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martedì 20 giugno 2023


VILGARDO DI RAVENNA: 
NEOPAGANESIMO MEDIEVALE

Nei primi anni '70 del X secolo si registrò un fatto che possiamo soltanto definire degno della massima attenzione. In un contesto che il sistema scolastico si affanna a definire "solo ed esclusivamente cristiano", fece la sua comparsa un ribelle, un nostalgico del mondo pagano dell'antica Roma. Il suo nome era Vilgardo e fu un grammatico nella città di Ravenna. Immerso nei suoi studi e nelle sue letture classiche, sognava un mondo migliore, forse idilliaco, che credeva di poter realizzare con un'improbabile restaurazione dell'antica religione politeista romana. Tanto vivida era la sua immaginazione da fargli sperimentare esperienze allucinatorie intensissime: era davvero convinto che gli spiriti di Virgilio, Orazio e Giovenale gli avessero fatto visita. Il suo tentativo di comunicare al pubblico il suo mondo interiore gli costò la vita. Un'unica fonte storica ci parla di Vilgardo: Rodolfo il Glabro, monaco benedettino e cronista del XI secolo. Ecco il suo resoconto, ovviamente di parte, contenuto negli Historiarum libri quinque (Libro II, capitolo 12):

Ipso quoque tempore non impar apud Ravennam exortum est malum. Quidam igitur Vilgardus dictus, studio artis grammaticae magis assiduus quam frequens, sicut Italis mos semper fuit artes negligere caeteras, illam sectari. Is enim cum ex scientia suae artis coepisset, inflatus superbia, stultior apparere, quadam nocte assumpsere daemones poetarum species Virgilii et Horatii atque Juvenalis, apparentesque illi, fallaces retulerunt grates quoniam suorum dicta voluminum charius amplectens exerceret, seque illorum posteritatis felicem esse praeconem; promiserunt ei insuper suae gloriae postmodum fore participem. Hisque daemonum fallaciis depravatus, coepit multa turgide docere fidei sacrae contraria, dictaque poetarum per omnia credenda esse asserebat. Ad ultimum vero haereticus est repertus, atque a pontifice ipsius urbis Petro damnatus. 

Traduzione: 

"In quel periodo, anche a Ravenna si verificò un male non dissimile da quello sopra descritto (1). Un certo uomo di nome Vilgardo si dedicò con più zelo che costanza agli studi letterari, poiché era sempre abitudine italiana dedicarsi a questi a discapito delle altre arti. Poi una notte quando, gonfio d'orgoglio per la conoscenza della sua arte, aveva cominciato a rivelarsi più stupido che sapiente, gli apparvero dei demoni nelle sembianze dei poeti Virgilio, Orazio e Giovenale, fingendo gratitudine per l'amorevole studio che dedicava al contenuto dei loro libri e per essere stato il loro felice araldo alla posterità. Gli promisero, inoltre, che presto avrebbe condiviso la loro fama. Corrotto da questi diabolici inganni, iniziò pomposamente a insegnare molte cose contrarie alla santa fede e affermò che le parole dei poeti meritavano fede in ogni caso. Ma alla fine fu scoperto come eretico e condannato da Pietro, arcivescovo di quella città." 

(1) Qui Rodolfo il Glabro allude al protocataro Leotardo (Leutardus) di Vertus, che in realtà non ha nulla a che vedere con idee neopagane.

Dobbiamo notare una cosa alquanto singolare: essendo parte del mondo accademico dell'epoca, Vilgardo era un chierico con gli Ordini minori (tra cui la facoltà di praticare esorcismi). Si arriva così a un paradosso: un esorcista a tutti gli effetti che viene accusato di essere stato sedotto dai demoni fino a deviare completamente dalla stessa religione cristiana! La narrazione di storie come questa era ritenuta edificante, perché serviva a mettere in guardia il gregge dei fedeli dalle opere attribuite al Maligno. Ovviamente manca a Rodolfo il Glabro ogni capacità di comprendere le cause dell'accaduto, da lui interpretato come un segno funesto dell'avvicinarsi della Fine dei Tempi (Quod praesagium Joannis prophetiae congruit, etc.). Il monaco benedettino non ci elenca gli insegnamenti di Vilgardo, le "molte cose contrarie alla santa fede", anche se possiamo facilmente intuirli; riporta invece con orrore un'unica proposizione sulla Verità che si trova nelle opere degli antichi poeti anziché nelle Scritture. È come se descrivesse un tentativo di totale distacco dalla realtà sociale e culturale dei suoi tempi. Robert Black (2001) ritiene che si trattasse di una semplice passione per la letteratura latina, serpeggiante tra i chierici ravennati e ritenuta diabolica dalle autorità ecclesiastiche (un arcivescovo rigoroso, un monaco fanatico e apocalittico, etc.). I tentativi di decostruzionismo sono del resto molto frequenti agli inizi del XXI secolo. 

Rodolfo il Glabro ci dice che in Italia furono trovati e uccisi numerosi neopagani. Ecco il passo in questione: 

Plures etiam per Italiam tempore hujus pestiferi dogmatis reperti, quique ipsi aut gladiis aut incendiis perierunt.  

Traduzione: 

"Molti altri che professano questa dannosa dottrina sono stati scoperti in tutta Italia, e anche loro sono morti, giustiziati con la spada o con il fuoco." 

Nonostante queste evidenze, non è chiaro se Vilgardo abbia avuto seguaci. Sono abbastanza scettico sul fatto che il grammatico di Ravenna abbia potuto dare origine a un movimento capillarmente diffuso nell'intera Penisola. Di questi fermenti neopagani non trovo altre documentazioni. Il fenomeno meriterebbe uno studio più approfondito. Focolai di ribellione neopagana potrebbero essere nati per reazione alla natura squallida ed oppressiva del feudalesimo, in modo indipendente in diverse regioni. In altri termini, sarebbe un movimento multicentrico. La speranza è che emergano nuovi documenti in grado di colmare le gravi lacune nella nostra conoscenza dell'accaduto.  
Il riferimento all'anomala comparsa dei misteriosi eretici Sardi, menzionati da Rodolfo subito dopo i supposti seguaci di Vilgardo e a loro associati, dimostra che il cronista aveva le idee molto confuse e approssimative sul complesso mondo della dissidenza religiosa. Ovviamente, di tutte queste cose, sui libri di scuola non si trova la benché minima menzione. Non sono nemmeno note a piè di pagina. 

Etimologia di Vilgardo

Il nome Vilgardo (latino Vilgardus) è di chiara origine gotica: *Wiljagards "Corte della Volontà" o "Casa della Volontà". Notiamo il passaggio dalla semiconsonante /w/ a una fricativa /v/, come notato anche in altri nomi di origine gotica, in netto contrasto con l'evoluzione di tale fonema nella lingua dei Longobardi, che invece ha portato allo sviluppo di un elemento velare, dando origine a /gw/. La trafila deve essere stata questa: 

*/'wiljagards/ => */'wiligard/ => */'vilgard/,
latinizzato in /vil'gardus/

Esistevano a Ravenna discendenti degli Ostrogoti: non dimentichiamoci che quella città è stata la capitale del Regno Ostrogoto. Abbiamo a che fare con un antroponimo di estremo interesse, del cui studio quasi nessuno sembra essersi finora occupato - anche se non presenta criticità alcuna. I dettagli della sua evoluzione fonologica sembrano far pensare alla lunga sopravvivenza di una forma consunta della lingua dei Goti in un'area che fu a lungo sottoposta al dominio bizantino, finendo conquistata dai Longobardi soltanto nel 751.  

Il problema della pronuncia del latino 

Vilgardo con ogni probabilità utilizzava la pronuncia carolingia del latino, data l'epoca in cui visse. Come gli avranno parlato le apparizioni di Virgilio, Orazio e Giovenale? In che modo avranno pronunciato le parole della lingua di Roma? Evidentemente avranno utilizzato la stessa pronuncia a cui Vilgardo era abituato. Non c'è altra possibilità. Se avessero utilizzato la reale pronuncia del latino aulico dell'antica Roma, è ben possibile che il grammatico ravennate avrebbe fatto molta fatica a comprendere quanto gli veniva detto. Si sarebbe stupito non poco e ne sarebbe rimasto deluso. Egli infatti si cullava nell'illusione di possedere una reale e affidabile conoscenza del mondo antico. Nonostante quello che è popolarmente creduto, la demonologia e la necromanzia sono incapaci di accedere alla vera conoscenza delle cose. L'irreversibilità degli eventi rende impossibile consultare davvero le voci dei Morti. Non si può dimostrare che esista un intervento in grado di prendere un discorso realmente pronunciato da un defunto e di portarlo nella nostra realtà. 

Un problema nell'eresiologia ecclesiastica 

La Chiesa Romana non ha mai saputo distinguere due situazioni a mio avviso del tutto diverse: 

1) Appartenenza a una religione organizzata, che tramanda di generazione in generazione una dottrina considerata eretica; 
2) Sviluppo di una dottrina considerata eretica in un singolo individuo, a causa di una personale esperienza di vita o della lettura di testi.

Nel primo caso, si tratta di qualcosa di vivo e vitale che viene trasmesso e che si trasmette a sua volta, per mezzo della continuità. Nel secondo caso invece si ha un processo discontinuo. La Chiesa Romana, a cui interessa soltanto contrastare ciò che ritiene una forma di "malattia dello spirito" con le caratteristiche di un contagio, teme che ogni dissidente, quale che sia l'origine della sua dissidenza, possa diventare un eresiarca, diffondendo le sue dottrine e organizzando un movimento.  

Link utili

Rodolfo il Glabro, Historiarum libri quinque, testo completo in latino:

Silvana Arcuti (2015), Fermenti spirituali e dissenso religioso nell'Europa medievale 

Giorgio Cracco (1980), Le eresie del Mille : un fenomeno di rigetto delle strutture feudali? 

Giancarlo Benelli (2001), Storia di un altro Occidente, capitolo 5 

lunedì 18 ottobre 2021

LO STRANO CASO DEL CONTADINO SAPIENTE DI PEVERAGNO

Spesso emergono dai miei banchi di memoria stagnante scintille davvero mirabili. Ricordo ancora quando ero un adolescente foruncoloso e guardavo volentieri Portobello, la trasmissione di Enzo Tortora (RIP). I Millennials non ne sanno nulla, men che meno quelli della Generazione Z: sono persino incapaci di concepire un mondo senza gli smartphone e la connessione a Internet. Eppure un simile mondo è esistito e ne sono testimone. All'epoca Portobello aveva un enorme successo e in molti non vedevano l'ora che arrivasse la serata in cui andava in onda quel mercatino esotico, che rendeva note al grande pubblico cose stranissime, neppure immaginate nei sogni. Ricordo ancora oggi argomenti affascinanti di cui venni a conoscenza in gioventù. Fu allora che si risvegliò in me un grande interesse per le minoranze linguistiche e per le parlate criptiche. Una sera fu presentato il gergo degli ombrellai di una vallata del Piemonte, in cui le ragazze erano chiamate megèire, ossia "megere". Tutto ciò mi divertì moltissimo. Una sera fu presentata una comunità che parlava un idioma germanico, non rammento se fossero Cimbri o Walser. Mi è però rimasto impresso che si riunivano per giurare intorno a un grande albero considerato sacro, una quercia o forse un olmo. Mi sembra ancora ieri quando, un'altra sera, alcune persone di Carloforte, in Sardegna, presentarono al pubblico la loro lingua ancestrale, che era una varietà di genovese. Tortora aveva spiegato che quella lingua si chiamava Tabarkino e che derivava il suo nome dall'isola di Tabarka, in Tunisia, che era stata popolata da coloni genovesi venuti da Pegli. Ogni volta erano nuove meraviglie. Rimasi terrorizzato quando furono presentati terribili feticci di stregoneria, credo che fossero provenienti dalla Campania: masse immonde simili a pappagallini che si formavano nei materassi di piume e provocavano deperimento, bambole con spilli conficcati negli occhi, racconti di fattucchiere che scagliavano malefici facendo morire il pollame.

Accadde infine che una sera Enzo Tortora presentò un anziano contadino che abitava a Peveragno, un antico borgo in provincia di Cuneo, in Piemonte. Cosa aveva di particolare quest'uomo gracile e dall'indole vivace? La sua dote era ben rara. Parlava correntemente il latino e sapeva recitare a menadito l'Eneide. Cosa ancor più notevole, aveva appreso da autodidatta la lingua di Roma e l'opera di Virgilio, facendo affidamento soltanto sulle sue forze e sul suo ingegno. Questo mi sono detto: "Ormai quell'inconsueto latinista sarà certamente defunto, non fosse altro che per ragioni anagrafiche. Non sarà facile ormai trovare tracce della sua esistenza". Invece, incredibile dictu, sembra che egli sia tuttora in vita. Ho trovato un sito web che ne fa menzione. Me lo ricordavo un po' diverso da come appare nella fotografia che ho trovato in Rete, ma è senza dubbio lui. Ai tempi di Portobello non portava la barba e mi sembrava un po' raggrinzito, anche se la forma del cranio, così caratteristica, è senza dubbio quella e mi è rimasta impressa. Evidentemente le mie memorie sono state soggette a una processo di profonda distorsione percettiva, anche se non così radicale da impedire il riconoscimento. Si direbbe addirittura che il peveragnese sia ringiovanito! Ecco la pagina in cui si parla di lui:
 

Questa è la presentazione: 
 
ANGELO MERLATTI (Mondovì, 1937), contadino amante del latino, da lunghi anni usa questo idioma come lingua di conversazione avendola studiata da autodidatta (dice di sé: «Totam per vitam agros colui. Lucretio Vergilioque magistris, linguae nullo adiuvante studui latinae»). 
 
Tra i suoi capolavori, consultabili sul sito, si possono elencare questi: 
 
Dis aliter visum 
Casus dolens 
Meminisse iuvabit 
Linguae latinae reditus ad vitam Pamparati 
Sunt lacrimae rerum 
Habet hoc voluptas 
Vetera iuvat retractare 
Igne perenni lucet in medio focus amicus 
Patris morientis recordatio et memoria

Non è affatto comune questa dote di saper conversare in una lingua appresa dai libri. In genere i libri trasmettono una conoscenza legnosa, non duttile né malleabile, inadatta ad esprimere concetti in modo fluido. Chi ha studiato sui libri il latino (o l'inglese, non cambia molto), in genere pensa nella propria lingua e traduce mentalmente, applicando regoline, regolette, regolucce e regolacce. Si capisce invece che il contadino di Peveragno è in grado di pensare spontaneamente in latino senza dover applicare alcuna traduzione a pensieri formulati nella propria lingua nativa. Questo è certamente un fatto singolare e prodigioso che merita ulteriori studi. Per certi versi la sua figura mi ricorda quella di Vilgardo di Ravenna, che nel X secolo aveva avuto una visione di Virgilio, Orazio e Giovenale, rimanendone illuminato e proclamando che la Verità si trova negli scritti degli Autori dell'Antichità.  

Tempo fa scrissi di getto questi appunti, quando ancora facevo affidamento sui soli ricordi di Portobello, senza sapere che l'uomo fosse ancora in vita e ben operante:

"Il contadino di Peveragno era davvero un sapiente. Nel suo campo di studio senza dubbio lo era. Tale campo era il latino scolastico. Tuttavia di linguistica storica, di filologia romanza, di indoeuropeistica e simili, non sembrava sapere granché. Da quello che rammento, non applicava la metrica latina alla lettura dei versi di Virgilio: non usava le elisioni e gli accenti mobili così tipici della poesia. Pronunciava ogni singola parola come facevano i preti, come si faceva a scuola. Che significa? Del suo mondo, sapeva tutto. Il punto è che il suo mondo non era realmente l'antica Roma: era invece in qualche modo una sua costruzione mentale, un mondo fantomatico inventato dalla scuola, dalle sue secolari stratificazioni."  

Quando si proiettano immagini mentali di Roma nel passato, queste sono drammaticamente diverse dalla vera antica Roma. Mi domando cosa direbbe un latinista odierno se tornasse indietro nel tempo grazie a una mirabile macchina e sentisse l'Imperatore Augusto dire "DA MI AQUA CALDA" anziché "DA MIHI AQUAM CALIDAM". Tutti abbiamo bene in mente gli eccessi degli insegnanti del liceo, quelle -M finali potenti e assordanti come muggiti taurini, quel pronome MIHI pronunciato con due I staccate, anzi, addirittura con tre o quattro I: MIIII. Nel Medioevo invece si intercalava una consonante velare e si pronunciava MICHI. Non dobbiamo mai dimenticarcelo: Virgilio, se avesse sentito un moderno declamare i versi dell'Eneide, si sarebbe chiesto che razza di sannita o di umbro fosse mai quello che aveva davanti! Eppure, il contadino di Peveragno non resterebbe senza risorse in una situazione tanto sorprendente: se fosse proiettato all'epoca di Cicerone e di Cesare, saprebbe imparare con prontezza la pronuncia autentica degli Antichi e conversare con loro con la massima naturalezza, in breve volgere di tempo. Probabilmente all'inizio rimarrebbe esterrefatto, ma questo stupore non durerebbe a lungo: si metterebbe in opera in lui quella stessa sete di Conoscenza che lo ha portato ad apprendere la lingua scritta senza aiuto alcuno, giungendo a produrre testi che potrebbero essere stati vergati dallo stesso Virgilio.
 
Il problema della "riallocazione" del passato

Gli eternisti sostengono che se possiamo pensare agli eventi passati, è perché in qualche modo questi eventi esistono tuttora. Se gli istanti trascorsi non avessero realtà, se avessero smesso di sussistere - questo è l'argomento eternista - non sarebbero concepibili e non potremmo far riferimento a loro nella nostra mente. Così i filosofi che si occupano della natura del tempo, sono convinti che per negare che gli eventi passati esistano tuttora, sia necessaria una loro "riallocazione" nel presente. 
Lo studioso islandese Rögnvaldur Ingthorsson, che è un sobrio presentista, ritiene che sia inutile riempire il presente di entità astratte come gli eventi passati soggetti a questa "riallocazione"


Direi che non dovremmo parlare di "riallocazione", in alcun caso. Nulla viene davvero riallocato. Il passato non esiste più. Noi ne parliamo soltanto, unicamente tramite i suoi FOSSILI NEL PRESENTE. Siamo del tutto ciechi al passato. Possiamo riferirci al passato ed averne cognizione soltanto perché ne perdurano tracce analizzabili nel presente, che sono come le ammoniti visibili tuttora nelle sezioni di marmo che costituiscono il pavimento dell'ultimo piano della libreria Feltrinelli nella sede della Stazione Centrale di Milano. Un pavimento simile si trova sul pavimento del porticato di Piazza del Duomo, sempre a Milano. Quante volte ho meditato sulle conchiglie mineralizzate! Quei molluschi vissero molti milioni di anni fa, eppure qualcosa di loro è ancora coglibile dai nostri sensi, inglobato nel minerale. Da quei resti possiamo dedurre molto, ma non sarà mai come vedere davanti ai propri occhi un'ammonite viva. Il fatto che parliamo di entità come lo xenomorfo o Mickey Mouse non implica per necessità la loro reale esistenza in qualche recesso di un Multiverso forse soltanto fantomatico. Lo xenomorfo e Mickey Mouse esistono a livello iconografico nel nostro presente e non sono diversi da qualsiasi altro ente di cui abbiamo piena consapevolezza.
 
Che dire quindi della nostra capacità di raggiungere l'Episteme? Possiamo davvero conoscere una civiltà morta da secoli? Le cose stanno così: esistono tante copie dell'Antica Roma e della sua lingua quante sono le persone che la studiano e che la sognano. Sono tutte proiezioni di fossili che si trovano nel nostro presente, ma rielaborate e fabbricate da menti diverse. Ognuna di queste rappresentazioni mentali è soltanto uno scheletro della realtà, non ha in sé nulla di vero. Ancora lungo ed estenuante è il cammino verso l'effettiva capacità di cogliere il Noumeno!  

sabato 16 ottobre 2021

LE VERE CAUSE DELLA SCOMPARSA DELLA DECLINAZIONE LATINA

Nel pestilenziale ed afflittivo social network Quora, ci sono utenti che si domandano con insistenza come mai la lingua italiana non abbia le declinazioni, pur derivando dal latino. 


Joseph G. Mitterer ha dato questa risposta: 

"Ci sono varie spiegazioni. Generalmente si può dire che in tutte le lingue indoeuropee c'è la tendenza di "semplificare" la morfologia nominale. Sono pochissime le lingue che hanno conservato tutti gli otto casi del proto-indoeuropeo. Il processo di cui parliamo non è, dunque, un fenomeno propriamente romanzo o italiano, ma era già cominciato nel latino (in latino ne sono un documento le molte funzioni dell'ablativo e i resti ancora presenti del locativo) e si osserva anche oggi in altre lingue, come ad esempio nel tedesco il cui genitivo è in via d'estinzione."
 
E ancora: 
 
"Se però parliamo delle ragioni, un motivo fondamentale era lo sviluppo fonologico del latino. Nel latino classico le forme rosa, rosam, rosā erano pronunciate in modo diverso. Poi però le quantità vocaliche sono scomparse, appunto come la -m finale, cosicché le parole succitate si sono tutte frammischiate in un'unica forma rosa. Per ristabilire le informazioni grammaticali che erano andate perse così si è serviti di preposizioni e di una sintassi più regolata."

Una volta identificato in modo sicuro il processo di confusione delle terminazioni, si dovrebbe insistere sulle sue cause fisiche e sulla sua immensa portata. Invece Mitterer enuncia una teoria a mio avviso bizzarra, che inverte il nesso causa-effetto. Non riesco bene a comprendere se il motivo di questa interpretazione dei fatti sia di natura ideologica oppure se debba la sua formazione a un semplice fraintendimento. Così prosegue: 
 
"Tipicamente le spiegazioni finiscono qui. Conviene però aggiungere che ci sono anche altri motivi per questo sviluppo e che, forse, i mutamenti fonologici non erano la ragione ma (forse!) una conseguenza di altri sviluppi. Infatti, come ho detto inizialmente, c'è una tendenza di "semplificazione" nelle lingue indoeuropee. Questa "semplificazione" non si manifesta soltanto nella morfologia nominale, bensì in tanti altri campi della lingua. Per essere più precisi, il fenomeno di cui stiamo parlando non è veramente una "semplificazione", ma una tendenza verso strutture analitiche, cioè una tendenza di dividere parole nelle sue singole funzioni. Ecco cosa avviene se invece di dire uscire si dice andare fuori, se invece di scripsi si dice ho scritto, se invece di altior diciamo più alto ecc. Le ragioni di questo sviluppi hanno, probabilmente, a che fare con la psicologia dei parlanti e con la tendenza di voler fare trasparenti le funzioni degli elementi linguistici, e anche di esprimere tali funzioni con concetti nozionali, "concreti", invece di usare soltanto morfemi grammaticali ormai completamente opachi."

Queste sono le conclusioni a cui giunge: 
 
"Credo che questo aspetto sia ancora sottovalutato nella linguistica, e soprattutto lo sono le possibili conseguenze, come appunto la perdita di distinzioni fonematiche dovuta ai suddetti processi (e non viceversa)."
 
Sono convinto, pace Mitterer, della natura puramente fisica del fenomeno. I suoni emessi da gole umane giungono deboli alle orecchie di chi li ascolta. In particolare, giunge debole la parte finale di ogni pacchetto sonoro trasmesso al cervello dai nervi acustici. Per questo motivo, le code delle parole diventano naturalmente deboli col passar del tempo, finendo per scomparire completamente. Il processo è attestato già nella lingua dei Sumeri, in cui le consonanti finali diventavano mute e nuove consonanti finali si producevano dall'indebolimento di vocali - un po' come è successo in francese: 
 
bid "ano" è diventato bi
dili "singolo, unico" è diventato dil;
dug "parlare", "discorso" è diventato du;
gig "malattia" è diventato gi;
gud "bue", "toro" è diventato gu;
gun "terra", "regione" è diventato gu;
ḫada "secco", "bianco" è diventato ḫad;
itud "luna", "mese" è diventato itu e poi it;
lul "mentitore", "menzogna" è diventato lu;
nad "letto, giaciglio" è diventato na;
pab, pap "padre", "fratello" è diventato pa
siki "capelli" è diventato sig;
taka "toccare" è diventato tak, tag e poi ta
tila "vita" è diventato til e poi ti;
tumu "portare" è diventato tum;
tumu "vento", "punto cardinale" è diventato tum e poi tu;
 
Queste evoluzioni della pronuncia sono documentate dalla scrittura di quel popolo glorioso, senza possibilità di dubbio, nel corso dei secoli. Un simile processo ha dato origine a un gran numero di ambiguità e di equivoci: solo per fare un esempio, a un certo punto lul "mentitore", "menzogna" si pronunciava lu, proprio come lu "uomo". Sono convinto che ciò abbia posto le basi per il declino del sumerico come lingua parlata; come lingua scritta (rituale e scientifica) si è conservato molto più a lungo grazie all'ingegno degli scribi. 

I parlanti non si rendono conto di questo processo ineluttabile di degradazione dei fonemi, non lo comprendono perché credono eterno l'istante. Proiettano il presente all'infinito nel passato e nel futuro. Nella loro stoltezza presentacea, credono che le cose siano immutabili. Una simile usura fonetica delle code delle parole porta alla perdita delle capacità di contrasto tra forme diverse, che finiscono così col collassare. Cosa accade se dalla capacità di distinguere alcuni suoni finali di parola dipende la grammatica stessa della lingua? Semplice: accade che vengono a collassare declinazioni e coniugazioni. I paradigmi perdono la loro efficacia, alimentando una grande confusione. Per ovviare a questo problema, la lingua giocoforza si riorganizza, tenta di costruire nuovi schemi che siano funzionanti, in grado di permettere la comprensione tra i parlanti. Quando un paradigma grammaticale si indebolisce e muore, un altro sorge per rimpiazzarlo. 
 
Pestilenziali utenti di Facebook  

Su Facebook, in un gruppo sulle lingue locali e minoritarie dell'Italia, è esploso un flame a causa di M., una professoressa del liceo la cui cultura era autoreferenziale. Costei aveva appreso l'ABC del mondo e credeva fermamente che al di fuori di queste nozioncine non potesse esistere alcunché. Non considerava le declinazioni del latino una realtà di una lingua che secoli fa viveva ed era soggetta ai mutamenti: per lei erano invece schemi ieratici ed assoluti, incisi sulle tavole di pietra di una cabala in cui la lingua scritta doveva per decreto divino precedere quella parlata. Non capiva come i Romani avrebbero potuto esprimere la differenza tra il soggetto e il complemento oggetto se le desinenze della declinazione non avessero avuto proprio la pronuncia insegnata a scuola, che impone di distinguere -um da -u. Solo per fare un esempio, ignorava che già sussisteva nella lingua classica l'impossibilità di operare la distinzione tra il soggetto e il complemento oggetto in parole di genere neutro! Non capiva che i suoi paradigmi a un certo punto sono andati a farsi fottere, o l'italiano avrebbe le parole con fortissime -m finali! Forse non sapeva neppure che le lingue romanze derivano dal latino volgare. Possibile che ci sia ancora chi crede che in latino si pronunciassero delle -m finali possenti come muggiti di bovini?! Il concetto espresso da M. era questo: se qualcosa non rientra nel programma scolastico delle superiori, significa che non esiste. Filologia romanza? Un libro chiuso. Epigrafia latina? Un libro chiuso. Grammatici antichi? Un libro chiuso. Se si dovesse ragionare così con la fisica, Rovelli sarebbe considerato un perditempo. Non mi stancherò mai di stigmatizzare le mostruosità prodotte dal sistema scolastico italiano. Potrei parlare delle iscrizioni di Pompei, delle occorrenze di parole senza -m attestate già in epoca antica, di Augusto che diceva "da mi aqua calda". Piaccia o no, le cose stanno così. Il defunto professor C. si era spinto al punto da affermare che la -m finale i Romani non la pronunciavano. Bisognerebbe comprendere bene di quale epoca stiamo parlando. In ogni caso, sembra proprio che sia stato un suono assai debole fin dal principio e che si sia perso presto. Non sono mancati tentativi di restaurazione dotta. Dioscoride trascriveva la -m finale, avendola con ogni probabilità sentita pronunciare pienamente da qualcuno, ma doveva trattarsi della lingua aulica, molto artificiosa e distante da quella del volgo. A che servirebbe andare avanti? Facebook è una colossale perdita di tempo.

La lingua d'oc e la lingua d'oïl 
 
Uno schema ridotto, derivato dalla II declinazione del latino, ha continuato a vivere per secoli nelle lingue romanze parlate nel territorio un tempo conosciuto come Gallia Transalpina. Eccolo: 
 
Singolare
Nominativo: -s < *-us 
Obliquo (accusativo): - < *-u(m)
 
Plurale
Nominativo: - < *-ī
Obliquo (accusativo): -s < *-ōs 
 
Riporto un esempio dalla lingua d'oc (antico provenzale).  
Questa è la declinazione di cavals "cavallo", che deriva direttamente dal latino caballus "cavallo da fatica", "cavallo da tiro" (che nella lingua volgare ha sostituito equus "cavallo").
 
Singolare 
Nominativo: lo cavals 
   < ille caballus 
Obliquo: lo caval 
   < illu(m) caballu(m)
 
Plurale  
Nominativo: li caval 
   < illī caballī 
Obliquo: los cavals 
  < illōs caballōs 

Riporto un esempio dalla lingua d'oïl (antico francese). La pronuncia non è quella del francese moderno: le sibilanti finali -s si pronunciavano. Questa è la declinazione di veisins "vicino", che deriva direttamente dal latino vīcīnus (aggettivo sostantivato). 
 
Singolare  
Nominativo: li veisins 
   < ille vīcīnus
Obliquo: le veisin 
   < illu(m) vīcīnu(m)  

Plurale
Nominativo: li veisin 
   < illī vīcīnī 
Obliquo: les veisins
   < illōs vīcīnōs

Come potete vedere, in Francia, Provenza e Linguadoca esisteva ancora in pieno Medioevo uno schema di declinazione ben funzionante, per quanto ridotto rispetto a quello del latino classico. In francese, discendente della lingua d'oïl, la declinazione ha cominciato a non funzionare più quando le sibilanti finali -s si sono indebolite e sono cadute, a partire dalla metà del XIV secolo. Nella lingua moderna, nella maggior parte dei casi è prevalsa la forma obliqua, anche se ci sono numerose eccezioni. 
 
Il caso della Dacia 
 
Il latino volgare della Dacia, ossia l'antenato del rumeno, aveva indebolito le consonanti finali di parola, fino a perdere non soltanto -m, ma anche -s, com'è avvenuto in Italia. Nonostante ciò, l'agglutinazione dell'articolo derivato da un pronome dimostrativo, ha permesso alla declinazione di conservarsi. 
 
Per analogia con il dativo singolare cūi del pronome relativo, si sono formati i dativi *ūnūi e *illūi, da cui in rumeno si sono avuti unui (articolo indeterminativo) "a un", "di un" e il suffisso -lui (articolo determinativo) "al", "del". I genitivi plurali maschili/neutri ūnōrum e illōrum hanno dato origine a unor (articolo inteterminativo) "ad alcuni", "di alcuni" e al suffisso -lor (articolo determinativo) "ai", "dei". In altre parole, si può dire che si è costruita una nuova declinazione dalla destrutturazione di quella antica. 

Singolare
om < homō 

Nominativo/accusativo: 
   indeterminato: un om "un uomo" 
   determinato: omul "l'uomo"
     < homō ille

Genitivo/dativo
  indeterminato: unui om "di un uomo"/"a un uomo"
  determinato: omului "dell'uomo"

Vocativo: omule "o uomo"

Plurale 
oameni < hominēs

Nominativo/accusativo 
  indeterminato: nişte oameni "alcuni uomini"
  determinato: oamenii "gli uomini"
     < hominēs illī

Genitivo/dativo
  indeterminato: unor oameni "di alcuni uomini"/"ad alcuni
       uomini"
  determinato: oamenilor "degli uomini" 
    < hominum illōrum 

Vocativo: oamenilor "o uomini" 
 
Come si può vedere, si è conservato qualcosa dell'antico paradigma latino, ma è altrettanto vero che molto è stato rifatto.

La decadenza del genitivo in tedesco 

Nel tedesco odierno il genitivo è in forte decadenza, essendo sempre più spesso sostituito dalla preposizione von con il dativo. Eppure, ancora nella prima metà del XX secolo, il genitivo era in uso abbastanza rigoglioso. Ecco alcune testimonianze di questo declino, che pare inarrestabile.


"Il caso genitivo è il quarto, ultimo e meno utilizzato caso tedesco. È quasi completamente sostituito dal caso dativo nel parlato e nella scrittura di tutti i giorni." 
 
"Quindi, quello che devi sapere è che non devi imparare il caso genitivo: puoi gestire benissimo le situazioni quotidiane anche senza di esso."
 
"Il caso genitivo in tedesco è uno strano fenomeno al giorno d'oggi. Attualmente è in fase di cancellazione dalla lingua... ma nel frattempo a volte viene ancora utilizzato." 
 
"Il suo strano status di moribondo significa che il genitivo è usato raramente nel tedesco comune e quotidiano; ma è ancora appeso con le unghie nel mondo accademico e in altri registri formali." 

"A meno che tu non sia a un certo punto nei tuoi studi sul tedesco, in cui non riesci a pensare a un’altra benedetta cosa su cui lavorare oltre al caso genitivo, in realtà per ora consiglierei di continuare a ignorarlo."

"A seconda dei tuoi studi o del tuo lavoro, potresti non aver mai bisogno di usare effettivamente il genitivo stesso (a parte forse alcune frasi facili da memorizzare)."

"Ma se scegli di imparare il caso genitivo, probabilmente capirai meglio le notizie, i documenti legali e la letteratura... e c'è qualcosa (di utile) in questo!"

Questo è un caso molto singolare in cui si è sviluppato un processo di autolisi grammaticale non necessaria, avente come risultato la distruzione della lingua e dell'identità. Il genitivo funzionava benissimo, non c'era alcun indebolimento fonetico delle terminazioni caratteristiche. A mio avviso le motivazioni del disastro sono innanzitutto politiche e ideologiche: tutto ciò è stato innescato dall'autorazzismo!

Latino e lituano: un rapido confronto
 
L'usura delle code delle parole non colpisce tutte le lingue con la stessa velocità. Per questo il lituano ha conservato molto bene la declinazione ereditata dall'indoeuropeo, mentre il latino volgare l'ha consumata fino alla scomparsa completa. Riportiamo alcuni esempi significativi per illustrare meglio il concetto. 
Questa è la declinazione del sostantivo výras "uomo" in lituano, derivato dalla stessa radice indoeuropea che ha dato il latino vir "uomo": 
 
Singolare 
 
nominativo: výras
genitivo: výro 
dativo: výrui 
accusativo: výrą 
strumentale: výru 
locativo: výre 
vocativo: výre 

Plurale 

nominativo: výrai 
genitivo: výrų 
dativo: výrams
accusativo: výrus
strumentale: výrais
locativo: výruose
vocativo: výrai 

Questa è la declinazione del corrispondente vocabolo nel latino classico: 

Singolare 

nominativo: vir
genitivo: virī
dativo: virō
accusativo: virum 
vocativo: vir
ablativo: virō

Plurale

nominativo: virī
genitivo: virōrum, virum
dativo: virīs 
accusativo: virōs 
vocativo: virī
ablativo: virīs 
 
Senza entrare troppo nei dettagli, si riescono ancora oggi a individuare le forme simili, derivate da un identico prototipo indoeuropeo (IE).  
 
Dat. sing. virō = Dat. sing. výrui 
   < IE: -ōi
 
Acc. sing. virum = Acc. sing. výrą 
   < IE: -om
 
Voc. sing. vir = Voc. sing. výre 
  < IE: -e
Nota: 
In latino la terminazione -e è scomparsa nei nomi in -r della II declinazione, ma è presente in quelli che conservano -us al nominativo. 

Abl. sing. virō = Strum. sing. výru 
   < IE: -ōd 
 
Nom./voc. pl. virī =  Nom./voc. pl. výrai 
   < IE: -oi  

Gen. pl. virum = Gen. pl. výrų 
  < IE: -ōm
Note: questo genitivo latino continua la forma più antica, poi sostituita da virōrum < *wirōzōm

Acc. pl. virōs = Acc. pl. výrus
   < IE: -ons 

Dat./abl. pl. virīs = Strum. pl. výrais
   < IE: -ois 
 
Come spiegare queste discrepanze? Le genti baltiche sono rimaste in una condizione di grande isolamento dal mondo esterno in cambiamento tumultuoso. Giusto per fare un esempio, hanno adottato il Cristianesimo molto tardi, soltanto verso la fine del XIV secolo. Non ne sono ancora del tutto sicuro, ma credo che i sistemi grammaticali più complessi abbiano la tendenza a trovarsi tra i popoli più isolati. La questione merita di certo ulteriori approfondimenti. Sarò lieto di trattare molti altri casi di semplificazione, scomparsa e ristrutturazione della declinazione in numerose lingue di cui ho qualche rudimento.  

lunedì 24 maggio 2021

ETIMOLOGIA DI TARTINA E SUA ORIGINE GALLICA

La parola tartina deriva dal francese tartine, che è un diminutivo di tarte "torta salata; torta ripiena di crema o di confettura" (antico francese tarte). In altre parole, si tratta di un francesismo assimilato. I romanisti, nella loro ciclopica e supponente ignoranza, hanno pensato di ricondurre la parola francese tarte a una semplice variante di tourte "torta (dolce)", senza tenere in benché minimo conto l'impossibilità di una tale derivazione, già soltanto per motivi fonetici: non se ne riesce a  spiegare il vocalismo. L'idea che tarte sia la stessa identica cosa di tourte è molto diffusa, anche se non ha la benché minima speranza di essere vera. Quando mai in francese si è vista una vocale tonica posteriore come -ou- /u/ diventare -a- /a/? Se si domanda a chi sostiene questa implausibile mutazione quali ne sarebbero mai i motivi, non è in grado di rispondere. In effetti, in letteratura non si trova nulla di sensato su questo argomento. Errano certamente coloro che citano il francese car "perché?" come esito anomalo del latino cūr "perché?" (antico qūr, quūr, quōr), dato che questo car è il semplice e regolare prodotto del latino quārē (scritto anche quā rē) "come, perché", alla lettera "per la qual cosa". 
 
Un elemento di sostrato 

Per dare una spiegazione alla parola tarte è necessario comprendere che la sua derivazione è dal sostrato gallico. Non si tratta di un termine latino, essendo giunto dalla lingua celtica che fu parlata a lungo nelle Gallie, anche in seguito alla conquista ad opera di Roma. 
 
Protoforma celtica: *tartus "secchezza, siccità; sete".
Antico irlandese: tart "secchezza, siccità; sete" 
  Irlandese moderno: tart "secchezza, siccità; sete" 

A partire dai dati storici è ricostruibile anche un aggettivo derivato. 

Protoforma celtica: *tartu-māros "assetato, che fa venir sete"
Antico irlandese: tartṁar "assetato, che fa venir sete"
  Irlandese moderno: tartmhar "assetato, che fa venir sete" 

Nelle lingue discendenti dal britannico questa radice si è estinta: è scomparsa prima della comparsa dei più antichi documenti letterari. Si sono avuti prestiti evidenti dal latino siccus e siccitās, forse per motivi tabuistici. È perfettamente confermata la pronuncia del latino -c- come consonante occlusiva velare /k/ anche davanti a vocali anteriori per l'epoca in cui avvenne il prestito. 

Britannico: *sikkus "secco" < lat. siccus "secco"
   Gallese sych "secco" 
Britannico: *sikkitās "sete" < lat. siccitās "secchezza"
   Gallese syched "sete"

Nella lingua della Gallia Celtica dovette essersi conservata la stessa forma presente in antico irlandese. Possiamo in ogni caso ricostruire la situazione. 
 
Protoforma celtica: *tartus "secchezza, siccità; sete" 
Gallico: *tartus "secchezza, siccità; sete";  
   *tartos "secco, che fa venir sete; salato" 
       femminile: *tartā
       neutro: *tarton
   *tartā "cibo che fa venir sete; torta salata; torta molto dolce"  

Credo che questa mia ricostruzione sia ineccepibile dal punto di vista morfologio e formale. Senza dubbio può spiegare ogni cosa. Credo che sia qualcosa di originale, dato che non se ho trovato traccia alcuna nella letteratura scientifica. Dovrebbe quindi essere citata così: (Moretti, 2021). 
 
La radice protoceltica *tartus "secchezza, siccità; sete" proviene direttamente dal proto-indoeuropeo *tṛstus "secchezza, aridità", derivato dalla radice *ters- / *tors- / *tṛs- "secco, essere secco". Nelle lingue celtiche compare anche in altri derivati notevoli, con diverso vocalismo: 
 
Protoforma celtica: *tīros "terra arida" (< *tēros),
     genitivo *tīresos (< *tēresos)
Antico irlandese: tír "terra; paese, territorio, suolo" 
  Irlandese moderno: tír "terra; paese, territorio" 
  Gaelico di Scozia: tìr "terra; paese, territorio" 
  Manx: çheer "terra; paese, territorio"
Britannico: *tīros "terra" 
  Gallese: tir "terra" 
  Cornico: tir "terra" 
  Bretone: tir "terra"  
 
Protoforma celtica: *tīresmis "secco, arido"
Antico irlandese: tírimm, tirimm "secco" 
  Irlandese moderno: tirim "secco"

Protoforma celtica: *torrus "secco" (< *torsus)
Antico irlandese: tur "secco"
  Irlandese moderno: tur "secco" (detto di cibo)   
 
Protoforma celtica: *terkos "misero" (< *terskos)
Antico irlandese: terc "poco, scarso" 
  Irlandese moderno: tearc "poco, scarso"
Gallico: *terkos "miserabile" 
    Elementi di sostrato: 
    => Italiano: tirchio "miserabile, avaro" (antico terchio)  
    => Bearnese: terc "crudele" 
Celtiberico: *terkos "duro, rigido" 
   Elementi di sostrato:
    => Spagnolo: terco "testardo" 
    => Catalano: enterch "rigido"  
Ci occuperemo meglio di questi resti del sostrato in un successivo intervento.
    
In latino la radice indoeuropea in questione è stata ereditata da alcune importanti parole, subendo il passaggio regolare da -rs- a -rr- davanti a vocale e da -rst- a -st-
 
terra "terra" (< *tersa
terrestris "terrestre" (< *terestris; -rr- è per analogia) 
tesquum, tescum "deserto, terra desolata" (< *terskwom)
torrēre "seccare" 
   presente indicativo: torreo "io secco" (< *torsēio), 
       torrēs "tu secchi", torret "egli secca" 
   perfetto indicativo: torruī "io seccai" 
   participio presente: torrēns "che secca", 
       gen. torrentis 
   participio perfetto: tostus "seccato" (< *torstos)
   supino: tostum "per seccare" (< *torstum) (1) 
torridus "arido, seccato" 
torris "tizzone ardente" 
torrus "tizzone ardente" 
 
(1) Il supino deriva da un accusativo sclerotizzato di un tema in -u- (IV declinazione).
 
La stessa radice indoeuropea è stata ereditata dal protogermanico, essendo ben rappresentata in tutte le lingue discendenti. Ecco le principali protoforme ricostruibili:
  *þersanan "essiccare, rendere secco"
  *þurstiz "secchezza; sete" 
  *þurstuz "secchezza; sete"
  *þurzǣnan / *þurzōnan "essere secco" 
  *þurzijanan "essere secco; essere assetato" 
  *þurznanan "diventare secco; appassire"
  *þurzuz "secco" 
  *þurskaz "merluzzo" (lett. "pesce essiccato")
Queste sono le forme attestate in gotico: 
   afþaursjan /af'θɔrsjan/ "essere assetato" 
   gaþairsan /ga'θεrsan/ "seccarsi, essiccarsi" 
   gaþaursnan "diventare secco; appassire"
   þaursjan "assetare; essere assetato"
   þaursus /'θɔrsus/ "secco" 
Queste sono le forme attestate in norreno: 
   þerra "rendere secco, essiccare" 
   þorna "diventare secco, seccarsi" 
   þorskr "merluzzo" 
   þorsti "sete"  
   þurka "diventare secco, seccarsi"
   þurr "secco" 
   þyrstr "assetato, che ha sete" 

Si potrebbe andare avanti a lungo, ma credo che esuli dagli scopi di questo contributo.

La torta salata e la prostituta 
 
In inglese esiste tart "tipo di pasticcio contenente gelatina o conserva", "tipo di torta ripiena di frutta o crema" (medio inglese tart, tarte), un chiaro prestito dall'antico francese tarte. In Albione questo termine ha subìto uno slittamento semantico notevole, giungendo a significare "prostituta" - significato attestato per la prima volta nel 1887 (fonte: Etymonline.com). Esistono attestazioni di questa parola col senso di "donna attraente" dagli inizi del XIX secolo, anche nella forma jam-tart. Non è difficile passare da "torta appetitosa" a "donna attraente". Credo che Berlusconi capirebbe alla perfezione ciò che dico. La statua di Molly Malone a Dublino è soprannominata "the tart with a cart", ossia "la prostituta con un carretto". Questo perché la famosissima pescivendola dai capelli fulvi esercitava il mestiere più antico del mondo. Dopo aver passato il giorno a vendere pesce, di notte faceva uscire lo sperma ai clienti. 
Si segnala una falsa etimologia dell'inglese tart "prostituta" da una contrazione di sweetheart "tesoro" (termine di apprezzamento). Questa proposta grottesca dovrebbe essere vista con sospetto da tutti: presenta le tipiche caratteristiche di un'etimologia popolare. La parola sweetheart ha l'accento sulla prima sillaba, non sulla seconda: in Inghilterra è /ˈswiːtˌhɑːt/; negli States è /ˈswitˌhɑɹt/, realizzato come [ˈswiɾhɑɹt̠] o addirittura [ˈswiɾɑɹt̠], col tipico rotacismo. È verosimile che l'accento fosse sul primo elemento del composto anche in passato, cosa che rende il mutamento assai implausibile. Se tart fosse un'abbreviazione di sweetheart, permarrebbe con ogni probabilità qualche traccia del suo antico; vediamo invece che in nessun caso tart e sweetheart sono usati come sinonimi. Inoltre sweetheart può essere usato per rivolgersi anche a persone di sesso maschile (nel qual caso può anche significare "innamorato", "spasimante") e persino ad animali di affezione come cani e gatti. Anche lo slittamento semantico sarebbe quindi problematico.    
Non esiste connessione tra tart "prostituta" e l'omofono tart "aspro, acido", che deriva invece dall'antico inglese teart "doloroso, severo" (detto ad esempio di punizione; è dal proto-indoeuropeo *der- "spaccare"). Si tratta ovviamente di una somiglianza fortuita. 
 
Alcune note sull'etimologia di torta      
 
Esiste un singolare problema fonologico che si trascina da epoca antica e che riguarda la parola torta. Si suppone che il latino tardo ed ecclesiastico tōrta "torta, focaccia", la cui vocale lunga è ricostruibile dagli esiti romanzi, sia un derivato del verbo torquēre "torcere": avrebbe forse tratto il suo nome dalla forma originaria della preparazione gastronomica. Molto diffusa è l'idea che sia una semplice ellissi della locuzione torta pānis, tradotta con "pane attorcigliato" - dimenticando che in latino pānis "pane" è di genere maschile. La traduzione è erronea, dato che tōrta pānis può significare soltanto "torta di pane" (con pānis al genitivo), il che è di scarso aiuto. La prima attestazione della parola è nelle Tavolette di Vindolanda (I-II secolo d.C.), in cui compare come turta, cosa che complica non poco le cose. Riporto informazioni sulla coniugazione del verbo torquēre, da cui è derivato l'italiano torcere con cambio di coniugazione, semplificazione della labiovelare e palatalizzazione: 
 
torquēre "torcere" 
    presente indicativo: torqueo "io torco", 
        torquēs "tu torci", torquet "egli torce" 
    perfetto indicativo: torsī "io torsi"
    participio presente: torquēns "che torce", 
        gen. torquentis 
    participio perfetto: tortus "tòrto" (< *torktos
    supino: tortum "per torcere" (< *torktum
    participio futuro: tortūrus "che torcerà"
 
Derivati: 

torculāris "relativo al torchio"
torculum "torchio, frantoio, pressa"
torculus "usato per la torchiatura"
tormentum "fune, corda; tormento, supplizio"
tormina (pl. n.) "coliche, dolori intestinali" 
torminālis "anticolico, che serve a calmare le coliche"
torminōsus "sofferente di coliche" 
torquēs (gen. torquis) "collana, monile" 
torquis (gen. torquis) "collana, monile" 
torsiō (gen. torsiōnis) "spasmo, colica"
tortilis "ritorto, attorcigliato, ricurvo" 
tortiō (gen. tortiōnis) "l'atto di torcere"
tortīvus "ottenuto da torchiatura"  
tortāre "torturare, martirizzare, seviziare" 
   presente indicativo: torto "io torturo", 
        tortās "tu torturi", tortat "egli tortura"  
   participio presente: tortāns "che tortura"  
tortum "corda usata come strumento di tortura"
tortuōsus "tortuoso, sinuoso"
tortūra "tormento, supplizio; l'atto di torcere"
tortus "attorcigliato" 
tortus (gen. tortūs, IV decl.) "voluta; spira di serpente" 
 
In tutti questi casi i gruppi consonantici complessi del latino arcaico si sono semplificati senza provocare allungamento di compenso della vocale -o- precedente. La vocale -o- è sempre breve. Esempi: 
 
torculum "torchio" < *torklom 
tormentum "supplizio" < *torkmentom 
tormina "coliche" < *torkmena 
tortāns "che tortura" < *torktāients 
torto "io torturo" < *torktāio  
tortum "strumento di tortura" < *torktom
tortus "attorcigliato" < *torktos 
tortus "voluta" < *torktus   

Invece in tōrta "torta, focaccia" si è avuta invece la semplificazione del gruppo consonantico con l'allungamento di compenso della vocale -o- precedente: 

tōrta "torta, focaccia" < *torkta 

Perché questa diversità? Le spiegazioni possibili sono due: 

1) Il nome della torta è il prodotto di una tradizione diversa rispetto a tutte le altre forme derivate dal verbo torquēre
2) Il nome della torta non è un derivato del verbo torquēre: si tratta di un'etimologia popolare. 

Sono incline a credere che la spiegazione 2) sia quella giusta, ma ho ancora prove decisive. Si comprende alla luce di questi fatti che la questione non è affatto banale.
 
La situazione problematica la si vede in diverse lingue neolatine. In italiano il sostantivo torta ['torta] (con la vocale tonica chiusa) deriva regolarmente dal latino tōrta /'to:rta/ (con la vocale tonica lunga) e contrasta col participio passato del verbo torcere, che è tòrto ['tɔrto], femminile tòrta ['tɔrta] (con la vocale tonica aperta).  
In altre parole, esiste un'oppposizione fonetica minima:
 
torta /'torta/ (dolciume) - tòrta /'tɔrta/ (che ha subìto torsione)

Anche in francese l'esito regolare del latino tōrta /'to:rta/, che è tourte, riflette l'antico stato di cose. 
 
Richiamo l'attenzione dell'Accademia della Crusca su questi dettagli, anche se so in pratenza che il mio appello non sarà raccolto.