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sabato 16 ottobre 2021

LE VERE CAUSE DELLA SCOMPARSA DELLA DECLINAZIONE LATINA

Nel pestilenziale ed afflittivo social network Quora, ci sono utenti che si domandano con insistenza come mai la lingua italiana non abbia le declinazioni, pur derivando dal latino. 


Joseph G. Mitterer ha dato questa risposta: 

"Ci sono varie spiegazioni. Generalmente si può dire che in tutte le lingue indoeuropee c'è la tendenza di "semplificare" la morfologia nominale. Sono pochissime le lingue che hanno conservato tutti gli otto casi del proto-indoeuropeo. Il processo di cui parliamo non è, dunque, un fenomeno propriamente romanzo o italiano, ma era già cominciato nel latino (in latino ne sono un documento le molte funzioni dell'ablativo e i resti ancora presenti del locativo) e si osserva anche oggi in altre lingue, come ad esempio nel tedesco il cui genitivo è in via d'estinzione."
 
E ancora: 
 
"Se però parliamo delle ragioni, un motivo fondamentale era lo sviluppo fonologico del latino. Nel latino classico le forme rosa, rosam, rosā erano pronunciate in modo diverso. Poi però le quantità vocaliche sono scomparse, appunto come la -m finale, cosicché le parole succitate si sono tutte frammischiate in un'unica forma rosa. Per ristabilire le informazioni grammaticali che erano andate perse così si è serviti di preposizioni e di una sintassi più regolata."

Una volta identificato in modo sicuro il processo di confusione delle terminazioni, si dovrebbe insistere sulle sue cause fisiche e sulla sua immensa portata. Invece Mitterer enuncia una teoria a mio avviso bizzarra, che inverte il nesso causa-effetto. Non riesco bene a comprendere se il motivo di questa interpretazione dei fatti sia di natura ideologica oppure se debba la sua formazione a un semplice fraintendimento. Così prosegue: 
 
"Tipicamente le spiegazioni finiscono qui. Conviene però aggiungere che ci sono anche altri motivi per questo sviluppo e che, forse, i mutamenti fonologici non erano la ragione ma (forse!) una conseguenza di altri sviluppi. Infatti, come ho detto inizialmente, c'è una tendenza di "semplificazione" nelle lingue indoeuropee. Questa "semplificazione" non si manifesta soltanto nella morfologia nominale, bensì in tanti altri campi della lingua. Per essere più precisi, il fenomeno di cui stiamo parlando non è veramente una "semplificazione", ma una tendenza verso strutture analitiche, cioè una tendenza di dividere parole nelle sue singole funzioni. Ecco cosa avviene se invece di dire uscire si dice andare fuori, se invece di scripsi si dice ho scritto, se invece di altior diciamo più alto ecc. Le ragioni di questo sviluppi hanno, probabilmente, a che fare con la psicologia dei parlanti e con la tendenza di voler fare trasparenti le funzioni degli elementi linguistici, e anche di esprimere tali funzioni con concetti nozionali, "concreti", invece di usare soltanto morfemi grammaticali ormai completamente opachi."

Queste sono le conclusioni a cui giunge: 
 
"Credo che questo aspetto sia ancora sottovalutato nella linguistica, e soprattutto lo sono le possibili conseguenze, come appunto la perdita di distinzioni fonematiche dovuta ai suddetti processi (e non viceversa)."
 
Sono convinto, pace Mitterer, della natura puramente fisica del fenomeno. I suoni emessi da gole umane giungono deboli alle orecchie di chi li ascolta. In particolare, giunge debole la parte finale di ogni pacchetto sonoro trasmesso al cervello dai nervi acustici. Per questo motivo, le code delle parole diventano naturalmente deboli col passar del tempo, finendo per scomparire completamente. Il processo è attestato già nella lingua dei Sumeri, in cui le consonanti finali diventavano mute e nuove consonanti finali si producevano dall'indebolimento di vocali - un po' come è successo in francese: 
 
bid "ano" è diventato bi
dili "singolo, unico" è diventato dil;
dug "parlare", "discorso" è diventato du;
gig "malattia" è diventato gi;
gud "bue", "toro" è diventato gu;
gun "terra", "regione" è diventato gu;
ḫada "secco", "bianco" è diventato ḫad;
itud "luna", "mese" è diventato itu e poi it;
lul "mentitore", "menzogna" è diventato lu;
nad "letto, giaciglio" è diventato na;
pab, pap "padre", "fratello" è diventato pa
siki "capelli" è diventato sig;
taka "toccare" è diventato tak, tag e poi ta
tila "vita" è diventato til e poi ti;
tumu "portare" è diventato tum;
tumu "vento", "punto cardinale" è diventato tum e poi tu;
 
Queste evoluzioni della pronuncia sono documentate dalla scrittura di quel popolo glorioso, senza possibilità di dubbio, nel corso dei secoli. Un simile processo ha dato origine a un gran numero di ambiguità e di equivoci: solo per fare un esempio, a un certo punto lul "mentitore", "menzogna" si pronunciava lu, proprio come lu "uomo". Sono convinto che ciò abbia posto le basi per il declino del sumerico come lingua parlata; come lingua scritta (rituale e scientifica) si è conservato molto più a lungo grazie all'ingegno degli scribi. 

I parlanti non si rendono conto di questo processo ineluttabile di degradazione dei fonemi, non lo comprendono perché credono eterno l'istante. Proiettano il presente all'infinito nel passato e nel futuro. Nella loro stoltezza presentacea, credono che le cose siano immutabili. Una simile usura fonetica delle code delle parole porta alla perdita delle capacità di contrasto tra forme diverse, che finiscono così col collassare. Cosa accade se dalla capacità di distinguere alcuni suoni finali di parola dipende la grammatica stessa della lingua? Semplice: accade che vengono a collassare declinazioni e coniugazioni. I paradigmi perdono la loro efficacia, alimentando una grande confusione. Per ovviare a questo problema, la lingua giocoforza si riorganizza, tenta di costruire nuovi schemi che siano funzionanti, in grado di permettere la comprensione tra i parlanti. Quando un paradigma grammaticale si indebolisce e muore, un altro sorge per rimpiazzarlo. 
 
Pestilenziali utenti di Facebook  

Su Facebook, in un gruppo sulle lingue locali e minoritarie dell'Italia, è esploso un flame a causa di M., una professoressa del liceo la cui cultura era autoreferenziale. Costei aveva appreso l'ABC del mondo e credeva fermamente che al di fuori di queste nozioncine non potesse esistere alcunché. Non considerava le declinazioni del latino una realtà di una lingua che secoli fa viveva ed era soggetta ai mutamenti: per lei erano invece schemi ieratici ed assoluti, incisi sulle tavole di pietra di una cabala in cui la lingua scritta doveva per decreto divino precedere quella parlata. Non capiva come i Romani avrebbero potuto esprimere la differenza tra il soggetto e il complemento oggetto se le desinenze della declinazione non avessero avuto proprio la pronuncia insegnata a scuola, che impone di distinguere -um da -u. Solo per fare un esempio, ignorava che già sussisteva nella lingua classica l'impossibilità di operare la distinzione tra il soggetto e il complemento oggetto in parole di genere neutro! Non capiva che i suoi paradigmi a un certo punto sono andati a farsi fottere, o l'italiano avrebbe le parole con fortissime -m finali! Forse non sapeva neppure che le lingue romanze derivano dal latino volgare. Possibile che ci sia ancora chi crede che in latino si pronunciassero delle -m finali possenti come muggiti di bovini?! Il concetto espresso da M. era questo: se qualcosa non rientra nel programma scolastico delle superiori, significa che non esiste. Filologia romanza? Un libro chiuso. Epigrafia latina? Un libro chiuso. Grammatici antichi? Un libro chiuso. Se si dovesse ragionare così con la fisica, Rovelli sarebbe considerato un perditempo. Non mi stancherò mai di stigmatizzare le mostruosità prodotte dal sistema scolastico italiano. Potrei parlare delle iscrizioni di Pompei, delle occorrenze di parole senza -m attestate già in epoca antica, di Augusto che diceva "da mi aqua calda". Piaccia o no, le cose stanno così. Il defunto professor C. si era spinto al punto da affermare che la -m finale i Romani non la pronunciavano. Bisognerebbe comprendere bene di quale epoca stiamo parlando. In ogni caso, sembra proprio che sia stato un suono assai debole fin dal principio e che si sia perso presto. Non sono mancati tentativi di restaurazione dotta. Dioscoride trascriveva la -m finale, avendola con ogni probabilità sentita pronunciare pienamente da qualcuno, ma doveva trattarsi della lingua aulica, molto artificiosa e distante da quella del volgo. A che servirebbe andare avanti? Facebook è una colossale perdita di tempo.

La lingua d'oc e la lingua d'oïl 
 
Uno schema ridotto, derivato dalla II declinazione del latino, ha continuato a vivere per secoli nelle lingue romanze parlate nel territorio un tempo conosciuto come Gallia Transalpina. Eccolo: 
 
Singolare
Nominativo: -s < *-us 
Obliquo (accusativo): - < *-u(m)
 
Plurale
Nominativo: - < *-ī
Obliquo (accusativo): -s < *-ōs 
 
Riporto un esempio dalla lingua d'oc (antico provenzale).  
Questa è la declinazione di cavals "cavallo", che deriva direttamente dal latino caballus "cavallo da fatica", "cavallo da tiro" (che nella lingua volgare ha sostituito equus "cavallo").
 
Singolare 
Nominativo: lo cavals 
   < ille caballus 
Obliquo: lo caval 
   < illu(m) caballu(m)
 
Plurale  
Nominativo: li caval 
   < illī caballī 
Obliquo: los cavals 
  < illōs caballōs 

Riporto un esempio dalla lingua d'oïl (antico francese). La pronuncia non è quella del francese moderno: le sibilanti finali -s si pronunciavano. Questa è la declinazione di veisins "vicino", che deriva direttamente dal latino vīcīnus (aggettivo sostantivato). 
 
Singolare  
Nominativo: li veisins 
   < ille vīcīnus
Obliquo: le veisin 
   < illu(m) vīcīnu(m)  

Plurale
Nominativo: li veisin 
   < illī vīcīnī 
Obliquo: les veisins
   < illōs vīcīnōs

Come potete vedere, in Francia, Provenza e Linguadoca esisteva ancora in pieno Medioevo uno schema di declinazione ben funzionante, per quanto ridotto rispetto a quello del latino classico. In francese, discendente della lingua d'oïl, la declinazione ha cominciato a non funzionare più quando le sibilanti finali -s si sono indebolite e sono cadute, a partire dalla metà del XIV secolo. Nella lingua moderna, nella maggior parte dei casi è prevalsa la forma obliqua, anche se ci sono numerose eccezioni. 
 
Il caso della Dacia 
 
Il latino volgare della Dacia, ossia l'antenato del rumeno, aveva indebolito le consonanti finali di parola, fino a perdere non soltanto -m, ma anche -s, com'è avvenuto in Italia. Nonostante ciò, l'agglutinazione dell'articolo derivato da un pronome dimostrativo, ha permesso alla declinazione di conservarsi. 
 
Per analogia con il dativo singolare cūi del pronome relativo, si sono formati i dativi *ūnūi e *illūi, da cui in rumeno si sono avuti unui (articolo indeterminativo) "a un", "di un" e il suffisso -lui (articolo determinativo) "al", "del". I genitivi plurali maschili/neutri ūnōrum e illōrum hanno dato origine a unor (articolo inteterminativo) "ad alcuni", "di alcuni" e al suffisso -lor (articolo determinativo) "ai", "dei". In altre parole, si può dire che si è costruita una nuova declinazione dalla destrutturazione di quella antica. 

Singolare
om < homō 

Nominativo/accusativo: 
   indeterminato: un om "un uomo" 
   determinato: omul "l'uomo"
     < homō ille

Genitivo/dativo
  indeterminato: unui om "di un uomo"/"a un uomo"
  determinato: omului "dell'uomo"

Vocativo: omule "o uomo"

Plurale 
oameni < hominēs

Nominativo/accusativo 
  indeterminato: nişte oameni "alcuni uomini"
  determinato: oamenii "gli uomini"
     < hominēs illī

Genitivo/dativo
  indeterminato: unor oameni "di alcuni uomini"/"ad alcuni
       uomini"
  determinato: oamenilor "degli uomini" 
    < hominum illōrum 

Vocativo: oamenilor "o uomini" 
 
Come si può vedere, si è conservato qualcosa dell'antico paradigma latino, ma è altrettanto vero che molto è stato rifatto.

La decadenza del genitivo in tedesco 

Nel tedesco odierno il genitivo è in forte decadenza, essendo sempre più spesso sostituito dalla preposizione von con il dativo. Eppure, ancora nella prima metà del XX secolo, il genitivo era in uso abbastanza rigoglioso. Ecco alcune testimonianze di questo declino, che pare inarrestabile.


"Il caso genitivo è il quarto, ultimo e meno utilizzato caso tedesco. È quasi completamente sostituito dal caso dativo nel parlato e nella scrittura di tutti i giorni." 
 
"Quindi, quello che devi sapere è che non devi imparare il caso genitivo: puoi gestire benissimo le situazioni quotidiane anche senza di esso."
 
"Il caso genitivo in tedesco è uno strano fenomeno al giorno d'oggi. Attualmente è in fase di cancellazione dalla lingua... ma nel frattempo a volte viene ancora utilizzato." 
 
"Il suo strano status di moribondo significa che il genitivo è usato raramente nel tedesco comune e quotidiano; ma è ancora appeso con le unghie nel mondo accademico e in altri registri formali." 

"A meno che tu non sia a un certo punto nei tuoi studi sul tedesco, in cui non riesci a pensare a un’altra benedetta cosa su cui lavorare oltre al caso genitivo, in realtà per ora consiglierei di continuare a ignorarlo."

"A seconda dei tuoi studi o del tuo lavoro, potresti non aver mai bisogno di usare effettivamente il genitivo stesso (a parte forse alcune frasi facili da memorizzare)."

"Ma se scegli di imparare il caso genitivo, probabilmente capirai meglio le notizie, i documenti legali e la letteratura... e c'è qualcosa (di utile) in questo!"

Questo è un caso molto singolare in cui si è sviluppato un processo di autolisi grammaticale non necessaria, avente come risultato la distruzione della lingua e dell'identità. Il genitivo funzionava benissimo, non c'era alcun indebolimento fonetico delle terminazioni caratteristiche. A mio avviso le motivazioni del disastro sono innanzitutto politiche e ideologiche: tutto ciò è stato innescato dall'autorazzismo!

Latino e lituano: un rapido confronto
 
L'usura delle code delle parole non colpisce tutte le lingue con la stessa velocità. Per questo il lituano ha conservato molto bene la declinazione ereditata dall'indoeuropeo, mentre il latino volgare l'ha consumata fino alla scomparsa completa. Riportiamo alcuni esempi significativi per illustrare meglio il concetto. 
Questa è la declinazione del sostantivo výras "uomo" in lituano, derivato dalla stessa radice indoeuropea che ha dato il latino vir "uomo": 
 
Singolare 
 
nominativo: výras
genitivo: výro 
dativo: výrui 
accusativo: výrą 
strumentale: výru 
locativo: výre 
vocativo: výre 

Plurale 

nominativo: výrai 
genitivo: výrų 
dativo: výrams
accusativo: výrus
strumentale: výrais
locativo: výruose
vocativo: výrai 

Questa è la declinazione del corrispondente vocabolo nel latino classico: 

Singolare 

nominativo: vir
genitivo: virī
dativo: virō
accusativo: virum 
vocativo: vir
ablativo: virō

Plurale

nominativo: virī
genitivo: virōrum, virum
dativo: virīs 
accusativo: virōs 
vocativo: virī
ablativo: virīs 
 
Senza entrare troppo nei dettagli, si riescono ancora oggi a individuare le forme simili, derivate da un identico prototipo indoeuropeo (IE).  
 
Dat. sing. virō = Dat. sing. výrui 
   < IE: -ōi
 
Acc. sing. virum = Acc. sing. výrą 
   < IE: -om
 
Voc. sing. vir = Voc. sing. výre 
  < IE: -e
Nota: 
In latino la terminazione -e è scomparsa nei nomi in -r della II declinazione, ma è presente in quelli che conservano -us al nominativo. 

Abl. sing. virō = Strum. sing. výru 
   < IE: -ōd 
 
Nom./voc. pl. virī =  Nom./voc. pl. výrai 
   < IE: -oi  

Gen. pl. virum = Gen. pl. výrų 
  < IE: -ōm
Note: questo genitivo latino continua la forma più antica, poi sostituita da virōrum < *wirōzōm

Acc. pl. virōs = Acc. pl. výrus
   < IE: -ons 

Dat./abl. pl. virīs = Strum. pl. výrais
   < IE: -ois 
 
Come spiegare queste discrepanze? Le genti baltiche sono rimaste in una condizione di grande isolamento dal mondo esterno in cambiamento tumultuoso. Giusto per fare un esempio, hanno adottato il Cristianesimo molto tardi, soltanto verso la fine del XIV secolo. Non ne sono ancora del tutto sicuro, ma credo che i sistemi grammaticali più complessi abbiano la tendenza a trovarsi tra i popoli più isolati. La questione merita di certo ulteriori approfondimenti. Sarò lieto di trattare molti altri casi di semplificazione, scomparsa e ristrutturazione della declinazione in numerose lingue di cui ho qualche rudimento.  

lunedì 4 ottobre 2021

UN RELITTO PALEOSARDO IN SARDO CAMPIDANESE: NEA 'AURORA'

Tra le più strane e interessanti parole sarde che mi sia capitato di incontrare, posso annoverare sicuramente il campidanese nea "aurora, alba". Come c'era da aspettarsi, il tentativo di spiegare questo vocabolo erratico ha fatto impazzire gli studiosi. 
 
Così il Salvioni: 
 
 
CAMPID. néa AURORA   
 
Non vedo altra via per dichiarar la voce, che di invocare ēōs, riconoscendo nel n un resto della preposizione in concresciuta, e nell' -a, un facile metaplasma.  
 
Una simile invocazione è più stupida degli escrementi di una mosca su uno specchio di un postribolo d'infimo ordine. 
 
Salvioni invoca addirittura il greco epico ἠώς (ēṓs) "aurora", nemmeno il greco attico ἕως (héōs). E come diavolo avrebbe fatto una forma antiquata e dotta come quella ad arrivare tra i pastori del Campidano? 
Questo è l'elenco degli esiti del proto-indoeuropeo *h₂éwsōs "aurora" negli antichi dialetti della lingua dell'Ellade.
 
Epico: ἠώς (ēṓs) 
    trascrizione IPA: /e:'o:s/
Attico: ἕως (héōs)
    trascrizione IPA: /'heo:s/
Eolico: αὔως (áuōs), ᾱ̓́ϝως ´wōs)
    trascrizione IPA: /'auo:s/, /'a:wo:s/
Dorico: ᾱ̓ώς (āṓs)
    trascrizione IPA: /a:'o:s/
Beotico: ᾱ̓́ας
´as)
    trascrizione IPA: /'a:as/
Laconico: ᾱ̓ϝώρ (āwṓr), αβώρ (abṓr)
    trascrizione IPA: /a:'wo:r/, /a:'bo:r/
 
Possiamo essere sicuri che nessuna di queste varianti avrebbe trovato la sua via nell'impervia Sardegna. I romanisti, quando si trovano davanti una voce che non deriva da una trafila di una protoforma latina, vanno in marasma, perché gli schemi che hanno appreso non riescono a sorreggerli. In queste condizioni critiche, troppo spesso proferiscono scemenze! 
 
Tra l'altro, all'epoca in cui le genti di Bisanzio avevano contatti con la Sardegna, l'antico nome dell'aurora era stato sostituito da un'altra parola, αὐγή (augḗ). 
 
αὐγή (augḗ) f. (genitivo αὐγῆς); prima declinazione 

 1. luce del sole
 2. raggi del sole (plurale)
 3. aurora, alba  
 4. luce splendente (come quella del fuoco)
 5. riflesso sulla superficie di oggetti splendenti 
 
In greco antico la pronuncia era /au'ge:/, mentre in greco bizantino si era già evoluta in /avˈʝi/
 
I Neogrammatici sostengono che questo nome dell'aurora derivi dalla ben nota e produttiva radice indoeuropea *h₂ewg- "crescere, accrescere", da cui sono discese anche le parole latine augēre "crescere" (augeō "io cresco", augēs "tu cresci", auxī "io crebbi", auctum "essendo cresciuto"), augmen "aumento, crescita" e augustus "maestoso, venerabile". 
Non sono convinto dell'esattezza di questa ipotesi, nata da una grossolana applicazione del Rasoio di Occam. A parer mio ci sono le basi per postulare una radice indoeuropea omofona di *h₂ewg- "crescere, accrescere", ma indipendente: *h₂ewg- "raggio di sole", "splendore", con paralleli anche extra-indoeuropei (vedi nel seguito). 
 
Altri esiti indoeuropei di *h₂ewg- "raggio di sole": 
Albanese: ag "aurora" 
     < proto-albanese *(h)aug-
  agòj "albeggiare, fare giorno"  
Proto-slavo: *ju:gu "sud", "vento del sud"
     Slavo ecclesiastico: *jugŭ "meridione, sud",
          "vento del sud"  
     Russo: юг (jug) "sud" 
     Ucraino: юга (juhá) "vento caldo del sud"  
     Serbo: ју̏г (jȕg) "sud" 
     Croato: jȕg "sud" 
     Sloveno: jȕg "sud" 
     Polacco: jug "disgelo" (dialettale)
     Ceco: jih "sud" 
     Slovacco: juh "sud" 

Nemmeno il greco αὐγή può essere l'origine della parola campidanese.

Le opinioni di Pittau

Pittau sosteneva che il sardo campidanese nea "aurora" fosse un grecismo, ma non lo identificava con l'antico nome della Dea Eos: lo confrontava invece con il greco νέα ἡμέρα (néa hēméra) "nuovo giorno". La pronuncia in greco moderno è /'nea i'mera/
 
Ben noto è il quotidiano Νέα Ημέρα Τεργέστης (Néa Iméra Tergestis), ossia "Nuovo Giorno di Trieste" (fine XIX secolo - inizi XX secolo).  

Ancora una volta, riesce difficile comprendere tutti i passaggi. Ci saremmo aspettati che dalla locuzione greca derivasse in campidanese *neamera, *neimera o *nemera anziché semplicemente nea

Un possibile prestito dal ligure 

La soluzione più ovvia e razionale, quella di un termine proveniente dal sostrato pre-romano, a quanto pare non è stata mai nemmeno considerata. Lo reputo un grave errore, nato dal pregiudizio che offusca la visione e impedisce di conoscere. Procediamo per gradi.   
 
Il greco νέος (néos) "nuovo" e il latino novus "nuovo" hanno la stessa origine, come anche il gallico novio- "nuovo" (attestato ad esempio in Noviomagus "Campo Nuovo", etc.). Queste parole risalgono tutte alla stessa radice: 
 
Proto-indoeuropeo: *newos, *newyos "nuovo" 

La lingua degli antichi Liguri era indoeuropea, anche se con un sostrato lessicale più antico. Il concetto di "nuovo" era espresso dall'aggettivo *nevios, come provato da importanti documenti. 
L'idronimo ligure Neviasca è attestato nella Tavola bronzea di Polcevera, scritta in latino arcaico e risalente al 117 avanti Cristo, che ci conserva toponimi notevolissimi. Riporto in questa sede il brano che ci interessa (i grassetti sono miei): 

Langatium fineis agri privati: ab rivo infimo, qui oritur ab fontei in Mannicelo ad flovium / Edem: ibi terminus stat; inde flovio suso vorsum in flovium Lemurim; inde flovio Lemuri susum usque ad rivom Comberane(am); / inde rivo Comberanea susum usque ad comvalem Caeptiemam: ibi termina duo stant circum viam Postumiam; ex eis terminis recta / regione in rivo Vendupale; ex rivo Vindupale in flovium Neviascam; inde dorsum flovio Neviasca in flovium Procoberam; inde / flovio Procoberam deorsum usque ad rivom Vinelascam infumum: ibei terminus stat; inde sursum rivo recto Vinelesca: / ibei terminus stat propter viam Postumiam, inde alter trans viam Postumiam terminus stat; ex eo termino, quei stat / trans viam Postumiam, recta regione in fontem in Manicelum; inde deorsum rivo, quei oritur ab fonte en Manicelo, / ad terminum, quei stat ad flovium Edem.

Traduzione (di Agostino Giustiniani): 
 
"I confini dell'agro privato dei Langati: presso il fiume Ede, dove finisce il rivo che nasce dalla fonte in Manicelo, qui sta un termine. Quindi si va su per il fiume Lemuri fino al rivo Comberanea. Di qui su per il rivo Comberanea fino alla Convalle Ceptiema. Qui sono eretti due termini presso la via Postumia. Da questi termini, in direzione retta, al rivo Vindupale. Dal rivo Vindupale al fiume Neviasca. Poi di qui già per il fiume Neviasca fino al fiume Procobera. Quindi già per il Procobera fino al punto ove finisce il rivo Vinelasca; qui vi è un termine. Di qui direttamente su per il rivo Vinelasca; qui è un termine presso la via Postumia e poi un altro termine esiste al di là della via. Dal termine che sta al di là della via Postumia, in linea retta alla fonte in Manicelo. Quindi già per il rivo che nasce dalla fonte in Manicelo sino al termine che sta presso il fiume Ede."

L'idronimo Neviasca significa qualcosa come "quella del (luogo) nuovo".

La radice ligure in questione, ha formato almeno un toponimo oltre al nome di fiume sopra considerato. Nell'entroterra genovese, in Val Graveglia, si trova il piccolo borgo di Ne (pronuncia /nɛ/, con la vocale aperta). I romanisti hanno tentato di ricondurlo all'antroponimo Nevius, da loro considerato "romano" - e confuso col gentilizio Naevius. Molto peggio dei romanisti hanno fatto i latinisti d'accatto pullulanti nelle parrocchie ottocentesce e novecentesche. Alcuni di loro hanno preso il latino nāvis "nave" e lo hanno fatto diventare Ne, incuranti del fatto che in genovese ha dato nae. Altri hanno preso il latino nemus "bosco sacro" e lo hanno fatto diventare Ne, incuranti del fatto che la consonante -m- intervocalica non può dileguarsi nel latino volgare che ha dato il genovese. Questi escrementi concettuali, che dovrebbero stare sepolti in una fossa settica, sono stati esumati da Google e messi sotto il naso degli utenti. 
 
Ne deriva direttamente dal ligure *Neviom "(Luogo) Nuovo" (pronuncia /'newiom/). 
Propongo così la ricostruzione *nevia /'newia:/ "cosa nuova", che tra i vari significati doveva avere anche "inizio del giorno". 
Sappiamo che alcuni elementi indoeuropei di provenienza ligure si sono insinuati nel paleosardo (Blasco Ferrer, 2011). Ad esempio il sardo tevele "debbio", elemento di sostrato, è derivato in ultima analisi dal ligure *debelo- (Debelus fundus) < protoindoeuropeo *dheghw- "bruciare". Così è plausibile che si sia verificata questa trafila: 
 
ligure /'newia:/ > paleosardo /'neia/ > /'nea/.  

Decisamente meglio delle storture dei romanisti!
 
Altra proposta etimologica per nea "aurora"
 
Quando sono venuto a conoscenza della parola campidanese nea "aurora", la mente mi è andata subito al basco egun "giorno", derivato dal verbo proto-basco *e-gun-i "splendere" (detto del sole). La protoforma ricostruibile sarebbe dunque n-egu-a. Tuttavia mi è sembrata troppo contorta e insoddisfacente la derivazione, carente soprattutto dal punto di vista morfologico: trovavo difficoltà a spiegare l'iniziale n- e la terminazione -a (considerato che questa non può essere l'articolo basco -a, il cui antenato suonava diversamente). Così ho abbandonato questa etimologia.
 
Conclusioni 
 
Un annoso problema è stato finalmente risolto. Peccato che al mondo accademico non importerà mai nulla di tutto questo: basta che una cosa sia scritta su un blog e la considerano automaticamente immondizia, senza nemmeno leggerla.   

sabato 25 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: COTA 'TIPO DI CAMOMILLA'

Una glossa etrusca tramandata da Dioscoride è καυτάμ (kautám), che designa una pianta conosciuta in latino come Solis oculi, ossia "occhio del sole" (TLE 823). Il fitonimo è un "evidente richiamo al fuoco e alla sfera solare" (Sannibale, 2007). Appare manifesta la sua identità con il teonimo etrusco Cautha (Cauθa, Cavθa-, Cavaθa-, Kavθa, Caθa, Caθ), che designa una divinità solare femminile, le cui caratteristiche sono poco chiare. Marziano Capella (IV-V sec.) la chiama Celeritas e la definisce Solis filia "Figlia del Sole" (Lib. I, § 50). Così ha scritto: "Vos quoque Iovis filii, Pales et Favor, cum Celeritate, Solis filia, ex sexta poscimini; nam Mars Quirinus et Genius superius postulati", ossia "Anche voi Figli di Giove, Pale e Favore, con Celerità, Figlia del Sole, dalla Sesta (Regione) siete richiesti; dunque Marte Quirino e il Genio più sopra sono stati richiesti". La terminazione del fitonimo indica che con ogni probabilità il vocabolo καυτάμ è stato preso da un testo in latino, in cui figurava al caso accusativo. La consonante -τ- in luogo dell'attesa aspirata -θ- si spiega pure con il fatto che Dioscoride deve aver tratto il vocabolo da un documento in latino, anziché dalla viva voce di un informatore. 

Riporto un interessantissimo brano del medico e botanico Dioscoride (circa 40 d.C. - circa 90 d.C.). Consiste in una lista di denominazioni greche di piante; quindi sono riportate due denominazioni latine di una pianta, seguite dalla traduzione in etrusco, punico, gallico e dacico. 
 

[138]    RV: ἀμάρακον· οἱ δὲ ἀνθεμίς, οἱ δὲ λευκάνθεμον, οἱ δὲ παρθένιον, οἱ δὲ χαμαίμηλον, οἱ δὲ χρυσοκαλλίας, οἱ δὲ μαλάβαθρον, οἱ δὲ ἄνθος πεδινόν, Ῥωμαῖοι σῶλις ὄκουλουμ, οἱ δὲ μιλλεφόλιουμ, Θοῦσκοι καυτάμ, Ἄφροι θαμάκθ, Γάλλοι οὐίγνητα, Δάκοι δουώδηλα. 
 
Le denominazioni greche di piante sono in tutto otto: 
 
1) ἀμάρακον (amárakon
2) ἀνθεμίς (anthemís
3) λευκάνθεμον (leukánthemon
4) παρθένιον (parthénion
5) χαμαίμηλον (chamáimēlon
6) χρυσοκαλλίας (chrysokallías
7) μαλάβαθρον (malábathron
8) ἄνθος πεδινόν (ánthos pedinón)

La prima denominazione, amárakon, indica la maggiorana (Origanum majorana). Diverse delle altre indicano specie tra loro simili o sono addirittura sinonimi: così leukánthemon indica la margherita (Leucanthemum vulgare) mentre ánthos pedinón è un sinonimo di anthemís e di chamáimēlon, che indica la camomilla (Matricaria chamomilla), notoriamente somigliante a una margherita. Il parthénion è anch'esso una pianta il cui aspetto è affine a quello di una margherita: è ancor oggi conosciuto come partenio (Tanacetum parthenium) e detto popolarmente amarella, amareggiola, maresina, erba amara, erba 'mara, erba magra. Invece il malábathron è il cinnamomo o tejpat (Cinnamomum verum), il cui aspetto è del tutto diverso.  
Il termine latino millefolium, trascritto come μιλλεφόλιουμ, dovrebbe indicare l'achillea (Achillea millefolium); tuttavia è indicato come suo sinonimo sōlis oculum "occhio del sole", trascritto come σῶλις ὄκουλουμ. Esiste la possibilità che il fitonimo indicasse diverse specie. In ogni caso, queste sono le sue traduzioni: 
 
Etrusco: καυτάμ (kautám)
Punico: θαμάκθ (thamákth
Gallico: οὐίγνητα (vignēta
Dacico: δουώδηλα (duōdēla)  
 
Tutto ciò è estremamente utile: stupisce che queste conoscenze antiche non abbiano avuto l'utilizzo che meritavano. Si noterà l'accuratezza della trascrizione del vocabolo punico, in cui θ trascrive un'aspirata /th/, mentre in etrusco lo stesso suono non è stato reso allo stesso modo come avrebbe dovuto. Dei vocaboli della lingua punica, gallica e dacica, tratteremo in altra sede. Credo che sia necessario compiere indagini più approfondite.   

Dato l'estremo interesse dell'informazione, la riporto senza esitare, avendola estratta dal Web non senza fatica e avvalendomi del diritto di citazione. La fonte è il Grande dizionario della lingua italiana, dell'Accademia della Crusca. Questo è il link al visualizzatore: 

 
Còta1, sf. bot. ant. e dial. antemide, varietà della camomilla. 
   Anonimo guelfo, v-330-10: colte ne sono le rose e le viuole, / ed évi nata cota e coregiuola: / cierto bene credo vi paia pecato. / maraviglia mi fo, se non vi duole / di quelli che vivono d'imbolio di suola / ed ànno fatto ciascuno di sé casato. Tommaseo [s. v.]: 'Cota', nome volgare di due specie d'antemide: Anthemis cotula e Anthemis altissima di Linneo. 
Tramater [s. v.]: 'Cota', specie di pianta del genere Anthemis, che appartiene alla singenesia superflua, famiglia delle corimbifere. si distingue per le foglie due volte pennate, e le pagliette del ricettacolo terminate da una punta pungente più lunga de' fioretti. trovasi tra le biade, ed è raccolta con le altre erbe per pastura de' bestiami. 
   = Voce d’area toscana, di etimo incerto, che si congettura d’origine etnisca,  da una forma *cauta, che sarebbe derivata da Cautha, con cui gli Etruschi denominavano la * divinità del Sole ’ : per la forma circolare e il colore giallo del fiore (l’antemide fu detta dagli antichi 'occhio del sole ’).
Cfr. anche COTULA. 
 
Questa è la sacrosanta verità: il fitonimo còta è di origine etrusca: è derivato dal teonimo Cautha, il condizionale è del tutto inutile. Anche Pittau aveva sostenuto questa etimologia. 
 
Un fitonimo còtula, oggi usato per indicare la camomilla fetida (Anthemis cotula) e altre piante simili, è un evidente diminutivo di còta. Tuttavia i romanisti hanno pensato di forgiare un'etimologia fittizia dal greco  κοτύλη (kotýle), che significa "ciotola, coppa, tazzina". L'idea malsana è che la parola greca indichi gli organi concavi, a forma di coppa, di questo genere di fiori. Contro gli autori di queste invereconde manipolazioni dovrebbero essere scagliate maledizioni nell'arcana lingua di Hyperborea, tratte dal Libro di Eibon!    

Mi si accuserà di essere un complottista, ma nel nostro mondo alcuni complotti esistono realmente, non sempre sono fantasie distorte di paranoici terminali o di gente scema come le feci dei bradipi. Nascondere qualcosa di capitale importanza, trattarlo come polvere sotto un tappeto, questa è una strategia abbastanza frequente nel mondo accademico. Queste evidenze possono soltanto mostrare una cosa: la conoscenza della lingua degli Etruschi è possibile ma in qualche modo interdetta. Per quanto difficile a ottenersi, non viene resa pubblica, si tende a nasconderla, viene ostacolata con ogni mezzo. Alcuni romanisti hanno trovato la verità su un'etimologia e l'hanno esposta in un articoletto dell'Accademia della Crusca, non l'hanno potuta negare, però l'hanno messa in qualche cantuccio recondito, come se fosse una bazzecola, una bagatella.  

Possibile etimologia di Cautha

In greco esistono parole derivate da una radice *kau- "ardere, bruciare", che non ha convincenti corrispondenze indoeuropee. Con ogni probabilità questa radice è un antichissimo relitto pre-ellenico che sopravviveva anche in etrusco. Ecco alcuni dati interessanti: 

καίω (káiō) "io brucio" 
 
Semantica: 
  1) accendere, mettere sul fuoco 
  2) bruciare, ardere 
  3) bruciare per il gelo (es. per la brina)
  4) ardere di passione (voce passiva)
  5) fare un fuoco per sé (voce media)
  6) cauterizzare 

Alcune parole derivate: 

καυστός (kaustós) "bruciato" 
   variante (nelle iscrizioni): καυτός (kautós
καῦμα (kâuma) "calore del sole", "ardore", "febbre", "marchio 
   a fuoco" 
καυαλέος (kaualéos) "calore ardente" (eolico) 
καημένος (kaēménos) "povero" 
κᾶλον (kâlon) "legna secca" 
καῦσις (kâusis) = καῦμα
καύσων (káusōn) "calore ardente", "scirocco"  
κηώδης (kēṓdēs) "fragrante, odoroso" (omerico) 
κήλεος (kḗleos) "ardente, sfolgorante"  
πυρκαϊά (pyrkaïá) "pira funebre", "rovine bruciate" 

A partire dai dati riportati sopra, è stata ricostruita una radice indoeuropea *k(')eh2w- "ardere" (notazione laringale), di cui però non esistono paralleli sicuri al di fuori del greco. Pokorny ha la seguente ricostruzione: *k̂ēu- / *k̂ǝu- / *k̂ū- "anzünden, verbrennen", ossia "accendere, bruciare", apponendovi un punto interrogativo e mostrando una certa dose di scetticismo. Timidamente lo studioso ha proposto un esile riscontro in baltico: lituano kūlėti "brandig werden, vom Getreide", ossia "divenire cancrenoso (detto del grano)"; kūlė̃ "Getreidebrand", ossia "cancrena del grano" (fungo o muffa che colpisce i cereali). Possiamo aggiungere la parola lettone kūla, che dovrebbe corrispondere al lituano kūlė̃. Si tratta del carbone dei cereali, una malattia delle piante caratterizzata dalla formazione di una massa nera, dovuta ai funghi Ustilaginali parassiti. Attacca i cereali (frumento, avena ecc.) e altre piante (aglio, cipolla, scorzonera) con danni talvolta molto gravi; con "carbone" si denominano anche i diversi funghi. Si segnala la grande difficoltà di trovare informazioni su queste parole in Google. Detto questo, secondo Pokorny, la massa muffosa nera doveva trarre la propria denominazione da un'antica radice indicante la combustione: 
"cosa bruciata" => "carbone" => "carbone dei cereali"
Non sono sicuro di questa etimologia: le parole baltiche citate potrebbero anche essere resti di un sostrato pre-indoeuropeo (cosa plausibile, essendo termini agricoli): non è nemmeno detto che si possa dividere kūl- in kū-l-.  

Perché gli indoeuropeisti tendono a ricostruire una consonante palatale k'- in questa radice, quando né i dati del greco né quelli molto dubbi del baltico ne offrono una giustificazione? Credo che sia per questo: si pensava di trovare esiti di *k'eh2w- nelle lingue iraniche. Anche se Pokorny non menziona esiti iranici, ricostruisce una radice *k̂euk- "leuchten, hell, weiß sein, glühen", ossia "risplendere, chiaro, essere bianco, splendere". Ne riporta quindi questi esiti: 
 
Avestico: saočint- "brennend" ("ardente")
Avestico: saočayeiti "inflammat = incitat"
Persiano moderno: sōxtan "anzünden, verbrennen" 
       ("accendere, bruciare")
Avestico: upa-suxta- "angezündet" ("incendiato") 
Avestico: ātrǝ-saoka- (m.) "Feuerbrand" ("tizzone")
Persiano moderno: sōg "Trauer, Kummer" ("dolore"); 
     Armeno: sug "dolore" (è un prestito iranico) 
Avestico: suxra- "leuchtend (vom Feuer)", "splendente 
    dal fuoco")
Persiano moderno: surx "rot" ("rosso") 

Come si vede, è una giungla di possibilità confuse.
 
Checché se ne dica, la radice *kau- "bruciare" presente in greco è di origine ultima tutt'altro che chiara e non può essere affatto garantita la sua origine nelle Steppe. Ovviamente ci sono alcuni moderni eredi dei Neogrammatici, pronti a strepitare e a giurare il contrario, per giunta accusandomi di essere "dogmatico". Fanno così perché prendono ordini da Dugin. 
 
Intanto ricostruisco questa radice: 
 
Proto-tirrenico: *kawa- "bruciare", "splendere"  
    Etrusco: Kav(a)θa "La Splendente"      
 
Il suffisso -θa è un marcatore del genere femminile, che troviamo nella parola lautniθa "liberta", derivata da lautni "liberto", a sua volta da lautn "gente, famiglia". Notevole è l'antroponimo femminile Pevθa, la cui radice è quella di peva- "miele", attestata nel Liber Linteus: pevaχ vinum "vino mielato", "mulsum". Evidentemente Pevθa significa "Ape femmina" ed è simile nella formazione al greco μέλισσα (mélissa) "ape", derivato da μέλι (méli) "miele". Si noti che il genitivo di Cauθa è sigmatico: Cauθas, Cauθaś, Kavθaś "di Cautha".   

Cautes e Cautopates 
 
Il culto di Mithra, molto diffuso durante l'Impero, era di chiara origine persiana, pur acquisendo nel contesto romano caratteristiche proprie. L'iconografia di questa religione mostra che Mithra aveva due assistenti, i cui nomi erano Cautes e Cautopates. Erano due tedofori. Cautes aveva una torcia puntata verso l'alto, mentre Cautopates aveva una torcia puntata verso il basso. Indossavano pantaloni frigi e berretto frigio. Assistevano alla Tauroctonia, così come alla nascita di Mithra; dal loro vestiario nacque l'equivoco di chi li ha confusi con pastori. Ecco perché circolano nel Web vignette memetiche in cui si dice che alla nascita del Dio hanno assistito i pastori, come quelli che hanno assistito alla nascita di Gesù a Betlemme. Cautes e Cautopates hanno una connessione con il sorgere del sole e con il suo tramonto: le loro torce sembrano alludere alla grande luminaria celeste. In diverse tradizioni si trovano figure simili. È stato fatto un paragone con gli Ashvin indiani e con i Dioscuri. Si deve però tener conto che tutti i culti solari hanno per necessità qualcosa di simile, traendo il loro fondamento da un fenomeno fisico percepibile dall'intero genere umano. 
I due teonimi mithraici non hanno tuttora una spiegazione convincente. Non sono state proposte etimologie, a quanto ne sappia. Questo è molto sorprendente. Non è detto che Cautes e Cautopates siano nomi di origine persiana, visto che nelle lingue iraniche non si è riusciti a trovare alcun parallelismo. Sostengo che potrebbe trattarsi invece di elementi etruschi integrati nella religione di Mithra, per come era praticata nell'Impero Romano.  

martedì 21 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: SERQUA 'DOZZINA'

Tempo fa mi sono imbattuto in un vocabolo toscano quasi sconosciuto al grande pubblico e dotato di un aspetto fonetico assai inconsueto, peculiarissimo: serqua "dozzina", che ha anche il significato colloquiale di "gran quantità". Talvolta la serqua è una gang, una banda, un gruppo di malfattori, di lestofanti o altra canaglia. Per quanto riguarda la pronuncia, a quanto pare la vocale tonica è chiusa: sérqua (fonte: Vocabolario Treccani). Tuttavia si deve riportare che una variante attestata è sarqua.

Ecco cinque esempi dell'uso della parola, tratti dal Vocabolario Treccani: 
 

i) una serqua d'uova = una dozzina di uova 
ii) un libricciolo Di mezza serqua di sonetti (Giuseppe Giusti)*
iii) gli ha dato una serqua di botte 
iv) Teresa rispondeva con una serqua d'ingiurie e di parolacce (Carlo Levi) 
v) siamo in mano di una serqua di sagrestani (Luigi Capuana)  

* Ecco un estratto più completo e significativo:

Mi segue un contadin di Fattoria
Che mi discorre d’olio e di bestiame,
E mi domanda quando piglio moglie;
Sfruconandomi dietro il palafreno
E ansimando su su per la salita
Con un sacco in spalla, ove son chiusi
Dante, Virgilio, Giovenale, un rotolo
Di fogli rabescati, un libricciolo
Di mezza serqua di sonetti, dono
D’un manescalco del cavallo alato.

I romanisti hanno ricondotto serqua al latino siliqua "baccello", giunta ai tempi odierni tramite la genuina usura del volgo. Ricordo ancora la Parabola del Figliol Prodigo, in cui l'esule si trovava costretto, dopo aver dilapidato con le prostitute la sua parte di eredità, a cibarsi delle silique che venivano date ai porci. 
 
Ecco quanto riporta su questo termine Wikipedia in latino: 
 
 
Nomen substantivum

sĭlĭqu|a, -ae fem.  
 
1. Capsula plantae leguminariae.
2. plur. | Legumina.
3. Species plantae, taxonomice
Ceratonia siliqua; idem quod siliqua Graeca. 
4. → foenum Graecum
5. Pondus minus; etiam, nummus qui ⅟₂₄ solidi valuit.  

Traduzione in italiano:

1. Capsula della pianta leguminosa 
2. plur. | Legumi 
3. Specie di pianta, tassomomicamente Ceratonia siliqua; la stessa cosa di siliqua greca
4. → Fieno greco 
5. Misura di peso minore; anche, moneta che valeva ⅟₂₄ del solido.
 
L'etimologia fornita dalla Wikipedia si deve a Julius Pokorny:  

Per *sciliqua, dalla radice proto-indoeuropea *skel- (Pokorny, 1959, pp. 923-927). 

In altre parole, si suppone che si sia avuta una dissimilanzione del gruppo consonantico iniziale sc- /sk/ ad opera della consonante labiovelare -qu- /kw/

*/'skelikwa/ => */'skilikwa/ => /'silikwa/ 

La radice proto-indoeuropea ricostruita dal Pokorny come *(s)kel-, in notazione laringale è *(s)kelH- e significa "tagliare; dividere, separare": 


Una simile dissimilazione è presupposta dal Pokorny anche per un'altra parola latina foneticamente simile e ricondotta alla stessa radice indoeuropea *(s)kel-: silex "pietra, roccia", "rupe", "selce".

*/'skeliks/ => */'skileks/ => /'sileks/ 

In tutta franchezza, non trovo molto convincenti queste etimologie, anche se Pokorny riporta una possibile connessione con l'antico irlandese sce(i)llec "roccia, masso" (glossa tedesca: Fels). Proprio la necessità di trovare un'etimologia sensata al toscanismo serqua mi spinge a formulare nuove teoria, che certamente non piaceranno al mondo accademico. 
 
Lo studio di Pittau 
 
Notiamo innanzitutto che dello studio di serqua si sono occupati in pochi. Tra questi possiamo sicuramente menzionare il professor Massimo Pittau (RIP). Nel vasto Web sono riuscito a trovare questa pagina, opera di Paolo Campidori: 
 
 
Lo stesso Campidori ha fatto un'intervista a Pittau, menzionata nell'articolo, in cui il professore sardo riconduce serqua al vocabolo etrusco śerϕue, attestato nel Liber Linteus. Si tratta di una voce enigmatica, finora lasciata senza spiegazione. Pittau la riconduce al numerale śar "dieci", anche se al momento non mi è nota una sua variante apofonica *śer-. Parimenti, non mi risulta chiaro il suffisso -ϕue; in ogni caso non credo che possa significare "due". Sarebbe più logico individuare in śerϕue il locativo in -e di *śerϕua, a sua volta plurale inanimato in -ua di *śerϕa, esso stesso molto oscuro - e siamo al punto di partenza. Secondo Pittau, il significato di śerϕue dovrebbe essere "dozzina": attribuisce proprio a questo termine l'origine del toscano serqua. Mi si lasci dire che il passaggio da -ϕu- /phw/ a -qu- /kw/ mi sembra piuttosto improbabile. Non mi intratterrò su altre peculiari idee di Pittau riguardo al numerale 12 in etrusco. 
 
Una soluzione innovativa

Sono convinto che la derivazione del toscano serqua non sia dal numerale śar "dieci", bensì dal numerale zal "due". Abbiamo una variante apofonica zel- attestata (zelarvenas, zelur, zelvθ). Si dovrebbe ricostruire *zelχva "dodici", "dozzina", parola formata col ben noto suffisso plurale e collettivo -cva, -χva. Sappiamo che i numerali presentano molte stranezze: una simile formazione non sarebbe in ogni caso impossibile. Si suppone ora che questo etrusco *zelχva sia passato in latino divenendo siliqua. Non sarebbe un caso isolato di corrispondenza tra etrusco -e- e latino -i- breve: basti pensare all'etrusco Selvans, che corrisponde a Silvānus (e al gentilizio etrusco Selvaθre, che corrisponde a silvester, silvestris).  
 
1) Soluzione dei problemi di derivazione
Il toscano serqua non sarebbe un derivato del latino siliqua. Invece sarebbe un diretto derivato della forma estrusca, come anche il latino siliqua. Queste due trafile sarebbero indipendenti. In questo modo, il processo di derivazione postulato dai romanisti sarebbe invertito. 
 
etrusco *zelχva => latino siliqua 
etrusco *zelχva => latino volgare *selchua, *serchua => 
      toscano serqua, sarqua  
 
2) Soluzione dei problemi fonetici 
La fonetica irregolare di serqua, che ha una rotica /r/ sviluppata da una liquida /l/, potrebbe essere dovuta al fatto che la parola è passata da una tarda forma di etrusco al latino volgare, con problemi di adattamento di gruppi consonantici non familiari, come /lkhw/, con la sua aspirata. Sarebbe invece molto meno comprensibile se serqua fosse derivato dalla forma latina siliqua: non si spiegherebbe bene l'evoluzione di una /l/ intervocalica in una rotica. La vocale -i- che si trova in siliqua ha l'aria di essere una soluzione più antica per evitare il gruppo consonantico. 
 
3) Soluzione dei problemi semantici  
Per quanto riguarda la semantica, Pittau riporta che "non si vede come dal concetto generico di “unità di misura” venga fuori anche il concetto specifico di “dozzina” e di “dodici”". Tuttavia il latino siliqua non esprime un concetto generico di "unità di misura", ma alcune unità di misura particolari, come 1/24 di solido, che potrebbero provenire direttamente dal concetto di "dodici" o essere comunque collegate. Postulare che da "dozzina" si sia arrivati ai significati della parola latina è in ogni caso verosimile. 
 
"dozzina" => "molte cose" => "baccello" (che contiene le fave, etc.) 
 
4) Soluzione dei problemi morfologici 
Il suffisso -qua, inusuale in latino, è invece molto comune in etrusco come plurale inanimato e collettivo: -cva, -χva (es. avilχval "degli anni", flerχva "sacrifici"). Ovviamente questo i romanisti non lo sanno e non lo vogliono nemmeno sapere, perché il loro unico riferimento è il vocabolario di latino usato a scuola, al massimo con qualche integrazione presa dal vocabolario di greco. 
 
Concordo appieno con la consclusione di Pittau: "relitti dell’antica lingua etrusca esistono tuttora nelle parlate della Toscana e del Lazio settentrionale". Ho preso molto sul serio il suo invito a indagare sull'argomento.