Leggendo la Storia di Milano di Pietro Verri, mi sono imbattuto in un brano in cui è ricordato un episodio bizzarro occorso a Caio Giulio Cesare mentre si trovava a Milano. Questo è quanto riporta l'illuminista meneghino:
Pompeo, Crasso, Cesare furono in Milano. Cenando quest'ultimo in Milano da Valerio Leone, osservò che gli eleganti Romani erano offesi in vista d'una mensa rustica e senza atticismo, e già cominciavano a deridere l'albergatore, il quale ne provava confusione; ma Cesare giocondamente prese a mangiare quelle rozze vivande, e seriamente rivolto a' Romani fece loro la questione, se fosse più rozzo e barbaro chi ospitalmente presentava i cibi alla foggia del suo paese, ovvero chi insultava l'albergatore.
Plutarco, nelle Vite Parallele, ci riporta questo:
A dimostrare quanto poco esigente fosse in tema di cibo, si cita di solito questo episodio: un suo ospite, presso cui mangiava a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio. Cesare li mangiò tranquillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. “Bastava, disse, che coloro a cui non piacevano non se ne servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui”.
Questo è il testo greco originale:
τῆς δὲ περὶ τὴν δίαιταν εὐκολίας κἀκεῖνο ποιοῦνται σημεῖον, ὅτι τoῦ δειπνίζοντος αὐτὸν ἐν Μεδιολάνῳ ξένου Οὐαλερίου Λέοντος παραθέντος ἀσπάραγον, καὶ μύρον ἀντ'ἐλαίου καταχέανtος, αὐτὸς μὲν ἀφελῶς ἔφαγε, τοῖς δὲ φίλοις δυσχεραίνουσιν ἐπέπληξεν· «ἤρκει γὰρ" ἔφη "τὸ μὴ χρῆσθαι τοῖς ἀπαρέσκουσιν· ὁ δὲ τὴν τοιαύτην ἀγροικίαν ἐξελέγχων αὐτὸς ἐστιν ἄγροικος».
Questa è la traduzione latina ad opera di Isaac Casaubon, citata in calce nella stessa opera di Verri (l'introduzione è omessa):
invitatus Mediolani ad coenam, hospite Valerio Leone, qui asparagum apposuerat, atque olei loco infuderat unguentum, ipse simpliciter comedit, et indignantes increpavit amicos. Satis enim, inquit, abstinere iis a quibus abhorrebatis: nunc eam rusticitatem qui deprehendit, ipse est rusticus.
Non ho trovato menzione dell'episodio nell'opera di Svetonio.
De gustibus non disputandum est
Secondo Wikipedia, sarebbe stato Plutarco (che scrisse in greco!) ad attribuire a Cesare il detto "de gustibus non disputandum est" in occasione della portata con i fatidici asparagi. Tuttavia, in Plutarco non si trova menzione nemmeno di un'equivalente frase in lingua ellenica.
"Secondo Plutarco la frase de gustibus non disputandum est fu pronunciata da Giulio Cesare davanti a un piatto di asparagi al burro serviti nella casa Milanese di Valerio Leone. Ai generali Romani la pietanza non piacque affatto; i Romani infatti erano abituati all'olio e il burro era considerato un alimento "barbaro". Allora Cesare, di fronte all'imbarazzante situazione, placò gli animi con la soprascritta frase."
Ma proprio sopra si dice:
De gustibus non est disputandum[1][2] – talvolta reso anche con De gustibus non disputandum est oppure De gustibus et coloribus non est disputandum, o anche nella forma abbreviata De gustibus non disputandum – è una locuzione latina molto diffusa di origine non classica.
[1][2] Le due note che compaiono nel testo di Wikipedia rimandano al sito www.taccuinistorici.it, che non cita le fonti del detto attribuito abusivamente a Cesare. A quanto pare è un sito con attendibilità prossima a quella dei fumetti di Paperinik.
Le due cose non combinano! O la frase è di Cesare - e in tal caso è classica - oppure è apocrifa - e in tal caso è non classica. Non può essere entrambe le cose. I wikipediani che hanno composto la pagina devono aver avuto le idee confuse.
Il punto è che la frase non è classica e non fu detta da Cesare. Inoltre, a pensarci bene, non avrebbe avuto alcun potere calmante e risolutore in occasione di un banchetto compromesso dalla mancanza di educazione degli ospiti. Sarebbe come se qualcuno dicesse all'albergatore: "Quello che ci hai servito è oggettivamente merda, ma sui gusti non si discute".
Burro e mirra
Plutarco parla di mirra o comunque di un olio profumato, non di burro. In lingua greca, la parola che il Casaubon traduce con unguentum e che il Verri interpreta con "burro" è μύρον. La traduzione dello studioso calvinista è senza dubbio ineccepibile: μύρον significa, oltre che "mirra", anche "olio profumato" o "unguento". Non indica però mai il burro, che in greco è chiamato βούτυρον. Plutarco non avrebbe mai confuso i due concetti. Il fatto che a Roma il burro fosse usato come unguento e cosmetico non implica che unguentum debba necessariamente indicare il burro.
Proliferazione memetica
La prima volta che mi sono imbattuto nella storia di Cesare e di Valerio Leone è stato quando ero un giovincello. Leggendo la Settimana Enigmistica, sono rimasto colpito da un breve aneddoto (credo che fosse nella sezione "Forse non tutti sanno che"), che però parlava di uova al burro anziché all'olio. Cesare avrebbe fatto onore a una portata di uova fritte col burro, che avevano fatto storcere il naso ai suoi commilitoni. Degli asparagi non si faceva menzione. Dai fatti asciutti e stringati esposti da Plutarco sono pullulate innumerevoli varianti ed estensioni. In un forum la cena da Valerio Leone (ribattezzato Leonte o Leonzio perché fa più figo) si trasforma addirittura in uno sketch comico, in cui Giulio Cesare e il suo ospite sono ridotti a macchiette. Il condottiero romano, ridotto a guitto, prende in disparte il suo ospite chiedendogli informazioni sulla natura di quel "maleodorante unguento", sentendosi rispondere che è prodotto col latte delle floride vacche cisalpine.
La Storia si usura e si arrugginisce
Ogni cosa sembra perdere i suoi contorni e scolorare nell'irrealtà, a causa del flagello del contagio memetico. Come prioni della mente, i memi inquinano ogni cosa, fanno sì che la Storia perda di sostanza fino a ridursi a qualcosa di sfocato, di estemamente confuso. Alla fine diventa davvero difficile stabilire cosa davvero è accaduto. Tuttavia, per quanto sia arduo districarsi in mezzo a queste rovine in disgregazione, grazie alla Logica e al duro impegno è ancora possibile impedire che tutto si perda nel rumore di fondo.
La necessità del Connettivismo
Di fronte a questa incertezza intrinseca delle informazioni - e non soltanto di quelle reperibili nel Web - reputo necessaria l'istituzione di una nuova figura nel mondo scientifico, quella del Connettivista. Proprio come il joat di cui parlava Philip José Farmer nel suo romanzo di fantascienza Gli Amanti di Siddo, il Connettivista deve assumersi il compito di far parlare tra loro mondi che hanno perso la capacità di comunicare. Confrontando le informazioni e sottoponendole a un attento vaglio, farà emergere criticità e confuterà errori anche inveterati. Combattere fraintendimenti e falsità tramite il flusso di informazioni è un dovere. Solo in questo modo si potrà impedire il tracollo della Scienza, visto che l'Accademia è sempre più minacciata dalla cecità e si divide ormai in tronconi autoreferenziali.