Come abbiamo già fatto notare in diverse occasioni, i chierici traditori che infestano le università italiane partono dal presupposto tipicamente massonico che solo la lingua scritta abbia importanza. Nell'universo cabalistico creato dal Grande Architetto tramite le lettere non c'è posto per la parola viva e risonante. Questo principio deleterio è ovviamente condiviso dalla conventicola degli archeologi, come abbiamo più volte dimostrato servendoci di esempi significativi e di prove irrefutabili. Accade così che se un popolo del passato non possedeva qualche forma di scrittura, i settari massonici lo disprezzano profondamente e negano persino che abbia avuto una lingua parlata. Questa è l'incredibile equazione pseudologica utilizzata:
assenza di scrittura => assenza di lingua parlata
In realtà basta poco per far scattare la negazione dell'esistenza di una lingua presa a bersaglio dell'accanimento accademico: è sufficiente che un popolo conoscesse la scrittura ma non ne facesse un grande uso, che non avesse con essa una grande dimestichezza o che scrivesse in una lingua diversa dalla propria e considerata di maggior prestigio. Così l'equazione di cui sopra si può riformulare nel seguente modo:
scarsità di attestazioni scritte => assenza di lingua parlata
Applicando questa nociva procedura, numerose lingue di cui ci restano scarsi documenti diventano come per incanto inesistenti! Se dovessimo fare un elenco delle lingue che in questo modo scomparirebbero dall'inventario ontologico, ci sarebbe da rimanere di sasso: si assisterebbe allo sprofondamento nel Nulla di interi continenti culturali.
Un caso paradigmatico dal passato: la lingua longobarda
Nonostante la compattezza del patrimonio antroponimico dei Longobardi e i termini attestati nei documenti legali, si va diffondendo tra gli accademici l'idea che la lingua longobarda non sia mai esistita. Non è più sufficiente il dogma politico e scolastico che imponeva di credere alla fola del rapidissimo abbandono della lingua nativa del popolo germanico in favore del latino ecclesiastico (mai insegnato per via materna!) o di una qualche varietà di protoromanzo (di ben basso prestigio). Adesso è comparso un dogma nuovo, che serpeggia nelle accademie italiane come una spirocheta, irradiandosi anche negli ottusi ambienti anglosassoni. Secondo questo nuovo delirio fabbricato da malfattori massonici, i Longobardi sarebbero stati un insieme di popoli diversissimi e residuali, esigui, privi di un proprio modo di parlare quando ancora erano stanziati in Pannonia. In pratica, non avrebbero avuto la favella e avrebbero comunicato a gesti o a ringhi. Questa incredibile forma di infraspeciazione, a cui possiamo soltanto dare il nome di razzismo feroce, è opera di criminali che hanno portato all'estremo la necessità scolastica di affermare la superiorità della Romanità e di etichettare i Germani come esseri subumani. Ecco cosa producono le accademie italiane nell'epoca delle baronie massoniche. Ben faceva Marinetti a predicarne la combustione!
Conseguenze esiziali di un dogma
Possiamo trarre da queste premesse alcune conclusioni a dir poco spettrali. Quanto detto non vale infatti soltanto per lingue estinte da tempo: conserva la sua applicabilità anche se consideriamo lingue ancora parlate. Gli stessi popoli che tuttora vivono e che conservano il modo di parlare tradizionale, seppur indebolito dall'uso di una lingua generale, corrono continuamente il rischio di sprofondare nell'Oblio e a dissolversi come polvere nel vento, le loro orme cancellate per sempre. Resterà qualcosa in grado di documentare le loro parole? Con ogni probabilità la risposta è negativa. Per far meglio comprendere queste mie conclusioni, mi servirò di alcuni esempi concreti quanto semplici.
L'esperimento concettuale dell'archeologo extraterrestre
Immaginiamo ora che, una volta estinto il genere umano, un archeologo extraterrestre visiti questo pianeta disseminato di rovine e che agisca secondo i princìpi dell'accademismo da me sopra descritti: anche se tramite processori quantistici fosse in grado di elaborare e di tradurre le informazioni rimaste dell'antica lingua italiana, poi non sarebbe in grado di fornire una mappatura verosimile delle varietà linguistiche effettivamente parlate nella nostra epoca. Incontrerebbe come minimo le stesse difficoltà con cui gli studiosi attuali devono misurarsi nel caso di lingue scarsamente attestate, frammentarie o agrafe del passato.
Il caso del patois valdostano
Frequento la Val d'Aosta da molto tempo, dal lontano 1997, ma ho avuto ben poche occasioni di udire persone parlare in patois, tanto che a un certo punto mi ero convinto che tale varietà linguistica fosse estinta da tempo. Così sono giunto a pensare che l'italiano e il francese l'avessero fatta scomparire. Poi mi è capitato di udirne alcune timidissime testimonianze. I parlanti hanno quasi paura di farsi sentire dai forestieri, tanto che parlottano sottovoce, cercando in tutti i modi di far sì che nessuno riesca a cogliere appieno il suono dei vocaboli da loro articolati. Forse temono che la loro lingua possa finire inquinata già soltanto dall'ascolto da parte di una persona di stirpe diversa dalla loro, come se un turista fosse una temibile specie di predatore alieno. Wikipedia garantisce che il patois è vivo e vitale, parlato fluentemente da persone di tutte le generazioni, dimenticandosi di aggiungere "nella quasi clandestinità". A mio avviso c'è da dubitare che questa situazione sia un indice di vitalità e di buona salute linguistica. Tutta la Val d'Aosta è piena zeppa di scritte in francese, tanto che le indicazioni delle vie, anche dei vicoli, sono bilingui. Non si trova però quasi alcuna attestazione scritta degna di nota del patois: a parte qualche strano nome di via e qualche altro microtoponimo, cose che passano quasi inosservate. L'unica testimonianza appariscente che ho trovato è una grande scritta rupestre con il testo VAL D'AOHTA LIBRA. Tuttavia la sua conservazione nel futuro direbbe poco al nostro archeologo extraterrestre. La cosa più semplice che potrebbe dedurre è che si tratti di una semplice variante dell'italiano VAL D'AOSTA LIBERA, probabilmente della registrazione di una pronuncia locale. Noi, che siamo contemporanei ai fatti, sappiamo che il patois è una lingua che mostra caratteri intermedi tra quelli del francese e quelli del provenzale, pur essendo una lingua indipendente. Per via dell'elemento toponomastico arp "alpe", diffusissimo nella regione, alcuni preferiscono chiamare l'idioma in questione arpitano. Per illustrare la sua divergenza dal francese, basti citare un esempio: il termine fouà (pron. /fwa/) significa "fuoco" in arpitano e suona in modo identico alla parola francese foie (pron. /fwa/), che significa "fegato". Il nostro archeologo extraterrestre non potrà mai arrivare a scandagliare tale microcosmo, per lui assolutamente perduto e irraggiungibile.
Il caso del romagnolo
Esiste una documentazione imponente della lingua gallo-italica di Romagna, anche se quasi interamente su supporto deperibile. L'ortografia complessa, unita al singolare atteggiamento dei parlanti - come nel caso di molte altre varità dello stesso ceppo - ha decretato un uso anomalo della scrittura, che serve soltanto per registrare testi da usarsi come reliquie e che non ha alcun impiego nella comunicazione quotidiana. In qualche caso si hanno lapidi con testi di una certa lunghezza, come ad esempio la Tavola di Forlimpopoli (Tabula Forumpopiliensis), che riporto qui di seguito:
I baruzér d'Frampul
Una völta a Frampúl u n' j éra i càmion o i furgô, pr' ander a tú' e' sabiôn o la gëra a la int e' fiô: tóta ròba ch'la serviva pr' al ca, i vjúl e al strê, dašènd pu möd a i s-cèn ad caminê; senza infanghës trop al papòzi, i cósp o al s-cjafëli, in particulër s' l' éra piuvú da e' zil a cadinëli. U j éra però invece, i nóstar baruzér, ch' j éra stimé cmé i pularúl, i sansél e i cavalér, nèca ló partènd prëst a la matèna d'ògni dè pr' andës a guadagnê cun e' lavór du-tri bulè, ch' e' bšugnéva avê' par cvalúncve ucašjô, ch' la fóss par e' magnê, pr' i vstì, o la pišô.
Donata nell'anno 2001 da:
- BANCA ROMAGNA CENTRO credito . cooperativo - Forlimpopoli
- ASSOCIAZIONE PRO LOCO Forlimpopoli
(Rime di C. Matteucci - disegno di F. Vignazia)
- BANCA ROMAGNA CENTRO credito . cooperativo - Forlimpopoli
- ASSOCIAZIONE PRO LOCO Forlimpopoli
(Rime di C. Matteucci - disegno di F. Vignazia)
Si noterà in questo testo la presenza di numerosi italianismi più o meno adattati (es. invéce, ògni, cvalúncve). Se l'archeologo extraterrestre rinvenisse la Tavola di Forlimpopoli, sarebbe particolarmente fortunato: non soltanto avrebbe testimonianza della lingua locale, ma avrebbe anche una data che potrebbe fungere da terminus post quem per collocare nel tempo la sua estinzione. Potrebbero però capitargli cose ben più strane. In una piadineria a Milano ho visto con i miei occhi un testo in romagnolo, scritto in caratteri bianchi su una lastra nera che sembra fatta di ardesia. Chiamerò questo documento Tavola di Milano (Tabula Mediolanensis). L'argomento è culinario:
La Pida Rumagnola
Quant ut vèn la dibuleza e la penza la taca a barbutlè a te dègh me quel te da fè.
Nu pansè ad magnè de pen, la madgena lè la pida se te voja dastè bèn. Du bel quadret ad pida, do feti ad murtadela la je mej che la zambela.
Se po tat met dria a l'aròla, sanzveis, panzeta, e pida rumagnola.
E set ven voja ad fè pasegeda, l'udor dla pida tal sent nenca par la strèda.
Nu pansè ad magnè de pen, la madgena lè la pida se te voja dastè bèn. Du bel quadret ad pida, do feti ad murtadela la je mej che la zambela.
Se po tat met dria a l'aròla, sanzveis, panzeta, e pida rumagnola.
E set ven voja ad fè pasegeda, l'udor dla pida tal sent nenca par la strèda.
Nelle immediate vicinanze ho visto anche due iscrizioni minori, sempre sullo stesso supporto. Questi sono i testi:
Sugnè dla piè l'è nuvitè
A panza pina u s' ragiona mej
Se la Tavola di Milano fosse rinvenuta nel futuro da noi immaginato, darebbe del filo da torcere. Come spiegare la presenza di parlanti romagnoli in una terra tanto lontana? Tuttavia, se lo studioso alieno non riuscisse a mettere le mani su nessun documento di questo tipo - cosa altamente probabile - arriverebbe alla conclusione che la Romagna fosse completamente italianizzata nel XXI secolo. Indagando meglio potrebbe addirittura pensare che la riviera romagnola fosse in via di germanizzazione già sul finire del XX secolo, dato il numero di scritte bilingui in italiano e in tedesco, ma non potrebbe in nessun modo avere mai informazioni sensate sull'idioma gallo-italico parlato in quei distretti molto tempo prima della sua venuta sulla Terra.
Conclusioni e desiderata
Si può vedere, analizzando gli scenari linguistici da me riportati, quanto sia facile errare se si dispone di informazioni incomplete. Ci si può immettere su sentieri che portano a immaginare un passato molto diverso da quello reale. Si capisce che se già è difficile indagare la realtà servendosi della Logica, tutto diventa ancor più difficile se bisogna al contempo combattere contro coloro che diffondono disinformazione e pseudoscienza. Quando l'esoterismo stravolge la realtà dei fatti anziché spiegarla, diventa una piaga pestilenziale. Eppure il rimedio sarebbe concettualmente semplice, se a governare fosse il buonsenso: basterebbe identificare gli accademici massonici e rimuoverli, dato che contaminano la Conoscenza facendovi percolare menzogne, servendo soltanto i torbidi interessi della loro congrega abominevole.