domenica 30 settembre 2018


DELITTO DI STATO
(FATHERLAND)

Titolo originale: Fatherland
Paese: Stati Uniti d'America
Anno: 1994
Formato: Film TV
Genere: Drammatico, fantascienza, thriller
Sottogenere: Fantapolitica, ucronia
Durata: 106 min
Lingua originale: Inglese
Rapporto: 4:3
Crediti
Regia: Christopher Menaul
Soggetto: Robert Harris, dall'omonimo romanzo
Sceneggiatura: Stanley Weiser, Ron Hutchinson
Fotografia: Peter Sova
Musiche: Gary Chang
Costumi: Barbara Lane
Effetti speciali: Syd Dutton and Bill Taylor, a.s.c. of
     Illusion Arts, Inc.
Produttore: Frederick Muller, Ilene Kahn
Prima visione
  Prima TV originale
  Data: 26 novembre 1994
  Rete televisiva: HBO
  Prima TV in italiano
  Data: 20 agosto 1997
  Rete televisiva: Rai 2
Interpreti e personaggi   
    Rutger Hauer: Xavier March
    Miranda Richardson: Charlie Maguire
    Peter Vaughan: Arthur Nebe
    Michael Kitchen: Max Jäger
    Jean Marsh: Anna von Hagen
    John Woodvine: Franz Luther
    John Shrapnel: Odilo "Globus" Globocnik
    Clive Russel: Krebs
    Clare Higgins: Klara
Doppiatori in italiano    
    Paolo Maria Scalondro: Xavier March
    Monica Gravina: Charlie Maguire
    Giorgio Gusso: Arthur Nebe
    Luigi Montini: Max Jäger
    Noemi Gifuni: Anna von Hagen
    Giulio Platone: Franz Luther
    Giancarlo Prete: Odilo "Globus" Globocnik
Budget: 4,1 milioni di sterline inglesi

Trama:

Siamo in un mondo in cui il III Reich ha vinto la Seconda Guerra Mondiale e domina incontrastato sull'Europa, estendendosi fino agli Urali. L'Inghilterra è stata invasa e tutte le nazioni europee un tempo sovrane sono state incorporate nella Grande Germania, con la sola eccezione della Svizzera e del Vaticano. Soltanto la Russia guidata dall'ottuagenario Stalin continua ad impegnare l'esercito tedesco in una permanente guerriglia oltre gli Urali. La famiglia reale britannica è in esilio in Canada e formalmente governa ancora il Commonwealth, anche se sotto la stretta supervisione del regime nazista. Adolf Hitler, Joseph Goebbels e Reinhard Heydrich governano con pugno d'acciaio, dando al contempo l'impressione di guidare un sistema ordinato e pacifico, in pratica una vera e propria utopia sulla Terra in cui le SS sono impiegate come semplice forza di polizia del tempo di pace. In occasione del settantacinquesimo compleanno di Adolf Hitler, nel 1964, il presidente statunitense John Patrick Kennedy (il padre del più noto John Fitzgerald) è in visita nella Welthaupstadt Germania, la capitale del Reich Millenario nata riplasmando la vecchia Berlino. L'ambizioso progetto è un'alleanza tra gli Stati Uniti d'America e la Germania hitleriana. In questo contesto idilliaco, ecco che un cadavere nudo come un verme emerge dalle acque di un lago in un parco pubblico alla periferia della Nuova Berlino e viene visto da un cadetto che nelle prime ore di luce correva tra i boschi flirtando con la Natura. Xavier March è un agente della Kriminalpolizei (Kripo) incaricato di occuparsi dello spinoso caso. Ha alle spalle una carriera da comandante di U-Boot e un matrimonio fallito da cui ha avuto un figlio. Il cadavere rinvenuto è presto identificato: appartiene a un importante ufficiale in pensione e amico del Führer, Josef Bühler, che anni prima fu il responsabile della "riallocazione" della popolazione ebraica nei territori orientali. Il caso, già di per sé molto delicato, si complica notevolmente con la comparsa in scena di Odilo "Globus" Globocnik, Generale Comandante della Gestapo dal cognome non proprio germanico. Mentre accadono queste cose, arriva in Germania una comitiva di giornalisti americani e tra loro c'è Charlotte "Charlie" Maguire, figlia di un famoso diplomatico. Per lei è un ritorno dopo molti anni, visto che da piccola aveva abbandonato il paese a causa dell'affermarsi della dittatura. A un certo punto la donna viene avvicinata da un anziano signore che le consegna una busta. All'interno c'è una nota che le permette di risalire a Wilhelm Stuckart, un altro ufficiale del Partito, anche lui in pensione come Bühler. Arrivata alla sua dimora, lo trova cadavere. Neanche a farlo apposta, il caso viene assegnato a Xavier March. Ha inizio una girandola di eventi che permettono di classificare questo film come thriller. Nel corso delle sue indagini, l'agente della Krimilalpolizei si imbatte in qualcosa di decisamente scomodo. Nella Grande Germania l'annientamento dei deportati è una cosa di cui pochissimi sono al corrente, persino tra gli stessi membri del Partito. La versione ufficale narra del trasferimento degli Ebrei europei in Ucraina, dove operano persino ufficiali incaricati di smistare la loro fantomatica corrispondenza, mantenendo i loro contatti con i parenti in America. Come l'agente March finisce per scoprire, tutto ciò è falso: gli Israeliti "riallocati" ad Est sono stati distrutti fino all'ultimo feto. L'uomo ne rimane sconvolto e decide di operare per rendere noto al mondo intero questo orrore. Così raccoglie un ponderoso pacco di documenti e lo consegna come una castagna bollente al presidente J.P. Kennedy, saltando sulla sua macchina in corsa, in una scena rocambolesca quanto inverosimile. Il capo di stato americano, che già si sta avviando all'incontro con il Fuhrer, osserva le atroci fotografie allegate alla documentazione e prende una decisione epocale. Ordina all'autista di invertire la marcia e si rifiuta di recarsi all'appuntamento. Tornato negli States, dà inizio all'embargo e al boicottaggio, provocando una spaventosa crisi economica che finirà col portare alla caduta dei Reich Millenario, come se fosse un giocattolo di cartapesta.   

Recensione:

Una tipica ucronia, tratta dal romanzo Fatherland di Robert Harris. L'opera presenta tutte le piaghe insite in quasi ogni opera ucronica comparsa finora su questo pianeta. La sua natura è talmente naïf e puerile da meritarsi una bocciatura senza appello. Il punto di divergenza, descritto nel prologo, è il fallimento dello Sbarco in Normandia. Presto si capisce che a dispetto di questo diverso corso storico, restano immutati eventi come il bombardamento di Dresda e il lancio delle atomiche sul Giappone. Non si capisce quindi come abbia fatto Hitler a vincere la guerra. Siamo di fronte sempre al solito insidioso errore di coloro che cambiano un evento cruciale ma sono incapaci di comprendere la portata delle sue conseguenze. Manca la comprensione del fatto che il cambiamento di un evento importante altera ogni cosa, impedendo ad altri eventi importanti di accadere e generandone di nuovi quanto imprevedibili. La Storia è Caos. Ogni sistema caotico è sensibilissimo alle condizioni iniziali. Se fosse fallito lo sbarco in Normandia non ci sarebbe stato il bombardamento di Dresda e nemmeno le atomiche su Hiroshima e Nagasaki. A rigor di logica dovrebbe capirlo anche un poppante, invece a quanto pare non è così. Questo inganno colpisce anche gli storici più preparati, come già evidenziato in altra occasione, nell'articolo John Collings Squire e il Principio di Conservazione della Realtà, in cui ho trattato la raccolta di racconti ucronici Se la storia fosse andata diversamente. L'approccio è sempre lo stesso: ritagliare eventi storici del nostro universo e incollarli tali e quali nel mondo ucronico, senza tenere minimamente conto della loro origine, della loro natura, delle dinamiche della loro formazione.

Die Beatles!

A un certo punto su una parete della Berlino nazionalsocialista plasmata dal genio architettonico di Speer compare un manifesto: si tratta della pubblicità di un concerto di un famoso gruppo musicale inglese. Si vedono, verdi su sfondo nero, le figure di John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison, con sopra l'angosciante scritta DIE BEATLES! A quanto pare, nell'immaginario di Christopher Menaul, il punto esclamativo è tipico di ogni pubblicità del regime hitleriano, che ovviamente non conosce consigli, ma soltanto imperativi categorici. Come a dire: andate a sentire i Beatles o vi spediamo a Dachau! L'ingenuità di tutto questo è disarmante.

Pubblico in questa sede un thread sull'argomento, sviluppatosi il 3 dicembre 2017 su Facebook: 

  Marco Moretti: Ieri sera ho visto Fatherland (1994, diretto da Christopher Menaul, con Rutger Hauer). Se devo essere franco, l'ho trovato una colossale stronzata. Come al solito quando si tratta di ucronie, non si vuole proprio capire che gli eventi propagano. Solo per fare un esempio, in un'Europa dominata da Hitler non si sarebbero formati i Beatles. 

  Giovanni De Matteo: Il film non l'ho visto, ma il libro era notevole. E non mi pare portasse in scena i Fab Four :)

  Marco Moretti:  Nel film compare un manifesto che li mostra, con la scritta "DIE BEATLES!" Non ho letto il libro, ma conto di farlo presto. Immagino che moltissime inconsistenze del film abbiano la loro radice nel romanzo. Non mancherò di recensire sia il film che il libro. Si noterà che Dick aveva gestito meglio l'argomento...

  Giovanni De Matteo: Però in questo caso serve proprio a dare un senso alla pervasività culturale della dittatura. I Beatles magari si sarebbero chiamati così ma non avrebbero fatto le stesse canzoni e sarebbero stati sicuramente asserviti all'agenda del partito.

  Marco Moretti:  I quattro forse sarebbero esistiti comunque come persone fisiche, visto che Lennon e Starr sono nati nel '40, McCartney nel '42 e Harrison nel '43. Tuttavia le condizioni della formazione sono state così delicate che non sarebbe potuta avvenire in un'Inghilterra tanto diversa: troppi eventi delicatissimi in causa.


  Giovanni De Matteo: Questo è senz'altro vero, ne facevo un discorso più generale.

  Roberto Furlani: Posto che le ucronie con il nazismo che ha prevalso hanno letteralmente triturato i cosiddetti, se non si fossero formati i Beatles non sarebbe di certo stata la conseguenza peggiore della tirannia teutonica. Mi avrebbe seccato più rinunciare alla libertà che a "Yellow submarine".

  Giovanni De Matteo: Vera la prima parte, ma in un trittico ideale di letture sul tema The Man in the High Castle, Fatherland e The Plot against America ci stanno tutti. Sono forse le uniche letture veramente necessarie. Però a me i Beatles sarebbero mancati, anche in quanto sinonimo e paladini della liberazione dei costumi.

  Marco Moretti: Se Hitler fosse riuscito a prevalere, o non esisteremmo fisicamente, oppure avremmo un sentire tanto diverso che non sapremmo nemmeno che definizione dare al concetto di "libertà": senza un confronto con il nostro mondo la questione sarebbe di lana caprina. La mia considerazione sui Beatles non riguarda tanto la politica, quanto l'ontologia temporale, ossia la natura del tempo.

  Giovanni Agnoloni: Diciamo, Giovanni, che difficilmente avrebbero potuto fare peggio di obladì obladà :D

  Giovanni Agnoloni: E Across the Universe, e A Day in the Life

  Roberto Furlani: Ho l'impressione che abbiamo le stesse preferenze. ;)

  Marco Moretti: Se lo sbarco in Normandia fosse fallito (presupposto del film), anche il corso della guerra degli USA contro il Giappone non sarebbe stato quello che conosciamo. Tutti gli eventi posteriori al 6 giugno 1944 sarebbero stati molto diversi. Il problema è che non abbiamo elementi per effettuare una ricostruzione attendibile. Non comprendiamo bene le variabili in causa. Per quanto riguarda la trama del film, la trovo raffazzonata. Il finale è a dir poco precipitoso. Ne consiglio comunque la visione.

  Alex Tonelli:  Anche Turtledove si cimento' con una ucronia simile... ah.. Eleonor Rigby is the best! :)

  Marco Moretti: Però nei romanzi di Turtledove il punto di discontinuità era l'invasione della Terra ad opera di una specie di giganteschi lucertoloni, quindi un elemento estraneo alle dinamiche storiche umane. Per quanto riguarda le canzoni dei Beatles, non mi piacciono un granché: quando si sono formati i miei gusti musicali, mi sembravano già obsolete.

  Alex Tonelli: Caro Marco mi riferivo a questo:


  Marco Moretti: Ti ringrazio della segnalazione, non ne ero a conoscenza. Del resto Turtledove non è tra i miei autori preferiti. Interessante la pagina di Fantascienza.com, in cui spicca uno splendido "tré figlie".

Trovo interessante l'intervento di Roberto Furlani sulla natura molesta di questo genere di letteratura e di filmografia. Ribadisco che le ucronie fondate sul Nazionalsocialismo si sono sviluppate in una mala pianta e sono devastanti: equivalgono a mettere i cabbasisi su una grande lastra di marmo e a far gravare su di loro una pila di volumi della Treccani, fino al completo spappolamento! Per quanto mi riguarda, poteva ben bastare il romanzo dickiano La Svastica sul sole (The Man in the High Castle), che pure presenta pecche di non poco conto, come ad esempio il finale inconsistente.

I Beatles nel romanzo di Harris

A dire il vero, nonostante il buon Giovanni De Matteo non lo ricordi, i Beatles sono stati portati in scena nelle pagine del romanzo di scarsa utilità da cui è stato tratta l'opera di Menaul. Vero è che non sono menzionati per nome, tuttavia il riferimento è inequivocabile. Eccolo: 

Un pezzo del critico musicale che attaccava i "lamenti perniciosi e negroidi" di un complesso di giovani inglesi di Liverpool, che aveva suonato di fronte a una folla strabocchevole di giovani tedeschi ad Amburgo.

No, i Fab Four non sono immaginati mentre cantano testi dettati nell'agenda della NSDAP, ad esempo qualcosa del tipo: "Alle armi, Camerati, per l'ultima battaglia razziale! Il giorno dello sterminio dei subumani è arrivato! La Svastica splende nel cielo come un milione di soli, annunciando il trionfo eterno della Razza Ariana!" Anche perché simili canzoni erano tipiche degli Alte Kämpfer, i vecchi combattenti della NSDAP ai tempi di Weimar, i Protonazisti. Che bisogno ci sarebbe di cantare queste cose in un'epoca in cui l'agenda politica del Partito si è realizzata, in cui si è immanentizzato l'Eschaton? Nessuno. Allo stesso modo, nemmeno si è pensato di far esibire i cantanti di Liverpool con un testo di Imagine in cui anziché "and no religon too" si sente "and not a single jew". Perché mai si dovrebbe, se di fatto - a quanto la gente ne sa - nella Grande Germania non c'è davvero più un solo ebreo? Infatti Harris non arriva a tanto. I Fab Four cantano proprio Ob-La-Di Ob-La-Da, Yellow Submarine, Lucy in the Sky with Diamonds e altri brani del loro repertorio, a cui siamo abituati fin da giovani. Questo pone problemi concettuali molto gravi. Come può credere Harris che nel Reich di Hitler sarebbe possibile anche soltanto qualcosa che va contro i princìpi del Nazionalsocialismo tedesco? Evidentemente Harris non sa nulla del Nazionalsocialismo, come non ne sa nulla Menaul.

Un finale senza senso

Dovrei definirlo "un finale meritevole di irrisione", ma non lo faccio perché non irrido i Morti. Proprio perché rispetto i Morti, penso che quanto concepito dalla mente di Harris e di Menaul sia qualcosa di inverecondo. Trovo molto difficile credere che un agente della Polizia Criminale del Reich possa saltare sulla macchina del presidente John Patrick Kennedy, consegnandogli le prove del Genocidio e convincendolo di colpo a rinunciare all'alleanza con Adolf Hitler. Secondo voi che sarebbe successo? Ecco come sarebbe andata se un evento simile fosse davvero accaduto. Primo: il Presidente degli USA, vedendo Xavier March, si sarebbe subito chiesto: "Chi cazzo è questo minchione?". Secondo: avrebbe gettato via i documenti, sdegnato. Persino di fronte alle foto, avrebbe pensato che fossero il frutto di qualche manipolazione, quindi in sostanza dei falsi. Il finale presuppone che Xavier March coi documenti sull'Olocausto sarebbe stato in grado di trasmettere a J.P. Kennedy tutta la sensibilità sull'argomento che è tipica del nostro corso storico e che è frutto di decenni di martellanti campagne di informazione che raggiungono tutti già fin dalla più tenera età. No. Il vecchio Kennedy non avrebbe fatto nulla nemmeno di fronte a qualche foto di persone morte di stenti e sottoposte a inaudite brutalità. Prima di tutto perché egli stesso proveniva da un paese in cui un feroce antisemitismo era diffuso in modo capillare (Harris ci rammenta che nei club di Boston non era stato ammesso un solo ebreo da cinquant'anni). Inoltre vale il principio della non trasferibilità istantanea di esperienze complesse. J.P. Kennedy non era stato educato in un sistema scolastico fondato sull'antifascismo e sull'antinazismo, in cui Adolf Hitler è giunto ad assurgere a Male metastorico. Non aveva mai letto il Diario di Anna Frank. Non aveva mai visto Schindler's List di Steven Spielberg. Non aveva mai visto Shoah di Claude Lanzmann. Non era mai stato esposto durante l'infanzia a un gran numero di foto in bianco e nero di montagne di cadaveri. Non poteva avere alcuna sensibilità sulle persecuzioni degli Israeliti, proprio perché la sua intera esistenza era il frutto di un mondo molto distante dal nostro. Ancora una volta, gli ucronisti ritagliano qualcosa dalla nostra realtà e lo appiccicano sulle loro costruzioni mentali, facendone qualcosa di incongruo.

Hitler, March e la coscienza

C'è un'altra cosa degna di nota. Il film vuole farci credere che un membro a tutti gli effetti del Partito Nazista, Xavier March, subisca nel corso degli eventi una sorta di sconvolgimento morale, che lo porta ad abbordare il Presidente degli Stati Uniti, con l'intento di metterlo di fronte ai crimini di Hitler. C'è tuttavia un problema in questa narrazione fumettistica. Adolf Hitler riteneva la coscienza, ossia la capacità di distinguere il Bene dal Male, una pura e semplice "invenzione giudaica" e una "sudicia tirannia". Egli affermava di essere venuto per cancellarla. Voleva dare origine a un Uomo Nuovo completamente sprovvisto di coscienza, la cui morale fosse un'emanazione dei princìpi del Nazionalsocialismo, il cui sole radiante era proprio il Führer, incarnazione mistica della Germania. A scuola non lo insegnano, ma si trattava di una religione vera e propria, non di un banale "odio per la diversità". Ecco, in una ventina di anni dopo il trionfo bellico, il Nazionalsocialismo sarebbe riuscito a cancellare il concetto di coscienza dal Reich e a sostituirvi i propri contenuti. Credo che sia impensabile immaginarsi un agente della Polizia Criminale immune da questo condizionamento profondo, da questa educazione religiosa fanatica. Facciamo un esempio concreto ma significativo. Nel sistema morale hitleriano, bere in eccesso era per un membro del Partito un significativo fallimento morale, mentre uccidere un prigioniero durante un interrogatorio era considerato irrilevante. Pensate che un uomo cresciuto in un simile contesto tremerebbe come una gelatina di fronte a qualche fotografia di gente torturata e uccisa? Non gliene importerebbe nulla, e mai arriverebbe anche solo a concepire di tradire la propria Patria per questo. Ovvio, stiamo parlando di concetti fuori dalla portata di Harris e di Menaul, che faticherebbero meno a capire le categorie di un popolo alieno abitante oltre gli ultimi Quasar. Ecco perché le loro opere hanno la stessa credibilità del personaggio di Attila Canarinis interpretato da Totò.

martedì 25 settembre 2018

LA LINGUA OLONETS DI HELLICONIA

Sono sempre stato affascinato dal Ciclo di Helliconia, del grande Brian W. Aldiss (RIP), fin dal primo istante in cui gettai gli occhi sulla copertina del primo volume della saga. Ero ancora uno squallido nerd liceale, quando acquistai La primavera di Helliconia e sprofondai in poltrona immergendomi nella densa lettura, che aveva su di me il potere di annullare i confini stessi dello spaziotempo e di teletrasportarmi sul mirabile pianeta di un sistema stellare doppio, plasmato dalla fantasia dello scrittore britannico. Quella stessa estate mi immersi nel secondo volume, L'estate di Helliconia, quindi l'anno successivo nel terzo, L'inverno di Helliconia, che però mi parve abbastanza sconclusionato e non all'altezza dei primi due. Dal momento che la linguistica e la filologia sono le mie più grandi passioni, la situazione linguistica del magnifico globo terracqueo helliconiano ha destato all'istante il mio profondo interesse. Ogni tanto, nel corso degli anni, prendevo i volumi di Aldiss e me li rileggevo tutti di un fiato, uno dopo l'altro, rimuginando molto e approfondendo i miei studi. Come ben sanno gli estimatori del Ciclo di Helliconia, il pianeta orbita in un sistema di due stelle e possiede tre masse continentali: il continente centrale, storicamente più importante è Campannlat, a settentrione troviamo il glaciale Sibornal e a meridione, isolato e bistrattato, Hespagorat. La lingua più diffusa nei continenti di Campannlat e di Hespagorat è chiamata Olonets, mentre a Sibornal è parlato il Sibish, caratterizzato da parole molto lunghe e da una grammatica assai complessa. Non sussistono somiglianze evidenti tra le lingue Olonets e Sibish. Si noterà che il nome Olonets è identico a quello di una lingua di ceppo uralico parlata in Carelia (Finlandia e Russia). Ci tengo a precisare che questa omonimia non deve ingenerare confusione: si tratta di due idiomi privi di relazione. Non è dato sapere, al momento, se lo scrittore inglese abbia tratto ispirazione dal nome della lingua uralica, dandone una diversa etimologia, o se si tratti di una mera coincidenza.

Filologia helliconiana su Facebook!

Il 16 ottobre 2013 ho pubblicato su Facebook alcuni post sulla lingua Olonets di Helliconia, dando vita a un interessante thread, che riporto in questa sede, aggiungendovi alcune note: 

Marco Moretti: Per rilassarmi mi dedico a un hobby decisamente ozioso: la ricostruzione della lingua Olonets di Helliconia a partire dalle testimonianze sparse nei libri di Brian Aldiss e seguendo una logica rigorosa. Le sue parole sono composte: tutto sta ad identificare il senso dei componenti. Così Mordriat è la terra dei Driat, e c'è anche Morstrual: si deduce che "mor" significa "terra", "paese". Se Akhanaba è Akha di Naab, segue che il genitivo singolare dei nomi propri esce in -a. Ho già un piccolo vocabolario. Essendo "rathel" il kumis e "beethel" l'idromele, conoscendo la tipica struttura delle parole Olonets, deduciamo che "el" è il vino, "rath" è il latte e "beeth" è il miele. Kacol è un fiume che scorre nella terra dei Kaci: ecco dedotto che "ol" è il fiume.

Giusy Rombi:  E Mordor...* 

*In realtà nel tolkieniano Mordor a significare "terra" è l'elemento "-dor".

Marco Moretti: In effetti Aldiss ha preso ispirazione da molte fonti disparate. Così ecco Oldorando, che somiglia a Eldorado; il Pontefice della Chiesa di Akhanaba è definito C'Sarr, senza dubbio ispirato da Zar. Ha persino definito "baranboim" dei giganteschi strumenti musicali, verosimilmente dei piatti di bronzo, ispirandosi al direttore di orchestra Daniel Barenboim. Possiamo dedurre che la prima parte di "baranboim" sia "baran" e significhi "tuono".

Giusy Rombi: Con un cognome così, si può pensare solo a qualcosa di grande :-)

Marco Moretti: Di certo fa il suo effetto, ha un che di onomatopeico.

Giovanni De Matteo: Sul resto posso concordare con la tua dotta ricostruzione, ma sull'ultima mi permetto di dissentire: Kacol potrebbe essere la forma primitiva e Kaci l'appellativo derivato da essa, sul modello dei rapporti tra regioni e popolazioni nel latino. 

Marco Moretti: Lo credo estremamente improbabile, dato che l'Olonets è una lingua chiaramente agglutinante, in cui le parole si formano aggiungendo suffissi o prefissi alle radici, o tramite composizione di più radici. Esiste un suffisso -i con funzione aggettivale che designa nazionalità, così Uskuti indica le genti di Sibornal. Allo stesso modo Kaci è formato dal nome della regione Kace, ben documentato e non analizzabile. La capitale di Kace è Akace, con un prefisso a-. Inoltre in latino esistono due tipi di formazione. La prima permette di ottenere nomi di popoli tramite suffissi a partire da nomi di luogo, come Romani da Roma, Albani da Alba, etc. La seconda dà origine a nomi di nazioni e di terre a partire da nomi di popolo non analizzabili, come Gallia da Galli, Aquitania da Aquitani, Celtica da Celti, etc. In entrambi i casi non si sottrae, ma si aggiunge in modi diversi. Il latino era comunque una lingua flessiva molto diversa come logica dall'Olonets.

Marco Moretti: Un rampicante che cresce vicino alle acque è detto "olvyl": anche se non ho ancora identificato il secondo membro del composto, il primo è "ol", ossia "fiume". Esiste poi un secondo "ol", derivato da "olle", che significa "dieci", come nel nome della lingua, che l'autore ci dice derivare da "olle" e da "onets", ossia "Dieci Tribù".

Marco Moretti: Pannoval è un toponimo composto da "panno", che significa "tenebra", e da "val", che significa "grande". E' infatti il nome di una città sotterranea. Ora, sapendo che "slanje" significa "idiota" e che un funzionario del Re JandolAnganol si chiama Slanjival, personaggio grottesco che l'autore presenta per destare ilarità, si trova conferma del fatto che "val" significa "grande"**. Il continente glaciale di Hespagorat annovera Hespateh tra le sue terre: "hespa" significa "ghiaccio". Aldiss glossa "poop" come "ponte", con diverse varianti volgari come "pup", "pu", ma anche "poo-", etc. Così ci sono due città costiere del distretto di Throssa che si chiamano Popevin e Pegovin, da cui si estrae "vin", che significa "costa". Popevin è dunque la Costa del Ponte. Vi sono regioni che hanno nomi anteriori alla diffusione dell'Olonets, derivati quindi da sostrati poi scomparsi. Lo si capisce dal singolare aspetto fonetico. Così Ponpt sembra Olonets come "pizza" sembra inglese: in epoche tarde il nome è stato assimilato in Ponipot per esser reso pronunciabile.

**La semantica è assai chiara: slanje "idiota" ha il significato centrale di "membro virile". Così Slanjival, il Grande Idiota, è letteralmente il Cazzone. 

Marco Moretti: Posso anche provare che le teorie evoluzionistiche di Aldiss sono posticce e che la versione che lui stesso ricostruisce della storia di Helliconia è fallace. Se l'Olonets si fosse originato nel continente di Hespagorat, come mai le genti di quel luogo avrebbero antroponimi chiaramente non Olonets e di una sonorità che ricorda quella dello spagnolo? Semplice: basta trascrivere tutti gli antroponimi di Campannlat e di Hespagorat contenuti nei libri di tale autore e classificarli per struttura fonotattica, per trovare così conferma di non poche anomalie.*** 

***In realtà le cose non sono sempre così tranquille: sembra che ogni persona su Helliconia porti un nome unico e irripetibile. 

Un intensissimo senso dell'ironia

Un brano molto importante de L'estate di Helliconia, che è stato per me il punto di partenza su cui fondare la filologia helliconiana, è il seguente:

– Senti, Sartori – aveva detto la donna, dandogli una piccola pacca su una spalla, – sono convinta che avremmo potuto dimostrare che i due continenti un tempo erano uniti, semplicemente studiando le vecchie mappe conservate in sala nautica. C’è Purporian sulla costa di Radado, ed un porto chiamato Popevin su quella di Throssa. «Poop» significa ponte in olonets puro, e «pup» o «pu» significa la stessa cosa in olonets locale. Il passato è racchiuso nel linguaggio, se si sa dove guardare.

E ancora:

Ci avvicineremo presto a Keevasien, una città costiera. Come sai, «ass» o anche «as» in olonets puro significa mare… l’equivalente di «ash» in pontpiano.

Ebbene, soltanto a distanza di anni mi sono accorto della salacità delle glosse. Ponte è "poop", mare è "ass". In inglese queste parole significano rispettivamente "merda" e "culo"

Glossario Olonets

Raccogliamo qui le voci da me studiate nel corso degli anni, che possono essere glossate in modo certo o comunque altamente probabile, proponendoci di riuscire in futuro ad ottenere un dizionario più esteso. Il principio di base che ho seguito è quello della natura composta e analizzabile della maggior parte delle parole con più di una sillaba. Mi sono astenuto dal riportare casi reputati ancora molto incerti. Credo che questa sia in assoluto la prima raccolta di parole della lingua Olonets in tutto il Web.

afram "un'erba usata per tingere di rosso" 
Akha
"Divinità Ctonia" 
albic
"un rampicante con cappucci rossi e
     arancioni" 

arang "capra"
asien "luogo marino"
asokin "cane cornuto"
ass "mare"
assat "lucertola; freccia"
assatassi "pesce lucertola"
assi "pesce di mare"
at "alto"
bag "immenso, gigantesco"
bar "rumore"
baral "crepitante, rumoroso"
baran "tuono"
baranboim "voce di tuono" (strumento musicale)
Bardol "Chiassoso" (n. pers. m.)
Batalix "il Sole Fioco" (una nana rossa)
beeth "miele"
beethel "idromele"
biyelk "grande bufalo necrogeno"
boim "voce, suono"
brassim "arbusto produttore di tuberi"
brassimip "tubero amaro"
breg "bue"
brooth "spina, tribolo"
casp "oro"
caspiarn "foglie d'oro"
char "petali"
charfrul "tonaca"
childrim "sogni a occhi aperti"; "una creatura
     aerea del Grande Inverno" 
creaght "giovane maschio di phagor"
C'Sarr "Pontefice"
denniss "sicomoro"
eddre "cuore, spirito"
ej "frutto"
el "bevanda inebriante"
dundar "torre"(1)
fessup "ombre dell'Ade"
fillock "giovane femmina di phagor"
flam "icore, sangue giallo"
flambreg "bovino dal sangue giallo"
flugg "trillo"
fluggel "sfera del trillo" (strumento musicale)
fral "veste"
Freyr "il Sole Lucente" (una gigante azzurra)
gillot "femmina adulta di phagor"
glee "gobba"
Gleeat "Gobba Alta" (nome di un'isola)
glossy "crisalide"
gor "testa; cima, punta"
gorat "vetta"
gossie "ombre dell'Ade"
grav "roccia, scoglio"
grava "di roccia"
gravabag "roccaforte"
Gravabagalinien "Luogo sul Golfo della Rocca"
greeb "coccodrillo"
gunnadu "antilope necrogena"
gwing-gwing "un frutto a grappoli"
harney "cervello"
hel "globo, sfera"(2)
Helliconia "Globo Terracqueo"(3)
hespa "ghiaccio"
Hespagorat "Vette Ghiacciate"
hoxney "cavallo"
hrattock "idiota; ano"
hurdhu "lingua franca"
idront "edera"
jass "neve"
jassikla "bucaneve"
jeodfray "un rampicante con fiori rossi e arancioni"
jonnik "ardente"
kaidaw "animale simile all'alce"
keedrant "mantello, veste lunga sul davanti"
keev, kee- "davanti"
Keevasien "Luogo Davanti al Mare"
khmir "lussuria"
lin "baia, golfo"
Madi "un popolo di ominidi"
Madura "Deserto dei Madi"
mel "lana"
mor "terra, paese" 
 
myllk "pesce a due braccia" 
myrk
"luce fioca"
Myrkwyr "apparizione della luce fioca"
Naab "Profeta"
Naba "del Profeta"
Nondad "un popolo di ominidi"
ol "fiume"
olle "dieci"
olvyl "tipo di rampicante"
onets "tribù"
os "città"(4)
Osoilima "la Città di Oilim"
pan "re"
pandum
"regno" 

panno
"tenebra"
Pannoval "Grande Tenebra" (nome della Città
     Santa)
pauk "trance"
pecubea "un uccello canoro"
peete "zampogna"
pha "due"
phagor "ancipite" (lett. "che ha due punte")
Phar "Doppio" (n. pers.)
Ponptpandum "Regno di Ponpt"
 

poop "ponte"
preet "pappagallo"
raige "un'erba aromatica dolciastra"
ram "scuro, nero"
raj "tronco"
rajabaral "tronco crepitante"
rath "latte"
rathel "bevanda alcolica di latte di scrofa"
roon "orso"
rumbo "copula, scopata"
rungeb "cresta"
rungebel "sciroppo oppiaceo"
runt "bambino di phagor"
rusty "cenere"
Rustyjonnik "Cenere Ardente" (nome di vulcano)
Sataal "Arciere" (n. pers. m.)
scant "aroma"
scantiom "erba aromatica"
slanje "pene; idiota"
snoktruix "guaritrice"
squaan "piccola spina"
squaanej "frutto spinoso"
stallun "maschio adulto di phagor"
stam "orina"
stammel "lana grezza tinta con l'orina"
stung "bruco"
stungebag "bruco immenso" (un animale del Grande
     Inverno)
tenner "mese"(5) 
tether "annientamento" (stato di dissolvimento dei
     phagor)
timo "strisce bianche e nere"
timoroon "tasso, orso striato"
trittom "sesso orale"
uct "sentiero migratorio"
ura "deserto"
val "grande"
veronika "tabacco"
veronikane "pipa"
vin "costa"
vispard "tipo di arbusto"
vrach "cembalo"
Weyr "Grande Inverno"
with "notte"
Withram "Notte Oscura" (dio della tenebra)
Wutra "Splendore Diurno" (divinità uranica)
 
yad (-iad) "libro"
yarn (-iarn)
"foglia" 

yarrpel "tipo di rampicante"
yelk "bufalo necrogeno" 
yelk-yob
"fellatore di bufali" (insulto)
yob "fellatore, succhiacazzi"
yom (-iom) "erba"
yoodhl "liquore di alghe" (< Sibish yadahl)
zadal "tipo di arbusto" 

(1) La parola è un prestito dall'antica lingua di Ponpt. Gal-Dundar "Mille Torri". L'interpretazione è mia. 
(2) Dalla lingua dei Phagor hrl.
(3) Dalla lingua dei Phagor Hrl-Ichor Yhar.
(4) In Olonets volgare è osh.
(5) Dalla lingua dei Phagor T'Sehn-Hrr, glossato "Decimo", ossia "decima parte dell'anno".

Per quanto riguarda i nomi degli animali, come arang "capra", la glossa è ovviamente una semplificazione concettuale, indicando l'animale helliconiano più simile per aspetto a quello terrestre, pur potendo sussistere significative differenze biologiche. Così il simil-equino detto hoxney è glossato come "cavallo", anche se la sua riproduzione comporta una fase invernale di ibernazione allo stato di crisalide, che non si riscontra nei nostri mammiferi. Si noteranno alcune interessantissime consonanze col semitico:

casp "oro" - ebraico keseph "argento"
     < protosemitico *KASPU "argento" 
Naab "Profeta" - ebraico nabhi "profeta", arabo Al Nabi "Il Profeta"
     < protosemitico *NABI:'U "profeta" 

Sarebbe interessante capire il motivo di queste assonanze, se siano dovute al caso o a una possibile conoscenza di qualche lingua semitica da parte dell'autore. In altri casi sembra invece che le parole Olonets siano state coniate a partire a partire dall'inglese o da altre lingue europee. Ad esempio scantiom "erba aromatica" è stato forse ispirato dall'inglese scent "odore", mentre lo strumento musicale denominato fluggel è forse stato ispirato dal tedesco Flügel "pianoforte a coda", anche se descrive qualcosa di completamente dissimile. Il fluggel è infatti uno strumento che sta nel palmo di una mano.

Tre falsi vocaboli Olonets

A distanza di anni mi sono reso conto che alcune parole, riportate come Olonets nella versione italiana de L'estate di Helliconia, hanno in realtà un'altra e più banale origine. Si tratta dei seguenti vocaboli: tabor, un tipo di strumento musicale; alcanna, un tipo di erba; coz, evidentemente un termine di rispetto usato tra nobili. Innanzitutto tabor è una parola... inglese! Significa "tamburo" e ha anche la stessa etimologia. Non si usa più molto, essendo stata rimpiazzata da drum, eppure esiste. Non riconosciuto, questo tabor è rimasto non tradotto nella versione in italiano. La parola alcanna in inglese significa henné ed è di origine araba. Anzi, è proprio una variante di henné con l'articolo arabo al. Nella versione spagnola del romanzo è correttamente tradotta con "henna". La parola coz non è altro che una forma colloquiale dell'inglese cousin "cugino". Ancora una volta, mentre nella traduzione in italiano la parola resta immutata e viene evidenziata in corsivo, come se fosse Olonets, nella traduzione in spagnolo compare correttamente come "primo", ossia "cugino". Evidentemente il traduttore in spagnolo si è dimostrato più competente del traduttore in italiano! 

Un falso toponimo Olonets

Vediamo che nel Ciclo di Helliconia è conosciuta come Veldt un'area di grandi pascoli. In realtà esiste in inglese la parola veldt, solitamente scritta veld e traducibile con "pascolo aperto o prateria". In genere è usata per descrivere il paesaggio del Sudafrica e di alcune nazioni limitrofe. Infatti si tratta di un prestito dall'olandese veld, veldt "campo", la cui origine è proprio la stessa dell'inglese field. A quanto pare Brian Aldiss non aveva piena fiducia nelle sue capacità di glottopoiesi e introduceva in modo insidioso nella sua opera vocaboli peculiari quanto appartenenti a lingue terrestri, beandosi del fatto che non sempre ne è agevole il riconoscimento.

Nuove parole composte 

Con i vocaboli sopra riportati è possibile coniare numerosi composti, non attestati nell'opera di Aldiss, che obbediscono però a una logica rigorosa:

assos "città di mare"
asval
"oceano" (lett. "grande mare")
beethip "miele amaro"
Borlienos "le città di Borlien"
Borlienpan "Re di Borlien"
Borlienpandum "Regno di Borlien"
caspel "globo d'oro, sfera d'oro"
caspiad "libro d'oro"
eddrival "magnanimo" (lett. "dall'anima grande")
eddrivaldum "magnanimità" 

elip "aceto" (lett. "vino aspro")
elram "vino rosso" (lett. "vino nero")
gorram "testa nera"
gorval "grande testa"
keemor "davanti al paese"
keevass "davanti al mare"
keevol "davanti al fiume"
keevonets "davanti alla tribù"
keevos "davanti alla città"
khmirval "grande lussuria"
Morden "la terra dei Den"
Mortal "la terra dei Tal"
Oldorandpan "Re di Oldorando"
Oldorandpandum "Regno di Oldorando" 
olram
"fiume scuro"
olval "grande fiume"
osval "grande città"
Pannovaliad "il Libro di Pannoval"
Pannovalos "le città di Pannoval"
Pannovalpandum "Regno di Pannoval"
phardum "dualità"
Ponptos "le città di Ponpt"
popeval "grande ponte"
rathip "latte acido"
slanjidum "stoltezza"
valdum "grandezza"
yobix "fellatrice"

Sarebbe stato bellissimo discutere di questi argomenti con Brian Aldiss. Purtroppo non è più possibile farlo, dato che si è spento nel 2017 e che non sono disposto a ricorrere a pratiche necromantiche per evocare la sua ombra.

giovedì 20 settembre 2018

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Terza)
 

Vai alla Parte Seconda
Vai alla Parte Prima

VIII 

La città dava il peggio di sé nelle ore notturne, quando le mura degli edifici rilasciavano il calore assorbito durante il giorno. Ondate di aria rovente trasformavano le strette  strade del centro in altrettante fornaci. Rinchiusi nelle proprie abitazioni, gli elissini boccheggiavano disperati. Attendevano il sopraggiungere dell’alba e di un poco di un refrigerio.
Di tanto in tanto un grido d’agonia squarciava il silenzio: la città aveva perso un abitante, stroncato dall’afa. Unici a rimanere attivi in quelle notti da incubo, gli addetti alle pompe funebri. Raccolti in crocchi intorno alle fontanelle nei giardini pubblici, vegliavano con uno stock di bare sempre a portata di mano, attenti a cogliere anche il più flebile rantolo che preannunciasse un decesso. Quando ciò accadeva, scattavano come branchi di lupi. Talvolta squadre di agenzie rivali si incrociavano nell’androne di un palazzo: ne scaturivano risse violentissime. La squadra che aveva la meglio irrompeva poi, trafelata, nella casa del morto. Neutralizzata la vedova con del cloroformio, i necrofori provvedevano al lavaggio, stiratura, vestizione e imballaggio del cadavere. Queste operazioni si svolgevano a una velocità stupefacente, frutto di un intenso addestramento. Il momento più critico era quello dell’uscita dal palazzo, e non tanto per  la difficoltà di calare una bara giù per scale anguste e pericolanti, ma per il rischio di vedersi scippare il morto da una squadra rivale appostata all’esterno. Fu durante una di queste notti che Kavàla e Garm fecero ingresso in città. Lo sgrinz, fedele alla parola data, li aveva condotti sino all’imboccatura del ponte.
  - Ho mantenuto il mio impegno. Non procederò oltre. Ci salutiamo qui, e per sempre. Confido di non ritornare più su questa terra in alcuna forma. Vi auguro di riuscire in ciò che vi prefiggete. Addio amici miei!
Kavàla carezzò il testone dell’onesto animale e altrettanto fece Garm. Erano entrambi emozionati.  Rimasero a guardare lo sgrinz che si allontava, sino a perdersi nel buio.
  - Non lo rivedremo mai più - singhiozzò Kavàla.
  - Ma non lo dimenticheremo.
Si misero in cammino, per sfuggire agli sciami di zanzare. Traversato di gran carriera il ponte in pietra che sovrastava il Nitico, si affacciarono su un ampio viale ai cui lati si ergevano costruzioni massicce.
  - Siamo ad Elissinia, finalmente.
Data l’ora, non si vedeva in giro anima viva.
  - Saranno morti tutti?
  - Non dire sciocchezze Garm, staranno dormendo.
Il viale sfociava in una piazza dominata da un imponente gruppo scultoreo: raffigurava un uomo in ginocchio, in abiti da domestico, intento a lucidare gli stivali di un uomo riccamente abbigliato e dal portamento altero.   
  - E adesso dove andiamo?
  - Chiediamo a quel cane randagio.
Un cane di mezza taglia, magro e dal pelo arruffato, si stava dirigendo verso di loro con andatura ciondolante. Aveva l’aria di essere avvezzo alla vita errabonda. Nei suoi occhi bigi la bontà d’animo traspariva, come spesso capita di osservare nei cani, sotto a un denso velo di tristezza.
  - Avete qualcosa da mangiare?
  - Dagli una galletta, Garm.
  - Siete nuovi di qui, vero? - chiese il cane sgranocchiando di gusto il cibo ricevuto.
  - Sì, e non abbiamo dove riposare.
  - A quest’ora è tutto chiuso. Ci sarebbe un posto fresco e riparato: se volete vi ci accompagno.
  - Sei senza padrone?
  - Ce l’avevo. E’ morto due anni fa.
  - Era molto anziano?
  - Non tanto, ma era malato. Ho vissuto con lui per sette anni.
  - Non è poco.
  - Specialmente per un cane. Ora, alla mia non più giovane età, mi ritrovo a spasso.
  - Non ci siamo ancora presentati: io sono Kavàla, lui è Garm. E tu, hai un nome?
  - Il mio padrone mi chiamava Anacleto.
Stavano così parlottando quando improvvisamente da un balcone si sporse un uomo in mutande, il quale li apostrofò aspramente.
  - La volete smettere di far rumore? Qui c’è gente che dorme!
  - Ci scusi, non volevamo disturbarla - replicò Kavàla.
  - E allora levatevi di torno!
  - Le pare questo il modo di rivolgersi a una donna?
L’uomo in mutande avvampò  di rabbia.
  - Adesso scendo e vi sistemo io! Vi concio per le feste!
Dì lì a poco si udì un gran trambusto, quindi una serie di pesanti tonfi seguiti da un urlo di dolore. I lamenti che giungevano da dietro il portone del palazzo non lasciavano adito a dubbi: l’uomo era caduto per le scale.
  - Sentite - suggerì Anacleto - togliamoci di qui, è meglio.
Mentre si allontanavano, una squadra di addetti alle pompe funebri sopraggiungeva di gran carriera reggendo una bara rozzamente intagliata. Due di essi forzarono il portone e ne uscirono reggendo il corpo esanime dell’uomo in mutande. Lo deposero nella cassa che i colleghi avevano poggiato sul marciapiede. In un battibaleno il coperchio fu inchiodato alla bara e la squadra ripartì a tutta velocità.
  - E’ bell’e morto? - domandò Kavàla, incredula.
  - Immagino di sì. A volte però, se non sono proprio morti del tutto, gli danno un aiutino.
  - E cioè?
  - Un colpetto alla base del cranio, giusto per accelerare la dipartita.
  - Certo che era proprio un bruto.
  - Se solo avesse immaginato quel che l’aspettava!
  - Mai lasciarsi trasportare dalla collera.
  - Mi ha sempre intrigato il tema delle passioni. Di un temperamento focoso si dice che è passionale.
   - E’ una questione di misura. Un individuo irascibile è un individuo spiacevole.
  - Anche un soggetto apatico non è propriamente il massimo.
  - Io sono stato spesso accusato di avere un atteggiamento apatico nei confronti della vita.
  - In effetti, Garm, un po’ lo sei davvero. Non ti curi di nulla: da quanto tempo non cambi l’abito che indossi? Sembri uno spazzacamino.
  - Ma io sono uno spazzacamino. Era quello, il mio mestiere. O meglio, lo è stato finché mi è capitato un incidente.
  - Racconta.
  - Una volta sono rimasto incastrato in una canna fumaria. E’ stato terribile.
  - Povero!
  - Da allora non ho più lavorato.
  - Hai cambiato mestiere?
  - No, ho smesso di lavorare del tutto. Mi sono dato alla meditazione.
  - E come mangiavi?
  - Grazie alla generosità del mio maestro Firlfrind.
  - E non hai fatto altro che meditare, da allora?
  - Sì, ma ti garantisco che è spossante.
  - Di grazia, qual era l’oggetto delle tue riflessioni?
  - La natura transeunte dei fenomeni, la mutevolezza delle forme.
  - Potevi almeno mutare i vestiti.
  - Lasciate che vi racconti una cosa - disse il cane. - Il mio padrone non ha mai lavorato in vita sua. Mai. Non l’ho mai visto chinarsi a strappare le erbacce in cortile. Era un tipo malinconico, usciva pochissimo di casa. Parlava sempre da solo.
  - Di che viveva?
  - Dell’eredità ricevuta da uno zio. E’ morto dopo aver speso gli ultimi spiccioli rimastigli.
  - Che storia!
  - Non mi sento di biasimarlo. Mi ha sempre dato da mangiare. Era un individuo inadatto alla vita, tutto qui.
Cammina cammina i tre amici giunsero nei pressi di una costruzione in pietra.
  - Seguitemi - disse Anacleto  - ma fate attenzione ai gradini: sono molti ripidi.
Discesero quattro rampe di scale e si ritrovarono nelle catacombe di Elissinia.
  - Sono state scavate nel tufo, secoli fa.
  - Da chi?
  - Dai primi seguaci della Nube Purpurea.
  - E perché si sono segregati qui sotto?
  - Per non essere uccisi.
  - E questi teschi a chi appartengono?
  - A quei primi seguaci.
  - Sono morti lo stesso, quindi.
  - Che ragionamento! Morire, prima o poi, si muore tutti, ma c’è modo e modo.
  - Così hanno preferito vivere come talpe?
  - Esatto.
  - Chiamala vita.
  - Ragazzi, le cose non sono mai così semplici come voi credete… C’è gente che passa l’intera esistenza in uno scantinato e poi muore, senza aver mai veramente vissuto. La vita come voi la intendete non è alla portata di tutti.
  - Io in queste catacombe non ci voglio stare. Non ci rimango un minuto di più! - esclamò Kavàla battendo i piedi per il nervoso.
  - Non ti preoccupare, dove vi porto io gli spazi non sono così angusti, fidati.
  - Dai Kavàla, coraggio, andiamo!
Garm si mostrava insolitamente deciso, cosa che sorprese non poco la ragazza, abituata a vederlo sempre titubante, in preda all’ansia e agli spasmi intestinali.
Anacleto si muoveva spedito.
  - Conosco palmo a palmo questi cunicoli! Ecco, vedete quella luce laggiù?
Al termine della galleria brillava una luce azzurra, la cui intensità andava aumentando man mano che il terzetto procedeva in quella direzione.
Kavàla strattonò Garm per un braccio.
  - Non pensi di dovermi una spiegazione? All’improvviso ti vedo deporre le tue titubanze e partire a spron battuto appresso a un cane in queste orride catacombe. Dove mi stai conducendo? E tu, Anacleto, credi forse che io sia così sciocca da credere che il nostro incontro con te sia stato casuale?
Garm interruppe la propria corsa.
  - Hai ragione. E’ il momento che io metta le carte in tavola. La missione di cui ti ho parlato consiste nel restituire la libertà al mio Re, rinchiuso nel sottosuolo di Elissinia. E’ alla sua prigione che siamo diretti.
Anacleto prese a sua volta la parola.
  - Non ti reputo sciocca, anzi. Il mio compito è quello di condurvi sino a colui che Garm dovrà liberare. Un compito che mi è stato assegnato da Firlfrind, come avrai già indovinato.
  - E chi sarebbe questo Re?
  - E’ il sovrano da cui pure tu dipendi, anche se non lo sai: il Re del Nulla.
Kavàla si zittì.  
  - Non possiamo indugiare oltre! - disse Anacleto. - Seguitemi, presto.
Si rimisero in cammino. Le pareti di roccia del cunicolo presentavano striature argentee la cui brillantezza, esaltata dalla rifrazione dei raggi luminosi provenienti dall’uscita, colorava l’ambiente di riflessi cangianti. 
Un soffio d’aria maleodorante li investì nel momento stesso in cui varcarono la soglia.
Dinanzi a loro si apriva una grotta smisurata, pullulante di anziani, uomini e donne.
Kavàla e Garm trasalirono.
  - Ecco dov’erano finiti i vecchi!
  - Credevo che fossero tutti morti.
  - Ma no - intervenne Anacleto. - Li hanno solo nascosti quaggiù.
  - Guarda quelli: sembrano statue di sale.
  - Sono i catatonici: trascorrono intere giornate immobili, paralizzati dalla disperazione.
  - Terribile!
  - Sono consapevoli di non avere più alcun futuro.
  - E quelle donne scarmigliate che vanno avanti e indietro gesticolando? Perché gridano così?
  - Sono affette da demenza. In fondo però stanno meglio di quegli altri: perse come sono nel loro delirio non si rendono conto di nulla.
  - Chi li ha messi quaggiù?
  - I loro figli. Non che mi senta di biasimarli. Vivere con un genitore ridotto in quello stato non è facile, anzi. Il fatto è che la ruota gira. Siete tutti destinati a invecchiare e un domani toccherà a voi finire in queste grotte.
  - Quaggiù io vedo solo afflizione e miseria.
  - Perché sei una donna sensibile. Ma ti domando: la vita va giudicata dal suo epilogo o dal suo cominciamento?
  - Spiegati meglio.
  - Dinanzi a te sta una moltitudine di anzianissimi: individui giunti al termine della propria esistenza. Logico che, vista da qui, ovvero dal suo triste approdo, la vita appaia uno strazio. Ma se li avessi visti quand’erano ancora bambini vivaci, intenti al gioco? Il tutto ti apparirebbe sotto una luce diversa.
  - Non c’è il minimo dubbio. Fatto sta che il tempo non procede a ritroso. Dunque, è sulla base del presente che io emetto un giudizio. Né potrei fare altrimenti.
  - Kavàla ha ragione, Anacleto.
  - D’accordo. Ma l’oscurità di quaggiù non vi induca a dimenticare che, in superficie, il sole sorge ancora.
  - E meno male. Per intanto, qui, c’è una puzza tremenda di pipì.
  - Questi poveretti se la fanno tutta addosso.
  - Che tristezza. E’ questo dunque ciò che ci aspetta?
  - Sì, se non avrete la fortuna di morire al momento giusto.
   - E quale sarebbe, di grazia, il momento giusto?
  - Quando si è ancora se stessi. Ma è un privilegio riservato a pochi.
  - Quanti sono i vecchi concentrati quaggiù?
  - Migliaia. Ci sono almeno una decina di grotte grandi come questa, piene zeppe di anziani. 
  - E quel bassorilievo là? – chiese Garm indicando con la mano un simbolo scolpito nella parete opposta della grotta. - Cosa raffigura?
  - E’ un simbolo antichissimo.
  - Sembra una ruota.
  - Infatti. Sta proprio a significare il susseguirsi ciclico delle nascite e delle morti, e i suoi bracci rappresentano le varie forme che la vita può assumere: esseri umani, animali, piante, demoni. Una ruota che è in perenne movimento.
  - E cosa la fa muovere?
  - Il desiderio di vivere che è in ciascuno di noi.
Mentre Garm e Anacleto così discorrevano, Kavàla seguitava a osservare i vecchi.
  - Non possiamo far niente per loro? - domandò sconsolata. - Se solo qualcuno rivolgesse loro una parola buona…
  - In questa grotta sono novecento. Ti garantisco che dopo una settimana a contatto con loro fuggiresti a gambe levate.
  - Intanto - disse Garm - io suggerirei di proseguire e porre la giusta distanza fra noi e questo luogo di dolore.
  - Ottima idea - replicò Anacleto e si diresse di buona lena verso una galleria prospiciente. La galleria era ampia abbastanza da consentire il passaggio di un carro, ma ingombra di oggetti ammassati alla rinfusa: valigie, scarpe, abiti, lenzuola.
  - Di chi è tutta questa roba?
  - Dei vecchietti. E’ il loro corredo, per così dire. I figli lo confezionano con cura, senza sapere che poi finirà sparso in questo modo dal personale ausiliario.
Farsi largo in quel baillame richiese non poca fatica. La galleria era lunga un centinaio di metri: impiegarono più di mezz’ora per percorrerla.
Superato l’ultimo sbarramento di valigie, si ritrovarono in una grotta grande quanto la prima, ma del tutto deserta, il cui pavimento privo di asperità era ricoperto da uno strato uniforme di sabbia finissima. Al centro della grotta videro quello che pareva l’orlo di un pozzo, il cui diametro non era inferiore ai venti metri. Vi si avvicinarono con circospezione e fecero per sbirciare oltre il bordo,. Quand’ecco che, dall’abisso, si levarono grida stridule.  Spaventati, si affrettarono a rifugiarsi nuovamente nella galleria. Creature alate, dai tratti vagamente antropomorfi, emersero dal pozzo e si librarono sotto la volta della grotta, per poi rituffarsi nel tenebroso abisso.
  - E adesso che facciamo? - domandò Kavàla.
  - Dovete scendere nel pozzo - rispose Anacleto. - E’ lì che lo tengono prigioniero.
  - Firlfrind mi parlò di questo luogo. Il solo modo per arrivare alla cella del Re è quello di convincere i pipistrelloni ad aiutarci.
  - Dimmi come.
Garm aprì la bisaccia e ne tirò fuori una manciata di pistacchi.
  - Ne vanno ghiotti. Con questi ci faremo offrire un passaggio.
  - Ma capiscono almeno la nostra lingua?
  - Firlfrind questo non me l’ha detto.
  - Lo scopriremo subito.
Senza indugi, la bella Kavàla tolse la bisaccia a Garm, uscì allo scoperto e lanciò un grido del tutto identico a quelli emessi dalle creature alate. Dall’abisso le rispose un coro di acuti stridii, e poco dopo apparvero due di quegli esseri volanti, che si posarono proprio dinanzi a lei.
  - Guardate cos’ho per voi - disse Kavàla tendendo loro una manciata di pistacchi. Gli occhi lattiginosi delle strane creature si spalancarono per la sorpresa. Sui loro volti diafani, dai lineamenti semiumani, apparve una specie di sorriso. Kavàla lasciò cadere un po’ di pistacchi fra i loro artigli protesi.
  - Se mi aiuterete, ve ne darò un bel sacchetto. Dovrete trasportare in fondo al pozzo me e il mio amico, e poi riportarci qui, insieme a un’altra persona. Mi avete compreso? Siamo d’accordo?
Le due creature annuirono entusiaste, sgranocchiando i pistacchi.
  - Potete uscire. Ci aiuteranno.
Garm, seguito dal cane, raggiunse Kavàla.
  - E tu, Anacleto?
  - Io vi aspetto qui. La mia parte l’ho fatta. Vi ho guidati fin quasi alla meta. Ora tocca a voi.
I due giovani montarono in groppa ai pipistrelloni. Quando si furono ben sistemati, i due esseri alati si alzarono in volo. Compiuti alcuni giri concentrici intorno all’imboccatura del pozzo, calarono repentinamente nell’abisso.
Kavàla lanciò un grido. Se l’oscurità ammette gradazioni, quella racchiusa fra le pareti del pozzo era senz’altro del genere peggiore: talmente fitta da risultare impenetrabile. Parve, ai due giovani, di sprofondare in una cisterna di nerissimo inchiostro. Seguendo una traiettoria a spirale, gli esseri alati scesero in fondo all’abisso. Qui giunti, deposero i propri passeggeri.
  - Dove sei Garm? Non ti vedo!
  - Sono qui Kavàla! E ora ci abbandonano in queste tenebre?
Si udì un cigolio: una pesante porta si stava aprendo, sospinta dalle creature alate. Una lama di luce fendette l’oscurità, dapprima debolmente, poi con sempre maggior forza, man mano che l’apertura si ampliava. Una volta spalancata del tutto la porta, si rivelò agli sguardi dei due giovani un corridoio dalle pareti rivestite di lastre di marmo.
  - Questo passaggio non può che condurre alla cella del Re.
Garm prese per mano Kavàla e si inoltrò con lei nel corridoio, scavato nella roccia seguendo un tracciato irregolare, zigzagante. Percorsi alcune decine di metri, udirono dei suoni provenire da dietro l’ennesima svolta. Voci umane. Restando ben nascosti, tesero le orecchie per cogliere il contenuto della conversazione che si stava svolgendo a pochi passi da loro.        
  - Ti ho mai detto di mio zio? - disse una voce maschile.
  - Sentiamo.
  - Era un uomo di un’avarizia e un’avidità incredibili. Pensa che una volta lo vidi derubare un vecchio mendicante zoppo. Il poveretto lanciò un grido, fece per inseguire il briccone, ma inciampò in una sporgenza del terreno e precipitò dal ponte.
  - Ah. La scena si svolgeva su un ponte?
  - Un ponte altissimo. Ricordo che il fiume era in piena. Un massa d’acqua imponente, che precipitava ruggendo verso valle. Non so come, il povero vecchio riuscì a tornare a galla e si aggrappò a un tronco d’albero trascinato dalla corrente. In quel momento, un gabbiano calò su di lui e lo beccò più volte in testa.
  - Pure!
  - Sono storie tristi, che stringono il cuore.
  - E tu non facesti niente per salvarlo?
  - Gli gettai una cima. Ma mi ero dimenticato di assicurarla a un sostegno e fu inghiottita dalle acque.
  - Un intervento risolutore.
  - Lo zio, nel frattempo, si era dileguato nei vicoli della città vecchia.
  - Ed è ancora vivo, quel fior di galantuomo?
  - No: morì poche settimane dopo il fattaccio. Il suo decesso avvenne in circostanze misteriose.
  - Sarebbe a dire?
  - Il suo cadavere era, come posso spiegarti, arrotolato come un panno. Strizzato.
  - E chi lo strizzò?
  - Non lo si seppe mai. Il corpo fu ritrovato in una camera chiusa a chiave dall’interno.
  - Si sarà strizzato da solo.
  - Impossibile. Non diresti così, se tu l’avessi visto.
  - E i suoi denari? Ne avrà avuti parecchi, immagino. Te ne ha lasciati un po’?
 - Qui viene il bello: la cassaforte era vuota, e così pure il bauletto nascosto sotto l’impiantito del pavimento. Gli avevano portato via tutto quanto.
  - Perbacco. Ecco perché ti sei ridotto a montar la guardia in fondo a un pozzo.
  - A proposito, vengono o no a darci il cambio?
  - Ho rinunciato a sperarci.
  - Doveva accadere dieci anni fa!
  - Tant’è.
  - Sarà cambiato, il mondo di lassù?
  - Mi sa proprio di sì.
  - Pensa che bello, rivedere la luce del giorno, i prati in fiore, le donne che sculettano! Te la ricordi almeno la parola d’ordine?
  - Ishtar.
  - Mi domando quanto dovremo attendere prima di sentirla pronunciare.        
Garm e Kavàla si scambiarono uno sguardo d’intesa, presero un bel respiro e svoltarono l’angolo. Due uomini sulla cinquantina, seduti ciascuno dietro a una scrivania, ai lati di una porta in legno massiccio, li fissarono allibiti.
  - Siamo venuti a darvi il cambio - disse Garm.
Il più corpulento dei due aprì bocca come per parlare ma non proferì parola, restandosene con un’espressione stupefatta. Il più magro invece replicò prontamente. 
  - Parola d’ordine?
  - Ishtar! - esclamarono all’unisono i due giovani.
L’uomo balzò in piedi rovesciando la sedia, e si mise a danzare in preda all’euforia.
  - E’ finita! E’ finita!
L’omaccione, dal canto suo, cominciava a riaversi dalla sorpresa.
  - Finita… Siamo liberi.
Kavàla non aveva mai visto in vita sua uomini più trasandati di quelli, a parte Garm. Indossavano abiti rattoppati, logori e bisunti.
  - Prima di tutto, il passaggio di consegne! - dichiarò l’omaccione, prendendo il controllo della situazione. - Allora: qui, in questa scatola di latta che un tempo conteneva biscotti, c’è la chiave della cella. I cassetti delle scrivanie contengono, nell’ordine: moduli dell’amministrazione carceraria, carta carbone, timbri, tampone per timbri, boccette di inchiostro.
  - I viveri, i viveri! - suggerì l’altro.
  - La dispensa è qui dietro. In questo armadio incastonato nella roccia. Visto quante belle scatolette? In quella nicchia laggiù potete fare i vostri bisogni. Si dorme per terra, sul paglione. Vi ho detto tutto. E ora firmatemi questo modulo, per la presa di consegna della chiave.
Garm e Kavàla firmarono diligentemente.     
  - Vent’anni, capite? Vent’anni rinchiusi qui sotto! Senza interruzione! - urlò il carceriere magro senza interrompere la sua danza. - Dovevano essere dieci, li hanno raddoppiati senza una spiegazione, quei maledetti! Ma ora è finita! Si torna nel mondo dei vivi!
  - Non dovete portare nulla con voi? - chiese Garm.
  - Non possediamo altro che questi stracci che ci vedete addosso.
  - E un sacchetto di pistacchi per i pipistrelli.
Prima di accomiatarsi, i due sorveglianti strinsero la mano ai due giovani.
  - E’ stato un vero piacere! - disse lo smunto, e si allontanò in tutta fretta seguito dal suo corpulento compare.     
Kavàla si strinse a Garm.
  - Dietro quella porta…
  - Sì, Kavàla: il Re del Nulla.

IX

Il potere è sempre oggetto di contesa. Neppure i despoti più crudeli sono al riparo dalle congiure. Elissinia, città torpida tanto nell’esercizio della virtù quanto in quello del vizio, ospitava le sue camarille, concentrate all’interno di circoli dai nomi altisonanti. Si trattava di conventicole di notabili - dediti all’accumulazione di ricchezze ed incarichi di rilievo - con la passione dell’intrigo, facenti capo a questa o quella sezione della Confraternita del Triangolo, al vertice della quale, nella città sul Nitico, si trovavano i Diadochi: Labano, Galvano e Carcarodonte.
Tutta la città era al corrente delle loro malversazioni, eppure, tutta la città strisciava ai loro piedi. Nella miseria morale dei potenti consiste, del resto, la consolazione della massa anonima dei subordinati.
L’autorità di Sarmand si arrestava sul limitare delle lussuose dimore dei Diadochi. Non potendo esiliarli come avrebbe desiderato, il Catafratto dovette accontentarsi di farli confinare in casa, proibendo loro ogni partecipazione alla vita civica. Insieme al titolo di Diadochi, Labano Galvano e Carcarodonte conservarono però il diritto di apparire, in effigie, nel corso delle cerimonie pubbliche di maggior prestigio. Sin da subito, inoltre, trovarono il modo di aggirare il divieto imposto dal Catafratto: servendosi di passaggi sotterranei, riuscivano a superare agevolmente, del tutto inosservati, i confini delle proprie tenute. Ma la notizia degli incontri clandestini fra i Diadochi e i soci della Confraternita del Triangolo non tardò a giungere all’orecchio di Sarmand, che disponeva di numerosi informatori. Con suo sommo disappunto, il Catafratto dovette arrendersi all’impossibilità di impedire le escursioni notturne dei Diadochi. Per scoraggiarle, fece intensificare i controlli nei pressi delle sedi della Confraternita. Nessuno poteva entrarvi od uscirne senza essere identificato e perquisito. Queste misure vessatorie non fecero che accrescere l’odio dei Triangolari nei confronti del Catafratto. La vendetta della Confraternita non si fece attendere. Forti delle prerogative di cui il Catafratto non aveva potuto spogliarli, i Diadochi chiesero ed ottennero dal proconsole Fistulòs l’emissione di un ordine di arresto nei confronti del solo amico di cui Sarmand disponesse in tutto l’orbe terracqueo: un personaggio noto con il nome di “Re del Nulla”. Era, costui, un uomo di età indefinibile, né brutto né bello, né magro né grasso, né glabro né irsuto, né alto né basso. Nessuno avrebbe saputo descriverne l’aspetto, fornirne un ritratto fosse pure approssimativo. Nemmeno Sarmand. Non apparteneva forse, il Re del Nulla, a quella strana specie di creature che si muovono nelle intercapedini fra il mondo reale e quello dei sogni? Sarmand si imbatté per la prima volta in lui durante la lettura di uno scritto anonimo intitolato “Redigere ad nihilum”, di cui la biblioteca centrale accademica possedeva un esemplare rarissimo. Il Regno del Nulla, di cui sino ad allora aveva ignorato persino l’esistenza, gli si rivelò in tutta la sua incontaminata bellezza: cieli azzurri, boschi rigogliosi, stagni di acqua cristallina, prati sfavillanti di fiori dalle tinte vivaci e, all’estremo orizzonte, il mare. Un mare calmo e profondo, la cui superficie una tiepida brezza leggera dolcemente increspava. Quello del Nulla era il regno dell’atemporalità e della permanenza delle forme: corruzione e mutamento ne erano banditi. Niente vi accadeva, niente vi poteva accadere, poiché l’evento, qualsiasi evento, implica un inizio, uno svolgimento e una fine. Custode e garante della conservazione di questo assetto immutabile, il Re. Sovente, il Catafratto si recava in visita in sogno presso il sovrano. Insieme facevano lunghe passeggiate attraverso quei paesaggi incantati. Il Re, di tanto in tanto, si staccava da terra e fluttuava nell’aria, librandosi a parecchi metri dal suolo, insieme alle rondini in volo. Poi ridiscendeva al suolo e riprendeva a camminare accanto al Catafratto, come se niente fosse. Capitava talvolta che incontrassero un abitante del Regno. Si trattava di persone, uomini e donne, assai singolari: li si poteva osservare sdraiati all’ombra dei salici, intenti a dormire o a fantasticare, immersi nei propri pensieri.            
L’arresto del Re fu per Sarmand un brutto colpo, aggravato dal mistero circa il luogo della detenzione del sovrano. Ciò non fece che inasprire la misantropia del Catafratto, la sua insofferenza verso il notabilato di Elissinia, il suo disgusto nei confronti del mondo.  L’interno della cella reale misurava tre metri per quattro. Vi trovavano spazio un divano, un libreria e uno scrittoio. Il Re, disteso sul divano, dormiva un sonno profondo e sognava, sognava.
Una carrozza trainata da una pariglia di cavalli bianchi si fermò all’ingresso di un palazzo nobiliare. Il conducente, un uomo dalla corporatura massiccia, il viso incorniciato da due imponenti mustacchi, fece segno al proprio assistente di scendere a terra. Questi obbedì, non senza fatica, poiché aveva gambe di diversa lunghezza. Il conducente commentò:  - In casi come questi si è soliti dire che uno ha una gamba più corta dell’altra. Ma non sarebbe altrettanto corretto affermare che ha una gamba più lunga dell’altra?
  - Si parte dal presupposto che una delle due sia proporzionata al resto del corpo. Ed è la gamba giusta. L’altra, quella sproporzionata, è la più corta - replicò l’assistente.
  - Un attimo: e se quella sproporzionata fosse tale in virtù di un’eccessiva lunghezza? In questo caso sarebbe corretto dire: ha una gamba più lunga dell’altra.
  - No, perché quella giusta, quella proporzionata, sarebbe comunque la più corta.
  - Vedi che ti contraddici: se il metro di misura è la gamba proporzionata, e questa fosse più corta di quella difforme, si dovrebbe dire…
  - Allora, mi fate scendere o no da questa benedetta carrozza? - ruggì il granduca sporgendo il viso paonazzo dal finestrino della vettura. L’assistente si precipitò ad aprire, caracollando, e sistemò la scaletta.
  - Non so cosa mi trattenga dal licenziarvi entrambi! Possibile che stiate sempre a sproloquiare?
  - Perdoni eccellenza, è lui che cavilla, utilizzando argomenti capziosi.
  - E tu lascialo cavillare! Su, piuttosto, prendi i bagagli!
Il granduca scese a terra e agitando il bastone da passeggio si rivolse al conducente:
  - Hai guidato in modo barbaro. Sembra che tu faccia apposta a prendere tutte le buche!
  - Eccellenza, mi deve scusare, ma la strada è un groviera.
  - Buono solo a trovare scuse! Vai, vai che è meglio!
La carrozza si allontanò verso le scuderie. Dal palazzo, nel frattempo, era uscito il maggiordomo: un uomo gobbissimo, il cui cranio pelato riluceva sotto i raggi del sole come una mela cotogna. 
  - Sua eccellenza ha fatto buon viaggio?
  - Pessimo. Desidero riposare nelle mie stanze per le prossime tre ore. Nessuno osi disturbarmi.
  - Eccellenza…
  - Che c’è adesso?
  - Una visita.
  - Da parte di chi?
  - Un messo di Sua Maestà.
Al granduca, per lo sorpresa, cadde il monocolo.
  - E me lo dite così? E’ da molto che aspetta?
  - Non più di mezz’ora. L’ho fatto accomodare nella sala delle armature.
  - Neppure il tempo di sciacquarmi il viso… Beh, annunciatemi, lo vedrò immediatamente!
  - Certo eccellenza.
Il gobbo – che era pure un po’ claudicante – si diresse verso la sala delle armature, mentre il granduca si arricciava nervosamente i baffi, interrogandosi sulle ragioni di quella visita inattesa. Annunciato dal maggiordomo, il granduca fece ingresso nel salone.
Il messo sedeva accanto a una finestra.
  - Eccellenza, stavo ammirando il vostro splendido parco - disse alzandosi in piedi in atteggiamento deferente.
  - Non tenetemi sulle spine. Cosa vi ha condotto qui? - tagliò corto il granduca.
  - Il Re…
  - Ebbene?
  - E’ stato rapito!
Il granduca riperse il monocolo.
  - Rapito? Il Re? Ma è una follia! Chi ha osato?
  - Gli elissini.
  - E chi sarebbero questi briganti?  
  - Gli abitanti di una città chiamata Elissinia.
  - Ma non esiste una città con quel nome!
  - Esiste, ma non in questo mondo.
  - Capisco - disse il Granduca scuotendo il capo.  - Il Re sta di nuovo sognando.
  - Guarda Garm, si sta svegliando!
Il Re si rizzò a sedere, mezzo intontito, si stropicciò gli occhi, e stette per qualche istante a osservare i due giovani in piedi dinanzi al divano. “Un altro sogno”, mormorò, e fece per distendersi di nuovo.
  - Maestà, non è un sogno, siamo veri!
  - Sì, buonanotte.
Kavàla si avvicinò al re e gli diede un pizzicotto sulla guancia.
  - Convinto adesso?
Il re si accarezzò la guancia, poi cinse i fianchi di Kavàla.
  - Ohibò, dunque non sto sognando…
  - Ecco, maestà, se ora vuol essere così gentile da togliermi le mani dal sedere, le presento l’uomo incaricato di liberarla.
  - Certo, certo. Capirà, mi occorrevano prove inoppugnabili. Ma questo simpatico giovane odora di selvatico come un alce maschio nella stagione degli amori!
  - Il mio nome è Garm, vengo da Gyelheim su incarico di Firlfrind.
  - Il buon vecchio mago! E lei, cara  fanciulla, come si chiama?           
  - Kavàla.
  - Un nome assai suggestivo, le si attaglia perfettamente. Dunque, a che devo il piacere della vostra visita?
Kavàla guardò Garm, sconcertata, quindi torno a rivolgersi al re.
  - Maestà, come le ho detto poco fa siamo qui per liberarla.
Il re poggiò un gomito sul bracciolo del divano e stropicciandosi il mento, mormorò:
  - La libertà è una chimera.
  - Maestà - disse Garm serio serio  - Non c’è tempo per i filosofemi, dobbiamo andarcene, e alla svelta.
  - Capisco. Apprezzo molto ciò che state facendo, credetemi. Sono pronto.
Il Re si alzò dal divano, rassettandosi gli abiti impolverati, e si dispose a seguire la coppia dei suoi liberatori.
  - Vent’anni di prigionia non son pochi - disse gettando un’ultima occhiata alla cella.
  - Sua Maestà non ha bagaglio? - domandò Kavàla.
  - Solo gli abiti che indosso.
  - Andiamo allora.
Garm con piglio determinato fece strada verso l’uscita.   
A metà circa del corridoio, un rumore di passi proveniente dalla direzione opposta li bloccò.
  - Chi potrà mai essere? I carcerieri hanno cambiato idea?
  - Ne dubito - replicò Kavàla, preoccupata.
Da dietro l’angolo sbucarono due figure, una maschile e l’altra femminile, che si immobilizzarono alla vista del terzetto.
  - Maestà! - esclamò l’uomo. Si trattava del Catafratto, con Lucretia al proprio fianco. La diavolessa, estratta la spada dal fodero, fece per affrontare i due giovani.
  - Calma, calma! - si interpose il re. - I ragazzi sono giunti da molto lontano apposta per liberarmi. Nessuno si azzardi a far loro del male.
Lucretia ripose l’arma.
  - Sarmand, quanto tempo! Cosa ti porta quaggiù? - disse il re rivolto all’amico di un tempo.
  - Sono stato tanto in pena per voi! Solamente ieri sono venuto a sapere dov’eravate tenuto prigioniero, e mi sono precipitato subito in vostro soccorso!
Il re, commosso, abbracciò prima Sarmand e poi Lucretia, quest’ultima con particolare trasporto.
  - Lasciate che vi presenti - disse il re. - Costui, cari ragazzi, è il grande Catafratto in persona, l’uomo più odiato di tutta Elissinia.
  - Troppo gentile, Maestà - si schermì Sarmand con un inchino.
  - Loro si chiamano Garm e Kavàla. E lei…
  - Lucretia, X Legio Infernalis - esclamò la diavolessa scattando sull’attenti.
  - Non sapevo che un demone potesse essere così grazioso. Bella soda, non c’è che dire.
  - Al re piace toccare con mano - bisbigliò Kavàla all’orecchio di Garm.
  - Ho notato - replicò questi, senza riuscire a nascondere un certo disappunto. Non aveva gradito le  palpazioni che il sovrano aveva riservato alla sua compagna di viaggio, e ancor meno la condiscendenza di lei, condiscendenza dovuta - peraltro - a mero compatimento. Ma la mente di Garm non era in grado di cogliere certe sfumature: difettava di quell’elasticità che solo l’uso protratto del mondo è in grado di conferire. 
  - Maestà, dovremo rinviare i convenevoli ad un altro momento: urge che ci si allontani di qui al più presto! - esclamò Sarmand.
La combriccola guadagnò l’uscita, lasciando spalancata la porta d’accesso così da rischiarare almeno un poco il fondo del pozzo.
  - Garm, i pistacchi!
  - Non servono pistacchi né altra frutta secca - disse Lucretia. Con tono imperioso, pronunciò un ordine in una lingua sconosciuta ed ecco che subito calarono dall’alto tre esseri alati.  Lucretia dispiegò le ali, e cinse il Catafratto per la vita.
  - Ciascuno di voi si stringa a uno di loro - disse, e si levò in volo.
Aggrappati alle strane creature, i tre si ritrovarono fuori dal pozzo in pochi minuti. Lucretia e Sarmand li stavano aspettando in prossimità dell’imbocco di una galleria. Anacleto li accolse scodinzolando.
  - E’ andato tutto bene, vedo.
  - Anacleto caro, visto che ce l’abbiamo fatta?
  - Non ne ho mai dubitato, Kavàla!
Il re del nulla diede una carezza al cane e domandò ai suoi liberatori:
  - E adesso?
  - Dobbiamo uscire di qui – rispose Garm.
Sarmand si avvicinò al sovrano.
  - Vogliate seguirmi, Maestà.
  - Quella non è la direzione da cui siamo venuti noi! – osservò Garm.
  - Siete passati dalle catacombe, vero? Conosco un percorso più sicuro che conduce direttamente ai sotterranei dell’accademia, dove io sono signore e padrone.
  - Verrò dove vorrete – puntualizzò il Re. – Purché vi mettiate d’accordo sulla direzione da prendere.
  - Se mi consentite, avrei un suggerimento – intervenne Anacleto. – Elissinia non è il luogo più adatto dove condurre il Re.
  - Se è per quello, nemmeno la provincia offre particolari garanzie! – obiettò stizzito il Catafratto. – Il Re ha nemici ovunque!
  - Tranne che nel proprio regno.
  - Il cane ha ragione, Sarmand. Non avrebbe senso trasferire il Re da queste grotte al mortorio dove trascorri le notti. Dobbiamo restituirlo alla luce del sole, all’aria pura, agli spazi aperti del suo regno.
Il Catafratto rifletté per qualche istante sull’osservazione di Lucretia.
  - Sia come voi dite – sospirò. – Sempre che ne siate capaci.
  - Lasciate fare a me. Mica per niente milito nella X Legio Infernalis!
  - Dunque, Maestà – disse Sarmand in tono accorato – ci separiamo un’altra volta?
  - Solo temporaneamente, mio caro.
Il sovrano prese sottobraccio l’amico e si allontanò con lui di qualche passo dal resto del gruppo.
  - Quando sarò tornato nel mio regno, potremo incontrarci ancora, per conversare come eravamo soliti fare in passato.
  - Incontrarci…e come?
  - In sogno, Sarmand, in sogno!
Il Catafratto annuì, e sul suo viso spigoloso apparve un timido, timidissimo sorriso.
  - Ed ora, amici, a noi! – disse il Re rivolto ai suoi liberatori. –Vi ringrazio tutti di cuore. Ci attende un lungo viaggio. Ma per fortuna – soggiunse indicando la bella diavolessa - abbiamo una guida d’eccezione.
Lucretia sguainò la spada e, pronunciando formule misteriose, la puntò verso l’alto. Subito la lama si accese di una luce abbagliante: se ne irradiarono raggi multicolori che avvolsero uno ad uno i presenti. Un vento impetuoso, proveniente da distanze inconcepibili, prese a soffiare nella grotta, sollevando turbini di sabbia. Quando la sabbia si posò, non vi era più alcuna traccia di Lucretia né dei suoi compagni. 

Epilogo 

I giardini del palazzo reale, affollati di persone festanti per il ritorno del sovrano, sfavillavano nel meriggio di una moltitudine di colori. Il clima era dolce, l’aria profumava di viole. Il re sedeva all’ombra di un gazebo, circondato dall’affetto dei sudditi. Fra essi i parenti di Kavàla, cui il buon mago Firlfrind, spezzando il sortilegio del viandante, aveva restituito forma umana.
  - Maestà, ci dica, cos’è questo mondo di cui tanto si parla? – gli fu chiesto.                   
  - E la vita, Maestà, cos’è mai la vita, di cui si favoleggia? – domandò una fanciulla che indossava un vezzoso cappellino.
  - Uno alla volta, miei cari, uno alla volta – rispose il Re del Nulla e si accinse a rispondere, non senza aver prima gettato un’occhiata benevola a una coppia di giovani intenti a passeggiare a braccetto nel parco, seguiti a breve distanza da un cane di mezza taglia.
Garm e Kavàla si gustavano il tepore di quella giornata radiosa.
  - Che meraviglia eh, Garm? – disse la ragazza in tono languido.
Il giovane, lindo e ben vestito, rimase per alcuni istanti in silenzio, sorridendole semplicemente.
  - Kavàla – disse infine – c’è una cosa che desidero mostrarti da tempo.
E scomparì con lei dietro a una siepe.

Pietro Ferrari, 2010 

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