martedì 28 gennaio 2014

 

FASE HOBART 

I morti si animano nelle tombe, e una volta riesumati si portano dietro il gelo sepolcrale. Ora hanno di nuovo una carne integra, ma i loro processi fisiologici scorrono al contrario. Anziché mangiare rigurgitano: il bolo sale dall'esofago, si converte in cibo con la ruminazione e viene espulso integro. Così dalla bocca dei redivivi prendono forma pizze, zuppe, bistecche. Gli alimenti espulsi vengono collocati in appositi ricettacoli e custoditi in frigorifero, per poi essere ritirati e riportati all'origine. Questi rianimati non decadono, anzi ringiovaniscono. Con il passar degli anni diventano sempre più vigorosi, poi alla fine rimpiccioliscono fino a ritornare bambini. Al termine del ciclo sono poppanti, in attesa di un utero disponibile nel quale rientrare. Questa sublime trovata è alla base di uno dei libri meno conosciuti di Philip K. Dick: IN SENSO INVERSO. Sono dell'opinione che ogni scritto di Dick sia portatore di profondi significati e legato a tutti gli altri da invisibili fili simbolici, che formano una vera e propria rete di link concettuali. Il processo cosmico di inversione temporale, noto come Fase Hobart, è a buon diritto tra quanto di più originale io abbia mai trovato nella Noosfera.

venerdì 24 gennaio 2014

LA GORGIA NEL DIALETTO LOMBARDO DI SEREGNO E DINTORNI

Khawàl. Quando ho sentito questa parola da un uomo di un borgo tra Seregno e Albiate, mi sono chiesto a chi stesse dando del transessuale. Stavo per dirgli che l'accento corretto è sulla prima sillaba (khàwal), quando mi sono reso conto che non aveva proferito tale parola in arabo. Intendeva dire "cavallo", in milanese standard cavàl. Questo è un caso di gorgia lombarda. Un mio amico era giunto a costruirsi una strana storia per spiegare questi fatti: essendo state distrutte dalla peste tutte le maestranze degli artigiani della Brianza, ne sarebbero state importate dalla Toscana, e questi immigrati avrebbero introdotto a Seregno la gorgia. All'epoca la spiegazione mi era parsa plausibile, ma a distanza di tempo credo che tale storia sia stata fabbricata e che non abbia alcun fondamento. Come altre peculiarità dei dialetti galloitalici di svariate località, questo fenomeno fonetico è in rapido declino, tanto che ormai si riscontra quasi soltanto tra pochi vecchi. Il suono sviluppato dall'antica occlusiva sorda /k/ è simile a quello dell'arabo khinzir "maiale" e ben diverso dalla /h/ del toscano /la hasa/. Un fenomeno di diverso genere che si nota in questa parlata è il passaggio sistematico da /v/ a /w/. Va precisato che la fricativa si trova in ogni posizione, non soltanto intervocalica: ad esempio ul khawàl "il cavallo", etc. Ho potuto constatare che il suono si è sviluppato anche in parole in cui in origine esisteva una consonante doppia: ad esempio wakha "vacca". Questo è un indizio di origine recente. Non mi risulta che le altre consonanti occlusive siano state intaccate: il fenomeno riguarda unicamente la velare sorda. Tra i parlanti dotati questa peculiare pronuncia, il più giovane di cui ho avuto notizia è Ignazio C., che ha la mia stessa età (classe 1966). Un insulto che proferiva spesso era "merda de khan de khascia", ossia "merda di cane da caccia". Non ho mai potuto udire questo suono da un solo parlante di sesso femminile, anzi, ho avuto esperienza di famiglie in cui questa peculiarità è tipica solo degli uomini e non delle donne. A un certo punto ho addirittura pensato che il passaggio dal suono occlusivo a quello fricativo si fosse sviluppato nel contesto delle bestemmie da osteria e che non abbia mai riguardato le donne. Mancano dati in letteratura, e sarò grato se qualche utente con esperienze dirette potrà darmi ulteriori informazioni. Nel frattempo mi piacerebbe sapere come i fautori dell'origine etrusca della gorgia toscana spiegherebbero questo fatto con le loro teorie di sostrato fonetico. 

sabato 18 gennaio 2014

L'ETRUSCO, UNA LINGUA PERSEGUITATA

Grande è stato il mio disappunto quando ho scoperto che il sito www.etruscaphilologia.eu non esiste più. Non ci sono dubbi, è stato distrutto. Era la più grande raccolta di iscrizioni etrusche consultabili online ed era molto comodo per chiunque fosse impegnato in studi sulla lingua dei Rasna. L'autore del sito, Adolfo Zavaroni, ha utilizzato un metodo etimologico che lo ha portato fuori strada, facendolo giungere a false traduzioni, molto distanti dalla realtà. Tuttavia, nel sito in questione non comparivano traduzioni: c'erano i testi trascritti e ordinati per luogo di provenienza, con le sigle che permettono di identificare ogni iscrizione. Spesso c'erano note che spiegavano le diverse letture di vari autori nel caso di caratteri dubbi. Adesso di tutto questo non resta più nulla. Rimane consultabile soltanto la sezione sulle iscrizioni di Reti, Camuni, Leponzi e Veneti, situata su un altro dominio: 
 

Qualcuno mi dirà di certo che sono paranoico, che è tutto a posto e che il dominio è semplicemente scaduto. Riporto allora il caso di un altro sito, che rendeva consultabili online numerose iscrizioni etrusche scoperte e pubblicate di recente. Era il sito dell'ETP Project dell'Università del Massachusetts:  


Anche questo è andato distrutto e non è più stato ripristinato. Queste risorse erano per me miniere di informazioni facilmente fruibili, che mi permettevano di procedere nei miei studi. Da adesso in poi le difficoltà che dovrò affrontare saranno molto maggiori. Di fronte a tutto questo, è evidente che a qualche potere del mondo dà molto fastidio che qualcuno cerchi di occuparsi della lingua etrusca seguendo il metodo scientifico, col rischio di avvicinarsi al suo recupero e di comprendere le sue origini. Chiunque cerchi di andare oltre da ripetizione dei dati di base, dell'ABC tuttora gravato da ambiguità e da incertezze, è severamente scoraggiato: si trova a disposizione mezzi sempre minori, il Nulla che gli si forma intorno. I ciarlatani che abbondano nei gruppi di Facebook e in altri luoghi del Web, potranno invece andare avanti a ruminare le loro sconcezze. 

mercoledì 15 gennaio 2014

IL CARME 84 DI CATULLO NON MOSTRA EVIDENZA DELLA GORGIA TOSCANA

Questo è il Carme 84 di Catullo, in cui il poeta menziona la pronuncia aspirata di un etrusco:

LXXXIV
 

Chommoda dicebat, si quando commoda vellet
dicere, et insidias Arrius hinsidias,
et tum mirifice sperabat se esse locutum,
cum quantum poterat dixerat hinsidias.
credo, sic mater, sic liber avunculus eius.
sic maternus avus dixerat atque avia.
hoc misso in Syriam requierant omnibus aures
audibant eadem haec leniter et leviter, omoteleuto
nec sibi postilla metuebant talia verba,
cum subito affertur nuntius horribilis,
Ionios fluctus, postquam illuc Arrius isset,
iam non Ionios esse sed Hionios. 

Traduzione:

Volendo dire comodi Arrio diceva 'homodi' (1)
e in luogo di insidie 'hinsidie',
convinto di parlare a perfezione
quando con tutto il fiato urlava 'hinsidie'.
Credo proprio che sua madre, lo zio materno

ed anche i suoi nonni parlassero così.
Mandato in Siria riposavano le orecchie
e riudivan le parole col giusto suono
senza più temere di ascoltarle storpiate.
D'un tratto ecco la notizia orribile,
Arrio ha solcato i flutti dello Ionio,
e Ionio questo non è più, ma Hionio (2).  
 

(1) non homodi, a dire il vero, ma chomodi
(2)
 Ionios, "violaceo"; Hionios, interpretato come "gelido"

Questo testo è considerato come prova positiva dai fautori dell'origine etrusca della gorgia toscana, anche se quanto descrive è simile soltanto all'apparenza. Forse che nel toscano aspirato si aggiunge una h- a parole che in italiano standard iniziano per vocale? No di certo. Nessun toscano direbbe *hinsidia per insidia, o *haltro per altro. Inoltre, il fatto che hinsidias e Hionios abbiano una h- mentre chommoda ha ch-, fa pensare che Catullo trascrivesse con h una consonante fricativa e con ch- un'occlusiva aspirata /kh/. Un motivo di più per rimarcare la sostanziale differenza tra il tentativo di trascrivere la pronuncia di Arrio e i suoni usati dei moderni toscani.  

Questo si legge in un forum sull'argomento: 

"Ma Catullo è veronese, odia sentire storpiare il latino e non capisce il funzionamento della gorgia, quindi non sa imitarla. Proprio esattamente come Camilleri ne 'il birraio di Preston', che fa iniziare il discorso di un toscano con una bella aspirazione. Questo non può succedere in toscano, perché non si aspira mai ad inizio di discorso, ma solo tra due vocali o davanti a cr (la hasa, la hroce- casa, croce)". 

Non è che Catullo non sapesse imitare la gorgia toscana, che non esisteva. Egli non comprendeva la logica del sistema fonetico della lingua etrusca e dei tentativi di Arrio di pronunciare il latino.  

Quando si sente parlare Ratzinger, si ha l'impressione che pronunci "pampini" anziché "bambini" e "callo" anziché "gallo". In realtà in tedesco l'occlusiva labiale sonora /b/ esiste, ma in alcune varietà è meno sonora che in italiano. Essendo l'occlusiva labiale sorda /p/ pronunciata in realtà /ph/, ecco che per un tedesco l'opposizione tra /ph/ (scritto p-) e /p/ (scritto b-) è già sufficiente a marcare il contrasto tra i due suoni. In certi dialetti, come parte di quelli alemannici, il mutamento da /b/ a /p/ si è completato. Un discorso simile vale per le altre occlusive. Ora, nessuno si sognerebbe di dire che i tedeschi hanno la gorgia, forse perché la spirantizzazione non è così pronunciata. 

A un fenomeno di questo tipo, ma avvenuto in epoca più antica, si deve il passaggio da /p/ iniziale all'affricata /pf/ del tedesco, anche in parole prese a prestito da latino. In modo simile la /t/ iniziale di parola diventa un'affricata /ts/, scritta z-, e via discorrendo. Nel corpo delle parole, le occlusive semplici intervocaliche sono diventate fricative. Si è partiti da /p/ /t/ /k/, e si è avuta una spirantizzazione tanto forte da produrre un complesso mutamento che è conosciuto come Seconda Rotazione Consonantica. Riportiamo alcuni esempi per la serie labiale:     

/p/ > /pf/:

Lat. /pi:lum/ pilum 'giavellotto' > Ted. Pfeil 'freccia'
Lat. /piper/ piper 'pepe' > Ted. Pfeffer 'pepe'
Lat. /kampus/ campus 'campo' > Ted. Kampf 'battaglia' 

/b/ > /p/

Lat. /bo:le:tus/ boletus 'fungo porcino' > Ted. Pilz 'fungo'
Ingl. rib 'costola' : Ted. Rippe 'costola' 

Questi cambiamenti sono partiti da qualcosa di simile alla spirantizzazione riscontrata nel fiorentino (a casa /akkhasa/), anche se non identico (non dipende dal contesto sintattico, comporta ulteriori mutamenti nelle consonanti sonore). Per chi volesse approfondire l'argomento, rimando alle fonti facilmente reperibili nel Web. Ad esempio si può partire da Wikipedia per poi intraprendere ulteriori ricerche. 



Ora, è possibile che Arrio sentisse le consonanti /p/ /t/ /k/ del latino come rilassate e le riproducesse come /ph/ /th/ /kh/, mentre le consonanti etrusche /p/ /t/ /k/ potevano essere realizzate come sonore /b/ /d/ /g/ in certi contesti o come tese /pp/ /tt/ /kk/ in altri, in contrasto con le aspirate. Non dimentichiamoci che gli autori delle glosse etrusche a noi giunte trascrivevano talvolta come /b/ /d/ /g/ le consonanti /p/ /t/ /k/ dell'etrusco: es. Etr. *tamna "cavallo", scritto damnos (prestito dalla radice indoeuropea *dom- "domare", etc.), Etr. *cape- "carro", scritto gapos (in un'iscrizione si ha capesar "carraio"). 

Per quanto riguarda hinsidias, posto che l'imitazione di Catullo abbia un senso, potrebbe darsi che nell'etrusco di Arrio le parole inizianti per vocale avessero una lieve occlusiva glottidale, come in tedesco, e che l'assenza di questa consonante non scritta (che si trova anche nelle lingue semitiche) gli abbia fatto percepire le vocali del latino come "rilassate", facendogliele adattare come parole con h- iniziale.  

Come si può vedere, assolutamente nulla di simile al toscano odierno. Il quadro che emerge da queste analisi non è confortante per chi crede che la gorgia sia qualcosa che dall'etrusco è passato direttamente alla Toscana dei nostri giorni per eredità ininterrotta. In etrusco le consonanti aspirate sono fonemi separati dalle occlusive sorde, mentre in toscano ne sono allofoni

domenica 12 gennaio 2014

LA GORGIA TOSCANA NON HA ORIGINI ETRUSCHE

Alcuni studiosi, tra i quali Merlo, Agostiniani ed altri, hanno ipotizzato che la gorgia toscana possa avere origini etrusche. Si tratta invece di un fenomeno completamente privo di connessioni con l'antica lingua dei Rasna, come intendo dimostrare con argomenti solidissimi. Non soltanto la gorgia è qualcosa di completamente diverso dall'aspirazione delle consonanti etrusche, ma si vede che non può risalire a un tempo troppo remoto. 

Riassumiamo alcuni dati di fatto. 

La lingua etrusca ha un'opposizione contrastiva tra consonanti occlusive aspirate (trascritte φ, θ, χ) e non aspirate (trascritte p, t, c) quando il suono è iniziale di sillaba. Il potere contrastivo sembra invece essere neutralizzato alla fine di una sillaba, soprattutto in fine parola. Persino il limitato lessico etrusco di cui disponiamo ci permette di illustrare tutto ciò con alcuni esempi significativi:  

caru, "fatto" - Χaru, "Caronte" 
ci
"tre" - χi "tutto" 
Tina
"Giove" - θina "vaso da acqua"  

Sappiamo che tec non è la stessa cosa di θec; e allo stesso modo ten-, "detenere una carica", non è la stessa cosa di θen-, prob. "area sacra", etc...  

Abbiamo invece le seguenti variazioni: 

mlaχ - mlac - malak "buono" 
huθ
- hut "sei" 
maχ
- mac "cinque"  

La lingua etrusca permette inoltre un'occlusiva aspirata prima o dopo un'altra consonante: parole come alχu "dato", urχe- "dopo, dietro", hamφe "destra", urθanice "fabbricò", sono piuttosto comuni.  

Esiste poi una consonante fricativa h, che non ha nulla a che fare con χ e non alterna con essa:  

hia "qui" - χia "ogni"  

Questa aspirazione non è un vezzo aggiunto a piacimento alle parole, ma è un fonema: la sua presenza o assenza può cioè distinguere parole diverse: 

ar- "andare"; "portare" - har- "dentro" 

In qualche parola, nei testi più recenti tende a sparire: 

hia "qui" > ia 
heitva
"grande, magnifico" > etva 

Raramente ricorre nel corpo di una parola, le eccezioni sono arcaismi. Talvolta essa alterna con f- in inizio parola: 

farθan "vergine"; "genio", scritto anche harθan 

A questo proposito va riportato un singolare aneddoto. Catullo, rappresentante dei Poeti Nuovi, esaltava la cultura neoterica importata dall'Ellade e disprezzava l'eredità etrusca: derideva coloro che a sua detta perdevano il loro tempo a studiare i rotoli scritti al contrario degli Etruschi (segno che per contro la conoscenza della lingua dei Rasna destava ancora grande interesse in ambienti colti di Roma). Così non perdeva occasione di presentare gli Etruschi come macchiette, ad esempio descrivendo un personaggio che aveva il vezzo di pronunciare le parole latine riempiendole di aspirazioni, trasformando il Mar Ionio - con un brivido - in Hionio (dal greco χιων = neve). Questo ci dimostra che ai tempi di Catullo la χ- greca era una fricativa h-, e il suo equivalente in lingua etrusca era paragonato al suono greco, non all'aspirazione di parole latine come homo, hiems, che con ogni probabilità non si pronunciava più da tempo. Catullo potrebbe non aver descritto una situazione reale: in tal caso la sua trovata guittesca sarebbe piuttosto da ritenersi una caricatura di qualcosa a lui incomprensibile. Casi simili si danno anche ai nostri giorni. In un gioco a premi, un conduttore italiano che è pietoso non menzionare per nominativo, anni fa si è lanciato in una grottesca imitazione della parlata toscana, trasformando arbitrariamente consonanti nell'aspirazione -h-, del tutto a caso. Vi era in Splinder un blogger, Sifossifoco, che riportava nell'intestazione del suo portale un detto apocrifo "pareha mota unn'era", facendolo risalire a un fantomatico anonimo toscano del secolo XVII. Ha poi corretto in "parea mota unn'era", evidentemente quando qualcuno gli ha fatto notare che -h- in toscano corrisponde al suono duro di -c- nell'italiano standard. O forse la colpa era invece dell'etrusco, che non avendo appreso bene il latino ne imitava in modo penoso i suoni, cercando il più possibile di adattare le parole a una struttura fonetica tipica della sua lingua nativa.  

La gorgia toscana si trova quando una consonante occlusiva sorda originaria ricorre tra due vocali (anche in posizione sintattica, ossia se le due vocali appartengono a parole diverse) o in alcuni altri contesti (ad esempio il nesso cr- subisce aspirazione e diventa hr-, la labiovelare qu- diviene hu- e in certi dialetti addirittura v-). L'esito di questo mutamento regolare, che può essere considerato una lenizione, è la produzione di consonanti fricative, trascritte φ, θ, h 

/p/ > /φ/ 
/t/ > /θ/ 

/k/ > /h/  

Così, trascrivendo il vernacolo in caratteri fonetici, abbiamo: 

/toφo/ "topo" /il toφo/ "il topo" (o /ittoφo//i θoφi/ "i topi" /un toφo/ "un topo" /kane/ "cane" /il kane/ "il cane" (o /ikkane//i hani/ "i cani" /un kane/ "un cane" /kaφiθano/ "capitano" /i haφiθani/ "i capitani"  

In certe parole e nei suffissi dei participi passati in "-ato" la /θ/ si indebolisce ulteriormente dando /h/ 

/praho/ "Prato"
/andaho/ "andato" 

Questo non avviene quando la consonante occlusiva è preceduta da un'altra consonante o è forte (ossia "doppia"), anche in contesti sintattici. Allo stesso modo, il raddoppiamento sintattico neutralizza la lenizione:  

/akkasa/ "a casa"  

In tali casi, in alcuni dialetti come quello di Firenze, si produce invece un'occlusiva aspirata, che si realizza in modo simile ai fonemi aspirati etruschi scritti φ, θ, χ. Tuttavia la sua produzione a differenza di quanto avviene in etrusco non ha potere distintivo: è un mutamento condizionato dal contesto fonetico e quindi automatico. 

Fiorentino:  

/la hakkha/ "la cacca"  

In etrusco l'opposizione tra /k/ e /kh/ distingue ad esempio una voce verbale attiva da una passiva.

Etrusco:   

alce "diede" - alχe "fu dato"  

Come si può vedere, la fonotattica dell'etrusco e quella del toscano sono profondamente diverse, fondate su princìpi che non sono comparabili.  

Esiste però un altro argomento, letale per la tesi della gorgia di origine etrusca: in latino non esistevano le consonanti palatali che tanto abbondano in italiano. Così le parole canis, cornu, carrus avevano la stesso suono /k/ velare di Caesar, cerrus, cisterna. La voce verbale facit suonava quasi come l'inglese "fuck it", soltanto con la -a- centrale come in italiano. La palatalizzazione di /k/ seguita da vocali anteriori (-e- e -i-) è iniziata durante l'Impero, ed è stato un processo molto graduale, dato che i Romani non si sono accorti del suo svilupparsi e non hanno perciò sentito la necessità di riformare l'ortografia. In lingua italiana l'esito di questo processo è la produzione di un suono analogo alla ch- dell'inglese chip: Cesare, cerro, cisterna. La lingua sarda è rimasta in gran parte immune alla palatalizzazione e usa ancora oggi kentu "cento", kelu "cielo". 

Se la gorgia risalisse all'epoca della romanizzazione dell'Etruria, avrebbe agito anche sulla /k/ davanti a vocali anteriori. Si sarebbero facilmente avuti i seguenti esiti:  

/wo:ke(m)/  voce(m) > *vohe /pa:ke(m)/  pace(m) > *pahe  

Questo però non è avvenuto. Inoltre va fatto notare che se la gorgia fosse stata così antica, avrebbe portato a mutamenti tanto profondi che il toscano odierno sarebbe molto diverso e l'italiano cui siamo abituati non si sarebbe potuto formare. 

Già nella lingua etrusca si possono arguire prove del fatto che le consonanti occlusive aspirate tendevano a diventare fricative, e questo è provato dal fatto che certe parole, che mostrano un'ortografia singolare ed anomala. Da alcune iscrizioni etrusche in caratteri latini si evince che almeno localmente -θ- era realizzato come -d-; in altri casi invece abbiamo -θ- nel corpo di parola o alla fine scritto come -z-: Araz per Araθ, etc. In un caso troviamo addirittura un ipercorrettismo: qutumuθa per qutumuza "piccolo bicchiere". Il fenomeno è analogo a quanto avvenuto in greco e in altre lingue: le occlusive aspirate tendevano a mutare, divenendo in alcuni contesti fricative. Questo prova una volta di più il fatto che il tardo etrusco e il latino volgare fossero indipendenti nella loro evoluzione fonetica e non comparabili. 

Dante Alighieri avrebbe menzionato la gorgia, se alla sua epoca fosse esistita. Si hanno prove e documentazioni del fatto che per molto tempo in Toscana la gorgia è stata combattuta aspramente, essendo ritenuta un vero e proprio difetto; ancora oggi essa è più sviluppata tra i ceti popolari che tra quelli colti. Vi sono fiorentini che non pronunciano più la -h-. Una volta ho incontrato un amico fiorentino con cui conversavo abitualmente in chat. Quando l'ho incontrato e l'ho sentito parlare, ho potuto constatare che capivo la metà di quello che diceva. Non potevo ovviamente chiedergli di ripetere: egli era convinto di parlare il miglior italiano e si sarebbe certamente offeso. Nella sua pronuncia era ben difficile distinguere "miele" da "Michele".  

venerdì 10 gennaio 2014

GIRAFFA E CAMELOPARDALIS: DUE ANIMALI DIVERSI

Una serie di articoli ha annunciato una sensazionale scoperta: a Pompei sono stati trovati resti che dimostrano tra le altre cose la presenza della carne di giraffa nell'alimentazione. 

"Un team di archeologi svela abitudini alimentari finora sconosciute ancora prima di Cristo. Rintracciato il primo resto di carne macellata di questo animale. Tra gli alimenti, anche ricci di mare e spezie esotiche indonesiane. La più antica traccia di cibo risale al IV secolo a. C." 
(letto su Repubblica)

Nei vocabolari di latino si trova il termine camelopardalis, derivato dal greco e tradotto con "giraffa". Esiste inoltre la glossa nabun, con lo stesso significato. Tutto sembrerebbe chiaro: si conosce in particolare qualche dettaglio sull'uccisione di uno di questi animali da parte dell'Imperatore Commodo nel corso di truculenti spettacoli nell'arena.   

L'episodio è riportato da Edward Gibbon, nella famosa Storia della decadenza e rovina dell'Impero Romano. Il brano, tradotto da Nicolò Bettoni, è il seguente:  

Commodo uccise un Camelopardalis, o sia Giraffa (Dione I. LXXII, p. 1211) il più alto, il più docile, ed il più inutile di tutti i quadrupedi. Questo singolare animale, che nasce soltanto nelle parti interne dell'Affrica, non è stato veduto in Europa dopo il risorgimento delle lettere, e benché il Buffon Stor. Nat. tom. XIII abbia procurato di descriverlo, non si è arrischiato a darne il disegno.   

Il brano citato a cui Gibbon fa riferimento è consultabile online, e lo riporto:  

Da questo liberati i Cesariani, ai quali fu dato capo Cleandro, cominciarono a non tralasciare alcun genere di scelleratezza, a riguardare le cose tutte come venali, a recare ingiuria a chiunque si fosse, ed a vessare tutti con petulanza; mentre Commodo intanto la maggior parte della vita nella voluttà consumava, amante era oltremodo dei cavalli, e pugne d'uomini e di fiere disponeva. Perciocchè, oltre quello che nella propria casa egli faceva, gran numero d'uomini del popolo, e di fiere sovente in pubblico uccideva. Egli solo colle sue mani ammazzò in una volta cinque ippopotami, e in diversi giorni due elefanti, inoltre alcuni rinoceronti ed un camelopardo uccise. Ma di queste inclinazioni di Commodo fin qui parlato abbiamo in generale.   (Della istoria romana di Dione Cassio, Epitome di Giovanni Sifilino, trad. e note di Luigi Bossi)   

Tuttavia, leggendo con attenzione la lunga nota che Luigi Bossi ha aggunto in calce, si capisce che qualcosa non quadra. Le cose non sono affatto così semplici come parrebbe a prima vista:   

"Il camelopardo era stato esposto al pubblico in Roma da Cesare dittatore; ma questo doveva recare maggiore imbarazzo ai critici, i quali però non se ne sono pigliato alcuno. I moderni tutti sotto il nome, greco egualmente che latino, di camelopardalis hanno inteso la giraffa, e fino il celebre Linneo non ha dubitato di formare una specie sotto il nome di camelopardalis girafa, volendo quasi riunire in questa nomenclatura l'antico e il moderno, o per meglio dire il greco e l'arabico. Ma con tutti il rispetto dovuto a quel grand'uomo ed ai moderni scrittori che l'hanno seguitato, con tutta la venerazione per il nostro Forcellini, io credo che la giraffa sia tutt'altra cosa, e per questo io ho tradotto camelopardonon giraffa. Primieramente la giraffa non trovasi che al di là del grado 28 di latitudine meridionale, al quale gli antichi non giunsero giammai; non trovasi oltre il grado 29, in una zona adunque assai ristretta, e non è stato finora provato con buoni argomenti che comuni fossero una volta la giraffa nell'Abissinia e nell'Alto Egitto, nel che forse fu ingannato anche il Ludolfo. Ma se ancora provato fosse che questi animali trovati si fossero in latitudini più elevate; io osservo che le descrizioni date dagli antichi del camelopardo non combinano punto con quella della giraffa, della quale abbiamo sotto gli occhi la figura, ed una spoglia bellissima è stata recentemente acquistata dalla R. Accademia di Torino. Il camelopardo di Varrone era un cammello colla pelle variegata a guisa di quella della pantera; e quello scrittore doveva averlo veduto, giacchè un individuo rammenta al tempo suo condotto da Alessandria; quello di Plinio era simile nel collo ad un cavallo, nei piedi e nelle gambe al bue, nella testa ad un cammello con macchie bianche che distinguevansi sopra un fondo fulvo o lionato, non fiero altronde cosicchè quasi pecora appellavasi. Ora alcuno di que' caratteri esterni non conviene certamente alla giraffa, la quale ha la testa di cervo o di gazella, un collo di sei piedi ed anche più di lunghezza, che non ha punto che fare con quello del cavallo, le gambe sottilissime ed il piede non per altro somigliante a quello del bue, se non perchè l'unghia è fessa e manca di tallone. Del resto le macchie della sua pelle non sono bianche, come quelle dell'animale di Plinio, bensì di colore rossiccio negli individui più giovani, colore che va sempre diventando più bruno negli adulti. Supponiamo però liberamente che non esistano tutte queste disparità tra l'animale descritto da Plinio e la giraffa dei moderni. Questa è un animale così sproporzionato nella sua forma, o per dir meglio di proporzioni e di forme così stravaganti, che i più grandi naturalisti non dubitarono di asserire che la natura in questa produzione deviato aveva dalle sue regole e dalle proporzioni da essa generalmente adottate, e come una bizzarria della natura medesima quell'animale riguardarono. Ora, come mai gli antichi avrebbero potuto non accennare con maraviglia queste apparenti sproporzioni, queste forme affatto strane e singolarissime, gli antichi naturalisti in ispecie, che più ancora del vero lo strano ed il maraviglioso cercavano? Come mai Varrone e Plinio avrebbero passato sotto silenzio la singolarità di un animale che giugne fino a 17 piedi di altezza? Come mai trascurata avrebbero la osservazione di un collo lungo sei piedi, e Plinio paragonato lo avrebbe a quello di un cavallo? Come mai non avrebbero notata la sproporzione grandissima che passa tra le gambe davanti e quelle di dietro della giraffa, delle quali le prime sono tanto più alte, che l'animale seduto sembra tuttavia in piedi? Come mai non avrebbero notato, che in vece di due corna quell'animale ne ha tre, e che queste in vece di essere ossee e nude, o ramose come quelle de' cervi, sono una specie di protuberanze del cranio, rivestite costantemente della pelle col pelo? Come mai non si sarebbero arrestati ad ammirare la singolarità di una specie di corno che spunta in mezzo alla fronte e si prolunga per alcuni pollici, benchè non sia in realtà se non un'escrescenza spugnosa dell'osso frontale, ch'essi avrebbero indubitatamente pigliato per un corno? Come mai non sarebbero rimasti sorpresi al vedere la parte anteriore del corpo larghissima verso le spalle, e la parte posteriore tanto stretta, tanto gracile, che non sembrano potersi nell'animale stesso quelle parti congiungere, e la prima copre interamente e nasconde la seconda, se l'animale è veduto di fronte? Finalmente come avrebbero caratterizzato non fiero, e quasi nominato pecora per i suoi costumi, un animale alto più di tre uomini, che si difende benissimo a calci e riesce a fugare il lione, e soccombe solo talvolta agli artifizj della tigre? A me pare evidente, che se veduta avessero realmente la giraffa, che noi conosciamo bene dacchè si è scoperto il Capo di Buona Speranza, e dacchè i viaggiatori si sono da quella parte internati nelle terre, incognite certamente ai Romani, non ne avrebbero lasciato una così magra descrizione, come è quella di Varrone e di Plinio. Più cauto di Linneo fu per avventura l'Erxleben, che una specie formò sotto il nome di cervus camelopardalis, (e con Isidoro avrebbe potuto anche scrivere camelopardas), sebbene egli abbia sotto quel nome compresa la giraffa medesima del Linneo. Ma quale animale adunque poteva essere questo camelopardo degli antichi? A me basta di avere mostrato che la giraffa non era; difficile sarebbe altronde l'indicare con precisione la specie colla scorta della magrissima descrizione sopraccennata. Forse era qualche specie o qualche varietà di antilope o di gazzella assai grande e colla pelle macchiata, o variegata; e a questa applicare potevansi i costumi ed il nome della pecora; questa mia congettura viene confermata nel vedere che gli antichi nel loro camelopardo riconobbero alcuni caratteri del cervo, e senza progredire nelle loro ricerche, al cammello lo paragonarono per la grandezza, alla pantera per le macchie della pelle. Forse una specie di grande gazzella era il nabo degli Etiopi, menzionato da Plinio; e quello ch'io ho annotato finora in proposito del camelopardo di Dione e degli istorici greci e latini in generale, potrebbe probabilmente applicarsi al camelopardo che nominato trovasi nel Deuteronomio." 

Questo è il testo originale di Plinio, fonte della glossa nabun, a cui Luigi Bossi fa riferimento nella sua dotta trattazione:  

Nabun Aethiopes vocant collo similem equo, pedibus et cruribus bovi, camelo capite, albis maculis rutilum colorem distinguentibus, unde appellata camelopardalis, dictatoris Caesaris circensibus ludis primun visa Romae. Ex eo subinde cernitur, aspectu magis quam feritate conspicua, quare etiam ovis ferae nomen invenit.   

Il termine nabun, evidentemente una parola africana tratta da una lingua non ancora identificata, si ritrova in caratteri greci nella forma NABOYC (ossia NABOUS, pron. nabus) sul mosaico di Palestrina, che mostra un animale dalla forma in tutto e per tutto simile alla descrizione di Plinio, e completamente diverso dalla giraffa a noi ben nota - al punto da somigliare a un dromedario. Sono stati fatti maldestri tentativi di ritenere la glossa di Plinio un errore di trascrizione del termine arabo namir, che indica il leopardo, ma proprio il fatto che la parola ricorra come NABOUS a Palestrina dimostra l'assoluta inconsistenza di tale proposta. Cos'era realmente il camelopardalis? Non lo sappiamo. Si tratta evidentemente di una specie estinta: non dimentichiamoci che i Romani portarono al tracollo numerosi ecosistemi a causa della loro insana passione per il massacro di animali (venationes). Ad esempio, in Africa Settentrionale esisteva una specie di elefante che fu portata all'estinzione, e anche gli orsi, ai tempi numerosissimi nell'Atlante, finirono pressoché sterminati. 

Appurato che le traduzioni dei lemmi camelopardalis e nabun che si trovano nei dizionari latini sono errate, perché tali nomi non designano la giraffa, a questo punto ci si dovrebbe porre qualche domanda. Se a Pompei si mangiava carne di giraffa, com'è possibile che dell'animale non sia restata alcuna menzione nelle opere di Plinio o di altri autori? Com'è possibile che destasse tanto scalpore il camelopardo di Plinio e che nessuno abbia parlato della giraffa? Forse le descrizioni esistevano e non ci sono giunte? Forse a Pompei la carne dell'animale veniva importata sotto sale? Ritengo plausibile che l'animale non venisse macellato in Italia, ma effettivamente importato sotto forma di salume. Gli archeologi che hanno effettuato la scoperta parlano dell'osso di una coscia, ma non aggiungono altro. Forse era un prosciutto di giraffa, e chi lo mangiava neanche aveva idea dell'aspetto dell'animale che aveva fornito tale cibo. In ogni caso, le scoperte fatte a Pompei sono alquanto disturbanti e non riescono a fugare del tutto i dubbi sull'attendibilità e sull'accuratezza degli autori antichi

domenica 5 gennaio 2014

ALCUNE CONSIDERAZIONI SU AMERICAN ACROPOLIS

Oggi ho terminato la lettura di American Acropolis di William Gibson. Il libro mi ha profondamente deluso. Devo dire che avendo letto tempo fa Luce Virtuale, sono passato per errore ad American Acropolis saltando il secondo volume di quella che costituisce la cosiddetta Trilogia del Ponte: Aidoru. In ogni caso non ho avuto difficoltà di sorta a seguire il labile intreccio di American Acropolis - cosa che la dice tutta sulla solidità di questo progetto gibsoniano. I tempi della rutilante Trilogia dello Sprawl iniziata con Neuromancer sono lontani, si percepisce palpabilmente la fiacchezza dell'autore. Ci sono alcune scelte stilistiche non molto condivisibili, come la dilatazione temporale delle vicende narrate e l'incostanza dei tempi verbali. Si passa bruscamente e senza motivo dal presente al passato. Cose del tipo "Chevette dice", "Rydell carica la pistola", e dopo poche righe "Chevette andò via", "Rydell sparò". Alcuni fatti iniziano al mattino e prima della sera sembra che siano passati anni, l'effetto è di confusione. Il senso di stranimento non è costruttivo. Ho anche rilevato una grave contraddizione con Luce Virtuale. In quel libro, costruito decisamente meglio, si parla di un omosessuale chiamato Shapely e dedito alla prostituzione, che ha permesso la creazione di un vaccino anti-AIDS a partire dai suoi antigeni. Questo Shapely è diventato così una specie di Messia, e quasi tutti sono stati vaccinati. L'AIDS è passato da spauracchio a malattia curabile come tante altre. Invece nel seguito che è American Acropolis, di Shapely non esiste la benché minima traccia. L'AIDS è temuto in modo ben più paranoico di quanto avvenga nella nostra realtà, al punto che ogni traccia di sangue sparso viene cosparsa con un disinfettante chiamato Kill'Z. Le due cose non combinano. Shapely e il Kill'Z si eliminano l'un l'altro. Forse quando Gibson ha scritto il terzo volume della Trilogia del Ponte, si era persin dimenticato di aver dato vita al personaggio di Shapely. Non mi stupirebbe, a tutti capita di dimenticare qualcosa di importante quando si hanno tante cose da assemblare. Il finale è una tempesta in un bicchier d'acqua, inconsistente. Tutto il libro cerca di tener viva l'attenzione del lettore per impedirgli di cascare dal sonno, e lo stratagemma usato è il prossimo avvento di un punto nodale, un evento fantomatico a partire dal quale l'intera Storia dovrebbe subire un cambiamento repentino e decisivo. Ma quale sarebbe questo cambiamento? American Acropolis non lo dice - o almeno, sarò io tonto che non l'ho compreso. Tutto è giocato sul filo di un onirismo labile. Se devo esser franco rimpiango il Gibson vigoroso e visionario dello Sprawl. Solo al pensiero di mettermi a leggere Aidoru mi si chiudono gli occhi. Ho così iniziato Atmosfera Letale di Bruce Sterling, di cui ho divorato una ventina di pagine. Mi piace e sono contento della scelta fatta. 

(scritto su Esilio a Mordor il 04/09/2009)

AGONIA E TRAPASSO DI UNA LINGUA

Il Norn è una lingua della cui esistenza pochi hanno sentito parlare. Eredità dei Vichinghi, discende direttamente dall'antico Norvegese (Norreno) importato nelle isole Orcadi e Shetland. Era parlato anche a Caithness, sulla costa della Scozia. Quando nel XV secolo le Orcadi e le Shetland furono cedute dalla Norvegia alla Scozia, iniziò la lenta decadenza delle loro tradizioni linguistiche. Il declino proseguì fino alla consunzione finale, avvenuta nel XIX secolo. L'ultimo parlante conosciuto di Norn fu Walter Sutherland, nativo di Skaw nell'isola di Unst, la più settentrionale delle Shetland. Morì nel 1850. Dopo quella data, si sono trovate persone capaci di ripetere solo poche frasi stereotipate. 

Incredibilmente, le attestazioni sono scarsissime, e tutto ciò che possediamo del Norn consta del Padre Nostro e del testo di un indovinello.


Al fine di contrastare in qualche modo la pressoché assoluta inutilità della blogosfera, riporto qui di seguito il tutto. 

Padre Nostro (versione Norn delle Orcadi): 

Favor i ir i chimrie, / Helleur ir i nam thite,
gilla cosdum thite cumma, / veya thine mota vara gort
o yurn sinna gort i chimrie, / ga vus da on da dalight brow vora
Firgive vus sinna vora / sin vee Firgive sindara mutha vus,
lyv vus ye i tumtation, / min delivera vus fro olt ilt, 

Amen. 


Padre Nostro (versione Norn delle Shetland):

Fy vor or er i Chimeri. / Halaght vara nam dit.
La Konungdum din cumma. / La vill din vera guerde
i vrildin sindaeri chimeri. / Gav vus dagh u dagloght brau.
Forgive sindorwara / sin vi forgiva gem ao sinda gainst wus.
Lia wus ikè o vera tempa, / but delivra wus fro adlu idlu.
For do i ir Kongungdum, u puri, u glori,
Amen


Un guddik (indovinello tradizionale) riportato da Jakob Jakobsen di Unst:  

Fira honga, fira gonga,
Fira staad upo skø
Twa veestra vaig a bee
And een comes atta driljandi.  
 

Traduzione: 

Quattro pendono, quattro camminano,
Quattro stanno verso il cielo
Due mostrano la via verso il campo
E uno viene a scuotere da dietro. 
 

(Indica la vacca: quattro tette pendono, quattro gambe camminano, due corna sono rivolte al cielo e una coda si agita dietro.) 

Tutto ciò che viene ad esistere è fragile e votato alla dissoluzione. Un giorno anche la lingua che parliamo e usiamo per scrivere si avvierà verso lo stesso orizzonte di annientamento.

sabato 4 gennaio 2014

I NAVIGATORI INTESTINALI

Mi imbatto spesso in parole di una bizzarria incredibile, ma ne ho trovata una che le batte tutte: ENTERONAUTA. La usano in molti, e la reputano connessa con la spiritualità, ricollegandola etimologicamente con la parola "interiorità". Secondo una definizione che ho trovato, l'enteronauta sarebbe grossomodo colui che pratica l'introspezione. Orbene, la realtà dei fatti è ben diversa. Siccome la parola in questione ha la sua radice nel Greco Antico, "enteron", non significa affatto "colui che naviga in se stesso" o "navigatore interiore", bensì "navigatore intestinale". Questo è il significato di "enteron": INTESTINO, ossia "tubo digerente". A dispetto dell'assonanza con le parole italiane "entro" e "interno", questo "enteron" si riferisce alla più bieca materialità, quella della produzione di feci. Ricordo che J. (R.I.P.) scherniva spesso Vanna Marchi e Pacheco do Nascimento definendoli "esperti in vita intestinale" anziché "esperti in vita interiore". Dopo aver cercato in Rete, ho trovato che "enteronauta" è soltanto un'ardita alterazione di "entronauta" o "endonauta", termini più solidi. Evidentemente "entronauta" è la forma originale, che poi qualcuno ha alterato per malizia. Ora mi interrogo sull'identità di quel genio della burla che prodotto questo sublime scherzo goliardico. Perché soltanto la malizia di uno spirito irriverente può aver concepito tanto. E il bello è che il termine "enteronauta" si è diffuso tra gli utenti del Cyberspazio sfruttando la loro disattenzione o la scarsa dimestichezza con le lingue antiche. Mi vedo proprio gli Enteronauti come tanti omini rinchiusi in microscopici scafi, come in Viaggio Allucinante o in Salto nel Buio, intenti ad esplorare diverticoli del colon e a farsi largo tra escrementi in formazione. No, non può essere un caso l'aggiunta di una semplice vocale. Quale dotto sarcasmo!
ESITI DIALETTALI DI CONDOM E UN CAVALIERE INESISTENTE

L'inglese condom è passato in francese come gondon, ora caduto in disuso. La sonora iniziale non è affatto eccezionale, e si trovano altri casi simili in parole francesi prese a prestito dall'inglese. Ad esempio il francese redingote che è dall'inglese riding coat, anche qui con una velare sonora sviluppatasi a partire dalla sorda originale. La parola dal francese ha poi raggiunto l'Italia dando origine ad alcune varianti dialettali. Ad esempio a Genova ha dato gundùn (scritto di solito gondon). Una nativa del capoluogo ligure mi ha riferito che da giovane lei e le amiche usavano una locuzione un po' colorita per apostrofare i corteggiatori importuni: dicevano gundùn s'ciupòu, ossia 'condom scoppiato'. In Lombardia il termine ha dato invece guldùn, che è stato anche italianizzato in goldone. La -l- è frutto di una dissimilazione. A causa della stranezza della parola, sono stati compiuti grossolani tentativi di trovare un etimo. Così è nata la leggenda del Cavalier Goldoni, che all'inizio del XX secolo avrebbe impiantato a Bologna un piccolo stabilimento per produrre i budelli che ancora suscitano tante controversie. A scuola credevamo fermamente che il goldone fosse stato inventato dal commediografo veneziano Carlo Goldoni, ma c'è da dire che ritenevamo anche che enciclopedia derivasse da ciclope a causa della sua mole.

Francesco Zorzi Muazzo ha scritto una "Raccolta di proverbii, detti, sentenze, parole e frasi veneziane, arricchita d'alcuni esempii ed istorielle", che spiega così la voce gondon:

"Zè una pelle sottila d'un certo anemal con la qual se se infassa l'osello a modo d'un guanto e che preserva al medesimo da giappar peste o altri mali da donne, tamussando queste che sia infette, el riceve come il seme cattivo in se stesso. Ognuna de queste costa un zecchin. I Francesi particolarmente ne fa un gran uso e quasi tutti i so cavalieri lo gà in scasella".

Questo autore è morto nel 1775, molto prima del fantomatico industriale felsineo.
Persino in russo esiste una forma colloquiale gondon (pron. gandòn), evidentemente derivata dal francese. 

La stessa idea di una derivazione deonomastica da un dottor Condom appare a questo punto strana. Mi riesce difficile pensare a un cognome francese radicato in Inghilterra e subito riportato in Francia in forma alterata (come fosse un termine straniero e bizzarro) - quando tutti i francesi avrebbero dovuto avere familiarità con il toponimo Condom. Esistono altre ipotesi fantasiose, che fanno risalire il condom a un non meno stravagante dottor Quondam, o addirittura a un ufficiale britannico chiamato Cundum. In ogni caso possiamo dire certi questi fatti:

1) La voce è di origine inglese
2) Appare in uso in Francia e altrove nel tardo XVIII secolo con la velare sonora.

Lo strumento è molto più antico di ogni traccia scritta del nome con cui oggi lo conosciamo. Già i Romani e i Greci lo conoscevano - anche se non dava una gran sicurezza, essendo fatto con la vescica natatoria dei pesci o con la vescica urinaria di mammiferi. Sappiamo che i Germani condannavano severamente il suo uso quando ancora erano pagani. Da quanto mi risulta, le fonti descrivono queste vesciche oliate con giri di parole. Con la decadenza dell'Impero Romano il preservativo finì nel dimenticatoio, come tante altre cose. È riemerso dall'oblio solo nel XVI secolo: Falloppio nel 1564 lo ha descritto in un trattato, pensando a un suo utilizzo per prevenire la devastazione della sifilide.

LA CARTA DEI CAPELLI ROSSI


Questa è un'interessantissima mappa di diffusione del rutilismo, che mostra il numero di individui dai capelli rossi per mille. Purtroppo non è affatto aggiornata (si vede che mancano Trento e Trieste). Al momento non sono riuscito a trovare mappe più recenti. In ogni caso, essendo antecedente a grandi movimenti migratori, questa mappa ha un certo valore storico. Si può notare un'alta percentuale di fulvi nella Lunigiana, mentre per contro nella provincia di Genova, comprendente l'antico territorio dei Genuati, il carattere appare nettamente meno diffuso. Siccome gli antichi nativi dell'Apuania, i Liguri Sangauni, furono deportati in massa dai Romani, dobbiamo ritenere che la diffusione del rutilismo in Lunigiana si debba ai coloni stanziati in seguito in quelle regioni, con tutta probabilità di stirpe celtica.

venerdì 3 gennaio 2014

ALBOINO

Il sovrano longobardo Alboino, il cui nome ci è noto in forma latinizzata derivata dall'originale Albwin, è letteralmente l'Amico degli Elfi. Alb- è l'Elfo, cfr. Alp, mentre -win è una parola molto arcaica che significa 'amico'. Nell'ambito delle lingue germaniche, è presente solo in longobardo e nell'antico nordico (norreno) vinr 'amico'. La radice indoeuropea ultima è *wen-, che indicava l'amore, cosa che accomuna questo termine al latino Venus, venustus.

Il Re Alboino era un sovrano generoso. Seguace della religione pagana avita, non perseguitò mai nessuno per la sua fede, e la cattiva fama che i cattolici gli attribuirono è del tutto ingenerosa. Le gesta di Alboino erano note anche in Sassonia, e in inglese esiste tuttora il nome proprio maschile Alvin.

ATTILA

Cos'aveva in comune Attila con Stalin? Quasi nulla. Non parlavano la stessa lingua, non avevano gli stessi costumi, non appartenevano allo stesso tipo etnico. Anche i rispettivi caratteri erano molto diversi. Attila era un sovrano tollerante in campo di religione, a differenza di Stalin. Eppure una cosa in comune c'è. Stalin era soprannominato Piccolo Padre, e Piccolo Padre è il significato letterale del nome Attila. Quello che più stupisce è che Attila non è un nome unno, ma trae la sua origine dalla lingua dei Goti. La sua formazione è chiara. Deriva da atta 'padre' (Atta Unsar significa 'Padre Nostro' in gotico), con un suffisso diminutivo maschile -ila. Il Vescovo Wulfila che evangelizzò i Goti aveva ad esempio un nome che significa 'Piccolo Lupo' (wulfs 'lupo'). Probabile che il sovrano unno si sia dato questo nome perché il suo regno era un esempio di stato multiculturale ove si parlavano diversi idiomi. Il padre di Attila, Mundzuc (Munduch), aveva un nome tipicamente unno (altaico), e così pure i suoi molti figli: Dengizich, Ellac, Ernac. Dengizich significa 'Piccolo Mare' (-iq era un antico suffisso diminutivo turco); sia Ellac che Ernac sono formati da er, che in mongolo significa tuttora 'uomo'. Dengizich ha una radice che corrisponde al turco dengiz 'mare', che mostra che l'unnico condivideva con gli idiomi turchi un mutamento fonetico da -r- a -z-. Il parentado del Flagello di Dio riserva però altre sorprese. Suo fratello Bleda ha un nome la cui fonetica non è altaica, ma non riesco ad individuarne l'origine. Parimenti il nome di suo nonno Rua (Ruga, Roas, Ruhas) ha una caratteristica non altaica: inizia per r-; la variante Rugila sembrerebbe provare la sua origine germanica, anche se le fluttuazioni con cui ci è stato tramandato sembrano indicare il tentativo di razionalizzare qualcosa di incomprensibile.

mercoledì 1 gennaio 2014


James S. Eriksson
1308-1590 America Vichinga
1984 Edizioni Frassinelli

Sorprendentemente rade sono le notizie su questo libro che si riescono a reperire nei motori di ricerca. Ormai è praticamente introvabile. Doveva essere il primo volume di una collana ucronica denominata Il Naso di Cleopatra, ma a quanto ne so dopo la pubblicazione di un'altra opera il progetto si estinse. È una lettura scorrevole ed entusiasmante, di un'ottantina di pagine, che può essere completata anche in una giornata. Evidentemente il nome dell'autore è nascosto sotto uno pseudonimo: cercando notizie di un eventuale originale in inglese ho trovato un sito in cui si chiarisce l'origine italiana del lavoro in questione.

Riporto l'introduzione (impressa sulla parte interna della copertina) e la nota bibliografica:

Introduzione

Tra i passati possibili d'America si annovera la sua conquista e colonizzazione da parte dei vichinghi, che nella realtà misero effettivamente piede sull'estremo lembo nordorientale del continente attorno all'anno Mille, per poi abbandonarlo subito dopo. In questo libro i discendenti di Eirik il Rosso compiono imprese ben più clamorose: abbandonata la Groenlandia sotto la minaccia del gelo, della fame e degli eschimesi, si insediano stabilmente nell'isola oggi chiamata Manhattan, fondandovi una città che diventa la capitale di un vasto regno vichingo-pellerossa esteso fino ai Grandi Laghi. Le lunghe navi dalla prua a forma di drago scendono poi le interminabili acque dei grandi fiumi verso le praterie selvagge; ma raggiunto il Mississippi si imbattono in altri conquistatori, venuti stavolta dal Pacifico sotto la guida del più celebre viaggiatore medievale... Solo dopo alcuni secoli gli spagnoli da un lato e gli inglesi dall'altro si incaricheranno di rimettere le cose a posto, annientando le prime due precoci colonizzazioni dell'America e permettendo la nascita degli attuali Stati Uniti.

Nota bibliografica

Le uniche fonti sull'insediamento vichingo nel Nordamerica sono la Einarssaga e la Snorrissagakoenunga, miracolosamente scampate all'incendio di Manhattan e conservate al British Museum. Splendidamente miniate, furono scritte da anonimi cronisti nella seconda metà del XIV secolo.
Le relazioni inviate da Marco Polo al Gran Khan furono riscoperte negli archivi di Pechino nel 1887. Stese parte in mongolo e parte in cinese, furono tradotte e pubblicate in inglese nel 1901: Marco Polo's Reports on Yuan Tun Ta Kuo or California, and on American Wales, a cura della Hakluyt Society. I rapporti dei governatori di Sho Tun-ko sono integralmente disponibili in inglese, in un altro volume della stessa benemerita Hakluyt Society: Chinese Papers on California, 1919. Tuttora fondamentale sull'impresa di Alvarado il capolavoro storiografico di William H. Prescott, History of the Conquest of Nuevo Catay, 1858.
Il resoconto del viaggio di Verrazzano, scritto in italiano, fu pubblicato col titolo Relatione al Re Cristianissimo della discoperta del Reame di Rossimania da Giovanbattista Ramusio, nel terzo volume della sua raccolta Delle Navigationi et Viaggi, Venezia 1556.
Sir Walter Raleigh spiegò e giustificò il proprio operato in The Conquest of the Large, Rich and Beautiful Kingdom of Roximania, Londra 1593