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sabato 25 settembre 2021

UN RELITTO ETRUSCO IN TOSCANO: COTA 'TIPO DI CAMOMILLA'

Una glossa etrusca tramandata da Dioscoride è καυτάμ (kautám), che designa una pianta conosciuta in latino come Solis oculi, ossia "occhio del sole" (TLE 823). Il fitonimo è un "evidente richiamo al fuoco e alla sfera solare" (Sannibale, 2007). Appare manifesta la sua identità con il teonimo etrusco Cautha (Cauθa, Cavθa-, Cavaθa-, Kavθa, Caθa, Caθ), che designa una divinità solare femminile, le cui caratteristiche sono poco chiare. Marziano Capella (IV-V sec.) la chiama Celeritas e la definisce Solis filia "Figlia del Sole" (Lib. I, § 50). Così ha scritto: "Vos quoque Iovis filii, Pales et Favor, cum Celeritate, Solis filia, ex sexta poscimini; nam Mars Quirinus et Genius superius postulati", ossia "Anche voi Figli di Giove, Pale e Favore, con Celerità, Figlia del Sole, dalla Sesta (Regione) siete richiesti; dunque Marte Quirino e il Genio più sopra sono stati richiesti". La terminazione del fitonimo indica che con ogni probabilità il vocabolo καυτάμ è stato preso da un testo in latino, in cui figurava al caso accusativo. La consonante -τ- in luogo dell'attesa aspirata -θ- si spiega pure con il fatto che Dioscoride deve aver tratto il vocabolo da un documento in latino, anziché dalla viva voce di un informatore. 

Riporto un interessantissimo brano del medico e botanico Dioscoride (circa 40 d.C. - circa 90 d.C.). Consiste in una lista di denominazioni greche di piante; quindi sono riportate due denominazioni latine di una pianta, seguite dalla traduzione in etrusco, punico, gallico e dacico. 
 

[138]    RV: ἀμάρακον· οἱ δὲ ἀνθεμίς, οἱ δὲ λευκάνθεμον, οἱ δὲ παρθένιον, οἱ δὲ χαμαίμηλον, οἱ δὲ χρυσοκαλλίας, οἱ δὲ μαλάβαθρον, οἱ δὲ ἄνθος πεδινόν, Ῥωμαῖοι σῶλις ὄκουλουμ, οἱ δὲ μιλλεφόλιουμ, Θοῦσκοι καυτάμ, Ἄφροι θαμάκθ, Γάλλοι οὐίγνητα, Δάκοι δουώδηλα. 
 
Le denominazioni greche di piante sono in tutto otto: 
 
1) ἀμάρακον (amárakon
2) ἀνθεμίς (anthemís
3) λευκάνθεμον (leukánthemon
4) παρθένιον (parthénion
5) χαμαίμηλον (chamáimēlon
6) χρυσοκαλλίας (chrysokallías
7) μαλάβαθρον (malábathron
8) ἄνθος πεδινόν (ánthos pedinón)

La prima denominazione, amárakon, indica la maggiorana (Origanum majorana). Diverse delle altre indicano specie tra loro simili o sono addirittura sinonimi: così leukánthemon indica la margherita (Leucanthemum vulgare) mentre ánthos pedinón è un sinonimo di anthemís e di chamáimēlon, che indica la camomilla (Matricaria chamomilla), notoriamente somigliante a una margherita. Il parthénion è anch'esso una pianta il cui aspetto è affine a quello di una margherita: è ancor oggi conosciuto come partenio (Tanacetum parthenium) e detto popolarmente amarella, amareggiola, maresina, erba amara, erba 'mara, erba magra. Invece il malábathron è il cinnamomo o tejpat (Cinnamomum verum), il cui aspetto è del tutto diverso.  
Il termine latino millefolium, trascritto come μιλλεφόλιουμ, dovrebbe indicare l'achillea (Achillea millefolium); tuttavia è indicato come suo sinonimo sōlis oculum "occhio del sole", trascritto come σῶλις ὄκουλουμ. Esiste la possibilità che il fitonimo indicasse diverse specie. In ogni caso, queste sono le sue traduzioni: 
 
Etrusco: καυτάμ (kautám)
Punico: θαμάκθ (thamákth
Gallico: οὐίγνητα (vignēta
Dacico: δουώδηλα (duōdēla)  
 
Tutto ciò è estremamente utile: stupisce che queste conoscenze antiche non abbiano avuto l'utilizzo che meritavano. Si noterà l'accuratezza della trascrizione del vocabolo punico, in cui θ trascrive un'aspirata /th/, mentre in etrusco lo stesso suono non è stato reso allo stesso modo come avrebbe dovuto. Dei vocaboli della lingua punica, gallica e dacica, tratteremo in altra sede. Credo che sia necessario compiere indagini più approfondite.   

Dato l'estremo interesse dell'informazione, la riporto senza esitare, avendola estratta dal Web non senza fatica e avvalendomi del diritto di citazione. La fonte è il Grande dizionario della lingua italiana, dell'Accademia della Crusca. Questo è il link al visualizzatore: 

 
Còta1, sf. bot. ant. e dial. antemide, varietà della camomilla. 
   Anonimo guelfo, v-330-10: colte ne sono le rose e le viuole, / ed évi nata cota e coregiuola: / cierto bene credo vi paia pecato. / maraviglia mi fo, se non vi duole / di quelli che vivono d'imbolio di suola / ed ànno fatto ciascuno di sé casato. Tommaseo [s. v.]: 'Cota', nome volgare di due specie d'antemide: Anthemis cotula e Anthemis altissima di Linneo. 
Tramater [s. v.]: 'Cota', specie di pianta del genere Anthemis, che appartiene alla singenesia superflua, famiglia delle corimbifere. si distingue per le foglie due volte pennate, e le pagliette del ricettacolo terminate da una punta pungente più lunga de' fioretti. trovasi tra le biade, ed è raccolta con le altre erbe per pastura de' bestiami. 
   = Voce d’area toscana, di etimo incerto, che si congettura d’origine etnisca,  da una forma *cauta, che sarebbe derivata da Cautha, con cui gli Etruschi denominavano la * divinità del Sole ’ : per la forma circolare e il colore giallo del fiore (l’antemide fu detta dagli antichi 'occhio del sole ’).
Cfr. anche COTULA. 
 
Questa è la sacrosanta verità: il fitonimo còta è di origine etrusca: è derivato dal teonimo Cautha, il condizionale è del tutto inutile. Anche Pittau aveva sostenuto questa etimologia. 
 
Un fitonimo còtula, oggi usato per indicare la camomilla fetida (Anthemis cotula) e altre piante simili, è un evidente diminutivo di còta. Tuttavia i romanisti hanno pensato di forgiare un'etimologia fittizia dal greco  κοτύλη (kotýle), che significa "ciotola, coppa, tazzina". L'idea malsana è che la parola greca indichi gli organi concavi, a forma di coppa, di questo genere di fiori. Contro gli autori di queste invereconde manipolazioni dovrebbero essere scagliate maledizioni nell'arcana lingua di Hyperborea, tratte dal Libro di Eibon!    

Mi si accuserà di essere un complottista, ma nel nostro mondo alcuni complotti esistono realmente, non sempre sono fantasie distorte di paranoici terminali o di gente scema come le feci dei bradipi. Nascondere qualcosa di capitale importanza, trattarlo come polvere sotto un tappeto, questa è una strategia abbastanza frequente nel mondo accademico. Queste evidenze possono soltanto mostrare una cosa: la conoscenza della lingua degli Etruschi è possibile ma in qualche modo interdetta. Per quanto difficile a ottenersi, non viene resa pubblica, si tende a nasconderla, viene ostacolata con ogni mezzo. Alcuni romanisti hanno trovato la verità su un'etimologia e l'hanno esposta in un articoletto dell'Accademia della Crusca, non l'hanno potuta negare, però l'hanno messa in qualche cantuccio recondito, come se fosse una bazzecola, una bagatella.  

Possibile etimologia di Cautha

In greco esistono parole derivate da una radice *kau- "ardere, bruciare", che non ha convincenti corrispondenze indoeuropee. Con ogni probabilità questa radice è un antichissimo relitto pre-ellenico che sopravviveva anche in etrusco. Ecco alcuni dati interessanti: 

καίω (káiō) "io brucio" 
 
Semantica: 
  1) accendere, mettere sul fuoco 
  2) bruciare, ardere 
  3) bruciare per il gelo (es. per la brina)
  4) ardere di passione (voce passiva)
  5) fare un fuoco per sé (voce media)
  6) cauterizzare 

Alcune parole derivate: 

καυστός (kaustós) "bruciato" 
   variante (nelle iscrizioni): καυτός (kautós
καῦμα (kâuma) "calore del sole", "ardore", "febbre", "marchio 
   a fuoco" 
καυαλέος (kaualéos) "calore ardente" (eolico) 
καημένος (kaēménos) "povero" 
κᾶλον (kâlon) "legna secca" 
καῦσις (kâusis) = καῦμα
καύσων (káusōn) "calore ardente", "scirocco"  
κηώδης (kēṓdēs) "fragrante, odoroso" (omerico) 
κήλεος (kḗleos) "ardente, sfolgorante"  
πυρκαϊά (pyrkaïá) "pira funebre", "rovine bruciate" 

A partire dai dati riportati sopra, è stata ricostruita una radice indoeuropea *k(')eh2w- "ardere" (notazione laringale), di cui però non esistono paralleli sicuri al di fuori del greco. Pokorny ha la seguente ricostruzione: *k̂ēu- / *k̂ǝu- / *k̂ū- "anzünden, verbrennen", ossia "accendere, bruciare", apponendovi un punto interrogativo e mostrando una certa dose di scetticismo. Timidamente lo studioso ha proposto un esile riscontro in baltico: lituano kūlėti "brandig werden, vom Getreide", ossia "divenire cancrenoso (detto del grano)"; kūlė̃ "Getreidebrand", ossia "cancrena del grano" (fungo o muffa che colpisce i cereali). Possiamo aggiungere la parola lettone kūla, che dovrebbe corrispondere al lituano kūlė̃. Si tratta del carbone dei cereali, una malattia delle piante caratterizzata dalla formazione di una massa nera, dovuta ai funghi Ustilaginali parassiti. Attacca i cereali (frumento, avena ecc.) e altre piante (aglio, cipolla, scorzonera) con danni talvolta molto gravi; con "carbone" si denominano anche i diversi funghi. Si segnala la grande difficoltà di trovare informazioni su queste parole in Google. Detto questo, secondo Pokorny, la massa muffosa nera doveva trarre la propria denominazione da un'antica radice indicante la combustione: 
"cosa bruciata" => "carbone" => "carbone dei cereali"
Non sono sicuro di questa etimologia: le parole baltiche citate potrebbero anche essere resti di un sostrato pre-indoeuropeo (cosa plausibile, essendo termini agricoli): non è nemmeno detto che si possa dividere kūl- in kū-l-.  

Perché gli indoeuropeisti tendono a ricostruire una consonante palatale k'- in questa radice, quando né i dati del greco né quelli molto dubbi del baltico ne offrono una giustificazione? Credo che sia per questo: si pensava di trovare esiti di *k'eh2w- nelle lingue iraniche. Anche se Pokorny non menziona esiti iranici, ricostruisce una radice *k̂euk- "leuchten, hell, weiß sein, glühen", ossia "risplendere, chiaro, essere bianco, splendere". Ne riporta quindi questi esiti: 
 
Avestico: saočint- "brennend" ("ardente")
Avestico: saočayeiti "inflammat = incitat"
Persiano moderno: sōxtan "anzünden, verbrennen" 
       ("accendere, bruciare")
Avestico: upa-suxta- "angezündet" ("incendiato") 
Avestico: ātrǝ-saoka- (m.) "Feuerbrand" ("tizzone")
Persiano moderno: sōg "Trauer, Kummer" ("dolore"); 
     Armeno: sug "dolore" (è un prestito iranico) 
Avestico: suxra- "leuchtend (vom Feuer)", "splendente 
    dal fuoco")
Persiano moderno: surx "rot" ("rosso") 

Come si vede, è una giungla di possibilità confuse.
 
Checché se ne dica, la radice *kau- "bruciare" presente in greco è di origine ultima tutt'altro che chiara e non può essere affatto garantita la sua origine nelle Steppe. Ovviamente ci sono alcuni moderni eredi dei Neogrammatici, pronti a strepitare e a giurare il contrario, per giunta accusandomi di essere "dogmatico". Fanno così perché prendono ordini da Dugin. 
 
Intanto ricostruisco questa radice: 
 
Proto-tirrenico: *kawa- "bruciare", "splendere"  
    Etrusco: Kav(a)θa "La Splendente"      
 
Il suffisso -θa è un marcatore del genere femminile, che troviamo nella parola lautniθa "liberta", derivata da lautni "liberto", a sua volta da lautn "gente, famiglia". Notevole è l'antroponimo femminile Pevθa, la cui radice è quella di peva- "miele", attestata nel Liber Linteus: pevaχ vinum "vino mielato", "mulsum". Evidentemente Pevθa significa "Ape femmina" ed è simile nella formazione al greco μέλισσα (mélissa) "ape", derivato da μέλι (méli) "miele". Si noti che il genitivo di Cauθa è sigmatico: Cauθas, Cauθaś, Kavθaś "di Cautha".   

Cautes e Cautopates 
 
Il culto di Mithra, molto diffuso durante l'Impero, era di chiara origine persiana, pur acquisendo nel contesto romano caratteristiche proprie. L'iconografia di questa religione mostra che Mithra aveva due assistenti, i cui nomi erano Cautes e Cautopates. Erano due tedofori. Cautes aveva una torcia puntata verso l'alto, mentre Cautopates aveva una torcia puntata verso il basso. Indossavano pantaloni frigi e berretto frigio. Assistevano alla Tauroctonia, così come alla nascita di Mithra; dal loro vestiario nacque l'equivoco di chi li ha confusi con pastori. Ecco perché circolano nel Web vignette memetiche in cui si dice che alla nascita del Dio hanno assistito i pastori, come quelli che hanno assistito alla nascita di Gesù a Betlemme. Cautes e Cautopates hanno una connessione con il sorgere del sole e con il suo tramonto: le loro torce sembrano alludere alla grande luminaria celeste. In diverse tradizioni si trovano figure simili. È stato fatto un paragone con gli Ashvin indiani e con i Dioscuri. Si deve però tener conto che tutti i culti solari hanno per necessità qualcosa di simile, traendo il loro fondamento da un fenomeno fisico percepibile dall'intero genere umano. 
I due teonimi mithraici non hanno tuttora una spiegazione convincente. Non sono state proposte etimologie, a quanto ne sappia. Questo è molto sorprendente. Non è detto che Cautes e Cautopates siano nomi di origine persiana, visto che nelle lingue iraniche non si è riusciti a trovare alcun parallelismo. Sostengo che potrebbe trattarsi invece di elementi etruschi integrati nella religione di Mithra, per come era praticata nell'Impero Romano.  

sabato 10 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI MELQART

Melqart (fenicio Mlqrt /mil'qart/) è il nome della divinità tutelare della città fenicia di Tiro. Si hanno anche le trascrizioni Melkart, Melkarth e Melgart, meno precise; la forma accadica è Milqartu. L'etimologia del teonimo è trasparente. Melqart significa "Re della Città": deriva da mlk /milk/ "re" e da qrt /qart/ "città". La cosa più degna di nota a questo riguardo è il risultato dello scontro tra il fonema /k/ di /milk/ e il fonema /q/ (occlusiva uvulare) di /qart/: il primo scompare, assorbito dal secondo, in modo tale da evitare ogni cacofonia. Il fenicio mlk "re" corrisponde all'ebraico מֶלֶךְ melekh "re", mentre qrt "città" corrisponde all'ebraico קִרְיָה qiryāh "città; accampamento" (stato costrutto קִרְיַת־ qiryath-; plurale קְרָיוֹת qərāyōth). Il corrispondente vocabolo arabo è قَرْيَة qarya "città". 
 
Melqart aveva l'epiteto Bʽl Ṣr /baˁal 'tsˀu:r/ "Signore di Tiro". I Greci lo hanno identificato con Eracle. Per i Romani egli era Ercole di Tiro. L'interpretatio graeca e l'interpretatio romana avevano il loro fondamento nelle caratteristiche salienti della divinità in questione, di cui ogni anno si festeggiava il risveglio, chiamato in greco ἔγερσις (égersis), in corrispondenza del mese di febbraio - e non del solstizio d'inverno. Il ciclo vita-morte-resurrezione era il significato profondo di questa festa, in occasione della quale i marinai di Tiro si abbandonavano a danze vorticose e a sfrenatezze.   
 
Alcune citazioni interessanti 
 
Così scrisse Erodoto (Storie, libro 2, 44): 
 
[1] καὶ θέλων δὲ τούτων πέρι σαφές τι εἰδέναι ἐξ ὧν οἷόν τε ἦν, ἔπλευσα καὶ ἐς Τύρον τῆς Φοινίκης, πυνθανόμενος αὐτόθι εἶναι ἱρὸν Ἡρακλέος ἅγιον. [2] καὶ εἶδον πλουσίως κατεσκευασμένον ἄλλοισί τε πολλοῖσι ἀναθήμασι, καὶ ἐν αὐτῷ ἦσαν στῆλαι δύο, ἣ μὲν χρυσοῦ ἀπέφθου, ἣ δὲ σμαράγδου λίθου λάμποντος τὰς νύκτας μέγαθος. ἐς λόγους δὲ ἐλθὼν τοῖσι ἱρεῦσι τοῦ θεοῦ εἰρόμην ὁκόσος χρόνος εἴη ἐξ οὗ σφι τὸ ἱρὸν ἵδρυται. [3] εὗρον δὲ οὐδὲ τούτους τοῖσι Ἕλλησι συμφερομένους: ἔφασαν γὰρ ἅμα Τύρῳ οἰκιζομένῃ καὶ τὸ ἱρὸν τοῦ θεοῦ ἱδρυθῆναι, εἶναι δὲ ἔτεα ἀπ᾽ οὗ Τύρον οἰκέουσι τριηκόσια καὶ δισχίλια. εἶδον δὲ ἐν τῇ Τύρῳ καὶ ἄλλο ἱρὸν Ἡρακλέος ἐπωνυμίην ἔχοντος Θασίου εἶναι: [4] ἀπικόμην δὲ καὶ ἐς Θάσον, ἐν τῇ εὗρον ἱρὸν Ἡρακλέος ὑπὸ Φοινίκων ἱδρυμένον, οἳ κατ᾽ Εὐρώπης ζήτησιν ἐκπλώσαντες Θάσον ἔκτισαν: καὶ ταῦτα καὶ πέντε γενεῇσι ἀνδρῶν πρότερα ἐστὶ ἢ τὸν Ἀμφιτρύωνος Ἡρακλέα ἐν τῇ Ἑλλάδι γενέσθαι. [5] τὰ μέν νυν ἱστορημένα δηλοῖ σαφέως παλαιὸν θεὸν Ἡρακλέα ἐόντα, καὶ δοκέουσι δέ μοι οὗτοι ὀρθότατα Ἑλλήνων ποιέειν, οἳ διξὰ Ἡράκλεια ἱδρυσάμενοι ἔκτηνται, καὶ τῷ μὲν ὡς ἀθανάτῳ Ὀλυμπίῳ δὲ ἐπωνυμίην θύουσι, τῷ δὲ ἑτέρῳ ὡς ἥρωι ἐναγίζουσι.
 
"Volendo io su questi fatti sapere qualche cosa di preciso da coloro che potevano esserne informati, feci vela anche per Tiro di Fenicia, essendo a conoscenza che colà c'era un venerato santuario di Eracle. E vidi il tempio riccamente adorno di molti doni votivi, tra l'altro c'erano due stele, una d'oro puro, l'altra di smeraldo, che nella notte emanava intensi bagliori. Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiesi loro da quanto tempo era stato innalzato il santuario. Ma trovai che neppure quelli s'accordavano con i Greci poiché assicuravano che la costruzione del tempio era stata contemporanea alla fondazione di Tiro e Tiro era abitata già da 2300 anni. Siccome, poi, a Tiro avevo visto un altro tempio di Eracle, detto Tasio, mi recai anche a Taso e vi trovai il santuario di Eracle fondato dai Fenici, i quali, messisi in mare per ricercare Europa, avevano colonizzato Taso: e ciò era avvenuto ben cinque generazioni umane prima che, in Grecia, venisse alla luce Eracle, figlio di Anfitrione. Le mie ricerche, dunque, dimostrano all'evidenza l'antichità del dio Eracle. E a mio parere, fanno molto bene quei Greci che hanno santuari eretti a due Eracli: a uno, che chiamano Olimpio, offrono sacrifici come a un dio; all'altro onori funebri come a un eroe." 
 
Flavio Giuseppe scrisse quanto segue su Hiram I, Re di Tiro (circa 965 a.C. - 935 a.C.), citando come fonte Menandro, che tradusse testi dal fenicio al greco (Antichità giudaiche, libro VIII, 144-146): 
 
[144] Μέμνηται τούτων τῶν δύο βασιλέων καὶ Μένανδρος ὁ μεταφράσας ἀπὸ τῆς Φοινίκων διαλέκτου τὰ Τυρίων ἀρχεῖα εἰς τὴν Ἑλληνικὴν φωνὴν λέγων οὕτως· ‘τελευτήσαντος δὲ Ἀβιβάλου διεδέξατο τὴν βασιλείαν παρ᾽ αὐτοῦ υἱὸς Εἴρωμος, ὃς βιώσας ἔτη πεντηκοντατρία ἐβασίλευσε τριάκοντα καὶ τέσσαρα. [145] οὗτος ἔχωσε τὸ Εὐρύχωρον τόν τε χρυσοῦν κίονα τὸν ἐν τοῖς τοῦ Διὸς ἀνέθηκεν· ἔτι τε ὕλην ξύλων ἀπελθὼν ἔκοψεν ἀπὸ τοῦ ὄρους τοῦ λεγομένου Λιβάνου εἰς τὰς τῶν ἱερῶν στέγας· [146] καθελών τε τὰ ἀρχαῖα ἱερὰ καὶ ναὸν ᾠκοδόμησε τοῦ Ἡρακλέους καὶ τῆς Ἀστάρτης, πρῶτός τε τοῦ Ἡρακλέους ἔγερσιν ἐποιήσατο ἐν τῷ Περιτίῳ μηνί· τοῖς τε Ἰτυκαίοις ἐπεστρατεύσατο μὴ ἀποδιδοῦσι τοὺς φόρους καὶ ὑποτάξας πάλιν αὑτῷ ἀνέστρεψεν. ἐπὶ τούτου ἦν Ἀβδήμονος παῖς νεώτερος, ὃς ἀεὶ ἐνίκα τὰ προβλήματα, ἃ ἐπέτασσε Σολόμων ὁ Ἱεροσολύμων βασιλεύς.’
 
"144 Di questi due re fa menzione anche Menandro che tradusse le memorie dei Tirii dalla lingua fenicia alla parlata greca, con queste parole: «Morto Abibalo, gli succedette nel regno suo figlio Eirom, il quale visse cinquantatre anni e ne regnò trentaquattro;
145 questi realizzò l'Euruchoron e innalzò una colonna d'oro nel tempio di Zeus; viaggiò e tagliò gran copia di legname dal monte chiamato Libano per i tetti dei templi,
146 abbatté antichi templi e ne eresse di nuovi ad Eracle e ad Astarte; e fu il primo che celebrò la risurrezione di Eracle nel mese di Peritio; fece una spedizione contro gli Itikai, che non pagavano i tributi e, quando li ebbe assoggettati, se ne tornò indietro. Durante il suo regno, il giovanotto Abdemone aveva sempre successo nella soluzione dei problemi che gli erano sottoposti da Salomone, re di Gerusalemme.»" 
(Edizione UTET, a cura di Luigi Moraldi) 

Il mese macedone di Peritios corrispondeva al nostro febbraio.

Le Colonne d'Ercole nell'antichità omerica erano immaginate a Oriente, all'ingresso del Mar Nero. In seguito, con l'ampliarsi degli orizzonti della civiltà ellenica e con l'espansone del dominio di Roma, anche il mito cambiò per influsso fenicio. Proprio due colonne di bronzo ornate da iscrizioni si trovavano in un famoso tempio di Melqart fondato dalle genti di Tiro, nel luogo di Gades (attuale Cadice). Strabone descrisse il tempio, ma si mostrò scettico a proposito dell'identificazione  delle famose Colonne d'Ercole con i manufatti citati. Queste cose scrisse nella Geografia, volume 2, libro 3, capitolo 5: 
 
περὶ δὲ τῆς κτίσεως τῶν Γαδείρων τοιαῦτα λέγοντες μέμνηνται Γαδιτανοὶ χρησμοῦ τινος, ὃν γενέσθαι φασὶ Τυρίοις κελεύοντα ἐπὶ τὰς Ἡρακλέους στήλας ἀποικίαν πέμψαι: τοὺς δὲ πεμφθέντας κατασκοπῆς χάριν, ἐπειδὴ κατὰ τὸν πορθμὸν ἐγένοντο τὸν κατὰ τὴν Κάλπην, νομίσαντας τέρμονας εἶναι τῆς οἰκουμένης καὶ τῆς Ἡρακλέους στρατείας τὰ ἄκρα ποιοῦντα τὸν πορθμόν, ταῦτα δ᾽ αὐτὰ καὶ στήλας ὀνομάζειν τὸ λόγιον, κατασχεῖν εἴς τι χωρίον ἐντὸς τῶν στενῶν, ἐν ᾧ νῦν ἔστιν ἡ τῶν Ἐξιτανῶν πόλις: ἐνταῦθα δὲ θύσαντας μὴ γενομένων καλῶν τῶν ἱερείων ἀνακάμψαι πάλιν. χρόνῳ δ᾽ ὕστερον τοὺς πεμφθέντας προελθεῖν ἔξω τοῦ πορθμοῦ περὶ χιλίους καὶ πεντακοσίους σταδίους εἰς νῆσον Ἡρακλέους ἱερὰν κειμένην κατὰ πόλιν Ὀνόβαν τῆς Ἰβηρίας, καὶ νομίσαντας ἐνταῦθα εἶναι τὰς στήλας θῦσαι τῷ θεῷ, μὴ γενομένων δὲ πάλιν καλῶν τῶν ἱερείων ἐπανελθεῖν οἴκαδε. τῷ δὲ τρίτῳ στόλῳ τοὺς ἀφικομένους Γάδειρα κτίσαι καὶ ἱδρύσασθαι τὸ ἱερὸν ἐπὶ τοῖς ἑῴοις τῆς νήσου, τὴν δὲ πόλιν ἐπὶ τοῖς ἑσπερίοις. διὰ δὲ τοῦτο τοὺς μὲν δοκεῖν τὰ ἄκρα τοῦ πορθμοῦ τὰς στήλας εἶναι, τοὺς δὲ τὰ Γάδειρα, τοὺς δ᾽ ἔτι πορρώτερον τῶν Γαδείρων ἔξω προκεῖσθαι. ἔνιοι δὲ στήλας ὑπέλαβον τὴν Κάλπην καὶ τὴν Ἀβίλυκα, τὸ ἀντικείμενον ὄρος ἐκ τῆς Λιβύης, ὅ φησιν Ἐρατοσθένης ἐν τῷ Μεταγωνίῳ νομαδικῷ ἔθνει ἱδρῦσθαι: οἱ δὲ τὰς πλησίον ἑκατέρου νησῖδας, ὧν τὴν ἑτέραν Ἥρας νῆσον ὀνομάζουσιν. Ἀρτεμίδωρος δὲ τὴν μὲν τῆς Ἥρας νῆσον καὶ ἱερὸν λέγει αὐτῆς, ἄλλην δέ φησιν εἶναί τινα, οὐδ᾽ Ἀβίλυκα ὄρος οὐδὲ Μεταγώνιον ἔθνος. καὶ τὰς Πλαγκτὰς δὲ καὶ τὰς Συμπληγάδας ἐνθάδε μεταφέρουσί τινες, ταύτας εἶναι νομίζοντες στήλας, ἃς Πίνδαρος καλεῖ πύλας Γαδειρίδας, εἰς ταύτας ὑστάτας ἀφῖχθαι φάσκων τὸν Ἡρακλέα. καὶ Δικαίαρχος δὲ καὶ Ἐρατοσθένης καὶ Πολύβιος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν Ἑλλήνων περὶ τὸν πορθμὸν ἀποφαίνουσι τὰς στήλας. οἱ δὲ Ἴβηρες καὶ Λίβυες ἐν Γαδείροις εἶναι φασίν: οὐδὲν γὰρ ἐοικέναι στήλαις τὰ περὶ τὸν πορθμόν. οἱ δὲ τὰς ἐν τῷ Ἡρακλείῳ τῷ ἐν Γαδείροις χαλκᾶς ὀκταπήχεις, ἐν αἷς ἀναγέγραπται τὸ ἀνάλωμα τῆς κατασκευῆς τοῦ ἱεροῦ, ταύτας λέγεσθαί φασιν: ἐφ᾽ ἃς ἐρχόμενοι οἱ τελέσαντες τὸν πλοῦν καὶ θύοντες τῷ Ἡρακλεῖ διαβοηθῆναι παρεσκεύασαν, ὡς τοῦτ᾽ εἶναι καὶ γῆς καὶ θαλάττης τὸ πέρας. τοῦτον δ᾽ εἶναι πιθανώτατον καὶ Ποσειδώνιος ἡγεῖται τὸν λόγον, τὸν δὲ χρησμὸν καὶ τοὺς πολλοὺς ἀποστόλους ψεῦσμα Φοινικικόν.  

"Intorno poi alla fondazione di Gadi quegli abitanti ricordano un certo oracolo, dal quale dicono che fu già tempo comandato ai Tirii d’inviare una colonia alle Colonne d’Ercole: che le persone spedite ad esplorare il luogo, essendo pervenute allo stretto vicino a Calpe, credendo che que’ promontorii dai quali esso è formato fossero i termini della terra abitata e della spedizione di Ercole (e che per questo l’oracolo le avesse denominate Colonne), approdarono al di qua dello stretto medesimo in quel luogo nel quale ora si trova la città degli Assitani; ma che avendo poi quivi sagrificato e vedendo che gli augurii non riuscivauo favorevoli se ne tornarono al proprio paese. Di lì a qualche tempo (soggiungono) furono spediti alcuni altri, i quali si spinsero fino al di là dallo stretto lo spazio di circa mille e cinquecento stadii, e trovarono un’isola consacrata ad Ercole, posta rimpetto ad Onoba città dell’Iberia. E pensando che quelle fossero le Colonne, sagrificarono al Dio. Ma tornando contrarii gli indizii rimpatriarono anch’essi. Se non che essendo inviata una terza missione fondarono Gadi, fabbricando il tempio di Ercole nelle parti orientali dell’isola, e la città nelle parti occidentali. Di qui poi è venuto che sotto il nome di Colonne alcuni intendono i promontorii dello stretto, altri intendono Gadi; ed altri un luogo ancor più lontano. V’ha chi stima che le Colonne siano Calpe ed Abila, che è un monte di Libia opposto a Calpe, e situato secondo Eratostene fra’ Metagoni, schiatta di nomadi. Altri le crede invece quelle due isolette cbe stanno presso ai monti già mentovati, ed una delle quali è chiamata isola di Giunone. Anche Artemidoro parla dell’isola di Giunone e del suo tempio, ma nega che ne sussista alcun’altra, nè il monte Abila nè la gente dei Metagoni. Alcuni poi riferiscono a que’ luoghi le Plancte e le Simplegadi, e tengono che queste siano le Colonne da Pindaro denominate Porte Gaditane, affermando che furon l’ultimo punto a cui Ercole giunse. Del resto Dicearco, Eratostene, Polibio e la maggior parte degli scrittori greci sogliono collocar le Colonne vicino allo stretto; ma gli abitanti d’Iberia e di Libia affermano che sotto quel nome debba intendersi Gadi; perchè i luoghi intorno allo stretto non rendono punto immagine di colonne. V’ha eziandio chi vuol cbe s’intendano le colonne di bronzo di otto cubiti che sono nel tempio d’Ercole in Gadi, su le quali sta inscritto quanto fu speso nella fondazione del tempio stesso. Queste (dicono essi) son quelle colonne alle quali pervenivano i navigatori come ad ultimo punto dei loro viaggi, ed avendo in costume di far quivi sagrifizii ad Ercole, s’adoperarono a diffondere questa opinione che le dice l’estremo confine e della terra e del mare. Anche Posidonio stima che questa opinione sia più credibile di tutte, e che l’oracolo e le molte spedizioni ricordate poc’anzi siano una menzogna fenicia."
(traduzione di Francesco Ambrosoli, 1832) 

Nell'Antico Testamento si trova un riferimento a Melqart, che pure nn viene esplicitamente nominato: è però ben riconoscibile dai suoi attributi. Questo è il testo (1 Re 18, 27): 
 
וַיְהִ֨י בַֽצָּהֳרַ֜יִם וַיְהַתֵּ֧ל בָּהֶ֣ם אֵלִיָּ֗הוּ וַיֹּ֙אמֶר֙ קִרְא֤וּ בְקֹול־גָּדֹול֙ כִּֽי־אֱלֹהִ֣ים ה֔וּא כִּ֣י שִׂ֧יחַ וְכִֽי־שִׂ֛יג לֹ֖ו וְכִֽי־דֶ֣רֶךְ לֹ֑ו אוּלַ֛י יָשֵׁ֥ן ה֖וּא וְיִקָֽץ׃
 
"Essendo già mezzogiorno, Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: «Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà»." 

Questo è un riferimento satirico abbastanza caustico alle fatiche di Melqart, ai suoi viaggi e al suo risveglio.
 
Il Signore di Tiro e l'Ade 
 
Le connessioni di Melqart con l'Oltretomba non mancano. È stato ipotizzato che nel teonimo la città faccia riferimento non soltanto a Tiro, ma soprattutto al Regno dei Morti. Sappiamo che questa idea dell'Ade come città nacque tra i Sumeri. URUGAL "Grande Città" è uno dei nomi sumerici dell'ultima destinazione di tutti i viventi. Variante: ERIGAL. L'aggettivo in sumerico segue sempre il nome: GAL significa "grande", mentre URU significa "città" (variante: IRI). In accadico questo toponimo arcano è stato preso a prestito come IRKALLA o ERKALLU. Del resto anche l'Eracle greco è strettamente connesso con l'Oltretomba. In origine era infatti un eroe mortale, elevato poi al rango di divinità per le sue portentose imprese. Nell'Odissea (libro XI) si menziona l'incontro tra Ulisse e l'ombra di Eracle, subito specificando che si tratta di un mero simulacro, dato che l'eroe siede alla mensa degli Dei dell'Olimpo. 
 
τὸν δὲ μέτ’ εἰσενόησα βίην Ἡρακληείην,
εἴδωλον· αὐτὸς δὲ μετ’ ἀθανάτοισι θεοῖσι
τέρπεται ἐν θαλίῃς καὶ ἔχει καλλίσφυρον Ἥβην. 

«Subito dopo intravidi il vigore di Eracle, |
la sua immagine; ma lui invece con gli dèi immortali |
gode a banchetto e sua è Ebe dalle belle caviglie»
 
Ovviamente si tratta di un'aggiunta posticcia, di un artifizio che serviva a evitare la contraddizione con la tradizione più antica, anteriore all'importazione del mito cananeo della resurrezione dell'eroe divinizzato. 
 
Melqart a Cartagine 
 
Cartagine mantenne a lungo un legame particolare con Tiro, tanto che fino all'epoca ellenistica versava un notevole tributo alla città madre, pari alla decima parte degli introiti annui del tesoro. Non sorprende dunque sapere che l'Eracle di Tiro vi era molto venerato. La pronuncia punica di Melqart era /mil'kar/, dati gli sviluppi che la lingua subì a Cartagine nel corso dei secoli. L'antica consonante /k/ era divenuta una fricativa /χ/, mentre la consonante /q/ era divenuta /k/. La desinenza tipica del femminile /-t/, che in genere divenne /-θ/, qui cadde del tutto, forse per evitare l'incongruenza semantica, dato che il teonimo è maschile. 
 
La pronuncia del punico era molto sincopata: possiamo dire che i Cartaginesi "mangiavano le parole". Analizziamo alcuni importanti antroponimi formati a partire dal nome di Melqart. 
i) Il punico ʽbdmlqrt /amil'kar/, da un più antico /ˁabdmil'qart/, significa "Servo di Melqart". In latino il nome fu preso a prestito con l'accento sulla penultima sillaba: Hamilcar, Amilcar /(h)a'milkar/
ii) Il punico ḥmlqrt /imil'kar/, da un più antico /ħi:mil'qart/, significa "Fratello di Melqart". Si può immaginare che si sia in parte confuso col precedente /amil'kar/ per via del suono molto simile nelle fasi tarde della lingua.   
ii) Il punico bdmlqrt /bomil'kar/, da un più antico /bo:dmil'qart/, significa "Nella mano di Melqart". Il prefisso b- "in" aggiunto a yd /jo:d/ ha dato bd /bo:d/ "nella mano". In latino il nome fu preso a prestito con l'accento sulla penultima sillaba: Bomilcar /bo'milkar/; la quantità della prima sillaba è incerta.  
 
Melqart in Sicilia 
 
Sono state trovate monete d'argento con l'immagine di una testa d'uomo provvisto di orecchini, simile dalle raffigurazioni greche di Eracle, e la scritta RŠ MLQRT, ossia "Promontorio di Melqart" (alla lettera "Testa di Melqart", pronuncia fenicia /ru:ʃ mil'qart/, punico /rusmil'kar/; trascrizioni comuni e inesatte sono Ras Melqart e Rash Melqart). Queste monete sono tetradrammi, coniati a partire dalla metà del IV secolo a. C. L'identificazione del toponimo non è sicura. Molti hanno creduto che la monetazione indicasse Cefalù, ma questa ipotesi è infine stata smentita (cfr. Kōkalos: Studi pubblicati dall'Istituto di Storia Antica dell'Università di Palermo, volume 20, pag. 121). Nonostante ciò, questa errata identificazione è tuttora presente in modo pervasivo nel Web, trovandosi nella stessa Wikipedia come data per assodata. Regna una grande confusione: c'è chi propone l'identificazione con Eraclea Minoa, con Lilibeo (attuale Marsala) e addirittura con Selinunte. Eraclea Minoa non era uno stanziamento punico, ma aveva avuto una notevole influenza fenicia, traeva il suo nome da Eracle e aveva un nome non greco, Makara, che potrebbe ben essere derivato da Melqart. Secondo Leuven (1989), RŠ MLQRT non indicherebbe un toponimo, bensì un'istituzione dell'amministrazione cartaginese in Sicilia. Un'idea molto simile è sostenuta da Bonnet e Manfredi (1995): significherebbe "capi" o "eletti", nonostante non sia presente alcun suffisso per marcare il plurale. Ciò è tuttavia smentito con sicurezza da due iscrizioni trovate a Cartagine, che contengono la locuzione ʻM RŠ MLQRT "assemblea del popolo del Promontorio di Melqart"). 
 
Melqart in Sardegna 
 
Tra i Sardi il nome di Melqart è stato adattato in un modo davvero singolare: Makeris. Questo pone una serie di problemi a livello fonetico, al punto che Edward Lipiński si è opposto a questa identificazione (Dieux et Déesses de l'univers phénicien et punique, 1995). Con ogni probabilità Makeris è il prodotto di una metatesi da un più chiaro *Mekari-, derivato direttamente dal punico /mil'kar/. In italiano è spesso reso con Maceride.
 
Pausania riporta questo nella Periegesi della Grecia, volume IV (libro 10, capitolo 17, 1-2): 
 
[1] βαρβάρων δὲ τῶν πρὸς τῇ ἑσπέρᾳ οἱ ἔχοντες Σαρδώ, εἰκόνα οὗτοι χαλκῆν τοῦ ἐπωνύμου σφίσιν ἀπέστειλαν. ἡ δὲ Σαρδὼ μέγεθος μὲν καὶ εὐδαιμονίαν ἐστὶν ὁμοία ταῖς μάλιστα ἐπαινουμέναις: ὄνομα δὲ αὐτῇ τὸ ἀρχαῖον ὅ τι μὲν ὑπὸ τῶν ἐπιχωρίων ἐγένετο οὐκ οἶδα, Ἑλλήνων δὲ οἱ κατ᾽ ἐμπορίαν ἐσπλέοντες Ἰχνοῦσσαν ἐκάλεσαν, ὅτι τὸ σχῆμα τῇ νήσῳ κατ᾽ ἴχνος μάλιστά ἐστιν ἀνθρώπου. μῆκος δὲ ἀπ᾽ αὐτῆς εἴκοσι στάδιοι καὶ ἑκατόν εἰσι καὶ χίλιοι, εὖρος δὲ ἐς εἴκοσί τε καὶ τετρακοσίους προήκει.
[2] πρῶτοι δὲ διαβῆναι λέγονται ναυσὶν ἐς τὴν νῆσον Λίβυες: ἡγεμὼν δὲ τοῖς Λίβυσιν ἦν Σάρδος ὁ Μακήριδος, Ἡρακλέους δὲ ἐπονομασθέντος ὑπὸ Αἰγυπτίων τε καὶ Λιβύων. Μακήριδι μὲν δὴ αὐτῷ τὰ ἐπιφανέστατα ὁδὸς ἐγένετο ἡ ἐς Δελφούς: Σάρδῳ δὲ ἡγεμονία τε ὑπῆρξε τῶν Λιβύων ἡ ἐς τὴν Ἰχνοῦσσαν καὶ τὸ ὄνομα ἀπὸ τοῦ Σάρδου τούτου μετέβαλεν ἡ νῆσος. οὐ μέντοι τούς γε αὐτόχθονας ἐξέβαλεν ὁ τῶν Λιβύων στόλος, σύνοικοι δὲ ὑπ᾽ αὐτῶν οἱ ἐπελθόντες ἀνάγκῃ μᾶλλον ἢ ὑπὸ εὐνοίας ἐδέχθησαν. καὶ πόλεις μὲν οὔτε οἱ Λίβυες οὔτε τὸ γένος τὸ ἐγχώριον ἠπίσταντο ποιήσασθαι: σποράδες δὲ ἐν καλύβαις τε καὶ σπηλαίοις, ὡς ἕκαστοι τύχοιεν, ᾤκησαν.
 
Questa è la traduzione fatta da Antonio Nibby (1817), che per gli standard moderni sarebbe considerata deprecabile: 

"1. De’ barbari occidentali quelli, che occupano la Sardegna mandarono un ritratto di bronzo di quello, che loro diede il nome.
2. La Sardegna per grandezza, ed abbondanza non la cede alle isole più lodate: quale fosse l’antico nome, che dai nazionali avea, nol so; que’ Greci però, che navigarono per commercio la chiamarono Icnusa, perchè la figura della isola è molto simile alla impronta del piede umano. La sua lunghezza è di mille, e centoventi stadj; di quattrocento settanta la sua larghezza. Si dice, che i primi a passare con navi nella isola furono Affricani, e loro condottiere fu Sardo di Maceride, di Ercole, al quale si dà il soprannome di Egizio, e di Affricano. Molto celebre fu il viaggio di Maceride a Delfo. Sardo poi portò gli Affricani in Icnusa, e perciò l’isola cangiò il nome nel suo. La flotta degli Affricani non discacciò gl’indigeni; ma questi li accolsero più per forza, che per benevolenza. Nè gli Affricani, nè i naturali sapevano edificare città; ma abitavano dispersi in capanne, e spelonche come potevano."
 
Melqart in Britannia 
 
Riporto alcune interessantissime informazioni tratte dal lavoro di Corinne Bonnet, Melqart in Occidente. Percorsi di appropriazione e di acculturazione (in  P.  Bernardini  –  R.  Zucca, Il Mediterraneo di Herakles, Roma, 2005): 
 
"Persino nella lontanissima Corstopitum (Corbridge), lungo il vallo di Adriano, due altari gemelli associano in una dedica greca l'Eracle di Tiro (con interpretatio  graeca)  ad Astarte (senza interpretatio!), come se non ci fosse Melqart senza Astarte." 

martedì 6 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI MOLOCH

Quando sentiamo menzionare il nome Moloch (scritto anche Moloc), la mente va subito a un demone che macina vite umane. Un mostro che si nutre delle persone immolate in suo onore. Si può parlare di Moloch anche in senso figurato, quando si intende attribuire a una persona o a un'istituzione un carattere brutale, che si manifesta con una sfrenata bramosia di potere assoluto e di distruzione. Una tipica frase di esempio: "Il mondo del lavoro è un Moloch"

Detto questo, Moloch è generalmente inteso come il nome di una divinità cananea. La forma ebraica del teonimo è מֹלֶךְ Mōlekh ed appare molte volte nell'Antico Testamento, in particolare nel Levitico. Si trovano anche traslitterazioni diverse, come Molech e Molek. La trascrizione greca è Μόλοχ. In latino è scritto Moloch. Stando alle Scritture, il sacrificio delle vittime, che erano bambini, era compiuto tramite olocausto: tutta la carne veniva bruciata su un altare chiamato תֹּוֹפֶת tōpheth, che fungeva da griglia. Per indicare l'atto sacrificale si trova l'espressione idiomatica לְהַעֲבִיר בָּאֵשׁ ləhaʻavīr bā'esh "passare nel fuoco". Il fuoco usato per l'olocausto era tenuto costantemente acceso. Tra gli Ebrei questi riti cruenti furono compiuti fino ad epoca abbastanza tarda, nonostante fossero ferocemente condannati dai Profeti e puniti in modo molto severo dalla Legge. A Gerusalemme, nella Valle di Hinnom (גֵּי־הִנֹּם Gēi-Hinnōm, Gēhinnōm), si trovava il tōpheth dove avvenivano le immolazioni. Il toponimo Gēhinnōm è stato adattato in Gehenna ed è divenuto sinonimo di Inferno. Tuttora la maggior parte degli Israeliti vede la cremazione con immenso orrore: la ragione profonda è connessa all'idea che bruciare un corpo equivalga a compiere un olocausto a Moloch. 
 
Moloch, Geiger e i Masoreti
 
Esiste un'etimologia considerata da molti una certezza, per quanto falsa, inconsistente e tutto sommato ridicola. Secondo questa fabbricazione, Mōlekh sarebbe derivato da מֶלֶךְ melekh "re, sovrano", con il vocalismo di בּשֶׁת bōsheth "vergogna, cosa vergognosa". In realtà non si tratta di una trovata così antica: il primo a supporre l'incrocio fonetico tra "re" e "vergogna" fu il rabbino Abraham Geiger (1810 - 1874) noto per essere il fondatore della Riforma dell'Ebraismo. Secondo questa capziosa ermeneutica cabalistica, attribuire a una parola il vocalismo di un'altra, avrebbe un significato occulto e implicherebbe per necessità un cambiamento del significato. Già esisteva una tradizione consolidata di attribuire etimologie fittizie a nomi e vocaboli di oscura origine, concependo complesse macchinazioni secondo princìpi che mi paiono illogici. Sul piano meramente fonetico, il principio ispiratore era la falsa pronuncia del Tetragrammaton יהוה YHWH, ideata dai Masoreti utilizzando le vocali di אֲדֹנָי 'Adōnai "Signore" e ottenendo così יְהֹוָה Yəhōwāh "Geova" - senza però alcun mutamento nel concetto espresso. Anche se meno nota, esiste un'altra pronuncia masoretica יֱהֹוִה Yəhōwīh, formata a partire dalle vocali di אֱלוֹהִים 'Elōhīm "Dio". In epoca più recente Wilhelm Gesenius ha proposto la pronuncia יַהְוֶה Yahweh, basandosi sulla trascrizione Ιαβε fornita da Teodoreto di Cirro e da altri autori - che tuttavia sembra influenzata dalle vocali di הַשֵּׁם ha-Shēm "Il Nome". Il problema è che Geiger ha applicato questo modo di procedere anche sul piano semantico, immaginando che trarre le vocali dalla parola bōsheth "vergogna" per applicarle a melekh "re", avrebbe prodotto qualcosa come "Re Abominevole". Questa paretimologia non è opera dei Masoreti, come pure alcuni credono nel vasto Web (anche se è masoretica la vocalizzazione). Va tuttavia notato che bōsheth è stato usato come nomignolo di scherno per sostituire il teonimo בַּעַל Baʻal in un paio di nomi teoforici. 
 
Paul Mosca ha giustamente scritto: "La teoria secondo cui una forma molek suggerirebbe immediatamente al lettore o all'ascoltatore la parola boset (piuttosto che qodes* o ohel**) è il prodotto dell'ingenuità del diciannovesimo secolo, non di una tendenziosità masoretica o pre-masoretica." (testo originale, 1975: "The theory that a form molek would immediately suggest to the reader or hearer the word boset (rather than qodes or ohel) is the product of nineteenth century ingenuity, not of Massoretic [sic]*** or pre-Massoretic tendentiousness.")

* קֹדֶשׁ qōdesh = santità
** אוֹהֶל 'ōhel = tenda
*** Con ogni probabilità l'autore ha scritto Massoretic anziché Masoretic per scoraggiare una pronuncia ortografica con una consonante sonora /z/

Ho recuperato un'informazione che credo interessante e curiosa. Prima di Geiger, John Milton chiamò Moloch "orrido re" nel Paradiso perduto. Milton aveva conoscenze di ebraico e di aramaico sufficienti per leggere l'Antico Testamento in lingua originale. Potrebbe aver appreso l'ebraico dal semitista Joseph Mede, durante il suo soggiorno a Cambridge.

Demoni e vampiri della Mesopotamia 

Abbiamo la testimonianza biblica di una coppia divina, il dio Adrammelech e la dea Anammelech, il cui culto era tipico della città mesopotamica di Sepharvaim (a nord di Babilonia) e caratterizzato da offerte di bambini tramite olocausto (2 Re, 17:31). Il nome אַדְרַמֶּלֶךְ 'Adrammelekh significa probabilmente "Re magnifico". Il nome עֲנַמֶּלֶךְ ʽAnammelekh significa probabilmente "Anu è re" (il Dio del Cielo era chiamato Anu in accadico, dal sumerico An). Le genti di Sepharvaim finirono deportate in Samaria dagli Assiri. Si hanno alcune menzioni di Maliku "Re" come epiteto accadico del Dio degli Inferi, Nergal. Abbiamo inoltre il vocabolo accadico maliku (variante malku) "ombra dei morti", usato per denotare una specie di zombie o di vampiro. Questa parola alla lettera significa "re, principe", ma è possibile che si tratti di una semplice omofonia e che la sua vera origine sia diversa. In ogni caso, non risultano riti di olocausto di bambini in onore delle ombre dell'Ade. 
 
Moloch, Milkom e Melqart 

Sono stati fatti tentativi di ricondurre Moloch a מִלְכֹּם Milkōm, la divinità degli Ammoniti, o a Melqart, il nume tutelare della città fenicia di Tiro, poi identificato con Ercole. Si tratta di due evidenti derivati della parola cananea mlk /milk/ "re". Li analizzeremo con maggio dettaglio in altra sede. La somiglianza fonetica ha portato alla confusione diversi studiosi.
 
Un antico equivoco 
 
Tra le genti di Canaan non esisteva in realtà alcuna divinità rispondente al nome e alle caratteristiche cultuali di Moloch. Ad Ugarit troviamo un dio Mlk /'maliku/, /'milku/, alla lettera "Re", connesso con l'Oltretomba; a quanto consta era destinatario soltanto di offerte di animali. In fenicio il termine mlk /molk/ significava "olocausto", "offerta sacrificale": indicava l'atto rituale, non la divinità che lo riceveva. Ciò fu notato per la prima volta da Otto Eissfeldt nel 1935. La locuzione fenicia lmlk /lə'molk/ si traduce "in olocausto" (la preposizione lə- "a" esiste tale e quale in ebraico, lingua molto simile al fenicio). Coloro che misero per iscritto i testi biblici, interpretarono questa locuzione come "a Moloch", attribuendo un essere personale a quello che in realtà era un tipo di sacrificio. Si deve parlare di "sacrificio molk" e non di "sacrificio a Moloch". Il fenicio /molk/ è passato come prestito all'ebraico e si è adattato ai suoi vincoli fonotattici, diventando Mōlekh /'mo:leχ/. Nella lingua scritturale non sono tollerate due o più consonanti in finale di parola, con l'eccezione di alcune forme verbali, così il gruppo /lk/ ha sviluppato una vocale per poter essere pronunciato. La consonante finale /k/ è diventata regolarmente una fricativa uvulare /χ/ (simile al suono dello scozzese loch). La vocale breve /o/ è diventata lunga, essendo tonica e venendosi a trovare in sillaba aperta. Detto questo, il destinatario del sacrificio molk era Baal. 
 
Etimologia di molk

Il vocabolo fenicio mlk "olocausto, offerta per combustione" non ha etimologia nota. Sono state fatte svariate ipotesi sulla sua origine, tutte scarsamente soddisfacenti nonché problematiche. Stupisce l'isolamento di questa parola: non ha parantele credibili. La somiglianza fonetica con mlk /milk/ "re" è notevole, tuttavia la distanza semantica è grande e incolmabile. Non si ha alcuna connessione evidente tra il concetto di "olocausto" e quello di "dominare, regnare, essere sovrano". Si tratta di una somiglianza fortuita. In protocananeo si risale alle seguenti protoforme: 
 
*malku "re"
*milku "re" 
*malak- "dominare, regnare, essere sovrano" 
*mulku "olocausto" 

Le prime due sono diverse vocalizzazioni di una radice comune a tutte le lingue semitiche nordoccidentali e all'accadico, la terza è la corrispondente radice verbale e la quarta è la parola problematica. Un'ipotesi è che la radice di *milku / *malku "re" e *malak- "regnare" in origine significasse "possedere". Così *mulku "olocausto, offerta per combustione" potrebbe aver significato "cosa posseduta", "proprietà del Dio". Il punto è che non abbiamo nessuna prova di questi slittamenti semantici, e non è affatto certo che il significato della parola che indicava il sovrano avesse come significato originario quello di "possedere". Alexander Militarev ed altri sostengono invece che al contrario il significato di "dominare" sia secondario e derivato da quello di "re". La forma protosemitica ricostruita è *maliku, glossata con "capo straniero". Potrebbe anche darsi che le forme cananee *malku e *milku siano entrambe esiti di *maliku. Qualcuno suggerisce che il protosemitico *maliku sia stato ricostruito con la vocale -i- per render conto dell'arabo malik "re" (che potrebbe tuttavia essere un prestito dall'aramaico); non dobbiamo dimenticarci però che in accadico la forma maliku "re, principe" è ben documentata ed è più conservativa rispetto a malku, che pure si trova. Questo per dare l'idea dell'estrema complessità dell'argomento.
 
Come riportato da James Germain Février, Jean-Baptiste Chabot ha ipotizzato un legame con il siriaco məlak "promettere", che è però semanticamente inaccettabile: il sacrificio molk è un atto reale, non una promessa di un'offerta futura. Il significato originario della parola in questione non può in alcun modo essere stato "promessa, voto". È errato tradurre l'ebraico Mōlekh con "voto". 
 
Secondo alcuni semitisti (Wolfram von Soden et al.), il fenicio mlk "olocausto" sarebbe una forma sostantivata causativa derivata dalla radice verbale ylk / wlk "offrire" tramite un prefisso m-. Tuttavia, se così fosse, non ci aspetteremmo una protoforma *mulku. Avremmo un diverso vocalismo, come ad esempio *mawliku, con una vocale tonica tra -l- e -k-, cosa che non corrisponde ad alcun dato disponibile.
 
A mio avviso è più ragionevole supporre che il protocananeo *mulku "olocausto, offerta per combustione" sia il residuo di un'antica radice che significava "passare nel fuoco, bruciare", poi andata perduta.   
 
Il sacrificio molk a Cartagine 
 
La lingua punica è una forma tarda della lingua fenicia. Il suo centro di diffusione era Cartagine. Nel corso dei secoli ha subìto peculiari sviluppi fonetici. La consonante fenicia /k/ (pronunciata [kh]), in punico si è evoluta infine in una fricativa uvulare /χ/, parallelamente all'evoluzione di /p/ (pronunciata [ph]) nella fricativa labiodentale /f/ e di /t/ (pronunciata [th]) nella fricativa interdentale /θ/. Questi mutamenti dovevano essere in corso, ma non ancora completati, all'epoca in cui Plauto scrisse il Poenulus. Esistono iscrizioni neopuniche in caratteri latini che ci permettono di conoscere questi dettagli.

milch /milχ/ "re" 
*molochim /molo'χi:m/ "re" (pl.)
*maloch /ma'loχ/ "egli regnò"
molch
/molχ/ "olocausto, sacrificio" 
 
Non va taciuto che esistono alcune peculiarità proprie della lingua punica, che non si riscontrano nella lingua fenicia di origine. Abbiamo attestazioni di una forma femminile mlkt "olocausto, sacrificio", con ogni probabilità risalente a un protocananeo *mulkatu, parallelo al maschile *mulku. Verosimilmente la pronuncia della forma femminile punica era /mol'χo:/

In punico abbiamo attestata la formula mlk 'dm bšʽrm btm (varianti mlk'dm bšrm btm, mlk 'dm bšrm bnʽtm) "un sacrificio umano della sua stessa carne" (vedi Krahmalkov). In caratteri latini si sarebbe scritto così: MOLCHADOM BYSAREM BITHEM (varianti: MOLCHADOM BYSARIM BINATHIM, etc.). Non ci sono dubbi di sorta sull'interpretazione di mlk 'dm, il cui secondo elemento è l'equivalente punico dell'ebraico אָדָם 'ādām "uomo, essere umano". Ogni tentativo di stravolgere la traduzione può soltanto essere tendenzioso.
 
Le iscrizioni di N'Gaous 
 
Quando mi sono imbattuto per la prima volta nella parola neopunica molchomor "sacrificio di un agnello" (varianti morchomor, morcomor, mochomor), ho pensato erronemente che si trattasse di un vocabolo tramandato da Agostino d'Ippona. Approfondendo l'argomento, ho trovato che invece si tratta di una parola neopunica incorporata nei testi latini di alcune iscrizioni trovate in Algeria, a N'Gaous, l'antica Nicives (Nicivibus). Nella Rete non è difficile reperire pubblicazioni sull'argomento, anche se dubbi e confusioni non vi mancano di certo. Questo ad esempio è un articolo trovato su Jstor.org:  

 
I testi, risalenti circa al III secolo d.C., sono i seguenti (ho messo in neretto il termine punico):  

1) [Q]uod bonum et faus|[tu]m feliciter sit fac[tu]m. Domino sanc|[t]o Saturno sacrum | [m]ag(num) nocturnum mor|[c]homor ex voto A(ulus) Qui|[nti]us Victor et Elia Rufina | [co]n(iux) eius pro Impetrato fil(io) l(ibentes) v(otum) s(olverunt) a(gnum) v(i)k(arium)
 
*oppure:  (pro) v(i)k(ario)
 
2) Quod bonum faus(t)um fe[lici]|ter factum sit. Domino sancto S[at]|urno, anima pro anima, sangu[ine] | pro sanguine, vita pro vita, pro salute C[o]|ncess(a)e et voto pro voto sac[ru]|m solverunt mo(l)chomor C[…|…]us Rufinianu[s …|…] co[niux ? …
 
3) Q(uod) b(onum) f(austum) f(eliciter) f(actum) s(it). D(omino)  s(ancto) S(aturno) sacrum m(agnum) | nocturnum anima pr[o] | anima, sang(uine) pro sang(uine), | vita pro vita, pro Con[ces]|s(a)e  salute<m> ex viso et voto [sa]|crum reddiderunt molc[ho]|mor Felix et Diodora li[b(entes)] | animo agnum pro vika[rio]. 

4) [Q(uod) b(onum) f(austum) f(eliciter) f(actum) s(it) sacrum] magnum [noc]|[tur]num anima pro anima, vita pro [vi]|ta, sanguine pro sanguine, pro salu[te] | Donati, sacrum solvit ex viso capi[te m]|orcomor  Faustina agnum pro vi[kari]|o libens animo reddit.
 
5) Quod bonum faustum feliciter factum sit. | Domino sancto Saturno magnum nocturnum […] co […] ex [viso …|…] sacrum […
 
6) Q(uod) [b(onum] e(t) f(austum) f(eliciter) s(it) (factum), D(omino)  s(ancto) S(aturno), | sac[r]u(m) mag(num) nocturnum | anim[a] pro anima, vita pro | vita, s[a]ng(uine) pro sang(uine), morch(omor), ag[n](um) vik(arium), M(arcus) Cossutius Mar(…) | pro [Do?]nato  fi(lio) lib(ens) a(nimo) vot(um) red(dit). 

La forma morchomor è derivata dall'assimilazione di -l-, causata dalla -r finale. Come si vede dall'analisi delle iscrizioni sopra riportate, è esplicitamente menzionato l'oggetto del sacrificio: l'agnello (agnum, all'accusativo). È anche menzionato il fatto che l'olocausto dell'agnello è fatto in sostituzione (pro vikario, vikarium) qualcosa di diverso: l'olocausto di un bambino. Inoltre si comprende che il destinatario del sacrificio era Baal, identificato con Saturno (Crono).  
 
Tendenziosità moderne 
 
Alcuni biblisti, forti dell'autorità delle Scritture, si rifiutano di prendere in considerazione i dati del fenicio e del punico e per motivi religiosi insistono con l'esistenza personale di Moloch come divinità. Tuttavia rifiutano il vocalismo di Molekh cercando di restaurare una lettura Melekh "Re", presumibilmente pre-masoretica, da loro considerata la sola autentica. L'argomento da loro fornito si basa sulla traduzione greca dell'Antico Testamento detta Septuaginta o LXX. Ebbene, nel Pentateuco della Septuaginta troviamo che Mōlekh è sorprendentemente tradotto con ἄρχων (árkhōn), ossia "governatore, comandante, capo". Più precisamente, in Levitico 18,21 e in Levitico 20,1-5, troviamo לַמֹּלֶךְ la-Mōlekh (lammōlekh) "a Moloch" tradotto col dativo ἄρχοντι (árkhonti). Questo però non prova che la traduzione sia corretta e che ἄρχων (gen. ἄρχοντος; pl. ἄρχοντες) "governatore, comandante, capo" corrisponda alla perfezione a melekh "re" sul piano semantico. Un re possiede una dimensione mistica ed esoterica sconosciuta al governatore. Non mi risulta affatto che in greco le parole ἄρχων e βασιλεύς "re" siano mai state usate come sinonimi. La spiegazione è secondo me del tutto diversa: i 72 traduttori, pur provendo dalle Tribù di Israele, hanno risentito di profondi influssi dello Gnosticismo. Nei sistemi degli Gnostici, la parola Arconte era usata per indicare le potenze demoniache che governano il mondo. Così si deve tradurre ἄρχοντι "al demone". I traduttori potrebbero essere stati Esseni, ed è comunque un dato di fatto che il testo in ebraico da essi utilizzato non è quello della tradizione rabbinica. Anche di fronte all'evidenza lampante offerta dalle attestazioni del neopunico molchomor "sacrificio di un agnello", questi biblisti non demordono. Affermano così che l'ebraico אִמֵּר 'immēr "agnello" non sarebbe potuto diventare -omor. Questo loro argomento è semplicemente insulso. Il punico era sì molto simile all'ebraico, ma non identico; i suoi suoni erano peculiari e frutto di un'evoluzione propria, indipendente da quella della lingua di Israele. È davvero molto stupido credere che in punico le parole dovessero sottostare alla fonologia dell'ebraico biblico, come se questo fosse l'unica lingua possibile a cui ricondurre qualsiasi cosa. 
 
Manipolazioni ideologiche buoniste 

In quegli infetti nidi di vipere che sono le università americane, è stata partorita un'idea politically correct che ha meno senso dei peti dei muli, basandosi sui più folli preconcetti di quest'epoca degenerata. Nonostante siano stati trovati inequivocabili resti di ossa carbonizzate di bambini in luoghi dedicati al culto di Baal, va guadagnando terreno la tesi secondo cui i Cananei sarebbero stati adoratori dei Puffi, da loro onorati con offerte floreali e cantilene puerili!