, zou "pane"
Alta Savoia, argot dei tagliatori di pietre: maca-jhoulâ
     "fare il pane" (macâ "lavorare" è di chiara origine
     germanica)
Valle d'Aosta: dzou "pane"
 
Questa parola è quasi identica all'ossetico dzul "pane" (scritto in caratteri cirillici дзул e pronunciato /ʒul/). La liquida finale -l deve essersi velarizzata e quindi dileguata, ma si noterà che se ne trova ancora traccia nell'argot dei tagliatori di pietre, che ha maca-jhoulâ "fare il pane". Purtroppo non sono riuscito a reperire informazioni sull'etimologia di questa parola ossetica, che sembra sconosciuta. Non mi è quindi possibile fare ulteriori speculazioni, a parte questa: la presenza di un vocabolo alanico per indicare il pane è un forte indizio a favore della natura alanica e non pre-celtica del vocabolo per indicare l'acqua, di cui abbiamo parlato sopra.  
 
Il nome celtico del fuoco  
 
Scorrendo il campione di materiale lessicale sopra riportato, vediamo poi una piacevolissima quanto inattesa sorpresa: un'importante radice celtica: 
 
ténu "fuoco" 
tiná "cuocere" 
 
Sempre il Dauzat riporta diverse occorrenze della stessa radice nel Giura meridionale o cretaceo: 
 
Giura meridionale, 1a fonte: teyno "fuoco", tena "secchezza"
Giura meridionale, 2a fonte: tino "fuoco" 
Giura meridionale, 4a fonte: tinna "fuoco, calore", tinna
   "cuocere"  

Questa è la protoforma celtica con le attestazioni dei suoi discendenti nelle lingue celtiche insulari:
 
Proto-celtico: *teϕnets < *tepnets "fuoco"
    (genitivo *teϕnetos < *tepnetos "del fuoco")
  Irlandese antico: teine "fuoco" (genitivo teined)
    Irlandese: tine "fuoco" (genitivo tine, tineadh)
    Gaelico di Scozia: teine "fuoco" (genitivo teine)
    Manx: çhenney "fuoco" (genitivo çhenney, pl. çhentyn)
  Gallese medio: tan "fuoco" 
    Gallese: tân "fuoco"
  Cornico: tan "fuoco" 
  Bretone: tan "fuoco" 

In ultima analisi, proviene dalla radice proto-indoeuropea *tep- "essere caldo", "essere ardente", la stessa che ha dato origine anche al latino tepēre "essere caldo", "essere tiepido". 

Un nome pre-celtico del fiume 

Negli argot del Giura meridionale o cretaceo, troviamo una parola importante, che trova la sua attestazione non solo nell'antica idronimia pre-celtica della Valle d'Aosta e del Piemonte, ma anche nel moderno piemontese: 

doira "fiume" < *duriā

La radice di questo vocabolo si trova nel nome di due fiumi: la Dora Baltea (latino Duria Bautica o Duria Maior) e la Dora Riparia (latino Duria Minor), ma la sua presenza si spinge fino all'Aquitania e all'Iberia. In Francia troviamo gli idronimi Dore, Doron e Douron. Il fiume Duero (latino Durius) è il terzo fiume più lungo della penisola iberica.

Alcuni brevissimi glossari
 
Nei glossari qui riportati, segno in corsivo grigio le corrispondenze certe. 
 
Glossario Ossetico - Argot di Usseglio 
 
art = ténu 
don = dana  
dzul = dartún, vorp 
mæj = kalagn  
 
Glossario Irlandese - Argot di Usseglio 
 
arán = dartún, vorp
gealach
= kalagn
tine = ténu 
uisce = dana 
 
Glossario Ossetico - Argot della Valle d'Aosta 
 
art = roubio 
don = vouace, vouache 
dzul = dzou 
 
Adesso mi sorge una domanda. Perché nessuno ha mai scoperto e studiato prima d'ora questi relitti? C'è moltissimo altro materiale sorprendente, che sarà trattato in modo approfondito in altre occasioni. 

mercoledì 6 ottobre 2021

UN RELITTO OSCO IN NAPOLETANO, SALERNITANO E LUCANO: ATTRUFE 'OTTOBRE'

Quando nel V secolo a.C. i Sanniti conquistarono la Campania, presero il nome degli Osci, detti anche Opici (trascritto in greco come ᾿Οπικοί), una precedente popolazione non sannitica che abitava da tempo immemorabile in quegli ameni luoghi. Da questa fusione etnica ebbe origine la sinonimia di osco e sannitico per indicare la lingua italica dei conquistatori, che prevalse su quella dei vinti. Tale lingua era ricca e complessa come quella di Roma e con essa strettamente imparentata - eppure diversa, più o meno come lo era il gallico. 

"Molte parole dialettali utilizzate nelle varie zone dell'Italia centro-meridionale presentano elementi di sostrato di derivazione osca" (Fonte: Wikipedia). 
Quanto riporta la famosa Enciplopedia corrisponde al vero. Tuttavia trovo che sia necessario approfondire l'argomento. Di affermazioni generiche è pieno il Web. Partiamo quindi da un esempio concreto e importante, di cui molti non avranno mai sentito parlare. Molti non sanno nemmeno che questa antica lingua italica sia mai esistita. Sono rimasto commosso leggendo il commento di una navigatrice che ammetteva di non aver mai sentito parlare della lingua osca. Memorie perdute. Occorre ripristinarle una per una e permettere a tutti l'accesso alle origini, che è stato per troppo tempo ostacolato e negato dal sistema scolastico. 
 
A Napoli la parola più genuina per dire "ottobre" è attrufe /at'trufə/ (varianti: attufre /at'tufrə/, ottrufe /ot'trufə/). Secondo alcuni si tratta di un vocabolo piuttosto antiquato, essendo la forma più comune uttombre /ut'tombrə/
A Salerno il mese di ottobre si chiama attrufe, pronunciato proprio come a Napoli. Alcuni lo trascrivono come attrufa o attrufo, ma il suono finale è lo stesso: una vocale indistinta /ə/, a cui i linguisti danno il nome di schwa
Si trova attrufë, attrufu "ottobre" anche in Basilicata, sempre con lo stesso suono finale indistinto.  
 
Si vede subito che il napoletano uttombre ha la stessa origine dell'italiano ottobre: deriva dal latino volgare octombre(m), una variante ben attestata di octobre(m), plasmata per analogia di septembre(m), novembre(m), decembre(m). Invece forme come attrufe non possono essere in alcun modo derivate dal latino. Proprio la presenza della consonante -f- le qualifica come pre-romane e giunte fino ai nostri tempi tramite una tradizione ininterrotta. 
La protoforma ricostruibile come antenato diretto di attrufe è il sannitico *ohtūfrim, al caso accusativo. Questa è la vera origine delle parole sopracitate degli attuali dialetti della Campania e della Basilicata. L'estensione del fenomeno non è certo casuale: gli antichi Lucani parlavano la stessa lingua dei Sanniti.
 
Il bello è che i romanisti non si sognano nemmeno di negare questi dati di fatto: li hanno riportati nelle loro opere da lungo tempo (esempi: Planta, 1897; Șăineanu, 1935; Lahti, 1935). Il problema è che non viene data alcuna risonanza a questa chiara sopravvivenza di una lingua pre-romana, indoeuropea e imparentata con il latino. Viene ritenuta un fatto marginale, a cui dedicare soltanto poche parole. Noi invece di importanza ne attribuiamo molta e ci spingiamo fino al punto di ricostruire l'intera declinazione della parola: 
 
Nominativo: *ohtūfer 
Genitivo: *ohtūfreis 
Dativo: *ohtūfrei 
Accusativo: *ohtūfrim 
Vocativo: *ohtūfer 
Ablativo: *ohtūfrīd  

Il tema indoeuropeo della protoforma di origine è chiaramente in -i-. Abbiamo poche attestazioni di sostantivi di questa classe nel materiale epigrafico. Uno di questi è senza dubbio *slāx, un vocabolo oscuro interpretabile come "confine", "territorio", attestato sul Cippo Abellano. Tecnicamente si tratta di un hapax. Trovo tale interpretazione ragionevole, anche se alcuni considerano questa parola "intraducibile" o "di significato sconosciuto". Queste sono le occorrenze su tale documento: 

sakaraklúm Herekleís [úp / slaagid púd íst ...
(linee 11-12, lato A)
"il tempio di Ercole che è sul confine ..."

pústin slagím / senateís suveís tangi-/núd tri/barakavúm lí/kítud
(linee 34-37, lato B)
"sia permesso costruire per decisione del senato di ogni (città) secondo il territorio'

avt anter slagím / A]bellanam íním Núvlanam
(linee 54-55, lato B)
"ma tra il territorio di Abellla e di Nola ..."  

í = e chiusa; i aperta
= dittongo ei chiuso
ú = o chiusa (breve); u (lunga)
av = dittongo au
úv = dittongo ou chiuso 
 
Questa è la declinazione ricostruita a partire dalle attestazioni: 

Nominativo: *slāx 
Genitivo: *slāgeis 
Dativo: *slāgei 
Accusativo: slāgim (scritto slagím
Vocativo: *slāx 
Ablativo: slāgīd (scritto slaagid

Per un'interessante trattazione di questo termine, completa di ipotesi su suoi paralleli in altre lingue indoeuropee, rimando senz'altro all'articolo di Brian D. Joseph (Università dell'Ohio, 1982), consultabile seguendo questo link: 

 
Sono convinto che potranno derivare abbondanti frutti dagli approfondimenti sulla morfologia e sul lessico delle lingue italiche. L'importante è non arrendersi all'Oblio e lavorare per riportare alla luce, frammento dopo frammento, ciò che ha fagocitato.  
 
L'enigma dello spagnolo octubre 
 
È stato ipotizzato che lo spagnolo octubre "ottobre" sia un prestito dall'italico, per via della decisa anomalia della vocale tonica -u-, in luogo dell'attesa -o-: in tale lingua normalmente il latino -ō- non dà -u- (Corominas-Pascual). Anche se l'idea pare a prima vista suggestiva, i problemi non mancano. Riporto qui una lista di esiti delle protoforme secondo diverse trafile ipotizzabili o realmente attestate. 
 
forma attesa dal latino volgare octōbre(m), octombre(m)
   ochobre (asturiano), *ochombre 
forma attesa dal latino dotto octōbrem
   *octobre 
forma attesa dall'osco *ohtūfrim
   *ochufre, *otufre 
   con sonorizzazione di -f-
   ochubre (antico spagnolo), otubre (aragonese) 
 
In tutti i casi siamo lontani dalla forma reale, octubre, che comprende in sé, in modo paradossale e inspiegabile, due caratteristiche contraddittorie: la vocale anomala -u- e il gruppo consonantico -ct-, tipico di un crudo latinismo. Tecnicamente parlando, si potrebbe dire che octubre è una forma semidotta. Si noterà che la stessa parola si trova anche in catalano, mentre in antico catalano era vuitubri, uitubri. Anche il portoghese e il galiziano hanno un esito con vocale -u-: outubro. Non sono riuscito a trovare una soluzione al problema e le lingue pre-romane dell'Iberia non sono di alcun aiuto.  

sabato 25 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: COTA 'TIPO DI CAMOMILLA'

Una glossa etrusca tramandata da Dioscoride è καυτάμ (kautám), che designa una pianta conosciuta in latino come Solis oculi, ossia "occhio del sole" (TLE 823). Il fitonimo è un "evidente richiamo al fuoco e alla sfera solare" (Sannibale, 2007). Appare manifesta la sua identità con il teonimo etrusco Cautha (Cauθa, Cavθa-, Cavaθa-, Kavθa, Caθa, Caθ), che designa una divinità solare femminile, le cui caratteristiche sono poco chiare. Marziano Capella (IV-V sec.) la chiama Celeritas e la definisce Solis filia "Figlia del Sole" (Lib. I, § 50). Così ha scritto: "Vos quoque Iovis filii, Pales et Favor, cum Celeritate, Solis filia, ex sexta poscimini; nam Mars Quirinus et Genius superius postulati", ossia "Anche voi Figli di Giove, Pale e Favore, con Celerità, Figlia del Sole, dalla Sesta (Regione) siete richiesti; dunque Marte Quirino e il Genio più sopra sono stati richiesti". La terminazione del fitonimo indica che con ogni probabilità il vocabolo καυτάμ è stato preso da un testo in latino, in cui figurava al caso accusativo. La consonante -τ- in luogo dell'attesa aspirata -θ- si spiega pure con il fatto che Dioscoride deve aver tratto il vocabolo da un documento in latino, anziché dalla viva voce di un informatore. 

Riporto un interessantissimo brano del medico e botanico Dioscoride (circa 40 d.C. - circa 90 d.C.). Consiste in una lista di denominazioni greche di piante; quindi sono riportate due denominazioni latine di una pianta, seguite dalla traduzione in etrusco, punico, gallico e dacico. 
 

[138]    RV: ἀμάρακον· οἱ δὲ ἀνθεμίς, οἱ δὲ λευκάνθεμον, οἱ δὲ παρθένιον, οἱ δὲ χαμαίμηλον, οἱ δὲ χρυσοκαλλίας, οἱ δὲ μαλάβαθρον, οἱ δὲ ἄνθος πεδινόν, Ῥωμαῖοι σῶλις ὄκουλουμ, οἱ δὲ μιλλεφόλιουμ, Θοῦσκοι καυτάμ, Ἄφροι θαμάκθ, Γάλλοι οὐίγνητα, Δάκοι δουώδηλα. 
 
Le denominazioni greche di piante sono in tutto otto: 
 
1) ἀμάρακον (amárakon
2) ἀνθεμίς (anthemís
3) λευκάνθεμον (leukánthemon
4) παρθένιον (parthénion
5) χαμαίμηλον (chamáimēlon
6) χρυσοκαλλίας (chrysokallías
7) μαλάβαθρον (malábathron
8) ἄνθος πεδινόν (ánthos pedinón)

La prima denominazione, amárakon, indica la maggiorana (Origanum majorana). Diverse delle altre indicano specie tra loro simili o sono addirittura sinonimi: così leukánthemon indica la margherita (Leucanthemum vulgare) mentre ánthos pedinón è un sinonimo di anthemís e di chamáimēlon, che indica la camomilla (Matricaria chamomilla), notoriamente somigliante a una margherita. Il parthénion è anch'esso una pianta il cui aspetto è affine a quello di una margherita: è ancor oggi conosciuto come partenio (Tanacetum parthenium) e detto popolarmente amarella, amareggiola, maresina, erba amara, erba 'mara, erba magra. Invece il malábathron è il cinnamomo o tejpat (Cinnamomum verum), il cui aspetto è del tutto diverso.  
Il termine latino millefolium, trascritto come μιλλεφόλιουμ, dovrebbe indicare l'achillea (Achillea millefolium); tuttavia è indicato come suo sinonimo sōlis oculum "occhio del sole", trascritto come σῶλις ὄκουλουμ. Esiste la possibilità che il fitonimo indicasse diverse specie. In ogni caso, queste sono le sue traduzioni: 
 
Etrusco: καυτάμ (kautám)
Punico: θαμάκθ (thamákth
Gallico: οὐίγνητα (vignēta
Dacico: δουώδηλα (duōdēla)  
 
Tutto ciò è estremamente utile: stupisce che queste conoscenze antiche non abbiano avuto l'utilizzo che meritavano. Si noterà l'accuratezza della trascrizione del vocabolo punico, in cui θ trascrive un'aspirata /th/, mentre in etrusco lo stesso suono non è stato reso allo stesso modo come avrebbe dovuto. Dei vocaboli della lingua punica, gallica e dacica, tratteremo in altra sede. Credo che sia necessario compiere indagini più approfondite.   

Dato l'estremo interesse dell'informazione, la riporto senza esitare, avendola estratta dal Web non senza fatica e avvalendomi del diritto di citazione. La fonte è il Grande dizionario della lingua italiana, dell'Accademia della Crusca. Questo è il link al visualizzatore: 

 
Còta1, sf. bot. ant. e dial. antemide, varietà della camomilla. 
   Anonimo guelfo, v-330-10: colte ne sono le rose e le viuole, / ed évi nata cota e coregiuola: / cierto bene credo vi paia pecato. / maraviglia mi fo, se non vi duole / di quelli che vivono d'imbolio di suola / ed ànno fatto ciascuno di sé casato. Tommaseo [s. v.]: 'Cota', nome volgare di due specie d'antemide: Anthemis cotula e Anthemis altissima di Linneo. 
Tramater [s. v.]: 'Cota', specie di pianta del genere Anthemis, che appartiene alla singenesia superflua, famiglia delle corimbifere. si distingue per le foglie due volte pennate, e le pagliette del ricettacolo terminate da una punta pungente più lunga de' fioretti. trovasi tra le biade, ed è raccolta con le altre erbe per pastura de' bestiami. 
   = Voce d’area toscana, di etimo incerto, che si congettura d’origine etnisca,  da una forma *cauta, che sarebbe derivata da Cautha, con cui gli Etruschi denominavano la * divinità del Sole ’ : per la forma circolare e il colore giallo del fiore (l’antemide fu detta dagli antichi 'occhio del sole ’).
Cfr. anche COTULA. 
 
Questa è la sacrosanta verità: il fitonimo còta è di origine etrusca: è derivato dal teonimo Cautha, il condizionale è del tutto inutile. Anche Pittau aveva sostenuto questa etimologia. 
 
Un fitonimo còtula, oggi usato per indicare la camomilla fetida (Anthemis cotula) e altre piante simili, è un evidente diminutivo di còta. Tuttavia i romanisti hanno pensato di forgiare un'etimologia fittizia dal greco  κοτύλη (kotýle), che significa "ciotola, coppa, tazzina". L'idea malsana è che la parola greca indichi gli organi concavi, a forma di coppa, di questo genere di fiori. Contro gli autori di queste invereconde manipolazioni dovrebbero essere scagliate maledizioni nell'arcana lingua di Hyperborea, tratte dal Libro di Eibon!    

Mi si accuserà di essere un complottista, ma nel nostro mondo alcuni complotti esistono realmente, non sempre sono fantasie distorte di paranoici terminali o di gente scema come le feci dei bradipi. Nascondere qualcosa di capitale importanza, trattarlo come polvere sotto un tappeto, questa è una strategia abbastanza frequente nel mondo accademico. Queste evidenze possono soltanto mostrare una cosa: la conoscenza della lingua degli Etruschi è possibile ma in qualche modo interdetta. Per quanto difficile a ottenersi, non viene resa pubblica, si tende a nasconderla, viene ostacolata con ogni mezzo. Alcuni romanisti hanno trovato la verità su un'etimologia e l'hanno esposta in un articoletto dell'Accademia della Crusca, non l'hanno potuta negare, però l'hanno messa in qualche cantuccio recondito, come se fosse una bazzecola, una bagatella.  

Possibile etimologia di Cautha

In greco esistono parole derivate da una radice *kau- "ardere, bruciare", che non ha convincenti corrispondenze indoeuropee. Con ogni probabilità questa radice è un antichissimo relitto pre-ellenico che sopravviveva anche in etrusco. Ecco alcuni dati interessanti: 

καίω (káiō) "io brucio" 
 
Semantica: 
  1) accendere, mettere sul fuoco 
  2) bruciare, ardere 
  3) bruciare per il gelo (es. per la brina)
  4) ardere di passione (voce passiva)
  5) fare un fuoco per sé (voce media)
  6) cauterizzare 

Alcune parole derivate: 

καυστός (kaustós) "bruciato" 
   variante (nelle iscrizioni): καυτός (kautós
καῦμα (kâuma) "calore del sole", "ardore", "febbre", "marchio 
   a fuoco" 
καυαλέος (kaualéos) "calore ardente" (eolico) 
καημένος (kaēménos) "povero" 
κᾶλον (kâlon) "legna secca" 
καῦσις (kâusis) = καῦμα
καύσων (káusōn) "calore ardente", "scirocco"  
κηώδης (kēṓdēs) "fragrante, odoroso" (omerico) 
κήλεος (kḗleos) "ardente, sfolgorante"  
πυρκαϊά (pyrkaïá) "pira funebre", "rovine bruciate" 

A partire dai dati riportati sopra, è stata ricostruita una radice indoeuropea *k(')eh2w- "ardere" (notazione laringale), di cui però non esistono paralleli sicuri al di fuori del greco. Pokorny ha la seguente ricostruzione: *k̂ēu- / *k̂ǝu- / *k̂ū- "anzünden, verbrennen", ossia "accendere, bruciare", apponendovi un punto interrogativo e mostrando una certa dose di scetticismo. Timidamente lo studioso ha proposto un esile riscontro in baltico: lituano kūlėti "brandig werden, vom Getreide", ossia "divenire cancrenoso (detto del grano)"; kūlė̃ "Getreidebrand", ossia "cancrena del grano" (fungo o muffa che colpisce i cereali). Possiamo aggiungere la parola lettone kūla, che dovrebbe corrispondere al lituano kūlė̃. Si tratta del carbone dei cereali, una malattia delle piante caratterizzata dalla formazione di una massa nera, dovuta ai funghi Ustilaginali parassiti. Attacca i cereali (frumento, avena ecc.) e altre piante (aglio, cipolla, scorzonera) con danni talvolta molto gravi; con "carbone" si denominano anche i diversi funghi. Si segnala la grande difficoltà di trovare informazioni su queste parole in Google. Detto questo, secondo Pokorny, la massa muffosa nera doveva trarre la propria denominazione da un'antica radice indicante la combustione: 
"cosa bruciata" => "carbone" => "carbone dei cereali"
Non sono sicuro di questa etimologia: le parole baltiche citate potrebbero anche essere resti di un sostrato pre-indoeuropeo (cosa plausibile, essendo termini agricoli): non è nemmeno detto che si possa dividere kūl- in kū-l-.  

Perché gli indoeuropeisti tendono a ricostruire una consonante palatale k'- in questa radice, quando né i dati del greco né quelli molto dubbi del baltico ne offrono una giustificazione? Credo che sia per questo: si pensava di trovare esiti di *k'eh2w- nelle lingue iraniche. Anche se Pokorny non menziona esiti iranici, ricostruisce una radice *k̂euk- "leuchten, hell, weiß sein, glühen", ossia "risplendere, chiaro, essere bianco, splendere". Ne riporta quindi questi esiti: 
 
Avestico: saočint- "brennend" ("ardente")
Avestico: saočayeiti "inflammat = incitat"
Persiano moderno: sōxtan "anzünden, verbrennen" 
       ("accendere, bruciare")
Avestico: upa-suxta- "angezündet" ("incendiato") 
Avestico: ātrǝ-saoka- (m.) "Feuerbrand" ("tizzone")
Persiano moderno: sōg "Trauer, Kummer" ("dolore"); 
     Armeno: sug "dolore" (è un prestito iranico) 
Avestico: suxra- "leuchtend (vom Feuer)", "splendente 
    dal fuoco")
Persiano moderno: surx "rot" ("rosso") 

Come si vede, è una giungla di possibilità confuse.
 
Checché se ne dica, la radice *kau- "bruciare" presente in greco è di origine ultima tutt'altro che chiara e non può essere affatto garantita la sua origine nelle Steppe. Ovviamente ci sono alcuni moderni eredi dei Neogrammatici, pronti a strepitare e a giurare il contrario, per giunta accusandomi di essere "dogmatico". Fanno così perché prendono ordini da Dugin. 
 
Intanto ricostruisco questa radice: 
 
Proto-tirrenico: *kawa- "bruciare", "splendere"  
    Etrusco: Kav(a)θa "La Splendente"      
 
Il suffisso -θa è un marcatore del genere femminile, che troviamo nella parola lautniθa "liberta", derivata da lautni "liberto", a sua volta da lautn "gente, famiglia". Notevole è l'antroponimo femminile Pevθa, la cui radice è quella di peva- "miele", attestata nel Liber Linteus: pevaχ vinum "vino mielato", "mulsum". Evidentemente Pevθa significa "Ape femmina" ed è simile nella formazione al greco μέλισσα (mélissa) "ape", derivato da μέλι (méli) "miele". Si noti che il genitivo di Cauθa è sigmatico: Cauθas, Cauθaś, Kavθaś "di Cautha".   

Cautes e Cautopates 
 
Il culto di Mithra, molto diffuso durante l'Impero, era di chiara origine persiana, pur acquisendo nel contesto romano caratteristiche proprie. L'iconografia di questa religione mostra che Mithra aveva due assistenti, i cui nomi erano Cautes e Cautopates. Erano due tedofori. Cautes aveva una torcia puntata verso l'alto, mentre Cautopates aveva una torcia puntata verso il basso. Indossavano pantaloni frigi e berretto frigio. Assistevano alla Tauroctonia, così come alla nascita di Mithra; dal loro vestiario nacque l'equivoco di chi li ha confusi con pastori. Ecco perché circolano nel Web vignette memetiche in cui si dice che alla nascita del Dio hanno assistito i pastori, come quelli che hanno assistito alla nascita di Gesù a Betlemme. Cautes e Cautopates hanno una connessione con il sorgere del sole e con il suo tramonto: le loro torce sembrano alludere alla grande luminaria celeste. In diverse tradizioni si trovano figure simili. È stato fatto un paragone con gli Ashvin indiani e con i Dioscuri. Si deve però tener conto che tutti i culti solari hanno per necessità qualcosa di simile, traendo il loro fondamento da un fenomeno fisico percepibile dall'intero genere umano. 
I due teonimi mithraici non hanno tuttora una spiegazione convincente. Non sono state proposte etimologie, a quanto ne sappia. Questo è molto sorprendente. Non è detto che Cautes e Cautopates siano nomi di origine persiana, visto che nelle lingue iraniche non si è riusciti a trovare alcun parallelismo. Sostengo che potrebbe trattarsi invece di elementi etruschi integrati nella religione di Mithra, per come era praticata nell'Impero Romano.  

martedì 21 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: SERQUA 'DOZZINA'

Tempo fa mi sono imbattuto in un vocabolo toscano quasi sconosciuto al grande pubblico e dotato di un aspetto fonetico assai inconsueto, peculiarissimo: serqua "dozzina", che ha anche il significato colloquiale di "gran quantità". Talvolta la serqua è una gang, una banda, un gruppo di malfattori, di lestofanti o altra canaglia. Per quanto riguarda la pronuncia, a quanto pare la vocale tonica è chiusa: sérqua (fonte: Vocabolario Treccani). Tuttavia si deve riportare che una variante attestata è sarqua.

Ecco cinque esempi dell'uso della parola, tratti dal Vocabolario Treccani: 
 

i) una serqua d'uova = una dozzina di uova 
ii) un libricciolo Di mezza serqua di sonetti (Giuseppe Giusti)*
iii) gli ha dato una serqua di botte 
iv) Teresa rispondeva con una serqua d'ingiurie e di parolacce (Carlo Levi) 
v) siamo in mano di una serqua di sagrestani (Luigi Capuana)  

* Ecco un estratto più completo e significativo:

Mi segue un contadin di Fattoria
Che mi discorre d’olio e di bestiame,
E mi domanda quando piglio moglie;
Sfruconandomi dietro il palafreno
E ansimando su su per la salita
Con un sacco in spalla, ove son chiusi
Dante, Virgilio, Giovenale, un rotolo
Di fogli rabescati, un libricciolo
Di mezza serqua di sonetti, dono
D’un manescalco del cavallo alato.

I romanisti hanno ricondotto serqua al latino siliqua "baccello", giunta ai tempi odierni tramite la genuina usura del volgo. Ricordo ancora la Parabola del Figliol Prodigo, in cui l'esule si trovava costretto, dopo aver dilapidato con le prostitute la sua parte di eredità, a cibarsi delle silique che venivano date ai porci. 
 
Ecco quanto riporta su questo termine Wikipedia in latino: 
 
 
Nomen substantivum

sĭlĭqu|a, -ae fem.  
 
1. Capsula plantae leguminariae.
2. plur. | Legumina.
3. Species plantae, taxonomice
Ceratonia siliqua; idem quod siliqua Graeca. 
4. → foenum Graecum
5. Pondus minus; etiam, nummus qui ⅟₂₄ solidi valuit.  

Traduzione in italiano:

1. Capsula della pianta leguminosa 
2. plur. | Legumi 
3. Specie di pianta, tassomomicamente Ceratonia siliqua; la stessa cosa di siliqua greca
4. → Fieno greco 
5. Misura di peso minore; anche, moneta che valeva ⅟₂₄ del solido.
 
L'etimologia fornita dalla Wikipedia si deve a Julius Pokorny:  

Per *sciliqua, dalla radice proto-indoeuropea *skel- (Pokorny, 1959, pp. 923-927). 

In altre parole, si suppone che si sia avuta una dissimilanzione del gruppo consonantico iniziale sc- /sk/ ad opera della consonante labiovelare -qu- /kw/

*/'skelikwa/ => */'skilikwa/ => /'silikwa/ 

La radice proto-indoeuropea ricostruita dal Pokorny come *(s)kel-, in notazione laringale è *(s)kelH- e significa "tagliare; dividere, separare": 


Una simile dissimilazione è presupposta dal Pokorny anche per un'altra parola latina foneticamente simile e ricondotta alla stessa radice indoeuropea *(s)kel-: silex "pietra, roccia", "rupe", "selce".

*/'skeliks/ => */'skileks/ => /'sileks/ 

In tutta franchezza, non trovo molto convincenti queste etimologie, anche se Pokorny riporta una possibile connessione con l'antico irlandese sce(i)llec "roccia, masso" (glossa tedesca: Fels). Proprio la necessità di trovare un'etimologia sensata al toscanismo serqua mi spinge a formulare nuove teoria, che certamente non piaceranno al mondo accademico. 
 
Lo studio di Pittau 
 
Notiamo innanzitutto che dello studio di serqua si sono occupati in pochi. Tra questi possiamo sicuramente menzionare il professor Massimo Pittau (RIP). Nel vasto Web sono riuscito a trovare questa pagina, opera di Paolo Campidori: 
 
 
Lo stesso Campidori ha fatto un'intervista a Pittau, menzionata nell'articolo, in cui il professore sardo riconduce serqua al vocabolo etrusco śerϕue, attestato nel Liber Linteus. Si tratta di una voce enigmatica, finora lasciata senza spiegazione. Pittau la riconduce al numerale śar "dieci", anche se al momento non mi è nota una sua variante apofonica *śer-. Parimenti, non mi risulta chiaro il suffisso -ϕue; in ogni caso non credo che possa significare "due". Sarebbe più logico individuare in śerϕue il locativo in -e di *śerϕua, a sua volta plurale inanimato in -ua di *śerϕa, esso stesso molto oscuro - e siamo al punto di partenza. Secondo Pittau, il significato di śerϕue dovrebbe essere "dozzina": attribuisce proprio a questo termine l'origine del toscano serqua. Mi si lasci dire che il passaggio da -ϕu- /phw/ a -qu- /kw/ mi sembra piuttosto improbabile. Non mi intratterrò su altre peculiari idee di Pittau riguardo al numerale 12 in etrusco. 
 
Una soluzione innovativa

Sono convinto che la derivazione del toscano serqua non sia dal numerale śar "dieci", bensì dal numerale zal "due". Abbiamo una variante apofonica zel- attestata (zelarvenas, zelur, zelvθ). Si dovrebbe ricostruire *zelχva "dodici", "dozzina", parola formata col ben noto suffisso plurale e collettivo -cva, -χva. Sappiamo che i numerali presentano molte stranezze: una simile formazione non sarebbe in ogni caso impossibile. Si suppone ora che questo etrusco *zelχva sia passato in latino divenendo siliqua. Non sarebbe un caso isolato di corrispondenza tra etrusco -e- e latino -i- breve: basti pensare all'etrusco Selvans, che corrisponde a Silvānus (e al gentilizio etrusco Selvaθre, che corrisponde a silvester, silvestris).  
 
1) Soluzione dei problemi di derivazione
Il toscano serqua non sarebbe un derivato del latino siliqua. Invece sarebbe un diretto derivato della forma estrusca, come anche il latino siliqua. Queste due trafile sarebbero indipendenti. In questo modo, il processo di derivazione postulato dai romanisti sarebbe invertito. 
 
etrusco *zelχva => latino siliqua 
etrusco *zelχva => latino volgare *selchua, *serchua => 
      toscano serqua, sarqua  
 
2) Soluzione dei problemi fonetici 
La fonetica irregolare di serqua, che ha una rotica /r/ sviluppata da una liquida /l/, potrebbe essere dovuta al fatto che la parola è passata da una tarda forma di etrusco al latino volgare, con problemi di adattamento di gruppi consonantici non familiari, come /lkhw/, con la sua aspirata. Sarebbe invece molto meno comprensibile se serqua fosse derivato dalla forma latina siliqua: non si spiegherebbe bene l'evoluzione di una /l/ intervocalica in una rotica. La vocale -i- che si trova in siliqua ha l'aria di essere una soluzione più antica per evitare il gruppo consonantico. 
 
3) Soluzione dei problemi semantici  
Per quanto riguarda la semantica, Pittau riporta che "non si vede come dal concetto generico di “unità di misura” venga fuori anche il concetto specifico di “dozzina” e di “dodici”". Tuttavia il latino siliqua non esprime un concetto generico di "unità di misura", ma alcune unità di misura particolari, come 1/24 di solido, che potrebbero provenire direttamente dal concetto di "dodici" o essere comunque collegate. Postulare che da "dozzina" si sia arrivati ai significati della parola latina è in ogni caso verosimile. 
 
"dozzina" => "molte cose" => "baccello" (che contiene le fave, etc.) 
 
4) Soluzione dei problemi morfologici 
Il suffisso -qua, inusuale in latino, è invece molto comune in etrusco come plurale inanimato e collettivo: -cva, -χva (es. avilχval "degli anni", flerχva "sacrifici"). Ovviamente questo i romanisti non lo sanno e non lo vogliono nemmeno sapere, perché il loro unico riferimento è il vocabolario di latino usato a scuola, al massimo con qualche integrazione presa dal vocabolario di greco. 
 
Concordo appieno con la consclusione di Pittau: "relitti dell’antica lingua etrusca esistono tuttora nelle parlate della Toscana e del Lazio settentrionale". Ho preso molto sul serio il suo invito a indagare sull'argomento.