domenica 29 giugno 2014

UNA GLOSSA CIMBRICA DI ORIGINE CELTICA

Richiamo l'attenzione su un vocabolo della lingua degli antichi Cimbri, attestato da Plinio il Vecchio. Si tratta di un nome dell'Oceano Settentrionale, Morimarusa, che appare formato a partire da radici celtiche. Questa è la citazione: 

"Philemon Morimarusam a Cimbris vocari, hoc est, mortuum mare, usque ad promontorium Rubeas, ultra deinde Cronium." (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 4.95)

"Filemone disse che è chiamato dai Cimbri Morimarusa, cioè Mare Morto, fino al promontorio di Rubea e dopo quello di Cronio."

Il vocabolo in questione è un chiaro composto delle radici celtiche *mori- "mare" (gallico more, mori-, antico irlandese muir, gallese môr) e *marwo- "morto" (gallico maruo-, antico irlandese marḃ, gallese marw), con l'aggiunta di un suffisso sigmatico. Il corrispondente germanico di *mori- è invece *mari- "mare" (gotico marei, marisaiws; norreno marr), con altro vocalismo, mentre la radice  indoeuropea di *marwo- non sussiste se non in forma molto diversa nel vocabolo *murθra-, *murθa- "omicidio" (gotico maurþr, longobardo morth, tedesco Mord, inglese murder).

A questo punto dobbiamo interpretare i dati di fatto, nel tentativo di formare un quadro coerente. Da quale fonte Plinio il Vecchio ha tratto la glossa? Alcuni pensano che l'informatore non fosse in realtà un cimbro, ma semplicemente un abitante delle Gallie. In tal caso però Plinio non avrebbe attribuito la glossa specificamente ai Cimbri. Si tratta di un vocabolo genuino prodotto da radici della lingua quotidiana dei Cimbri o piuttosto di un prestito dal gallico? Propendo per la seconda ipotesi. L'aristocrazia cimbra potrebbe aver utilizzato una forma di celtico come lingua di prestigio già nelle sue originarie sedi in Danimarca. Intensi contatti tra il mondo germanico settentrionale e quello celtico dell'area danubiana sono dimostrati da un reperto come il calderone di Gundestrup, che è stato ritrovato proprio nella regione dello Himmerland, in Danimarca: è precisamente l'area di origine dei Cimbri. Il manufatto è stato importato dalla Tracia ed è stato prodotto da artigiani di stirpe celtica, con ogni probabilità appartenti all'etnia dei Triballi. Le raffigurazioni di divinità celtiche come Cernunnos e Taranis provano la forte influenza religiosa e culturale esercitata dai Celti sui popoli settentrionali dell'Età del Ferro. 

sabato 28 giugno 2014

TOPONOMASTICA DEL TERRITORIO DEI SETTE COMUNI: CONFUSIONE E FALSE ETIMOLOGIE

Sull'origine dei Cimbri, minoranza linguistica germanica stanziata nel territorio dei Sette Comuni (provincia di Vicenza), nei Tredici Comuni (provincia di Verona) e in altre piccole aree, sono fiorite numerose leggende nate dall'omonimia con l'antico popolo proveniente dalla Danimarca. Si è parlato addirittura di una presenza vichinga in Italia. Wikipedia riporta il seguente sunto relativo alla toponomastica dei Sette Comuni: 

"È il caso ad esempio della montagna più alta dei Sette Comuni (il Monte Ferozzo) e della Val Frenzela (italianizzazione di Freyentaal), località dedicate a Freya, come pure il Monte Ferac (da Frea-ac, dimora della dea Frea); vi sono poi siti dedicati alla dea Mara come la Martaal (cioè valle di Mara, la valle che separa Rotzo da Roana) e la sorgente Marghetele (orticello di Mara); località dedicate alla pitonessa Ganna (come la Valganna) o al dio Thor (come il monte Thor nei pressi dell'Ortigara). La dea sassone Ostera è ricordata nello scoglio che sovrasta Pedescala, detto Ostersteela, e in Foza nella contrada chiamata appunto Ostera.
Il ricordo di altre divinità menzionate nell'Edda islandese è rimasto anche sull'Altipiano: Balder (ricordato dal folletto od orco Baldrich); Höðr (a cui è dedicata la collinetta ai cui piedi si trova l'ex stazione ferroviaria di Asiago e che una volta era detta Hodegart, ossia orto di Höðr); Synia (ricordata dal monte Sunio). L'Edda, fra le altre divinità, nomina anche una certa Skada, figlia del gigante Thiasse: questa dea è ricordata dal nome del paese di Treschè Conca di Roana, che un tempo in cimbro era chiamato appunto Skada."
Cfr. Antonio Domenico Sartori. Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, ed. L. Zola, Vicenza, 1956: "L'antichità delle origini religiose sull'altopiano dei Sette Comuni" 

A una prima lettura testi di questo genere sembrano di certo suggestivi. Peccato che non reggano a un'analisi approfondita, rivelandosi pieni di anacronismi e di altre assurdità. Non dico che siano del tutto inutili, dato che in genere riportano molte informazioni di un certo interesse, ma devono essere attentamente vagliati. 

Valganna e altri luoghi chiamati Ganna nel territorio dei Sette Comuni derivano il loro nome da un termine che indica la pietraia o il dirupo, attestato anche a Verona. La sua diffusione è estremamente ampia, tanto che lo si trova in Ossola (gana), e altrove con la variante ganda: nell'antica Liguria è attestato un fiume Gandobera "che porta pietre". L'origine di ganda / ganna è anteriore ai Celti e deriva dalle lingue affini all'etrusco che si parlavano in precedenza nelle regioni alpine, come ad esempio quella dei Reti. In etrusco esisteva la radice caθna-, da cui il latino ha tratto catinus, col senso di "vaso di pietra" e di "apertura della roccia, cavità". Tale radice, priva di origine indoeuropea, potrebbe essere attestata nel Liber Linteus (gen. caθna-l, loc. caθna-i), ma il contesto non è del tutto chiaro, ed esiste anche un omofono caθna- "unione", da cui latino catena. Assumiamo così che *kathna debba essere la protoforma da cui ganda e ganna sono derivati. I passaggi sono questi: *kathna > *gadna > ganda, ganna. Siccome la presenza di ganda e ganna nell'arco alpino è pervasiva, mentre non spiega nulla il ricorso alla profetessa Ganna vissuta tra i Semnoni nel I secolo d.C., la proposta di Sartori andrà rigettata. 

Per quanto riguarda Martaal, il ricorso a una dea Mara non è necessario. Più che un teonimo, mara è la parola norrena usata per indicare uno spirito maligno capace di possedere i viventi, da tradursi in latino con incubus. La sua radice, corrispondente germanico del celtico *mora:, riappare nel nome dei folletti della tradizione romanza, come il mazzamorello. L'amico Giacinto M. (R.I.P.) mi ha riportato che al suo paese in Friuli, vicino a Sacile, un simile demonietto è conosciuto come mathamoro. Quindi Martaal è la Valle dei Folletti, la Valle degli Incubi. È a mio avviso da scartarsi ogni connessione con il quasi-omonimo celtico *ma:ro- "grande", dato che Martaal è una valle piccola e stretta. Non si ravvisa in ogni caso alcuna necessità di postulare una corrispondenza diretta tra il toponimo e il materiale mitologico scandinavo, dato che credenze in spiriti immondi e malefici sono diffusissime in tutta la Romània e presso tutti i Germani.  

La gigantessa Skaði ha un nome di origine incerta. In norreno esiste un'omonima parola che significa "danno", che però è di genere maschile. Il paese di Treschè Conca di Romana ha più probabilmente tratto il suo nome da una forma affine al gotico *Skadwa, col senso di "Ombrosa"

L'orco Baldrich sarà da antico alto tedesco *Balde-rih, corrispondente al gotico *Balþareiks, "Re Audace" o "Re degli Audaci": la figura di Balder, attestata in Scandinavia (norreno Baldr) e in Germania (antico alto tedesco Balder) non si presta ad essere assimilata a quella di un folletto o orco, essendo un chiaro adattamento germanico della figura di Cristo. Il lemma norreno baldr significa "principe, signore", e corrisponde all'anglosassone bealdor, che era usato per designare Cristo. Theo Vennemann ha ipotizzato che l'origine ultima di questo epiteto sia il punico Baladdir, e pur non concordando con questo autore su altri argomenti, ritengo arguta e valida questa sua proposta. Bal Addir significa Signore Potente, essendo in punico bal non solo la parola generica per "signore" e "marito", ma anche il teonimo che conosciamo meglio come Baal. Il lemma addir si trova attestato anche da Agostino di Ippona e da altri autori nella parola abaddir (varianti abadir, abadier) ossia pietra (*aban) potente (addir), che indica un meteorite.  

Hodegart non è certo l'Orto di Höðr, perché il nome di tale divinità mostra una vocale che è il prodotto dell'Umlaut labiale. In altre parole, dove in norreno si trova la vocale trascritta con -ö-, ma più correttamente con -ǫ- (da pronunciarsi come o aperta), significa che un tempo vi era una vocale -a-, che è stata alterata a causa della presenza di una -u- o di -w- nella sillaba seguente. Così un tempo il teonimo sarà stato *Xaθuraz, che doveva significare "Uccisore": la radice ultima è la protoforma germanica *xaθuz "battaglia" (> norreno hǫð), di lontana origine celtica (cfr. gallico catu- "battaglia"). Il fenomeno della trasformazione di -a- in -ǫ- per influenza di una successiva -u- o -w- è tipico del norreno e non esiste in antico alto tedesco: Hode- non può in alcun modo corrispondere a Höðr.
Il nome di Freya, in norreno Freyja (pron. /frøyja/) non è un antenato plausibile dei toponimi citati dal Sartori. L'origine ultima risiede nella radice proto-germanica *frauja(n)-, che significa "signore": gotico frauja /frɔ:ja/ "signore", *fraujo /frɔ:j:o:/ "signora". L'equivalente tedesco di Freya è proprio la ben nota parola Frau: come si vede nulla che possa aver dato origine a Freyentaal. Mi azzarderei a ritenere Freyentaal una formazione recente e romantica, come tante altre sorte nell'ambito dei nazionalismi ottocenteschi, ma la scarsità delle informazioni in proposito mi suggerisce prudenza. Alcuni riportano le forme Frea-sele e Frea-taal in lingua cimbra (da non confondersi con la lingua degli antichi Cimbri), che sembrano più genuine. Non si tratterebbe quindi di un luogo dedicato alla dea Freya, ma alla dea Frigg, il cui nome longobardo era Frea (< proto-germanico *Frijjo:). Ferac e Ferozzo non hanno alcuna possibilità di derivare dalla radice di Freya o di Frigg per ragioni fonetiche. La formazione fantasiosa *Frea-ac riportata da Sartori non ha il minimo riscontro. 

Le contrade di Ostera e Ostersteela hanno sicuramente la stessa radice della dea Ostara, il cui nome viene dal germanico comune *Austro:. Non si può escludere a priori la presenza del culto della divinità in questione. Tuttavia si nota che la radice *austr- da cui è stato formato il teonimo significa "oriente", che pare un'accezione più plausibile quando si tratta di toponimi. Così i Longobardi e i Franchi chiamavano Austria la regione orientale dei rispettivi regni (tra i Franchi c'era anche la variante Austrasia). Per i Longobardi, l'Austria si estendeva dal corso dell'Adda al Friuli e corrispondeva grossomodo all'attuale Nord Est, mentre le terre ad occidente di quel fiume formavano la Neustria. Così Ostera potrebbe essere la naturale evoluzione di *Austria "Terra Orientale", e Ostersteela "Rupe Orientale", piuttosto che "Rupe di Ostara"

Il vero nome del monte Thor è Toro, che doveva essere noto come *Taurus in epoca romana, la cui radice riappare nel nome dei Taurini. La forma gotica per indicare il dio Thor era *Þunrs, quella antico alto tedesca Donar. In anglosassone era Þunor, e in longobardo il teonimo doveva suonare *Thonor. La forma d'origine era il proto-germanico *Θunraz. In norreno la nasale è scomparsa dopo aver mutato la u in una o lunga per compenso, dando Þórr. In antico irlandese il teonimo Þórr è stato preso a prestito come Toṁar, gen. Toṁair (pron. /tõ:r/), segno che all'epoca la vocale era ancora pronunciata nasale. Orbene, tutto questo ci mostra con la massima evidenza che per ragioni storiche il monte Toro non può trarre origine dal nome norreno della divinità dalla barba rossa, e che le altre forme germaniche per designarla non sono foneticamente adatte. 

Due fenomeni hanno contribuito a far proliferare nel Web materiale pieno zeppo di false etimologie e di fraintendimenti:  

1) L'assenza di interesse degli studiosi moderni verso le realtà locali;
2) I complessi meccanismi del copyright, che permettono la libera consultazione online di libri superati, in alcuni casi risalenti persino al XIX secolo, mentre rendono difficile il pieno accesso a materiale aggiornato. 

domenica 22 giugno 2014

UN'AMARA SCOPERTA

Perché il Connettivismo non è considerato a sufficienza per i suoi meriti letterari? Nessun connettivista lo sa dire? Nessuno lo ha ancora capito? Bene, dato che ho appena scoperto la ragione di tutto ciò, la esporrò senz'altro in questa sede. Il Connettivismo è avversato ferocemente dallo zoccolo duro dei lettori di fantascienza di vecchio stampo perché si presenta come Avanguardia e si ispira tra le altre cose al Futurismo (noi specifichiamo "sia di Marinetti che di Majakovskij", ma quelli Majakovskij non l'hanno mai sentito nominare). Per questo i detrattori del Connettivismo lo ritengono intrinsecamente fascista, etichettabile come estrema destra. Tutto viene fatto passare attraverso le lenti distorcenti di una sordida politica fatta di crassi slogan da scuola occupata. Che clima mortifero, che aria irrespirabile, funestata dai tanfi dell'Ignoranza! E poi qualcuno ancora si meraviglia se la fantascienza è in agonia! 

sabato 21 giugno 2014

UNA PERDUTA LINGUA NEOLATINA D'AFRICA

L’umanista italiano Paolo Pompilio (1455-1491) si imbatté in un uomo che gli recò notizia di una comunità nordafricana che parlava una lingua neolatina affine al sardo (Cfr. Charlet 1993; Varvaro 2000). Così scrisse nella sua opera (Notationes, Vat. lat. 2222, f° 120 r-v): 

Item ex libro tertio notationum. Latinum sermonem olim promiscuum fuisse.
Caput sextum.

«Venit nuper ad urbem mercator quidam exploratae fidei a Tunete, homo Gerundensis, nomine Riaria; quem cum multa de Aphrica interrogassem, rettulit se maximam illius partem peragrasse, idque spatio triginta annorum, vidisseque in agro Capsensi regionem multis pagis habitatam, cui nomen est arabice Niczensa, et in montanis Gibel Oresc, ubi pagani integra pene latinitate loquuntur et ubi voces latinae franguntur, tum in sonum tractusque transeunt sardinensis sermonis, qui, ut ipse novi, etiam ex latino est. Regio illa quinque diariis distat ab agro Carthaginensi, ubi Tunis nunc est, ex quo latini nominis fuit Africa. Idioma hic priscum servatum est et in insula, quamvis valde corruptum». 

Dal terzo libro delle osservazioni. La lingua latina un tempo era di uso comune.
Capitolo sesto. 

"Di recente è venuto in città da Tunisi un certo mercante di provata fedeltà, un uomo di Gerona, di nome Riaria; quando gli ho chiesto molte cose sull'Africa, ha risposto che l'aveva girata in massima parte nell'arco di trent'anni e che aveva visto nel territorio di Gafsa una regione abitata con molti villaggi, il cui nome arabo era Niczensa, come nelle montagne del Gibel Oresc, ove i villici parlano in una latinità quasi integra e quando le voci latine si interrompono, allora passano nel suono e nei tratti al linguaggio della Sardegna che, come so, è anch'esso dal latino. Quella regione dista cinque giornate di viaggio dal territorio di Cartagine, dove ora si trova Tunisi, da cui fu l'Africa del nome latino. Questo idioma ancestrale si è conservato anche in un'isola, per quanto molto corrotto." 

Lorenzini e Schirru riportano alcune considerazioni molto eloquenti in merito:

"Un’ultima considerazione: come avrebbe potuto Riaria inventarsi che l’afroromanzo somigliava al sardo? Che cosa fosse l’hanno sospettato gli studiosi moderni: TAVONI (1984, p. 301, nt. 2) cita giustamente WAGNER (1951, pp. 129-130) e TERRACINI (1957 [1936], pp. 128-131), cui si può aggiungere almeno FANCIULLO (1992). Come sarebbe potuta venire in mente a Riaria una parentela scientificamente così plausibile, se non avesse avuto esperienza diretta tanto del sardo che dell’afroromanzo?"
(Varvaro, 2000)

La domanda posta dal professor Alberto Varvaro è senza dubbio retorica: risulta evidente che l'informatore Riaria conosceva il sardo e aveva potuto notarne la grande somiglianza con l'afroromanzo. A cosa si deve questa somiglianza? Semplicemente a due fatti.

1) L'afroromanzo di cui parla Pompilio aveva un sistema vocalico comune al sardo: 

a breve (ă); a lunga (ā) => a
e breve (ĕ); e lunga (ē) => e
i breve (ĭ); i lunga (ī) => i
o breve (ŏ); o lunga (ō) => o
u breve (ŭ); u lunga (ū) => u 

2) L'afroromanzo di cui parla Pompilio conservava l'occlusiva velare /k/ davanti a vocali anteriori. 

A mio parere è ben possibile che altre caratteristiche arcaiche contribuissero a dare questa impressione di assonanza con la lingua sarda nella sua forma più conservativa, ad esempio i plurali in -s, derivati dall'accusativo plurale latino. Tuttavia, non avendo attestazioni dirette, siamo nel campo delle ipotesi.  

Così possiamo azzardarci a fornire un vocabolarietto e un paio di frasi della lingua neolatina d'Africa del territorio di Cartagine, etichettandola al momento come conlang in attesa di nuove scoperte che permettano di confrontarne i lemmi con parole reali.

aka
, acqua
asnu, asino
aurikla, orecchio
auru, oro
bakka, vacca
bobe, bue
boke, voce
deke, dieci
dekembre, dicembre  
Deu, Dio
diket, dice
dìkere, dire
domna, signora
domnu, signore
faket, fa
fàkere, fare
ghenuklu, ginocchio
ghenus, genere  

kartu, quarto
kastru, castello
kàttoro, quattro
kella, cella
kelu, cielo
kentu, cento
kinke, cinque
kintu, quinto
kista, cesta
koket, cuoce
kòkere, cuocere
kruke, croce
linnu, legno
luke, luce
mannu, grande
nabe, nave
nibe, neve
nuke, noce  
oklu, occhio
okto, otto
oktombre, ottobre
òmines, uomini
omo, uomo
pake, pace
pike, pece
piske, pesce
plumbu, piombo
porku, maiale
pullu, pollo
ribu, fiume
tauru, toro
turre, torre   

issos bobes traunt issu aratru, i buoi tirano l'aratro;
issos òmines bibunt issu binu, gli uomini bevono il vino.

Faccio infine notare che nello scritto di Pompilio i parlanti neolatini sono denominati pagani, parola che nel latino classico vale "villici, paesani", senza alcuna connotazione religiosa. Ho usato questa traduzione, perché appare la più semplice e credibile. Tuttavia sussiste una certa ambiguità, avendo Pompilio scritto in epoca cristiana ed essendo la parola passibile di indicare qualcosa di diverso dagli abitanti di un villaggio. Cosa intendeva davvero l'umanista? All'epoca nella Cristianità la religione islamica era chiamata "pagana", anche se tale etichetta è una pura e semplice assurdità. L'umanista voleva forse dire che tali popolazioni, seppur di lingua neolatina, professavano l'Islam? Se la risposta fosse affermativa, quelle genti sarebbero state in origine cristiane e la loro religione ancestrale sarebbe andata perduta, a differenza della lingua. Appare troppo remota la possibilità che i parlanti neolatini non fossero mai stati islamici né cristiani
, ma avessero una religione discendente in qualche modo dal paganesimo dell'antichità. A distanza di tanto tempo, è arduo capire cosa passasse per la mente dell'autore.  

ALCUNE NOTE SULL'EPIGRAFIA CRISTIANA DELLA TRIPOLITANIA

Pubblico in questa sede un link che permette lo scaricamento di un interessantissimo lavoro dei professori Luca Lorenzetti e Giancarlo Schirru, che tratta la singolare ortografia rilevata nelle iscrizioni cristiane in lingua latina rinvenute in Tripolitania, in particolare a Leptis Magna. Queste iscrizioni risalgono ai secoli V e VI d.C. e si differenziano sia dalle iscrizioni donatiste del Gebel Occidentale che dalle più antiche iscrizioni cristiane di Sabratha. 

LORENZETTI-SCHIRRU-09.pdf

Quello che contraddistingue queste iscrizioni tripolitane, redatte in una lingua latina per molti versi conservativa quanto quella che si parlava in Sardegna, è il frequente uso del carattere K in luogo di C in molteplici contesti, che è molto utile e interessante analizzare.  

Pur essendo questo materiale posteriore a Teodosio, non mostra traccia di palatalizzazione della velare /k/ davanti a vocali anteriori. Riportiamo alcuni esempi, rimandando all'articolo per maggiori informazioni su ogni attestazione. 

Occorrenze di K davanti ad A:

Dominka 
K(a)l(endas), Kal[endas], K(alendarum) 
kar[itas]

Occorrenze di C davanti ad A:

Cal(endas) 
Dom(i)nca, dominica
 

Occorrenze di K davanti ad O, U:

Misekor 

Occorrenze di C davanti ad O, U:

Corcondie 
clericus

cum 

cognatione 

Occorrenze di K davanti ad E, I:

innok(ens) 
lok(i), loki 

pake, pakke

Occorrenze di C davanti ad E, I:

bocem ‘vocem’
dece ‘decem’
dicentis  

inocens 
loci

pace, p(a)c(e), pacae  

pauci

requiescit, requiesciet 

Occorrenze di K davanti a consonante:

oktabae 

Occorrenze di C davanti a consonante:

delicta 
hoctoginta 

octabae 

S(an)c(tu)s
 

Occorrenze di K e di C in fine parola:

hik 
hic, h(i)c 

Questa situazione è rimasta intatta fino al X-XI secolo nella Tripolitania araba, dove la lingua latina è continuata nell'uso epigrafico:   

Occorrenze di K davanti ad A:

dikat 
karus 
karta ‘quarta’ 
okassio 

Occorrenze di C davanti ad A:

bocabit carus 

Occorrenze di K davanti ad O, U:

korpus 
miserikordia 
monakus 
sekulo, s(ae)k(u)lo 
sekunda 

Occorrenze di K davanti ad E, I:

akerbus 
bikeisima ‘vicesima’ 
dekember  
dekesit 
dikite  
dulkissimus 
iaket
 

lukeat 
okisum

pake 

rekessit, rekesit

rekiebit ‘requievit’ 


Occorrenze di C davanti ad E, I:

decem[a], [de]cima 
dicenber 

iacet 

lucea(t) 

pace 
 
recessit, recesit 

Occorrenze di K davanti a consonante:

biksit 
indiktio 

dilektus 

oktaba 
 
oktonber 
pektore
 

Occorrenze di K e di C in fine parola:

ok
oc 

Ovviamente non dobbiamo aspettarci una pronuncia in tutto e per tutto coincidente con la pronunciatio restituta, ma in ogni caso si vede come in Tripolitania si fosse conservata una situazione già obsoleta nella maggior parte del Mediterraneo. Si notano inoltre altre caratteristiche: 

1) Si ha il chiaro passaggio dall'originale /w/ alsuono bilabiale /β/, scritto b, in ogni posizione.

2) Si ha la sporadica conservazione di /h/, che in almeno un caso diviene addirittura /k/: è attestato infatti kospitalem per hospitalem

3) Per quanto riguarda il trattamento del nesso sc /sk/ davanti a vocale e, i, si registra un fenomeno molto interessante: sono attestate le due varianti requieshit e requiesit per requiescit. Questo non è in realtà un indizio di palatalizzazione come può sembrare a prima vista, dato che in latino non si usava il digramma sh per esprimere il suono palatale di scena, come accade ad esempio in inglese. Cosa intendevano esprimere i lapicidi? A parer mio la questione è molto semplice: il nesso /sk/ davanti a i si era evoluto in /sχ/, con lo stesso suono che si trova nell'olandese Scheveningen. Poi questo suono si era semplificato naturalmente in /s/ in alcune parlate. 

4) Le consonanti finali appaiono ben conservate, tanto che anche -m è molto spesso scritta: probabilmente la sua pronuncia era distinta, mentre nel resto dell'Impero si era ridotta quasi ovunque a una fievole nasalizzazione della vocale già all'inizio dell'Impero. 

5) La labiovelare qu /kw/ si semplifica e diventa /k/

6) La consonante d seguita da i semiconsonante si mantiene integra, mentre in altre varietà di latino d'Africa è attestata una sua evoluzione in z

7) Il dittongo ae diventa e, e spesso si trova scritto al posto di una /e/ etimologica anche breve (es. pacae per pace).

Da tutto questo emerge una realtà piuttosto complessa e cangiante, che merita di essere approfondita e che contraddice in ogni caso le idee di chi vorrebbe imporre all'intero mondo romano la pronuncia di un latino scolastico apprenditiccio. 

Lorenzetti e Schirru parlano quindi dell'uso della lettera K davanti a vocale anteriore in altri contesti, anche se non esiste un nesso causale diretto tra tali attestazioni e gli analoghi usi in Tripolitania:

"Al di fuori dell’Africa, l’uso di <k> dinanzi a <e> o <i> è limitato a rarissimi esempi: dekem(bris) (CIL I 1038: è un’iscrizione romana arcaica: L. Kaili(os) a.d. III eidus dekem(bris)); Mukianus, Mukianu, Markellino (tutte in CIL V 3655, un’epigrafe da Verona); in pake (CIL X 7173, Sicilia), in somno [pa]kis (ILCV 3179A, Roma) in due iscrizioni cristiane. Un’ulteriore attestazione proviene da un’iscrizione algerina non cristiana (CIL VIII 3577, Lambaesis): d. m. s. / Domitio Iu/liano vixit // annis XL // Aemilia Spe/nika marito po/suit dulk(issimo), già segnalata in ACQUATI 1974, p. 38, assieme ad altre forme sporadiche di attestazione africana, come koniugi, Viktor. In tutti questi casi, si è di fronte a un’indistinzione grafica diversamente motivata (l’uso arcaico, l’uso prima di abbreviazione, un probabile vezzo personale del lapicida nel caso dell’iscrizione veronese), che però, o per cronologia o per geografia, non fa regola né testo per il nostro argomento." 

sabato 14 giugno 2014

UNA SPACE OPERA GROTTESCA

 

I RIBELLI DEI 50 SOLI 

Autore: Alfred Elton Van Vogt

Titolo originale: The Mixed Men

Noto anche come L'uragano galattico, Lo sciame delle stelle, La tempesta, Nascondiglio

Anno: 1945

Traduzioni in italiano: Pietro Leoni (1954), Riccardo Valla (1976), Ugo Malaguti (2008) e altri.   

Trama (da Mondourania):

Un gigantesco incrociatore spaziale della Terra Imperiale, in esplorazione astrografica nella Grande Nube Magellanica, scopre prove evidenti di una civiltà sconosciuta che si estende su settanta pianeti, ritenuti disabitati. Ma questi pianeti non possono essere identificati perchè sparsi in mezzo a un numero sterminato di altri pianeti e i loro abitanti, discendenti di una razza mista di esseri umani e robots, cioè Umanoidi, si oppongono a prendere contatto con la civiltà della Terra. Si ha così una lotta serrata, fitta di intrighi e di tremendi pericoli, che alla fine viene risolta in modo pacifico per merito della Grande Capitana dell'incrociatore spaziale della Terra Imperiale e di un capo degli Umanoidi che danno, col loro amore, l'esempio di quella perfetta armonia che governa tutto l'Universo. 

Riporto la mia breve recensione del volume, non proprio eulogistica, pubblicata nel 2008 su Anobii e sul defunto blog Esilio a Mordor

Un libro enfatico e infarcito di un gergo pseudoscientifico spesso pesante e incomprensibile al suo stesso autore. Come Asimov, Van Vogt ha una scarsa idea dei meccanismi che governano l'evoluzione delle lingue. Anche fingendo di non vedere l'ignoranza dei princìpi della termodinamica, pensare che dopo 15.000 anni colonie sperdute di anglofoni parlino ancora un inglese riconoscibile ha del ridicolo. 

Rispetto a quanto scritto in quell'occasione, aggiungo qualche ulteriore commento.  

Devo elogiare chi ha avuto l'idea di tradurre il piatto e insignificante titolo originale, The Mixed Men, con il poetico I ribelli dei 50 soli (immagino che si tratti del primo traduttore, Pietro Leoni). Questo titolo infatti fa sognare ben più della lettura del volume stesso: non oso neanche immaginare che recensioni avrei concepito se l'opera di Van Vogt fosse stata presentata in italiano come Gli uomini misti

Condivido senz'altro alcuni giudizi su Van Vogt che si ritrovano copiati e incollati in numerosi siti e forum sul Web. Nonostante l'imperante citazionismo hanno una loro validità intrinseca. Questa è l'opinione di Alexei Panshin: 

"Molte delle sue storie, comprese quelle che ci colpiscono maggiormente, cadono a pezzi se sottoposte ad un esame rigoroso. Il suo stile è rozzo: privo di sensibilità, privo di grazia e spesso vago. I suoi intrecci sono complicati, ma quando alla fine il turbine si ferma, appaiono contraddittori."  

Nel remoto 1945, mentre le ceneri dell'Europa ancora fumavano, un certo Damon Knight ha detto una cosa molto giusta sull'argomento

"Come scrittore Van Vogt non è affatto un gigante come si dice, è solo un pigmeo che usa una gigantesca macchina da scrivere."  

UNA GLOSSOLALIA DI ANTONIN ARTAUD

La poesia Cogne et foutre di Antonin Artaud si conclude con un singolare testo glossolalico: 

Ya menin
fra te sha
vazile
la vazile

a te sha menin
tor menin
e menin menila 

ar menila
e inema imen. 

In preda a un'inspiegabile ispirazione, nel 2007 ho tradotto la glossolalia, pubblicandola poi su Esilio a Mordor:

O spiriti
oscuri del cosmo,
radiosa
acqua radiosa,  

dagli spiriti del cosmo,
spiriti della pietra,
spiriti della terra, il vento,  

infiammate il vento
di spirito di conoscenza terrestre.  

La traduzione, se così si può chiamare, è stata da me composta leggendo un adattamento della glossolalia in questione per un brano musicale in cui i versi erano ripetuti diverse volte, e non avevo neanche letto il testo della poesia. Cosa avesse in mente Antonin Artaud quando proferì e mise per iscritto il suo componimento glossolalico può essere immaginato leggendo i versi di Cogne et foutre

Je connais un état hors de l'esprit, de la conscience, de l'être, 
et qu'il n'y a plus ni paroles ni lettres, 
mais où l'on entre par les cris et par les coups. 
Et ce ne sont plus des sons ou des sens qui sortent, 
plus des paroles 
mais des corps. 
Cogne et foutre, 
dans l'infernal brasier où plus jamais la question de la parole 
ne se pose ni de l'idée. 
Cogner à mort et foutre la gueule, foutre sur la gueule, 
est la dernière langue, la dernière musique que je connais 
et je vous jure qu'il en sort des corps 
et que ce sont des corps animés. 

Posso quindi immaginare che con la parola tradotta con "spiriti" indichi in realtà autentici demoni. Ormai l'autore non può più esprimere un'opinione in proposito, essendo morto da tempo. Non so quindi se esista una connessione tra la sua ispirazione e la mia. Tuttavia il testo ha una sua coerenza interna e se ne potrebbe trarre un breve vocabolario, anche se insufficiente alla costruzione di una conlang

L'INVOLUZIONE DELLA SPECIE

Catturati da una singolarità spaziotemporale, due umani morti nell'adolescenza si incontrano al di fuori di questo cosmo fisico. Conservano intatti i loro ricordi e le loro emozioni. Nativi dello stesso identico luogo, uno è vissuto nel Neolitico, l'altro nella prima decade del XXI secolo. Riporto qui il loro dialogo. 

Adolescente del Neolitico: 

"Semalkom autoidesk nebonaumonum arainateutaskom eunoim sebeldonsk alumotaidenomk alum reldonamankoim eleunos sebirolts kanamaindemont sebeldu lepondeums maundot leuropsink alebiom notomaunoms tautoimk anteutoima naharan tenimpsim salomu autondemsk leptirankas andemonts nodu mendumal enesamolkumsk kankonim denoimons demetom niranka neurankoim kalsin elunesk dabainaum olomansk skonskims alomu nodeumons. Akaramst neboimos elumonts eneskim? Aleurkom semalkomk neroima niranumont beldemonskilomsk anaurom selebiomu naromus ahar lebenstim keldobam lepondimansiter alemorsinoktiboms salomuts kelsik araimonaunonks relum sonum reldomansikonotomans tautoteutibomsk elsiansebeldomansk anteutim maundobaunem leuropsinkam anemo sebironaumoraim autonak nodaumos alutonemendimsk aslomandur autonamorskibamsk enuma lebondim enemskibamsk."  

Adolescente del XXI secolo d.C.: 

"kazzoffiga!"
 

Marco "Antares666" Moretti, ottobre 2008

domenica 8 giugno 2014

UN NOTEVOLE ANTROPONIMO CELTICO IN NORRENO

Móðir Dyggva var Drótt, dóttir Danps konungs, sonar Rígs er fyrstr var konungr kallaðr á danska tungu. 
La madre di Dyggve era Drott, la figlia del re Danp, il figlio di Ríg, il primo che venne chiamato re nella lingua danese.
(Snorri Sturluson, Ynglinga saga

L'antroponimo mitologico Rígr non è altro che il celtico *ri:ks, gen. *ri:gos, pl. *ri:ges, che significa "re". Si tratta di un prestito abbastanza tardo, come prova la conservazione della consonante sonora /g/. Il vocabolo è attestato in moltissimi nomi gallici e britannici. Possiamo riportare per esempio Vercingetorix "Supremo Re dei Guerrieri", Cingetorix "Re dei Guerrieri", Orgetorix "Re degli Uccisori", Lucotorix "Re dei Topi", Eporedorix "Re dei Cavalli da Corsa", Albiorix "Re del Mondo", Biturix "Re del Mondo", Dumnorix "Re del Mondo", Caturix "Re delle Battaglie", Ambiorix "Re del Recinto", etc. Lo stesso termine è stato preso a prestito nella lingua proto-germanica in epoca antecedente alla rotazione consonantica conosciuta come Legge di Grimm: abbiamo infatti gotico reiks /ri:ks/ < celtico *ri:ks; gotico reiki /ri:ki/, norreno ríki < celtico *ri:gion. Notiamo subito che la consonante /g/ del celtico comune è diventata un'occlusiva sorda /k/ in proto-germanico, e questa situazione è stata ereditata da tutte le lingue discendenti. Invece nell'antroponimo danese la consonante si è mantenuta sonora, perché il prestito è avvenuto in un'epoca in cui la Legge di Grimm si era già esaurita. Il nome è stato adattato nel germanico del nord *ri:γaz, con il tema in /a/, quindi si è avuto direttamente Rígr. L'attestazione di questo antroponimo potrebbe essere di qualche aiuto nel chiarire la complicata questione della lingua dei Cimbri e delle sue influenze celtiche. 

L'USO DI DUE PAROLE GOTICHE NEL KLORAN DEL KU KLUX KLAN

Tempo fa mi è capitato di reperire in oscuri antri del web una copia del Kloran, il testo rituale del Ku Klux Klan. I contenuti sono privi di qualsiasi interesse e in gran parte consistono in dettagli sull'organizzazione pratica della famigerata società segreta. Tuttavia ho subito notato nel prologo un bislacco detto criptico: NON SILBA SED ANTHAR, la cui traduzione in inglese è "Not for self, but for others". In esso spiccano due parole gotiche, SILBA "sé" e ANTHAR "altro". Ovviamente th sta per þ, carattere difficile che è stato sostituito, in modo tale da favorire la giusta pronuncia da parte dei Klansmen. Il problema è che le due parole della lingua di Wulfila non sono declinate e che le altre due parole, NON e SED, sono in latino. Questo orrendo ibrido latino-gotico sgrammaticato mostra che l'autore del Kloran, verosimilmente William Joseph Simmons - il fondatore del secondo Klan - aveva in mente di recuperare la lingua gotica come eredità ariana, considerato che all'epoca era diffusa la falsa convinzione che la lingua di Wulfila coincidesse con l'antenato di tutte le lingue germaniche, mentre in realtà ne è un soltanto un discendente. È possibile che le cose siano andate così: non conoscendo affatto il gotico, Simmons ha scovato le parole SILBA e ANTHAR in un vocabolarietto sommario, e non sapendo come declinarle le ha presentate nella loro forma non flessa. Non avendo a disposizione particelle, avverbi e altri elementi, ha deciso così di rimpiazzare le parole per "non" e "ma" con i corrispondenti termini latini, a lui ben noti. La forma gotica corretta si dovrebbe invece scrivere NI SILBIN AK ANTHARAIM. Avendo a disposizione non poco tempo da spendere in elucubrazioni, Simmons avrebbe perlomeno potuto indagare meglio la lingua gotica e produrre un risultato meno posticcio. Casi di questo genere non sono rari nel panorama esoterico e settario dell'intero pianeta. Fatto ancor più grave, lo slogan del Ku Klux Klan figura spesso nel web come un'espressione in puro latino. Per esempio qualcuno lo ha incluso nella lista di frasi latine su Wikipedia, senza fare alcuna menzione dell'origine delle due parole gotiche. 

SUPEREROI E FONETICA DEI PRESTITI INGLESI IN ITALIANO

Una domanda angosciosa risuonava tempo fa dalla gola di un blogger splinderiano, senza trovare risposta. In un post si chiedeva basito: "Perché Superman si pronuncia Supermen e Batman non si pronuncia Betmen?". All'epoca sono stato distratto da qualcosa che nemmeno rammento e non ho così avuto occasione di apporre un commento chiarificatore. Anche se in deplorevole ritardo (Splinder si è estinto agli inizi del 2012), abbozzerò qui un tentativo di risposta. Forse il blogger in questione brancola ancora nel cyberspazio, e tramite una ricerca in un motore potrebbe raggiungere questo scritto, trovando qualcosa in grado di placare la sua ansia. 

In italiano Superman si pronuncia /supermen/ e Batman si pronuncia per contro /batman/ per il semplice fatto che i due nomi sono entrati nella nostra lingua in tempi diversi e con modalità diverse. A quanto pare non è stata la stessa persona ad introdurli, ed essi sono stati adottati dalle masse seguendo le rispettive pronunce che si utilizzavano nei media. L'autore della pronuncia /supermen/ aveva una vaga infarinatura di inglese scolastico, mentre l'autore di /batman/ può essere stato mosso anche da considerazioni meramente estetiche. Negli anni passati erano infatti popolari le scenette in cui si mettevano in ridicolo i dialetti della Puglia, presentati come un italiano vernacolare in cui la vocale /a/ tonica diventava sistematicamente un suono anteriore aperto che nei caratteri IPA è trascritto con /æe che in genere è percepito come una variante della e aperta. Chi non ricorda Lino Banfi pronunciare sèsso anziché sasso in una commediola con Gloria Guida? Così pronunciando il nome Batman con le vocali anteriori qualcuno avrebbe potuto chiedersi: "E che è Bètmen, il supereroe di Bèri?" La pronuncia /batman/ suonava meglio e non destava ilarità nelle masse frivole, per questo è stata favorita e si è quindi diffusa. 

sabato 7 giugno 2014

DUE PESI E DUE MISURE NELL'ORTOGRAFIA LATINA MODERNA

Una domanda viene spesso posta nel web: bisogna scrivere repetita juvant o repetita iuvant? In genere intervengono utenti furibondi e spocchiosi a stigmatizzare repetita juvant come se fosse uno strafalcione tipo un'albero o una luciertola, argomentando che gli antichi Romani la lettera j nemmeno la conoscevano. Orbene, c'è di certo del vero in questo. La lettera j fu infatti introdotta dall'umanista francese Pierre de la Ramée (1515-1575), noto anche come Pietro Ramo, e quindi fa parte delle cosiddette lettere ramiste. Tuttavia si può far notare che il ragionamento è fallace e da rigettarsi per un semplice motivo: anche la distinzione tra la lettera u usata per scrivere la vocale e la lettera v per scrivere la consonante è un'innovazione introdotta proprio dall'umanista francese in questione. Così anche repetita iuvant non sarebbe riconosciuto da un coetaneo di Cicerone. Infatti all'epoca si scriveva sempre usando la stessa lettera sia la vocale /u/ (breve o lunga) che la semiconsonante /w/, e le cose non cambiarono anche quando /w/ si sviluppò nella bilabiale / e infine nella labiodentale /v/. Nella scrittura monumentale era sempre V, in quella corsiva sempre u. Così a voler evocare Cicerone, si rischia di dover per coerenza scrivere REPETITA IVVANT in maiuscolo e repetita iuuant in minuscolo. Giova infine ricordare che i latinismi usati nei tempi moderni non sono necessariamente propaggini della lingua scritta dell'epoca classica. Pertanto reputo che non sia poi così biasimevole scrivere repetita juvant se l'espressione è intercalata in un testo in italiano. 

lunedì 2 giugno 2014

EDGAR A. POE E LA NATURA DELLA DEMOCRAZIA

Tutti conoscono Edgar A. Poe per racconti come Il gatto nero, La maschera della morte rossa, Il pozzo e il pendolo, Una discesa nel Maelström e via discorrendo. Eppure scrisse anche testi di diversa natura, meno noti al pubblico italiano ma non per questo meno significativi. Tra le opere di fantascienza pubblicate molto prima che si parlasse di questo genere, possiamo citare senza dubbio il suo racconto Mellonta Tauta (ossia "le cose a venire"), ambientato nel 2848. Molti preferiscono non parlare di fantascienza riferendosi a scritti di questo tipo, ma di protofantascienza. A parer mio, essendo il significato principale della parola "fantascienza" quello di "fantasia scientifica", la definizione calza a pennello e non è soggetta a vincoli cronologici rigidi - con buona pace di tutti coloro che ancora provano un grande disagio alla sola menzione della parola "fantascienza", come se si trattasse di una vergognosa forma di pornografia. Proponiamo a questo punto un brano particolarmente interessante estratto da Mellonta Tauta, in cui l'autore riflette in modo lucido quanto amaro sul concetto di Democrazia, arrivando ad intenderne in modo perfetto la vera natura e a profetizzarne la decomposizione. Quanto Poe scrisse nel XIX secolo è sotto i nostri occhi e ognuno potrà riconoscerlo. 

«5 aprile. Sono quasi divorata dall'ennui. Pundit è l'unica persona a bordo con cui si possano scambiare due parole; e, poverino! non sa che parlare di antichità. Ho passato tutto il giorno a cercar di convincermi che gli antichi Amriccani si autogovernavano! Si è mai sentita una simile assurdità? - che vivevano in una sorta di confederazione in cui ognuno pensava a sé, come i "lupi della prateria" di cui si legge nelle favole. Dice che presero le mosse dalla più strana idea che mai si possa immaginare, vale a dire che tutti gli uomini nascono liberi e uguali - una cosa che fa a pugni con le leggi della graduatoria, così visibilmente impressa in tutte le cose dell'universo sia morale che materiale. Ciascuno "votava", come si diceva - vale a dire, si impicciava degli affari pubblici - finché, alla fine, si scoprì che ciò che riguarda tutti non riguarda nessuno e che la "Repubblica" (tale era il nome di quella assurda cosa) non aveva nessun governo. Si racconta però che la prima circostanza che turbò profondamente l'autocompiacimento dei filosofi i quali avevano messo in piedi questa "Repubblica" fu la sorprendente scoperta che il suffragio universale dava adito a manovre fraudolente, grazie alle quali era possibile l'accaparramento del desiderato numero di voti, senza pericolo di essere scoperti o ostacolati, da parte di un qualsiasi partito abbastanza disonesto da non vergognarsi per quella frode. Un minimo di riflessione su quella scoperta fu sufficiente a portarne in luce le conseguenze - e cioè che la disonestà era destinata a prevalere - in breve, e che un governo repubblicano non poteva essere altro che un governo di disonesti. Tuttavia, mentre i filosofi erano occupati a vergognarsi della propria stupidità per non aver previsto questi inevitabili mali, e ad elaborare nuove teorie, la faccenda finì bruscamente ad opera di un tizio di nome Mob, il quale prese in mano le redini instaurando un dispotismo al cui confronto quello dei mitici Zeros ed Hellofagabaluses erano una rispettabile piacevolezza. Questo Mob (uno straniero, fra l'altro) pare fosse l'individuo più odioso che avesse mai calpestato la faccia della terra. Di statura gigantesca - insolente, avido, sporco; col fegato di un toro, il cuore di una iena, e il cervello di un pavone. Alla fine, morì stroncato dalle sue stesse energie. Comunque ebbe una sua utilità, come la hanno tutte le cose, per spregevoli che siano, e insegnò agli uomini una lezione che, ancora oggi, essi non corrono il rischio di dimenticare - quella di non andare mai contro le analogie naturali. In quanto al repubblicanesimo, non si trovò mai nulla di analogo sulla faccia della terra - se si eccettua il caso dei "cani della prateria" - eccezione che, se non altro, serve a dimostrare che la democrazia è la forma di governo ideale - per i cani.» 

Edgar Allan Poe, Mellonta Tauta