IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Seconda)
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IV
Garm si risvegliò con un grido. Kavàla, che gli riposava accanto, si voltò a guardarlo.
- Che ti prende?
- Ho avuto un incubo. Un gatto mi inseguiva.
- Non mi sembra un sogno tanto sconvolgente.
- Il gatto era grosso come un vitello.
- E ti metti a gridare per una sciocchezza simile?
- Fai presto tu a dire così: sono in un bagno di sudore.
- Lasciami dormire, và, e vedi di non scoreggiare troppo.
Kavàla si girò su un fianco, volgendo la schiena a Garm che, sudato fradicio, esalava vapori quanto un letamaio a dicembre. Per sua fortuna, nelle immediate vicinanze sorgeva un’intera colonia di phallus impudicus – miceto noto per il profilo falliforme e il fetore pestilenziale che emana. Il lezzo che quei funghi spandevano all’intorno era così forte da coprire ogni altro odore in un raggio di svariate decine di metri.
La ragnanza andava disfacendosi, mentre il lucore all’orizzonte annunciava l’approssimarsi dell’alba. Tremolavano gli esili steli delle calpurnie purpuree, e il verdurame si aggrappava, intirizzito di rugiada, alle radici delle isverdie.
Nonostante tutto, si fece giorno.
Garm giaceva mollemente disteso sull’erba, come un escremento di vacca appena deposto.
Accanto a lui sedeva Kavàla.
- A cosa stai pensando? - gli chiese.
- Mi domandavo per quale ragione Firlfrind abbia scelto proprio me. Non ho doti particolari, e non brillo certo per coraggio - rispose Garm dopo una pausa di silenzio.
- L’ho notato. Sei sempre sul chi vive. Hai uno sguardo da animale braccato.
- La paura mi segue come un’ombra, sin da quando ero ragazzo.
- Non dovresti parlare così. Le donne non amano i pavidi.
- Ma è la verità.
- E allora? Mica va raccontata per forza, la verità.
- Tanto prima o poi viene a galla comunque.
- Ma se eviti di metterla in piazza tutta quanta, forse è meglio, ti pare? Garm, devi imparare a dissimulare le tue emozioni. Lo dico per il tuo bene.
- Non capisco. In passato mi son sentito rimproverare per il motivo opposto: mi è stato detto che devo esprimerle, le emozioni, non tenere tutto dentro.
- Tira fuori il buono che c’è in te, e i miei occhi mi dicono che c’è del buono, e tieni nascosto il resto.
Kavàla passò una mano fra i capelli di Garm, rivolgendogli uno sguardo che avrebbe liquefatto un ghiacciaio.
- Trovi davvero che ci sia del buono in me? - le chiese, rapito.
- Sì.
- E vuoi che lo tiri fuori?
- Oh sì.
Nel preciso istante in cui Garm si accingeva a soddisfare la richiesta di Kavàla, il cielo si fece color pece. Nubi temporalesche, trasportate da un vento impetuoso, riversarono sulla zona torrenti di pioggia. I due giovani cercarono riparo nel folto del bosco, sotto le ampie fronde di una quercia, ma non vi era modo di sfuggire alla pioggia che cadeva a secchiate. Dello sgrinz non vi era traccia, a parte una gran boassa in cui Garm sprofondò sino alle caviglie. Quando la speranza stava ormai per abbandonarli, i due fuggitivi scorsero l’ingresso di una grotta che si apriva nel fianco di un tozzo promontorio. Una raffica di vento aveva rimosso la copertura di rami che ne ostruiva l’ingresso. Vi si infilarono senza esitare un solo istante, e non appena varcata la soglia un senso di meraviglia si impadronì di loro: l’interno della grotta pullulava di farloni, specie di pinnipedi dimoranti nelle regioni boschive dell’emisfero meridionale.
- Mamma mia non ho mai visto tanti farloni tutti assieme - sussurrò Kavàla.
- Manco io.
- E com’è che dormono tutti quanti?
- E chi lo sa. Che facciamo, restiamo?
- Guarda, se ne sta svegliando uno!
- E’ meglio che usciamo.
- Ma aspetta un attimo almeno!
Il farlone, accortosi dei due estranei, si stiracchiò per benino, e dopo essersi scrollato di dosso la sabbia del pavimento rivolse loro la parola.
- E voi chi siete?
- Il mio nome è Kavàla, lui è Garm. Siamo diretti a Elissinia. La tempesta ci ha sorpresi e abbiamo cercato rifugio nella vostra grotta. Vi chiediamo ospitalità finché non avrà smesso di piovere, dopo di che ce ne andremo immediatamente.
- Prego, accomodatevi pure.
Si sedettero in un cantuccio, facendo attenzione a non disturbare i dormienti. Il fatto che un pinnipede fosse dotato di favella non li aveva turbati: si erano convinti, ormai, che il bosco racchiudesse ogni sorta di magie.
- Elissinia non è lontana. Io però non ci ho mai messo piede, e mi guarderò bene dal farlo anche in futuro - il farlone sottolineò la frase con un peto. - Gli elissini ci danno la caccia e con la nostra pelle rivestono le poltrone. Toglietemi una curiosità, cosa vi spinge in città?
- Il mago Firlfrind mi ha affidato questo incarico.
Il farlone spalancò tanto d’occhi e fece una capriola.
- Firlfrind?
- Lo conosci?
- Certo che sì! Firlfrind ci ha guariti da un’affezione fastidiosissima, una forma acuta di prurito inguinale. Siate dunque i benvenuti!
Garm diede di gomito ad Kavàla.
- Visto?
Il farlone aprì un armadietto e ne trasse fuori una bottiglia e tre bicchieri. Li riempì sino all’orlo di un liquido di colore ambrato, che emanava un intenso profumo di malto.
- Un brindisi a Firlfrind!
- Per tutte le fave, ma è una delizia! Cos’è mai questa bevanda?
- Eh eh, avete appena assaggiato la nostra specialità. E’ una bevanda inebriante, ma ha delle controindicazioni.
- Quali?
- Ve lo spiego subito. Un giorno me ne stavo tranquillo a riposare all’ombra di un cespuglio quand’ecco che vedo apparire Euforione.
- E chi sarebbe mai?
- Il proprietario del bosco.
- Non sapevo che il bosco avesse un proprietario - osservò Kavàla.
- Ce l’ha. Euforione, appunto. Era lì, ci separava solamente il cespuglio. Parlava da solo, lo udii bofonchiare qualcosa a proposito di rogiti notarili, mappali e particelle catastali.
- Garm, di che va farneticando questo pinnipede? - bisbigliò Kavàla.
- Dev’essere l’effetto della bevanda.
- Insomma, statemi a sentire! Euforione torreggiava a un passo da me, e io non sapevo che fare. Fuggire? Restare nascosto?.
- Allora?
- Rimasi nascosto. Trascorso un po’ di tempo, Euforione se ne andò.
- Tutto qui?
- E vi sembra poco? Non conoscete Euforione! Quell’uomo è capace di tutto.
- Mi sfugge il nesso fra il racconto e la bevanda.
- Quel giorno avevo alzato il gomito. Ecco perché mi assopii incautamente all’aperto.
- Bene, è tutto chiaro, non bisogna abusare di questo liquore.
- Esatto! Ora, se mi date un attimo di tempo, vado a svegliare un mio amico che conosce la città e potrà darvi qualche dritta.
Il pinnipede dopo una breve ricerca si ripresentò in compagnia di un farlone dall’aria assonnata.
- Elissinia… Sì, la conosco bene, ci ho vissuto.
- Ci ha vissuto da prigioniero!
- E ne sono fuggito per miracolo. Ma per voi due non sarà difficile entrarci. Siete giovani, e la città pullula di studenti della vostra età.
- Cos’è uno studente?
I farloni si guardarono l’un l’altro, increduli.
- Davvero non sapete cosa sia uno studente?
Kavàla e Garm allargarono le braccia.
- Questa poi. Come posso spiegarvelo? Lo studente iscritto all’accademia ha un’età compresa fra i 18 e i 35 anni, ed è riconoscibile dall’andatura dinoccolata e da una certa espressione del viso.
- Cosa fanno gli studenti?
- Studiano. Imparano cose scritte sui libri.
- E i libri, cosa sono i libri?
- I libri sono fatti di tanti fogli di carta rilegati insieme, su cui sono scritte delle parole. Parole, come quelle che stiamo pronunciando ora. Possibile che non ne abbiate mai visto uno? Eppure vi esprimete con proprietà di linguaggio.
- A cosa servono i libri?
- A trasmettere la conoscenza - esclamò il primo farlone, compiaciuto.
- E non solo - riprese il secondo. - Gli umani, e in special modo gli eruditi, hanno una paura folle della morte, e si inventano ogni sorta di trucchi per metterla a tacere.
I libri, quelli buoni, almeno, sopravvivono ai loro autori. E questa è precisamente la speranza di ogni singolo scrittore: lasciare una traccia che duri oltre la propria morte.
- E’ questa la ragione per cui scrivono?
- Una delle ragioni principali.
- E gli studenti imparano le parole scritte sui libri?
- Le imparano solo il tempo necessario per poter superare gli esami, dopo di che se le dimenticano.
- Esami?
- L’esame funziona così: lo studente si presenta in un giorno stabilito davanti al professore, che lo interroga per accertarsi che lo studente abbia letto dei libri, scritti solitamente dal professore medesimo o da un suo parente stretto, e ne abbia appreso il contenuto.
- Insomma tutto ruota intorno alle parole scritte su quei fogli di carta.
- Già.
- E per entrare in città noi dovremmo diventare studenti?
- Questo non è un problema. Non tutti gli studenti sono studenti per davvero.
- Ossia?
- Non tutti gli studenti studiano: molti di loro non fanno che bighellonare, tirar tardi la sera, passare da un festa all’altra cercando di abbordare le studentesse un po’ brille.
- Sembra divertente - osservò Kavàla.
- Lo è certamente di più che lavorare in miniera.
- E vanno avanti così per sempre? - domandò Garm.
- No, un bel giorno si laureano.
- Che vuol dire?
- Che diventano dottori. Prendete Euforione, il padrone del bosco: lui è dottore in giurisprudenza. Conosce a memoria un paio di libroni mal scritti pieni zeppi di articoli di legge, e si fa pagare profumatamente per spiegarne il contenuto agli altri.
- Elissinia è proprio uno strano posto - disse Garm. - Firlfrind me l’aveva pur detto.
- Riuscissimo almeno a trovarla.
- Siete più vicini di quanto non immaginiate. Quando uscirete di qui, incamminatevi in direzione della grande quercia. Lì troverete un sentiero che conduce in città.
- Così faremo!
- Adesso noi ci rimettiamo a dormire. Buon viaggio, siate prudenti!
Kavàla si chinò ad accarezzare i due animaletti.
- Siete così gentili. Buona fortuna anche a voi!
Garm diede un’occhiata all’esterno. Aveva smesso di piovere.
Appena fuori, accatastarono dei rami abbattuti dal vento dinanzi all’ingresso, così da ripristinare la copertura che lo celava, prima, alla vista. Il temporale aveva fatto sì qualche danno, ma nulla di grave, e il bosco stava già ritornando alla vita di sempre.
- Guarda!
Kavàla, in piedi al centro del sentiero, indicava qualcosa dinanzi sé, in lontananza.
- Dove? - chiese Garm.
- Là, dove la vegetazione si dirada.
- Un cavallo!
- Ma quale cavallo: è un mendicante, non vedi?
- Eppure nitrisce.
- Ma non è un cavallo!
Il mendicante, un uomo magro come uno stecco, parlava da solo e ridacchiava. Si avvide della presenza dei due giovani solo quando fu a pochi metri da loro.
- Salve, chi sono io?
- Come sarebbe? Se non lo sa lei!
- Se lo sapessi non ve l’avrei domandato.
- Garm, assecondalo per carità, è un pazzo.
- No miei cari, non sono pazzo, almeno non ufficialmente, purtroppo. Se lo fossi, avrei una scusa plausibile e socialmente accettata per le mie piccole eccentricità. Ora però, dovete scusarmi, ma ho altri impegni più urgenti. Vi devo lasciare.
Il mendicante prese a restringersi, e dopo pochi istanti si ridusse alle dimensioni di un bambolotto.
- Allora, ditemi, chi di voi è Euforione?
I giovani si scambiarono sguardi allibiti.
- E dagli con Euforione! Nessuno dei due! - esclamò Kavàla.
Il mendicante non pareva del tutto convinto. Rimpicciolì ulteriormente.
- Dov’è finito?
- Eccolo, non è più grande di una lumaca!
- Sta dicendo qualcosa.
- Non lo vedo più, è scomparso del tutto.
- Si è dissolto nell’aria.
- Come la scimmia di tuo nonno.
- Non possiamo continuare in questo modo, dobbiamo uscire dal bosco al più presto. E’ una gabbia di matti.
- Per di qua, ragazzi!
Il vocione dello sgrinz, sbucato all’improvviso dal folto, li fece sobbalzare. Garm per poco non si cagò addosso.
- Non vi ho abbandonati. Devo tener fede alla mia promessa: ho detto che vi avrei portati ad Elissinia, e lo farò. Salite in groppa, su.
I giovani non si fecero pregare. Il soffice tappeto erboso, zuppo d’acqua piovana, rallentava l’andatura del massiccio quadrupede, appesantito dal carico umano.
Aggrovigliato nella verduranza, emetteva sbuffi di vapore dalle froge, arrancando sotto il duplice gravame.
- Ti davamo per disperso. Dove ti sei rifugiato mentre tempestava?
- In un grande albero cavo. E voi, dove vi eravate nascosti?
- Siamo finiti in una grotta piena di strane creature.
La boscaglia si andò sempre più diradando, sino a scomparire. A un tratto, l’orizzonte si presentò dinanzi a loro come una distesa piatta e spoglia, coperta di risaie.
In quel panorama tristemente uniforme si aggirava come un invasato un personaggio dall’aspetto sinistro. Lo accompagnava un cane, feroce quanto lui. Un cane addestrato ad aggredire “a prescindere”. L’uomo era il proprietario delle terre coltivate. Il suo nome era Macronio. Tutta la terra, sin dove giungeva lo sguardo, gli apparteneva. Ogni granello di sabbia, ogni singolo filo d’erba, era cosa sua.
Con le sue mani robuste, aveva abbattuto tutte le piante, tutti gli arbusti, tutte le siepi che un tempo non lontano crescevano ai margini dei campi, poiché – così diceva – “la loro ombra impedisce al riso di crescere”. I suoi compaesani avevano plaudito a questa decisione giudicandola saggia.
Quando le piantine di riso emergevano dal suolo, Macronio perdeva ogni freno. Lo si vedeva vagare giorno e notte, urlando, per scacciare gli uccelli dai campi. Disponeva trappole a centinaia per passeri e colombi. Non un solo chicco di riso doveva andare perduto!
L’epoca del raccolto significava per Macronio rinuncia al sonno e al cibo. A bordo di una macchina mostruosa, una trebbiatrice a vapore di dimensioni colossali, lavorava come un forsennato per giorni e notti intere, senza sosta. Faceva tutto da solo, “per risparmiare”.
Giungeva infine il momento tanto atteso: quello in cui il prezioso cereale, dopo trattative sanguinose, si tramutava in denaro.
Ma sino ad allora, per Macronio ogni essere vivente era un nemico.
Lo sgrinz prese la parola:
- Sarà meglio girare alla larga. Quell’individuo ha un’aria minacciosa, e così pure il suo cane. Potrei sbarazzarmi di entrambi facilmente ma la mia religione me lo vieta.
Il saggio proposito dello sgrinz si rivelò impraticabile: Macronio, avvistato il terzetto, si dirigeva a passo di corsa verso di loro, urlando a squarciagola.
Kavàla osservò con stupore la fisionomia dell’individuo: fronte bassa, occhi infossati, membra tozze, movenze antropoidi. Un essere spaventoso.
Lo sgrinz, che sino a quel momento si era dimostrato la creatura più placida del mondo, parve trasfigurarsi.
- Scendetemi di groppa - intimò ai due giovani.
I suoi occhi ardevano come braci. Partì alla carica, incarnazione di forza scatenata. Il cane di Macronio – un robusto esemplare di mastino – nel vedersi piombare addosso due tonnellate di furia distruttrice scartò bruscamente e si diede alla fuga spetazzando. Lo sgrinz decise di risparmiarlo, e si volse verso Macronio.
L’uomo seguitava a lanciare grida disarticolate, mulinando un bastone. Lo sgrinz lo investì con una spallata e lo mandò lungo disteso in un fosso.
Macronio piombò a terra come un sacco di patate. Lo sgrinz arrestò la sua carica.
Torreggiando sull’uomo, ruggì come mai, prima di allora, i due giovani l’avevano udito fare.
- Potrei ridurti in poltiglia. Ma non lo farò, perché così mi ha insegnato Mahāvira, un uomo di cui tu non sei neppure degno di pronunciare il nome. Bada a te, tuttavia: se solo oserai ancora aggredirci, ti punirò come meriti.
Il latifondista fece un cenno d’intesa.
- Potete risalire - disse lo sgrinz ai due giovani. - Si riparte.
- Guardate lassù - esclamò Garm.
Kavàla e il quadrupede alzarono gli occhi al cielo e videro quella che pareva una nube avvicinarsi da Nord a grande velocità. Ma non era una nube: si trattava di un gigantesco stormo di uccelli di varie specie che volavano in formazione serrata. Dalla nube si staccò un magnifico esemplare di garzetta dal candido piumaggio che venne a posarsi proprio di fronte al loro.
- Salve a voi! La notizia della sconfitta di Macronio si è diffusa in un baleno. Siamo qui per lui. Vi chiediamo di consegnarcelo.
- Che volete farne? - domandò lo sgrinz.
- Per causa di quell’uomo abbiamo assai sofferto. Molti di noi sono morti per mano sua.
Lo porteremo lontano da qui, in un luogo dove forse potrà rinsavire e ritrovare la propria umanità.
- Dove, precisamente?
- Lo condurremo a Sud, nel Grande Deserto.
- Siete così numerosi da oscurare il sole. Perché non lo avete fermato quando cominciò a nuocervi?
- Era scritto che solo uno sgrinz avrebbe potuto sconfiggere Macronio e decidere del suo destino.
Lo sgrinz lanciò un’occhiata alla figura umana distesa nel fosso.
- E’ vostro.
La garzetta chinò il capo in segno di riconoscenza, poi lanciò un grido verso lo stormo che ruotava alto nel cielo.
Se ne distaccò un gigantesco esemplare di airone cenerino. Planò al suolo, sull’uomo disteso nel fosso. Lo rigirò supino, quindi lo afferrò saldamente per le ascelle, e si levò in volo reggendo quel pesante fardello.
- Che ti prende?
- Ho avuto un incubo. Un gatto mi inseguiva.
- Non mi sembra un sogno tanto sconvolgente.
- Il gatto era grosso come un vitello.
- E ti metti a gridare per una sciocchezza simile?
- Fai presto tu a dire così: sono in un bagno di sudore.
- Lasciami dormire, và, e vedi di non scoreggiare troppo.
Kavàla si girò su un fianco, volgendo la schiena a Garm che, sudato fradicio, esalava vapori quanto un letamaio a dicembre. Per sua fortuna, nelle immediate vicinanze sorgeva un’intera colonia di phallus impudicus – miceto noto per il profilo falliforme e il fetore pestilenziale che emana. Il lezzo che quei funghi spandevano all’intorno era così forte da coprire ogni altro odore in un raggio di svariate decine di metri.
La ragnanza andava disfacendosi, mentre il lucore all’orizzonte annunciava l’approssimarsi dell’alba. Tremolavano gli esili steli delle calpurnie purpuree, e il verdurame si aggrappava, intirizzito di rugiada, alle radici delle isverdie.
Nonostante tutto, si fece giorno.
Garm giaceva mollemente disteso sull’erba, come un escremento di vacca appena deposto.
Accanto a lui sedeva Kavàla.
- A cosa stai pensando? - gli chiese.
- Mi domandavo per quale ragione Firlfrind abbia scelto proprio me. Non ho doti particolari, e non brillo certo per coraggio - rispose Garm dopo una pausa di silenzio.
- L’ho notato. Sei sempre sul chi vive. Hai uno sguardo da animale braccato.
- La paura mi segue come un’ombra, sin da quando ero ragazzo.
- Non dovresti parlare così. Le donne non amano i pavidi.
- Ma è la verità.
- E allora? Mica va raccontata per forza, la verità.
- Tanto prima o poi viene a galla comunque.
- Ma se eviti di metterla in piazza tutta quanta, forse è meglio, ti pare? Garm, devi imparare a dissimulare le tue emozioni. Lo dico per il tuo bene.
- Non capisco. In passato mi son sentito rimproverare per il motivo opposto: mi è stato detto che devo esprimerle, le emozioni, non tenere tutto dentro.
- Tira fuori il buono che c’è in te, e i miei occhi mi dicono che c’è del buono, e tieni nascosto il resto.
Kavàla passò una mano fra i capelli di Garm, rivolgendogli uno sguardo che avrebbe liquefatto un ghiacciaio.
- Trovi davvero che ci sia del buono in me? - le chiese, rapito.
- Sì.
- E vuoi che lo tiri fuori?
- Oh sì.
Nel preciso istante in cui Garm si accingeva a soddisfare la richiesta di Kavàla, il cielo si fece color pece. Nubi temporalesche, trasportate da un vento impetuoso, riversarono sulla zona torrenti di pioggia. I due giovani cercarono riparo nel folto del bosco, sotto le ampie fronde di una quercia, ma non vi era modo di sfuggire alla pioggia che cadeva a secchiate. Dello sgrinz non vi era traccia, a parte una gran boassa in cui Garm sprofondò sino alle caviglie. Quando la speranza stava ormai per abbandonarli, i due fuggitivi scorsero l’ingresso di una grotta che si apriva nel fianco di un tozzo promontorio. Una raffica di vento aveva rimosso la copertura di rami che ne ostruiva l’ingresso. Vi si infilarono senza esitare un solo istante, e non appena varcata la soglia un senso di meraviglia si impadronì di loro: l’interno della grotta pullulava di farloni, specie di pinnipedi dimoranti nelle regioni boschive dell’emisfero meridionale.
- Mamma mia non ho mai visto tanti farloni tutti assieme - sussurrò Kavàla.
- Manco io.
- E com’è che dormono tutti quanti?
- E chi lo sa. Che facciamo, restiamo?
- Guarda, se ne sta svegliando uno!
- E’ meglio che usciamo.
- Ma aspetta un attimo almeno!
Il farlone, accortosi dei due estranei, si stiracchiò per benino, e dopo essersi scrollato di dosso la sabbia del pavimento rivolse loro la parola.
- E voi chi siete?
- Il mio nome è Kavàla, lui è Garm. Siamo diretti a Elissinia. La tempesta ci ha sorpresi e abbiamo cercato rifugio nella vostra grotta. Vi chiediamo ospitalità finché non avrà smesso di piovere, dopo di che ce ne andremo immediatamente.
- Prego, accomodatevi pure.
Si sedettero in un cantuccio, facendo attenzione a non disturbare i dormienti. Il fatto che un pinnipede fosse dotato di favella non li aveva turbati: si erano convinti, ormai, che il bosco racchiudesse ogni sorta di magie.
- Elissinia non è lontana. Io però non ci ho mai messo piede, e mi guarderò bene dal farlo anche in futuro - il farlone sottolineò la frase con un peto. - Gli elissini ci danno la caccia e con la nostra pelle rivestono le poltrone. Toglietemi una curiosità, cosa vi spinge in città?
- Il mago Firlfrind mi ha affidato questo incarico.
Il farlone spalancò tanto d’occhi e fece una capriola.
- Firlfrind?
- Lo conosci?
- Certo che sì! Firlfrind ci ha guariti da un’affezione fastidiosissima, una forma acuta di prurito inguinale. Siate dunque i benvenuti!
Garm diede di gomito ad Kavàla.
- Visto?
Il farlone aprì un armadietto e ne trasse fuori una bottiglia e tre bicchieri. Li riempì sino all’orlo di un liquido di colore ambrato, che emanava un intenso profumo di malto.
- Un brindisi a Firlfrind!
- Per tutte le fave, ma è una delizia! Cos’è mai questa bevanda?
- Eh eh, avete appena assaggiato la nostra specialità. E’ una bevanda inebriante, ma ha delle controindicazioni.
- Quali?
- Ve lo spiego subito. Un giorno me ne stavo tranquillo a riposare all’ombra di un cespuglio quand’ecco che vedo apparire Euforione.
- E chi sarebbe mai?
- Il proprietario del bosco.
- Non sapevo che il bosco avesse un proprietario - osservò Kavàla.
- Ce l’ha. Euforione, appunto. Era lì, ci separava solamente il cespuglio. Parlava da solo, lo udii bofonchiare qualcosa a proposito di rogiti notarili, mappali e particelle catastali.
- Garm, di che va farneticando questo pinnipede? - bisbigliò Kavàla.
- Dev’essere l’effetto della bevanda.
- Insomma, statemi a sentire! Euforione torreggiava a un passo da me, e io non sapevo che fare. Fuggire? Restare nascosto?.
- Allora?
- Rimasi nascosto. Trascorso un po’ di tempo, Euforione se ne andò.
- Tutto qui?
- E vi sembra poco? Non conoscete Euforione! Quell’uomo è capace di tutto.
- Mi sfugge il nesso fra il racconto e la bevanda.
- Quel giorno avevo alzato il gomito. Ecco perché mi assopii incautamente all’aperto.
- Bene, è tutto chiaro, non bisogna abusare di questo liquore.
- Esatto! Ora, se mi date un attimo di tempo, vado a svegliare un mio amico che conosce la città e potrà darvi qualche dritta.
Il pinnipede dopo una breve ricerca si ripresentò in compagnia di un farlone dall’aria assonnata.
- Elissinia… Sì, la conosco bene, ci ho vissuto.
- Ci ha vissuto da prigioniero!
- E ne sono fuggito per miracolo. Ma per voi due non sarà difficile entrarci. Siete giovani, e la città pullula di studenti della vostra età.
- Cos’è uno studente?
I farloni si guardarono l’un l’altro, increduli.
- Davvero non sapete cosa sia uno studente?
Kavàla e Garm allargarono le braccia.
- Questa poi. Come posso spiegarvelo? Lo studente iscritto all’accademia ha un’età compresa fra i 18 e i 35 anni, ed è riconoscibile dall’andatura dinoccolata e da una certa espressione del viso.
- Cosa fanno gli studenti?
- Studiano. Imparano cose scritte sui libri.
- E i libri, cosa sono i libri?
- I libri sono fatti di tanti fogli di carta rilegati insieme, su cui sono scritte delle parole. Parole, come quelle che stiamo pronunciando ora. Possibile che non ne abbiate mai visto uno? Eppure vi esprimete con proprietà di linguaggio.
- A cosa servono i libri?
- A trasmettere la conoscenza - esclamò il primo farlone, compiaciuto.
- E non solo - riprese il secondo. - Gli umani, e in special modo gli eruditi, hanno una paura folle della morte, e si inventano ogni sorta di trucchi per metterla a tacere.
I libri, quelli buoni, almeno, sopravvivono ai loro autori. E questa è precisamente la speranza di ogni singolo scrittore: lasciare una traccia che duri oltre la propria morte.
- E’ questa la ragione per cui scrivono?
- Una delle ragioni principali.
- E gli studenti imparano le parole scritte sui libri?
- Le imparano solo il tempo necessario per poter superare gli esami, dopo di che se le dimenticano.
- Esami?
- L’esame funziona così: lo studente si presenta in un giorno stabilito davanti al professore, che lo interroga per accertarsi che lo studente abbia letto dei libri, scritti solitamente dal professore medesimo o da un suo parente stretto, e ne abbia appreso il contenuto.
- Insomma tutto ruota intorno alle parole scritte su quei fogli di carta.
- Già.
- E per entrare in città noi dovremmo diventare studenti?
- Questo non è un problema. Non tutti gli studenti sono studenti per davvero.
- Ossia?
- Non tutti gli studenti studiano: molti di loro non fanno che bighellonare, tirar tardi la sera, passare da un festa all’altra cercando di abbordare le studentesse un po’ brille.
- Sembra divertente - osservò Kavàla.
- Lo è certamente di più che lavorare in miniera.
- E vanno avanti così per sempre? - domandò Garm.
- No, un bel giorno si laureano.
- Che vuol dire?
- Che diventano dottori. Prendete Euforione, il padrone del bosco: lui è dottore in giurisprudenza. Conosce a memoria un paio di libroni mal scritti pieni zeppi di articoli di legge, e si fa pagare profumatamente per spiegarne il contenuto agli altri.
- Elissinia è proprio uno strano posto - disse Garm. - Firlfrind me l’aveva pur detto.
- Riuscissimo almeno a trovarla.
- Siete più vicini di quanto non immaginiate. Quando uscirete di qui, incamminatevi in direzione della grande quercia. Lì troverete un sentiero che conduce in città.
- Così faremo!
- Adesso noi ci rimettiamo a dormire. Buon viaggio, siate prudenti!
Kavàla si chinò ad accarezzare i due animaletti.
- Siete così gentili. Buona fortuna anche a voi!
Garm diede un’occhiata all’esterno. Aveva smesso di piovere.
Appena fuori, accatastarono dei rami abbattuti dal vento dinanzi all’ingresso, così da ripristinare la copertura che lo celava, prima, alla vista. Il temporale aveva fatto sì qualche danno, ma nulla di grave, e il bosco stava già ritornando alla vita di sempre.
- Guarda!
Kavàla, in piedi al centro del sentiero, indicava qualcosa dinanzi sé, in lontananza.
- Dove? - chiese Garm.
- Là, dove la vegetazione si dirada.
- Un cavallo!
- Ma quale cavallo: è un mendicante, non vedi?
- Eppure nitrisce.
- Ma non è un cavallo!
Il mendicante, un uomo magro come uno stecco, parlava da solo e ridacchiava. Si avvide della presenza dei due giovani solo quando fu a pochi metri da loro.
- Salve, chi sono io?
- Come sarebbe? Se non lo sa lei!
- Se lo sapessi non ve l’avrei domandato.
- Garm, assecondalo per carità, è un pazzo.
- No miei cari, non sono pazzo, almeno non ufficialmente, purtroppo. Se lo fossi, avrei una scusa plausibile e socialmente accettata per le mie piccole eccentricità. Ora però, dovete scusarmi, ma ho altri impegni più urgenti. Vi devo lasciare.
Il mendicante prese a restringersi, e dopo pochi istanti si ridusse alle dimensioni di un bambolotto.
- Allora, ditemi, chi di voi è Euforione?
I giovani si scambiarono sguardi allibiti.
- E dagli con Euforione! Nessuno dei due! - esclamò Kavàla.
Il mendicante non pareva del tutto convinto. Rimpicciolì ulteriormente.
- Dov’è finito?
- Eccolo, non è più grande di una lumaca!
- Sta dicendo qualcosa.
- Non lo vedo più, è scomparso del tutto.
- Si è dissolto nell’aria.
- Come la scimmia di tuo nonno.
- Non possiamo continuare in questo modo, dobbiamo uscire dal bosco al più presto. E’ una gabbia di matti.
- Per di qua, ragazzi!
Il vocione dello sgrinz, sbucato all’improvviso dal folto, li fece sobbalzare. Garm per poco non si cagò addosso.
- Non vi ho abbandonati. Devo tener fede alla mia promessa: ho detto che vi avrei portati ad Elissinia, e lo farò. Salite in groppa, su.
I giovani non si fecero pregare. Il soffice tappeto erboso, zuppo d’acqua piovana, rallentava l’andatura del massiccio quadrupede, appesantito dal carico umano.
Aggrovigliato nella verduranza, emetteva sbuffi di vapore dalle froge, arrancando sotto il duplice gravame.
- Ti davamo per disperso. Dove ti sei rifugiato mentre tempestava?
- In un grande albero cavo. E voi, dove vi eravate nascosti?
- Siamo finiti in una grotta piena di strane creature.
La boscaglia si andò sempre più diradando, sino a scomparire. A un tratto, l’orizzonte si presentò dinanzi a loro come una distesa piatta e spoglia, coperta di risaie.
In quel panorama tristemente uniforme si aggirava come un invasato un personaggio dall’aspetto sinistro. Lo accompagnava un cane, feroce quanto lui. Un cane addestrato ad aggredire “a prescindere”. L’uomo era il proprietario delle terre coltivate. Il suo nome era Macronio. Tutta la terra, sin dove giungeva lo sguardo, gli apparteneva. Ogni granello di sabbia, ogni singolo filo d’erba, era cosa sua.
Con le sue mani robuste, aveva abbattuto tutte le piante, tutti gli arbusti, tutte le siepi che un tempo non lontano crescevano ai margini dei campi, poiché – così diceva – “la loro ombra impedisce al riso di crescere”. I suoi compaesani avevano plaudito a questa decisione giudicandola saggia.
Quando le piantine di riso emergevano dal suolo, Macronio perdeva ogni freno. Lo si vedeva vagare giorno e notte, urlando, per scacciare gli uccelli dai campi. Disponeva trappole a centinaia per passeri e colombi. Non un solo chicco di riso doveva andare perduto!
L’epoca del raccolto significava per Macronio rinuncia al sonno e al cibo. A bordo di una macchina mostruosa, una trebbiatrice a vapore di dimensioni colossali, lavorava come un forsennato per giorni e notti intere, senza sosta. Faceva tutto da solo, “per risparmiare”.
Giungeva infine il momento tanto atteso: quello in cui il prezioso cereale, dopo trattative sanguinose, si tramutava in denaro.
Ma sino ad allora, per Macronio ogni essere vivente era un nemico.
Lo sgrinz prese la parola:
- Sarà meglio girare alla larga. Quell’individuo ha un’aria minacciosa, e così pure il suo cane. Potrei sbarazzarmi di entrambi facilmente ma la mia religione me lo vieta.
Il saggio proposito dello sgrinz si rivelò impraticabile: Macronio, avvistato il terzetto, si dirigeva a passo di corsa verso di loro, urlando a squarciagola.
Kavàla osservò con stupore la fisionomia dell’individuo: fronte bassa, occhi infossati, membra tozze, movenze antropoidi. Un essere spaventoso.
Lo sgrinz, che sino a quel momento si era dimostrato la creatura più placida del mondo, parve trasfigurarsi.
- Scendetemi di groppa - intimò ai due giovani.
I suoi occhi ardevano come braci. Partì alla carica, incarnazione di forza scatenata. Il cane di Macronio – un robusto esemplare di mastino – nel vedersi piombare addosso due tonnellate di furia distruttrice scartò bruscamente e si diede alla fuga spetazzando. Lo sgrinz decise di risparmiarlo, e si volse verso Macronio.
L’uomo seguitava a lanciare grida disarticolate, mulinando un bastone. Lo sgrinz lo investì con una spallata e lo mandò lungo disteso in un fosso.
Macronio piombò a terra come un sacco di patate. Lo sgrinz arrestò la sua carica.
Torreggiando sull’uomo, ruggì come mai, prima di allora, i due giovani l’avevano udito fare.
- Potrei ridurti in poltiglia. Ma non lo farò, perché così mi ha insegnato Mahāvira, un uomo di cui tu non sei neppure degno di pronunciare il nome. Bada a te, tuttavia: se solo oserai ancora aggredirci, ti punirò come meriti.
Il latifondista fece un cenno d’intesa.
- Potete risalire - disse lo sgrinz ai due giovani. - Si riparte.
- Guardate lassù - esclamò Garm.
Kavàla e il quadrupede alzarono gli occhi al cielo e videro quella che pareva una nube avvicinarsi da Nord a grande velocità. Ma non era una nube: si trattava di un gigantesco stormo di uccelli di varie specie che volavano in formazione serrata. Dalla nube si staccò un magnifico esemplare di garzetta dal candido piumaggio che venne a posarsi proprio di fronte al loro.
- Salve a voi! La notizia della sconfitta di Macronio si è diffusa in un baleno. Siamo qui per lui. Vi chiediamo di consegnarcelo.
- Che volete farne? - domandò lo sgrinz.
- Per causa di quell’uomo abbiamo assai sofferto. Molti di noi sono morti per mano sua.
Lo porteremo lontano da qui, in un luogo dove forse potrà rinsavire e ritrovare la propria umanità.
- Dove, precisamente?
- Lo condurremo a Sud, nel Grande Deserto.
- Siete così numerosi da oscurare il sole. Perché non lo avete fermato quando cominciò a nuocervi?
- Era scritto che solo uno sgrinz avrebbe potuto sconfiggere Macronio e decidere del suo destino.
Lo sgrinz lanciò un’occhiata alla figura umana distesa nel fosso.
- E’ vostro.
La garzetta chinò il capo in segno di riconoscenza, poi lanciò un grido verso lo stormo che ruotava alto nel cielo.
Se ne distaccò un gigantesco esemplare di airone cenerino. Planò al suolo, sull’uomo disteso nel fosso. Lo rigirò supino, quindi lo afferrò saldamente per le ascelle, e si levò in volo reggendo quel pesante fardello.
V
Le anime sensibili amano passeggiare in riva ai fiumi. La loro inquietudine trova di che placarsi, sia pure per pochi istanti, nella contemplazione della natura. Garm nella sua breve ma tormentata esistenza aveva guadato fiumi, torrenti, ruscelli, rigagnoli. Pochi uomini al mondo conoscevano come lui le insidie delle correnti, dei gorghi e dei mulinelli che improvvisamente afferrano il bagnante incauto e lo trasportano a decine di miglia di distanza, deponendolo esanime su un ghiaione, alla mercé degli uccelli rapaci. All’apparir del Nìtico, il fiume che bagna Elissinia, Garm fu colto da un viluppo di emozioni confliggenti, gran parte delle quali inesprimibili a parole. Avrebbe voluto balzare su Kavàla e possederla immediatamente, tanto era il suo entusiasmo.
Kavàla, dal canto suo, sfrigolava come una bistecca sulla griglia.
Unico a mantenere un contegno impertubabile, lo sgrinz, onesto quadrupede. Procedeva ad andatura costante, concentrando tutta la sua attenzione sul ritmo dei propri passi e del proprio respiro.
- Tutte le cose periscono - ripeteva a se stesso, e recitando questo mantra avanzava, saldo e sicuro, verso la meta che si era prefisso.
Giunti a pochi metri dalla riva si accorsero che l’acqua del fiume era perfettamente immobile. Non credendo ai propri occhi, Garm balzò a terra per osservare da vicino lo straordinario fenomeno. Si inginocchiò sulla sabbia e immerse le mani nel Nitico.
- L’acqua non scorre. Com’è possibile?
- Forse un’ostruzione a valle, una diga? - domandò a sua volta Kavàla.
- Lo escluderei. E’ come se il fiume si fosse fermato di propria iniziativa.
- Sia come sia, dobbiamo trovare un ponte. La acque al centro sono di certo profonde e se dovessero rimettersi in moto mentre stiamo tentando di guadare, la corrente ci travolgerebbe.
- Lo sgrinz ha ragione, Garm.
Si rimisero in marcia. Il ruminante sollevava l’arto anteriore sinistro e contemporaneamente l’arto posteriore destro, flettendoli in avanti, quindi li abbassava calcando il terreno a 40 cm circa dalla posizione di partenza, per poi ripetere la stessa sequenza di gesti, questa volta però con l’arto posteriore destro e il posteriore sinistro. Eseguita in modo fluido e costante per un ragionevole lasso di tempo, questa complessa catena di azioni produceva un risultato sorprendente: l’animale mutava di luogo.
- Cosa distingue un essere vivente da una roccia? L’essere vivente si muove. Dunque, se una cosa si muove, vuol dire che è viva. Ma una pietra che rotola lungo il crinale scosceso di un monte non può dirsi viva, benché sia in movimento. Il moto, in se stesso, non è pertanto un criterio sufficiente.
Così andava ragionando Kavàla, fanciulla incline alla meditazione.
- Tutto si muove. Il pianeta su cui abitiamo, l’universo stesso che ci contiene: tutto è in perenne movimento - disse, volendo rendere partecipe Garm dei suoi pensieri.
- E con questo che vorresti dire?
- Anche se io mi fermassi qui, e restassi immobile a lungo, non per questo il sangue nelle mie vene cesserebbe di circolare. Né la terra, su cui poggiano i miei piedi, smetterebbe di ruotare intorno al sole.
- Sì, il moto è una proprietà dell’esistente.
- Direi che ne rappresenta l’attributo principale!
- Ebbene?
- Questo stato di cose cozza contro la nostra aspirazione alla permanenza.
- Tutto ciò è molto triste, lo so.
- E’ la causa della nostra infelicità.
- Ammesso e non concesso che noi si meriti di durare per sempre.
Lo sgrinz aveva ascoltato la conversazione fra i due giovani senza intervenire, sino a quel momento, almeno.
- Il vostro colloquio mi fa ricordare un episodio. Tempo fa incontrai un tale, un professore, che sosteneva a spada tratta la teoria della permanenza dell’essere e della natura puramente illusoria del divenire. Accadde un incidente curioso: stavamo discutendo in riva a un torrente in piena, all’improvviso parte della sponda cedette e il professore fu inghiottito dalle acque, scomparendo in pochi istanti fra i gorghi.
- Ed ecco dimostrata l’impermanenza del professore! - esclamò Kavàla.
Dopo il temporale, il cielo appariva di un azzurro splendente, punteggiato qua e là da rimasugli di nuvole dal colore lattiginoso. Lentamente, molto lentamente, quasi non volesse disturbare la moltitudine di libellule intente a deporre le uova sugli steli delle piante acquatiche, il fiume riprese a scorrere. Una poiana, appollaiata in cima ad un’acacia, spiccò il volo lanciando un grido acuto.
Garm vide tutto e pensò che una magia potente doveva abitare quei luoghi.
Cullato dal dondolio ritmico della groppa dell’animale e dal suono prodotto dalle acque del fiume contro i tronchi affioranti, il giovane si addormentò.
Kavàla, dal canto suo, sfrigolava come una bistecca sulla griglia.
Unico a mantenere un contegno impertubabile, lo sgrinz, onesto quadrupede. Procedeva ad andatura costante, concentrando tutta la sua attenzione sul ritmo dei propri passi e del proprio respiro.
- Tutte le cose periscono - ripeteva a se stesso, e recitando questo mantra avanzava, saldo e sicuro, verso la meta che si era prefisso.
Giunti a pochi metri dalla riva si accorsero che l’acqua del fiume era perfettamente immobile. Non credendo ai propri occhi, Garm balzò a terra per osservare da vicino lo straordinario fenomeno. Si inginocchiò sulla sabbia e immerse le mani nel Nitico.
- L’acqua non scorre. Com’è possibile?
- Forse un’ostruzione a valle, una diga? - domandò a sua volta Kavàla.
- Lo escluderei. E’ come se il fiume si fosse fermato di propria iniziativa.
- Sia come sia, dobbiamo trovare un ponte. La acque al centro sono di certo profonde e se dovessero rimettersi in moto mentre stiamo tentando di guadare, la corrente ci travolgerebbe.
- Lo sgrinz ha ragione, Garm.
Si rimisero in marcia. Il ruminante sollevava l’arto anteriore sinistro e contemporaneamente l’arto posteriore destro, flettendoli in avanti, quindi li abbassava calcando il terreno a 40 cm circa dalla posizione di partenza, per poi ripetere la stessa sequenza di gesti, questa volta però con l’arto posteriore destro e il posteriore sinistro. Eseguita in modo fluido e costante per un ragionevole lasso di tempo, questa complessa catena di azioni produceva un risultato sorprendente: l’animale mutava di luogo.
- Cosa distingue un essere vivente da una roccia? L’essere vivente si muove. Dunque, se una cosa si muove, vuol dire che è viva. Ma una pietra che rotola lungo il crinale scosceso di un monte non può dirsi viva, benché sia in movimento. Il moto, in se stesso, non è pertanto un criterio sufficiente.
Così andava ragionando Kavàla, fanciulla incline alla meditazione.
- Tutto si muove. Il pianeta su cui abitiamo, l’universo stesso che ci contiene: tutto è in perenne movimento - disse, volendo rendere partecipe Garm dei suoi pensieri.
- E con questo che vorresti dire?
- Anche se io mi fermassi qui, e restassi immobile a lungo, non per questo il sangue nelle mie vene cesserebbe di circolare. Né la terra, su cui poggiano i miei piedi, smetterebbe di ruotare intorno al sole.
- Sì, il moto è una proprietà dell’esistente.
- Direi che ne rappresenta l’attributo principale!
- Ebbene?
- Questo stato di cose cozza contro la nostra aspirazione alla permanenza.
- Tutto ciò è molto triste, lo so.
- E’ la causa della nostra infelicità.
- Ammesso e non concesso che noi si meriti di durare per sempre.
Lo sgrinz aveva ascoltato la conversazione fra i due giovani senza intervenire, sino a quel momento, almeno.
- Il vostro colloquio mi fa ricordare un episodio. Tempo fa incontrai un tale, un professore, che sosteneva a spada tratta la teoria della permanenza dell’essere e della natura puramente illusoria del divenire. Accadde un incidente curioso: stavamo discutendo in riva a un torrente in piena, all’improvviso parte della sponda cedette e il professore fu inghiottito dalle acque, scomparendo in pochi istanti fra i gorghi.
- Ed ecco dimostrata l’impermanenza del professore! - esclamò Kavàla.
Dopo il temporale, il cielo appariva di un azzurro splendente, punteggiato qua e là da rimasugli di nuvole dal colore lattiginoso. Lentamente, molto lentamente, quasi non volesse disturbare la moltitudine di libellule intente a deporre le uova sugli steli delle piante acquatiche, il fiume riprese a scorrere. Una poiana, appollaiata in cima ad un’acacia, spiccò il volo lanciando un grido acuto.
Garm vide tutto e pensò che una magia potente doveva abitare quei luoghi.
Cullato dal dondolio ritmico della groppa dell’animale e dal suono prodotto dalle acque del fiume contro i tronchi affioranti, il giovane si addormentò.
VI
Quando Laetitia si fu allontanata, il Catafratto aprì il cassetto della scrivania. Era pieno da scoppiare. Mettere ordine in quel groviglio di carte avrebbe richiesto ore di paziente lavoro. Sarmand, prudentemente, lo richiuse. Per alcuni lunghissimi minuti rimase immobile a sbirciare dalla finestra una nuvola solitaria i cui contorni andavano sfilacciandosi nel cielo azzurro pallido. Infine si decise a lasciare l’ufficio. Gli sguardi di almeno una decina di gechi seguivano ogni sua mossa.
- Vi lascio la porta socchiusa, così potete uscire.
In fondo al corridoio, una coppia di donne delle pulizie era intenta a discutere animatamente. Ammutolirono non appena si accorsero della presenza del Catafratto. La più anziana delle due, una donna magra e nervosa dallo sguardo spiritato, si mise carponi e prese a strofinare freneticamente il pavimento con uno straccio sporchissimo. Sarmand la scavalcò come si scavalca un oggetto inanimato. Svoltato l’angolo, vide una specie di pupazzo vestito a festa emergere da dietro una tenda: il direttore dell’ufficio affari generali.
- Eccellenza - esclamò il nano in tono mellifluo.
- Che c’è ancora?
- Il funerale di Baronzio, domani pomeriggio
- Non se ne parla nemmeno, non con questo caldo.
- Ma certo, volevo solo avvisarla che il sosia si è rimesso in salute.
- Benissimo. A che ora è la cerimonia?
- Alle tre.
- Sarò lieto di non presenziarvi. Piuttosto ditemi: la vedova?
- Baronzio era scapolo.
- Ci vuole sempre una vedova. Ingaggiatene una posticcia.
- Ci sarebbe la pseudovedova di Valterius. E’ una delle ultime sopravvissute della da voi disciolta scuola di arte drammatica. Ha solo un difetto: è zoppa.
- Meglio.
- E il discorso?
- Cos’ha che non va il discorso?
- L’abbiamo già utilizzato sei volte senza cambiare una virgola.
- E con ciò?
- Il pubblico potrebbe accorgersene.
- Non se ne accorgerà nessuno. I partecipanti a questo genere di cerimonie hanno in mente una cosa sola: tornarsene a casa il più presto possibile. Chi vuole che presti attenzione al discorso? E ora non mi faccia perdere altro tempo!
Il nano si prostrò ai piedi del Catafratto e scomparve nel buio.
Venne dunque il giorno delle esequie del professor Baronzio. Uomo dottissimo, di sconfinata erudizione, la cui esistenza era stata costellata da un susseguirsi di inspiegabili disgrazie. In gioventù, la perdita di una mano; a trent’anni quella di un orecchio, quindi di un piede. Infine, più umiliante di tutte, la perdita del membro virile. In nessun caso, la separazione di queste parti anatomiche dal resto del corpo poté essere attribuita a cause traumatiche o a patologie note alla scienza medica. Si erano, semplicemente, distaccate da Baronzio per andare chissà dove. La ragioni di questo strano fenomeno andavano forse ricercate nello stile di vita austero del professore. Per sessant’anni Baronzio non aveva fatto altro che decifrare pergamene antichissime ridotte in condizioni miserande dal trascorrere dei secoli: consumate da muffe tenaci, rosicate da ogni genere di insetti, macerate, sbriciolate. Da quei rimasugli, Baronzio aveva ricavato con sovrumani sforzi di immaginazione informazioni dettagliatissime sugli usi e costumi delle tribù barbariche insediatesi nella valle del Nitico in epoca precedente l’edificazione del Tempio della Nube Purpurea. Il dipartimento di letteratura ahrimanica, feudo personale di Baronzio, aveva conosciuto una progressiva espansione, sino a contare decine di ricercatori e ricercatrici, tanto altezzosi quanto improduttivi.
Finché non sopravvenne l’elezione di Sarmand alla suprema autorità accademica. Su ordine del Catafratto, nel giro di sole otto ore l’edificio fu svuotato di ogni presenza umana. Bidelli, bibliotecari, specializzandi, ricercatori: tutto il personale, docente e non docente, fu caricato a bordo di carri piombati e deportato, si dice, verso un’isola lontanissima, situata nel Mare Settentrionale. Un’isola su cui sorgeva un tempo un monastero, riadattato a prigione.
Baronzio, invece, fu costretto ad assistere quello stesso giorno, in un cortile interno dell’accademia, al rogo delle pergamene alla cui decifrazione aveva dedicato l’intera sua esistenza. Quindi fu trascinato nei sotterranei e rinchiuso in una cella orribilmente tetra, a meditare sulla vanità delle cose terrene. Non sopravvisse che un mese al trauma. Lo trovarono riverso sul pancaccio, gli occhi sbarrati, un’espressione di terrore dipinta sul volto. Appena ricevuta la notizia del decesso, Sarmand diede disposizione affinché sul cancello principale dell’accademia fosse affisso un necrologio così concepito:
“Si è spento alla veneranda età di 85 anni l’illustrissimo professor Timoteo Pamphilo Baronzio, Direttore del Dipartimento di Letteratura Ahrimanica. Figura di altissimo profilo morale e intellettuale, padre e sposo esemplare, lascia nel cuore di chi lo conobbe un vuoto del tutto corrispondente allo spazio che vi occupò da vivo. Il Consiglio Magistrale Superiore e le maestranze tutte, ossequienti, si stringono commossi intorno alla sua bara disadorna.”
Il rito funebre fu celebrato nel cortile delle statue, che doveva il proprio nome alla presenza di grandi sculture itifalliche provenienti dall’Alto Egitto. La temperatura si aggirava sui 36 gradi, con un tasso di umidità dell’80%. Il pubblico all’interno del cortile era schierato secondo un rigido ordine gerarchico. In piedi sotto il sole cocente, ausiliari, portieri e personale tecnico – la massa damnationis – ad arrostirsi le cervella. All’ombra del colonnato, comodamente seduti su una tribuna montata per l’occasione, gli alti gradi della burocrazia accademica e i colleghi del defunto con le proprie amanti, per lo più segretarie d’istituto.
Sarmand trascorse il pomeriggio lanciando palline di pane ai gechi.
- Vi lascio la porta socchiusa, così potete uscire.
In fondo al corridoio, una coppia di donne delle pulizie era intenta a discutere animatamente. Ammutolirono non appena si accorsero della presenza del Catafratto. La più anziana delle due, una donna magra e nervosa dallo sguardo spiritato, si mise carponi e prese a strofinare freneticamente il pavimento con uno straccio sporchissimo. Sarmand la scavalcò come si scavalca un oggetto inanimato. Svoltato l’angolo, vide una specie di pupazzo vestito a festa emergere da dietro una tenda: il direttore dell’ufficio affari generali.
- Eccellenza - esclamò il nano in tono mellifluo.
- Che c’è ancora?
- Il funerale di Baronzio, domani pomeriggio
- Non se ne parla nemmeno, non con questo caldo.
- Ma certo, volevo solo avvisarla che il sosia si è rimesso in salute.
- Benissimo. A che ora è la cerimonia?
- Alle tre.
- Sarò lieto di non presenziarvi. Piuttosto ditemi: la vedova?
- Baronzio era scapolo.
- Ci vuole sempre una vedova. Ingaggiatene una posticcia.
- Ci sarebbe la pseudovedova di Valterius. E’ una delle ultime sopravvissute della da voi disciolta scuola di arte drammatica. Ha solo un difetto: è zoppa.
- Meglio.
- E il discorso?
- Cos’ha che non va il discorso?
- L’abbiamo già utilizzato sei volte senza cambiare una virgola.
- E con ciò?
- Il pubblico potrebbe accorgersene.
- Non se ne accorgerà nessuno. I partecipanti a questo genere di cerimonie hanno in mente una cosa sola: tornarsene a casa il più presto possibile. Chi vuole che presti attenzione al discorso? E ora non mi faccia perdere altro tempo!
Il nano si prostrò ai piedi del Catafratto e scomparve nel buio.
Venne dunque il giorno delle esequie del professor Baronzio. Uomo dottissimo, di sconfinata erudizione, la cui esistenza era stata costellata da un susseguirsi di inspiegabili disgrazie. In gioventù, la perdita di una mano; a trent’anni quella di un orecchio, quindi di un piede. Infine, più umiliante di tutte, la perdita del membro virile. In nessun caso, la separazione di queste parti anatomiche dal resto del corpo poté essere attribuita a cause traumatiche o a patologie note alla scienza medica. Si erano, semplicemente, distaccate da Baronzio per andare chissà dove. La ragioni di questo strano fenomeno andavano forse ricercate nello stile di vita austero del professore. Per sessant’anni Baronzio non aveva fatto altro che decifrare pergamene antichissime ridotte in condizioni miserande dal trascorrere dei secoli: consumate da muffe tenaci, rosicate da ogni genere di insetti, macerate, sbriciolate. Da quei rimasugli, Baronzio aveva ricavato con sovrumani sforzi di immaginazione informazioni dettagliatissime sugli usi e costumi delle tribù barbariche insediatesi nella valle del Nitico in epoca precedente l’edificazione del Tempio della Nube Purpurea. Il dipartimento di letteratura ahrimanica, feudo personale di Baronzio, aveva conosciuto una progressiva espansione, sino a contare decine di ricercatori e ricercatrici, tanto altezzosi quanto improduttivi.
Finché non sopravvenne l’elezione di Sarmand alla suprema autorità accademica. Su ordine del Catafratto, nel giro di sole otto ore l’edificio fu svuotato di ogni presenza umana. Bidelli, bibliotecari, specializzandi, ricercatori: tutto il personale, docente e non docente, fu caricato a bordo di carri piombati e deportato, si dice, verso un’isola lontanissima, situata nel Mare Settentrionale. Un’isola su cui sorgeva un tempo un monastero, riadattato a prigione.
Baronzio, invece, fu costretto ad assistere quello stesso giorno, in un cortile interno dell’accademia, al rogo delle pergamene alla cui decifrazione aveva dedicato l’intera sua esistenza. Quindi fu trascinato nei sotterranei e rinchiuso in una cella orribilmente tetra, a meditare sulla vanità delle cose terrene. Non sopravvisse che un mese al trauma. Lo trovarono riverso sul pancaccio, gli occhi sbarrati, un’espressione di terrore dipinta sul volto. Appena ricevuta la notizia del decesso, Sarmand diede disposizione affinché sul cancello principale dell’accademia fosse affisso un necrologio così concepito:
“Si è spento alla veneranda età di 85 anni l’illustrissimo professor Timoteo Pamphilo Baronzio, Direttore del Dipartimento di Letteratura Ahrimanica. Figura di altissimo profilo morale e intellettuale, padre e sposo esemplare, lascia nel cuore di chi lo conobbe un vuoto del tutto corrispondente allo spazio che vi occupò da vivo. Il Consiglio Magistrale Superiore e le maestranze tutte, ossequienti, si stringono commossi intorno alla sua bara disadorna.”
Il rito funebre fu celebrato nel cortile delle statue, che doveva il proprio nome alla presenza di grandi sculture itifalliche provenienti dall’Alto Egitto. La temperatura si aggirava sui 36 gradi, con un tasso di umidità dell’80%. Il pubblico all’interno del cortile era schierato secondo un rigido ordine gerarchico. In piedi sotto il sole cocente, ausiliari, portieri e personale tecnico – la massa damnationis – ad arrostirsi le cervella. All’ombra del colonnato, comodamente seduti su una tribuna montata per l’occasione, gli alti gradi della burocrazia accademica e i colleghi del defunto con le proprie amanti, per lo più segretarie d’istituto.
Sarmand trascorse il pomeriggio lanciando palline di pane ai gechi.
VII
Un solo essere vivente rimaneva all’interno dell’Accademia nelle ore notturne: Sarmand.
Il Catafratto non ne usciva mai.
Al calare dell’oscurità, spettri e fantasmi prendevano silenziosamente possesso delle aule e degli uffici occupati durante il giorno dai vivi. Sarmand aveva il potere di scorgere queste entità, invisibili agli elissini, e di parlare il loro linguaggio.
Quella notte il Catafratto notò un insolito viavai di spettri. I corridoi immersi nel buio pullulavano di spiriti inquieti. Tra essi parve a Sarmand di riconoscere il profilo grifagno del professor Frugulis, deceduto dieci anni prima dopo una lunga vita inoperosa. Frugulis aveva ricoperto per quasi mezzo secolo la cattedra di scienza della divinazione e, parallelamente, l’incarico di Rettore del Collegium Niticensis, una famigerata residenza per studenti dediti a orge e gozzoviglie. La sua morte era avvenuta in circostanze del tutto particolari: mentre si aggirava per un prato con la sua bacchetta da rabdomante, il professore era precipitato in una crepaccio profondissimo, e il suo corpo non era stato mai più ritrovato. Una perdita da cui l’accademia si riebbe con difficoltà, nel volgere di poche ore. Lo spirito del professore, tuttavia, non riusciva a distaccarsi dai luoghi in cui aveva dottamente discettato, per decenni, di tiptologia e coscinomanzia dinanzi ad annoiate platee studentesche.
- Ebbene, cos’è questa caciara? Che vi prende stanotte?
Al richiamo imperioso di Sarmand, il fantasma si mise sull’attenti.
- Una riunione straordinaria, in aula magna!
- Quale riunione?
- Avevo qui l’ordine del giorno, dove l’ho messo?
Frugulis fece per frugarsi nelle tasche ma si interruppe, non avendo tasche in cui frugare.
- Allora? - lo incalzò Sarmand spazientito.
- E’ una riunione importantissima! Stanno affluendo spiriti da tutte le provincie del regno. Si voterà una mozione!
- Di che andate farneticando?
- Vogliamo tornare!
- Tornare dove?
- Tornare in vita! Riprendere il posto che ci spetta, le cattedre che ci sono state sottratte.
Sarmand osservò il fantasma con un’espressione disgustata.
- Non avete dunque imparato nulla? Neppure la morte è riuscita a smorzare le vostre smanie di protagonismo? Mi fate sinceramente pena.
Senza aggiungere altro, Sarmand volse le spalle al professore e si diresse verso la scala che conduceva ai sotterranei dell’accademia. Il Catafratto si muoveva nelle tenebre più fitte con la sicurezza di un pipistrello. Niente e nessuno era in grado di intimorirlo: né i vivi, né i morti, né i demoni. I sotterranei erano il solo luogo dell’imponente edificio in cui si sentisse davvero a suo agio. Vi si recava ogni notte. Laggiù, in quell’antro tenebroso, i fantasmi dei professori non osavano neppure far capolino. Solamente uno spettro vi dimorava: quello di un suicida, rifugiatosi nei sotterranei in cerca di tranquillità. Tra Sarmand e lo spettro si era instaurato un rapporto improntato al mutuo rispetto: ciascuno badava ai fatti propri senza interferire nelle occupazioni altrui. Il suicida trascorreva il proprio tempo immerso nella lettura di antichi volumi polverosi. L’occupazione del Catafratto consisteva nell’attingere alla riserva di vini pregiati salumi e formaggi custodita in un locale a volta appositamente attrezzato. Sarmand vi aveva fatto collocare una poltrona, un tavolino e uno sgabello per appoggiare i piedi.
Tagliati un paio di cacciatorini e una generosa porzione di gorgonzola, il Catafratto estraeva dalla tasca del soprabito una micca di pane, stappava una bottiglia di vino rosso e si dedicava alla manducazione.
L’eccentricità del personaggio si appalesava in questa consuetudine del pasto notturno in un ambiente che certo non conciliava l’appetito.
I sotterranei ospitavano infatti un ossario, di cui gli elissini ignoravano l’esistenza: migliaia di teschi, tibie e clavicole – i resti mortali del personale docente e non docente avvicendatosi nel corso dei secoli all’interno dell’accademia – giacevano ordinatamente disposti nelle nicchie ricavate lungo le pareti. Servendosi degli scheletri meglio conservati, un artigiano aveva allestito, su incarico di Sarmand, una macabra messa in scena. Su un fondale teatrale raffigurante un paesaggio bucolico si stagliavano le sagome di una dozzina di scheletri abbigliati di tutto punto, ciascuno in una posa sua propria. Da una parte, uno scheletro in abiti da curato, il breviario stretto al petto, rivolgeva un gesto benedicente a due braccianti col cappello in mano, dall’altra una contadina coglieva more da un cespuglio.
I sotterranei esercitavano un fascino irresistibile sui demoni infernali. Accadeva non di rado che alcuni di essi si materializzassero accanto a Sarmand, per ammirare la sua straordinaria collezione di teschi e il suo teatrino della morte. Vi era, fra loro, una magnifica diavolessa di nome Lucretia. Le medaglie appuntate sulla sua cotta di maglia attestavano che si trattava di una guerriera intrepida. La conversazione con Sarmand era per lei fonte di sollievo. Quell’uomo così avulso dalla vita e dalle cure terrene le si rivolgeva sempre in tono garbato e affettuoso, quasi paterno, facendole dimenticare per un poco le proprie tristi incombenze quotidiane, il suo ruolo di tormentatrice di dannati.
Il Catafratto, dal canto suo, traeva piacere dalla presenza di quell’indomita combattente. Come un vampiro, si nutriva della sovrabbondante vitalità di quella creatura diabolica. Lucretia si mostrava felice come una bambina ogni qual volta Sarmand le faceva dono di un teschio, o di una collana di vertebre.
Ma quella notte, sin dalla prima occhiata, la diavolessa intuì che l’umore di Sarmand era insolitamente cupo. Il Catafratto si accingeva a stappare la seconda bottiglia.
Turbata, Lucretia gli si rivolse così:
- Voglio raccontarti una cosa. Non l’ho mai detta a nessuno.
Sarmand ripose la bottiglia sulla rastrelliera.
- Agli inizi, quando presi servizio nella X Legio Infernalis, tutto era più semplice.
Ero motivata. Avevo un dovere da compiere, e lo svolgevo al meglio delle mie possibilità, con entusiasmo. Ora non più. Assolvo i miei compiti, sì, ma senza intima convinzione.
- Capita a molti - sospirò Sarmand.
- Ma non credevo sarebbe capitato a me, Lucretia, il flagello delle anime dannate.
Credevo di essere immune da certe debolezze, una macchina da guerra che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire.
Sarmand portò il bicchiere alla bocca e lo svuotò a brevi sorsi.
- Non ho più notizie del Re del Nulla - sospirò. - Temo l’abbiano ucciso.
Lucretia ebbe un fremito.
- Il Re è vivo! - esclamò.
Sarmand la fissò negli occhi.
- Dove si trova in questo momento?
- Prigioniero in un pozzo, a centinaia di metri di profondità nel sottosuolo di Elissinia.
Sarmand posò la bottiglia e il bicchiere sul tavolino.
- Dobbiamo liberarlo!
Il Catafratto non ne usciva mai.
Al calare dell’oscurità, spettri e fantasmi prendevano silenziosamente possesso delle aule e degli uffici occupati durante il giorno dai vivi. Sarmand aveva il potere di scorgere queste entità, invisibili agli elissini, e di parlare il loro linguaggio.
Quella notte il Catafratto notò un insolito viavai di spettri. I corridoi immersi nel buio pullulavano di spiriti inquieti. Tra essi parve a Sarmand di riconoscere il profilo grifagno del professor Frugulis, deceduto dieci anni prima dopo una lunga vita inoperosa. Frugulis aveva ricoperto per quasi mezzo secolo la cattedra di scienza della divinazione e, parallelamente, l’incarico di Rettore del Collegium Niticensis, una famigerata residenza per studenti dediti a orge e gozzoviglie. La sua morte era avvenuta in circostanze del tutto particolari: mentre si aggirava per un prato con la sua bacchetta da rabdomante, il professore era precipitato in una crepaccio profondissimo, e il suo corpo non era stato mai più ritrovato. Una perdita da cui l’accademia si riebbe con difficoltà, nel volgere di poche ore. Lo spirito del professore, tuttavia, non riusciva a distaccarsi dai luoghi in cui aveva dottamente discettato, per decenni, di tiptologia e coscinomanzia dinanzi ad annoiate platee studentesche.
- Ebbene, cos’è questa caciara? Che vi prende stanotte?
Al richiamo imperioso di Sarmand, il fantasma si mise sull’attenti.
- Una riunione straordinaria, in aula magna!
- Quale riunione?
- Avevo qui l’ordine del giorno, dove l’ho messo?
Frugulis fece per frugarsi nelle tasche ma si interruppe, non avendo tasche in cui frugare.
- Allora? - lo incalzò Sarmand spazientito.
- E’ una riunione importantissima! Stanno affluendo spiriti da tutte le provincie del regno. Si voterà una mozione!
- Di che andate farneticando?
- Vogliamo tornare!
- Tornare dove?
- Tornare in vita! Riprendere il posto che ci spetta, le cattedre che ci sono state sottratte.
Sarmand osservò il fantasma con un’espressione disgustata.
- Non avete dunque imparato nulla? Neppure la morte è riuscita a smorzare le vostre smanie di protagonismo? Mi fate sinceramente pena.
Senza aggiungere altro, Sarmand volse le spalle al professore e si diresse verso la scala che conduceva ai sotterranei dell’accademia. Il Catafratto si muoveva nelle tenebre più fitte con la sicurezza di un pipistrello. Niente e nessuno era in grado di intimorirlo: né i vivi, né i morti, né i demoni. I sotterranei erano il solo luogo dell’imponente edificio in cui si sentisse davvero a suo agio. Vi si recava ogni notte. Laggiù, in quell’antro tenebroso, i fantasmi dei professori non osavano neppure far capolino. Solamente uno spettro vi dimorava: quello di un suicida, rifugiatosi nei sotterranei in cerca di tranquillità. Tra Sarmand e lo spettro si era instaurato un rapporto improntato al mutuo rispetto: ciascuno badava ai fatti propri senza interferire nelle occupazioni altrui. Il suicida trascorreva il proprio tempo immerso nella lettura di antichi volumi polverosi. L’occupazione del Catafratto consisteva nell’attingere alla riserva di vini pregiati salumi e formaggi custodita in un locale a volta appositamente attrezzato. Sarmand vi aveva fatto collocare una poltrona, un tavolino e uno sgabello per appoggiare i piedi.
Tagliati un paio di cacciatorini e una generosa porzione di gorgonzola, il Catafratto estraeva dalla tasca del soprabito una micca di pane, stappava una bottiglia di vino rosso e si dedicava alla manducazione.
L’eccentricità del personaggio si appalesava in questa consuetudine del pasto notturno in un ambiente che certo non conciliava l’appetito.
I sotterranei ospitavano infatti un ossario, di cui gli elissini ignoravano l’esistenza: migliaia di teschi, tibie e clavicole – i resti mortali del personale docente e non docente avvicendatosi nel corso dei secoli all’interno dell’accademia – giacevano ordinatamente disposti nelle nicchie ricavate lungo le pareti. Servendosi degli scheletri meglio conservati, un artigiano aveva allestito, su incarico di Sarmand, una macabra messa in scena. Su un fondale teatrale raffigurante un paesaggio bucolico si stagliavano le sagome di una dozzina di scheletri abbigliati di tutto punto, ciascuno in una posa sua propria. Da una parte, uno scheletro in abiti da curato, il breviario stretto al petto, rivolgeva un gesto benedicente a due braccianti col cappello in mano, dall’altra una contadina coglieva more da un cespuglio.
I sotterranei esercitavano un fascino irresistibile sui demoni infernali. Accadeva non di rado che alcuni di essi si materializzassero accanto a Sarmand, per ammirare la sua straordinaria collezione di teschi e il suo teatrino della morte. Vi era, fra loro, una magnifica diavolessa di nome Lucretia. Le medaglie appuntate sulla sua cotta di maglia attestavano che si trattava di una guerriera intrepida. La conversazione con Sarmand era per lei fonte di sollievo. Quell’uomo così avulso dalla vita e dalle cure terrene le si rivolgeva sempre in tono garbato e affettuoso, quasi paterno, facendole dimenticare per un poco le proprie tristi incombenze quotidiane, il suo ruolo di tormentatrice di dannati.
Il Catafratto, dal canto suo, traeva piacere dalla presenza di quell’indomita combattente. Come un vampiro, si nutriva della sovrabbondante vitalità di quella creatura diabolica. Lucretia si mostrava felice come una bambina ogni qual volta Sarmand le faceva dono di un teschio, o di una collana di vertebre.
Ma quella notte, sin dalla prima occhiata, la diavolessa intuì che l’umore di Sarmand era insolitamente cupo. Il Catafratto si accingeva a stappare la seconda bottiglia.
Turbata, Lucretia gli si rivolse così:
- Voglio raccontarti una cosa. Non l’ho mai detta a nessuno.
Sarmand ripose la bottiglia sulla rastrelliera.
- Agli inizi, quando presi servizio nella X Legio Infernalis, tutto era più semplice.
Ero motivata. Avevo un dovere da compiere, e lo svolgevo al meglio delle mie possibilità, con entusiasmo. Ora non più. Assolvo i miei compiti, sì, ma senza intima convinzione.
- Capita a molti - sospirò Sarmand.
- Ma non credevo sarebbe capitato a me, Lucretia, il flagello delle anime dannate.
Credevo di essere immune da certe debolezze, una macchina da guerra che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire.
Sarmand portò il bicchiere alla bocca e lo svuotò a brevi sorsi.
- Non ho più notizie del Re del Nulla - sospirò. - Temo l’abbiano ucciso.
Lucretia ebbe un fremito.
- Il Re è vivo! - esclamò.
Sarmand la fissò negli occhi.
- Dove si trova in questo momento?
- Prigioniero in un pozzo, a centinaia di metri di profondità nel sottosuolo di Elissinia.
Sarmand posò la bottiglia e il bicchiere sul tavolino.
- Dobbiamo liberarlo!
Pietro Ferrari, 2010
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