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sabato 2 ottobre 2021

UN RELITTO RETICO IN ROMANCIO: NUORSA 'PECORA'

Tra le parole di sostrato presenti nella lingua romancia, ne ho notata una che senza dubbio è un resto dell'antica lingua retica. Mi sembra molto importante, anche perché non è la solita parola tecnica: appartiene a una parte fondamentale del lessico alpino. È il nome della pecora: nuorsa. Questi sono i dati: 
 
Sursilvano: nuorsa "pecora" 
   traduzione inglese: sheep 
Sursilvano, Puter, Vallader: nuorsa "pecora femmina"  
   traduzione inglese: ewe 
Rumancio grigionese: nursa "pecora", "pecora femmina"
   traduzione inglese: sheep, ewe  
Sottosilvano: nursa "pecora", "pecora femmina"
   traduzione inglese: sheep, ewe  
Surmirano: nursa "pecora", "pecora femmina" 
   traduzione inglese: sheep, ewe  
 
Forme plurali: 
nuorsas, nursas "pecore", "pecore femmine"
 
Derivati: 
nurser "pecoraio"  

Protoforma retica ricostruita: 
*nurza
Nota: 
Il suffisso tirrenico -za, in origine un diminutivo, è molto comune e produttivo in etrusco; si trova inoltre fossilizzato in almeno un nome di animale: marza "maiale" (cfr. Facchetti, 2000).
 
Chiaramente i romanisti si sono sempre trovati in grande difficoltà con una parola tanto bizzarra. Hanno cercato in tutti i modi di ricondurla al latino, evocando una derivazione da nūtrīx (genitivo nūtrīcis) "nutrice", o di una sua variante con vocale breve, nŭtrīx - cosa che è foneticamente impossibile, oltre che semanticamente contortisimo, ben oltre i confini del ridicolo. Queste sono le mie obiezioni: 
 
i) Posizione dell'accento: 
 
La forma accusativa nūtrīce(m) porta l'accento sulla seconda sillaba, ovvero sulla vocale -ī- lunga: non è plausibile che l'accento si sia ritratto sulla prima sillaba. 
La forma nominativa nūtrīx porta l'accento sulla prima sillaba, ma non può aver dato nu(o)rsa
 
ii) Evoluzione della vocale finale: 
 
È implausibile che la finale -e(m) dell'accusativo nūtrīce(m) si sia evoluta in -a, anche visto che avrebbe dovuto produrre l'assibilazione della consonante -c-
La terminazione -īx del nominativo  non avrebbe potuto evolvere in -a.

iii) Evoluzione del gruppo consonantico -tr-:

Il gruppo consonantico -tr- non può aver dato -rs- in romancio: il suo esito è -dr-.
Così il verbo nūtrīre (nūtriō "io nutro", nūtrīs "tu nutri", nūtriī "io ho nutrito", nūtrītum "a nutrire") ha dato nudrir, non *nursir
 
iv) Semantica: 
 
È cosa sommamente implausibile che un animale tra i più comuni e utili non conservi il proprio nome e che al suo posto ne venga fabbricato uno nuovo derivato da un verbo. Questo processo di sostituzione non è di per sé impossibile, ma in genere si ravvisa in caso di tabù, per via di un timore superstizioso che in genere è connesso ai predatori o ad altri animali considerati pericolosi, nocivi, sinistri (ad esempio il lupo, l'orso, la volpe, etc.). 
 
Purtroppo, sembra che ormai questa derivazione da nutrīce(m) sia ormai ritenuta ufficiale, quasi una sorta di dogma della romanistica. Solo per fare un esempio, basti vedere il sito del progetto VerbaAlpina, diretto da Thomas Krefeld e Stephan Lücke, in cui il romancio nu(o)rsa è mostrato come esito del tipo latino nutrīcem. I dati possono essere visualizzati su mappa, in modo molto efficace: 
 
 
Eppure qualche dubbio talvolta emerge dalla crosta compatta della sicumera e della disonestà intellettuale, come un baco che rode la coscienza. Così il Salvioni menziona nuorsa nel trattare la voce francese nourrice (priva di qualsiasi connessione), in Romania, volume 43, N° 171 (1914): 


FRANC. nourrice

Pare strano che il REW ponga al num. 6008, e cioè tra le rispondenze di nŭtrix, questa voce (ch'egli scrive nourrisse) e il prov. noirissa. Già il Dict. gén., e chissà quanti prima di esso, avevano esposto che vi si tratti di nŭtrīcia. Questa forma è ben confermata dal nap. notriccia nutrice e meglio ancora dal sic. nurrizza ch'è appunto (questo non quello) un gallicismo e che ha figliato un nurrizzu balio, che ha allato a se un nutrizziu ampliato da *nutrizzu, che presuppone un indigeno *nutrizza. Mi pare invece che sbagli il Dict. gén. e con lui il REW, 6007, nel muovere dall'astratto nŭtrītio per ispiegare nourrison, ecc. che sarà il diminutivo di quel positivo ch'è nel prov. noiritz, che anche il REW colloca erroneamente al num. 60031. Io avrei accolto l'articolo nŭtrīcius "poppante". - E mi si lasci dire che mi par ben problematica la spettanza allo stesso num. del REW, di grig. nuorsa pecora. A me almeno non riesce in nessun modo di venirne foneticamente a capo. 

1. Starà a nŭtricia come poupon a poupe. (nota dell'autore)
 
Rileggete tutti le conclusioni del Salvioni: "A me almeno non riesce in nessun modo di venirne foneticamente a capo". A lui e a nessun altro può essere riuscita una simile impresa, perché siamo di fronte a una falsa etimologia fabbricata ad hoc.
 
Una citazione interessante del termine nuorsa si trova nell'Almanacco dei Grigioni (2016), nell'articolo Di come la Val Orsera divenne italiana, di Fabrizio Lardi:
 
 
"La storia del contenzioso sulla Val Orsera ha inizio nella notte dei tempi, da quando cioè le prime mandrie di armenti salite brucando dai pascoli della Vall’Agoné vennero a incontrarsi con quelle bormine che estivavano nell’ampia conca di Livigno. Erano quelli tempi grami, in cui la pastorizia, soprattutto di bestiame minuto, pecore e capre, faceva la ricchezza delle comunità. Così si saranno incontrati anche i primi pastori. Probabile è che Ursera, più che da orso, come vuole un* romantica toponomastica, venga dal romancio «nuorsa», pecora.2 Troppo importanti quegli animali, che fornivano tutto il necessario per vivere: carne, latticini, lana. La valle delle pecore per antonomasia, insomma. Tuttavia le vaste e selvagge vallate e i remoti altipiani di questa parte dell’Arco alpino sembravano in quei tempi garantire sufficiente disponibilità di pascoli a tutti. Sotto la spinta della crescita demografica la situazione andò però pian piano inasprendosi. Il mercato di prodotti ovini, soprattutto dell’affamata pianura lombarda in forte espansione, spinse a uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse alpine."

* Sic! (nota mia)
2) Sul modello di Alp Nursera, sopra Andeer. (nota dell'autore) 
 
Queste osservazioni del Lardi sono molto interessanti. Già da tempo mi ero imbattuto nella menzione dell'esistenza di toponimi in Urs-, presenti lungo l'arco alpino e non connessi con il nome latino dell'orso. Prima di poter stabilire con sicurezza che questa radice sia una variante di quella che ricorre nel romancio nu(o)rsa, occorrerebbero ulteriori studi e dati che molto probabilmente sono andati perduti.
 
Gli Aruspici e il fegato di pecora 
 
In etrusco la Dea della Fortuna era chiamata *Nurθia. Il teonimo in latino era trascritto come Nortia, con numerose varianti: Nurtia, Norcia, Norsia, Nursia, Nercia, Nyrtia. Questo nome doveva significare per l'appunto "Destino", "Fortuna", anche se dobbiamo dire che finora non si è trovato il modo di chiarirne l'etimologia. Queste sono le attestazioni di gentilizi derivati dal teonimo:  

Nurziu 
 genitivo: Nurziuś    
    femminile: Nurziunia  
    genitivo femminile: Nurziunias
Nurtine 
Nota: 
Cfr. Bezzembergher, 1877; D'Aversa, 1984; Morandi Tarabella, 2004.
 
Ora si spiega finalmente perché gli Aruspici usassero il fegato della pecora per scrutare i segni divini. La pecora doveva essere chiamata *nurza, proprio come in retico. Si capisce come l'assonanza con il teonimo *Nurθia fosse motivo sufficiente per giustificare e fondare una tradizione. Ovviamente si tratta di una somiglianza accidentale: il nome della divinità non è connesso a quello dell'ovino. 
 
Consideriamo ora alcuni altri antroponimi etruschi che potrebbero avere a che fare col teonimo *Nurθia. Il primo è un gentilizio:
 
Nufrzna  
 genitivo: Nufurznas 
    femminile: Nufrznei  
    genitivo femminile: Nufrznal 
Cfr. Benelli, 2015; Pittau, 2012, 2018. 

Il secondo è attestato come cognomen e come praenomen (es.: CIE 196, Tabula Cortonensis) ed è senza dubbio la base da cui è stato formato il gentilizio sopracitato:
 
Nufre   
  genitivo: Nufreś 
  genitivo patronimico: Nufresa
Cfr. Alberghina, 2013 
 
Il gentilizio Nufrzna, tipico di Perugia, è reso in latino con Noborsinius, Noforsinius o Nufronius (femminile Noborsinia, Noforsinia, Nufronia). Potrebbe anche essere che *Nurθia sia derivato da un precedente *Nufrθia. Se così fosse, sarebbe utile notare la somiglianza di queste forme con la ben nota parola egiziana nfr "buono, bello", femminile nfr.t "buona, bella". La pronuncia nel Medio regno doveva essere questa: maschile /'na:fa/; femminile /'nafra/. In epoca ellenistica, la pronuncia era ormai simile a quella del copto: maschile /'nu:fə/; femminile /'nɔfrə/. In copto il maschile è ⲛⲟⲩϥⲉ, il femminile ⲛⲟϥⲣⲉ (Sahidico), ⲛⲟϥⲣⲓ (Bohairico). Si fosse avvenuto un prestito dall'egiziano all'etrusco, molte cose si spiegherebbero. Non posso esserne sicuro al cento per cento, ma la trovo un'ipotesi affascinante. Certo è che sono documentati rapporti culturali tra l'Etruria e l'Egitto.   

venerdì 20 agosto 2021

IL MISTERO DEL VINO DI SICOMORO

Il sicomoro (Ficus sycomorus) era molto considerato nell'antico Egitto, essendo l'albero sacro alla Dea Hathor, patrona della fecondità. Era anche chiamato "albero dell'Eternità" e "albero dei Faraoni": col suo legno venivano fabbricati i sarcofagi. I frutti del sicomoro, simili a fichi di colore chiaro e rossiccio, erano un cibo molto apprezzato. Provenendo da un albero sacro, erano associati all'immortalità e spesso venivano posti nelle tombe come offerta per i defunti. Oltre a questo, con tali fichi veniva prodotta una bevanda inebriante, che è da tempo scomparsa. A quanto pare era forte, al punto che bruciava la gola ed era paragonato alla fiamma (vedi The Fig in Ancient Egypt su Reddit). Diversi anni fa mi sono imbattuto in contributi di navigatori che si chiedevano perché il vino di sicomoro non fosse più stato prodotto. Non ho più trovato tracce dei loro interventi, ma cercherò di dare una risposta a questo importante interrogativo. 
 

Non mi stupisce troppo l'incapacità di trovare qualsiasi traccia di uno specifico termine egiziano per indicare una bevanda prodotta dai fichi del sicomoro. Col passaggio al Cristianesimo, caddero in disuso e furono obliate molte parole che appartenevano alla sfera semantica degli antichi culti. Altre furono invece conservate in copto, perché non suscettibili di ricevere un'interpretazione positiva in senso cristiano. A scomparire furono proprio quelle parole che non poterono subire l'esaugurazione, perché i concetti che esprimevano erano incompatibili con la nuova religione, che non fu esente da manifestazioni di fanatismo e di furore iconoclastico. Qualcosa di simile come accadde anche in latino, dove parole come templum e altāre si conservarono, mentre i sinonimi fānum e āra furono colpite da interdetto e scomparvero dalla lingua popolare. 
 
Si potrebbe dedurre che il vino di sicomoro era bevuto unicamente in occasione di rituali funebri, motivo per cui finì con l'essere abolito. La sua memoria si sarebbe quindi persa rapidamente. Non sono però chiari i dettagli di questo processo di scomparsa di un'antica eredità. 
Sbagliano coloro che hanno ipotizzato che la causa della scomparsa di questa bevanda sia stato l'Islam. Evidentemente non era già più conosciuta quando gli Arabi hanno conquistato l'Egitto. Per quanto la Shari'a proibisca l'alcol, non è sempre stata applicata con lo stesso rigore e non si può pensare che abbia causato la completa scomparsa di ciò che considera haram. Fautori dell'uso smodato del vino non sono mancati dalla Turchia alla Spagna moresca, così come i pederasti! Dovremmo pensare che il fanatismo cristiano in Egitto sia stato molto più efficace, eliminando tutto ciò che era intrinsecamente connesso con i riti pagani. Il problema non era il potere ubriacante della bevanda, bensì il fatto che fosse offerta alle divinità antiche e che non avesse alcun uso profano.  
Forse un simile tabù era già da tempo presente presso gli Ebrei. Sarebbe assurdo poter disporre di una risorsa abbondante come i frutti di sicomoro e non sfruttarla per la produzione di bevande alcoliche, quando basterebbe poco per farlo. Esisteva persino la professione di raccoglitore di fichi di sicomoro. La raccolta non veniva eseguita manualmente, bensì servendosi di strumenti affini a rastrelli, dato che i frutti crescono anche sul tronco degli alberi. Non sappiamo se questi fichi entrassero a far parte della produzione della sicera, assieme ad altri ingredienti, anche se non come unica componente. Non dispendo di sufficienti dati per definire la questione, ho pensato che fosse interessante chiedere a un rabbino molto esperto un'opinione per chiarire meglio questi dubbi, se nelle consuetudini israelitiche esista qualche interdizione a questo proposito. Ho quindi trovato un'inattesa pista sul Web, che mi ha permesso di giungere a una conclusione ragionevole.  

La soluzione del mistero 

Una neopagana che si fa chiamare Hearth Moon Rising riporta nel suo sito un'importante informazione. La pagina è la seguente:  


Questo è il testo tradotto: 
 
"Non sono stata capace di scoprire tramite i miei libri o una ricerca in Internet se il fico del sicomoro sia mai stato fermentato per i riti di Hathor. Ho scoperto che questo fico è talvolta davvero fermentato in vino, ma che ha un gusto di aceto che lo rende più adatto come medicina che come divertimento."
 
Il vino di sicomoro conteneva alcol acetico, ossia etanolo con tendenza a generare acido aceto, che conferiva un tipico sapore acido e irritante. Ecco perché si diceva che "bruciava la gola". Era bevuto soltanto per finalità religiose perché non era buono. Ho avuto esperienza di vino e di idromele in incipiente stato di inacetimento. Nel primo caso era un vino vecchio e imbottigliato male. Nel secondo caso era un idromele prodotto da amici a partire da una decozione conservata in condizioni non ottimali. La sensazione di entrambe le bevande era la stessa. Erano ancora commestibili, ma berle dava un certo fastidio e infiammavano le vie urinarie. La bevanda sacra alla Dea Hathor doveva essere simile. Una divinità egizia poteva imporre ai suoi devoti le cose più stravaganti, anche baciare il culo dei babbuini! Figuriamoci se era un problema bere una pozione un po' acida. Il punto è che quando la gente è diventata cristiana, nessuno glielo faceva più fare di ingurgitare qualcosa di poco gradevole. Allo stesso modo, il popolo di Israele non aveva motivo alcuno di usare quei fichi asprigni per la produzione di alcolici, quando disponeva di buona uva, frutta adatta, cereali e miele. Con questo, il mistero è risolto. 
 
Note etimologiche

Questa è l'evoluzione del nome del sicomoro nella lingua degli Egizi dalle origini al suo periodo finale: 

 
Egiziano (Antico Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:hat/
 
Egiziano (Medio Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:ha/
 
Egiziano (Nuovo Regno) 
nht "sicomoro" (pronuncia /'nɔ:hə/, /'no:hə/)
 
Copto
ⲛⲟⲩϩⲉ (pronuncia /'nu:hə/
 
Da questo fitonimo deriva il nome di persona maschile Sinuhe, che significa "Figlio del Sicomoro". Nell'Egiziano del Medio Regno doveva pronunciarsi /siˀ'na:ha/. Si deve notare che il nome, di genere maschile, contiene un elemento che è morfologicamente femminile.
 
Questo è il nome del sicomoro in alcune importanti lingue semitiche:  

Ebraico 
שִׁקְמָה  šiqmā "sicomoro" (pronuncia biblica /ʃiq'ma:/
        altre trascrizioni: shikma, shikmah
     singolare costrutto: שִׁקְמַת־  šiqmat "sicomoro di"
     plurale: שִׁקְמִים  šiqmīm "sicomori" 
     plurale costrutto: שִׁקְמֵי־‎‎  šiqmē "sicomori di"
Note: 
Il singolare è di genere femminile, il plurale è invece di genere maschile. Indica l'albero e il suo frutto. 

Aramaico 
šeqmā "sicomoro" (albero e frutto) 
      (prestito dall'ebraico) 
   altri significati: "fico selvatico", "fico acerbo" 
   variante: šqem, šiqmā, šaqmā "sicomoro" 
   plurale: šiqmīn "fichi di sicomoro"
   plurali alternativi: šeqmātā, šeqmē 
tittā "sicomoro" (frutto) 
   varianti ortografiche: titā, tettā 
Note: 
Il vocabolo tittā, attestato come designazione del fico del sicomoro, è affine all'accadico tittu, tētu "fico" e all'ebraico תְּאֵנָה  te'ēnā "fico". In aramaico esiste anche tā "mora di gelso; emorroide", affine all'accadico tuttu "mora di gelso" e all'ebraico תוּת t "mora di gelso".

Accadico 
messikanu "sicomoro" (varianti: musukanu, musukannu,
    mesukannu, etc.);
sukannu "sicomoro" 
Note: 
Si tratta di prestiti dal sumerico (vedi sotto). Alcuni ritengono che in ebraico si trovi parola isolata mesukkān "sicomoro" in Isaia 40, 20, ma non sono sicuro che sia vero: sembra invece che sia un fraintendimento di הַֽמְסֻכָּ֣ן hamsukkān "impoverito, danneggiato". La questione sembra non essere risolta a tutt'oggi, ci sono studiosi che insistono col dire che mesukkān è un albero, anche se la traduzione "sicomoro" non è accettata da tutti. Secondo Haupt (1917), l'albero sarebbe invece da identificarsi con l'Acacia nilotica. Se questo vocabolo esistesse, sarebbe evidentemente un prestito dal sumerico tramite l'accadico.  
 
Arabo  
جُمَّيْز  jummayz "sicomoro" 
سَوْقَم  sawqam "sicomoro" (Yemen, obsoleto)
سَقُوم  saqūm "sicomoro" (Algeria) 
Note: 
Il primo di questi nomi del sicomoro, jummayz, ha una corrispondenza nell'ebraico mishnaico: גמזיות "sicomori", con ogni probabilità da vocalizzarsi come gummazyōt. I due nomi sawqam e saqūm sono chiari prestiti dall'aramaico.

Questo è il nome del sicomoro nella lingua di Sumer: 

Sumerico 
1) šam "sicomoro" (glosse accadiche: "sukannu",
    "musukanu", fonte: Uruanna, II.509); 
2) giš mes maganna "sicomoro", alla lettera "albero
     di Magan" (giš è un determinativo e non si pronuncia). 
Note: 
Magan era un paese mitico la cui identificazione finora non è stata determinata con sicurezza. Alla luce di questa evidenza, finora negletta, può essere identificato con l'Oman: l'unica delle terre proposte ove cresce il sicomoro. Resta però il fatto che questo vocabolo avrebbe potuto indicare anche alberi diversi. Sarebbero necessari studi più approfonditi.  
Chiaramente l'accadico messikanu (e varianti) è derivato proprio da giš mes maganna.

Sicomoro e sicamino 

In greco σῡκόμορος (sykómoros) è etimologizzato come "fico-gelso", da σῦκον (sŷkon) "fico", μόρον (móron) "mora di gelso". Si tratta di un'etimologia popolare. In realtà la parola sembra un adattamento dell'ebraico šiqmā (vedi sopra). Si tratta però di un ragionamento circolare, in quanto il nome ebraico del sicomoro è a sua volta derivato dalla stessa radice mediterranea da cui hanno avuto origine anche il greco σῦκον e il latino fīcus (verosimile prestito dall'etrusco). Esiste poi in greco un altro fitonimo collegato a questo: συκάμινος, variante συκάμνος "gelso bianco", "gelso nero", che nel greco d'Egitto è usato anche col significato di "sicomoro". Questa parola è derivata direttamente dal plurale aramaico šiqmīn "fichi di sicomoro" ed è passata in latino come sȳcamīnus
 
Ancora su un equivoco
 
Il vino di sicomoro è menzionato nell'opera di Paolo Mantegazza, Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze (1871). Il fisiologo monzese ha riportato in un elenco un gran numero di bevande fermentate, con una breve nota sulla sua produzione e spesso anche sul paese in cui sono usate. Molte informazioni sono preziose, altre sono invece abbastanza discutibili. Così egli scrive:
 
Vino di sicomoro, succo dell'albero. Inghilterra 
 
A questo punto mi viene un sospetto. Mantegazza deve aver commesso lo stesso errore in cui è incappato Michel Houellebecq, definendo "sicomoro" l'acero montano. La causa è senza dubbio derivata dall'uso volgare di chiamare "sicomoro" svariate specie di aceri e persino il platano (sycomore o sycamore in inglese, sycomore in francese). Questa abitudine deprecabile è contraria all'etimologia della parola e di certo è derivata dall'ignoranza di qualche autore moderno: ancora nel XIV secolo il francese sicamour indicava correttamente la pianta africana e mediorientale di biblica memoria.    

martedì 3 novembre 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI NYARLATHOTEP

Nyarlathotep appartiene al pantheon alieno degli Dei Esterni, descritto da H. P. Lovecraft e ripreso da altri autori che ne hanno emulato e proseguito l'opera, come August Derleth. I più noti epiteti di questa demoniaca entità cosmica sono questi: Caos Strisciante, Faraone Nero. È figlio di Azathoth, posto che i termini umani indicanti la parentela abbiano il benché minimo senso per entità di questo genere. Mentre gli altri Dei Esterni sono sostanzialmente indifferenti alla vita biologica presente nel Cosmo, Nyarlathotep interagisce con essa, contribuendo attivamente a seminare la pazzia, la distruzione e la morte. Si manifesta sulla Terra nella figura di un uomo alto e magro, in grado di parlare alla perfezione qualsiasi lingua. Le sue opere sono portentose e terribili.            
 
Così ha scritto il Solitario di Providence:  

"I had never heard the name NYARLATHOTEP before, but seemed to understand the allusion. Nyarlathotep was a kind of itinerant showman or lecturer who held forth in public halls and aroused widespread fear and discussion with his exhibitions. These exhibitions consisted of two parts—first, a horrible—possibly prophetic—cinema reel; and later some extraordinary experiments with scientific and electrical apparatus. As I received the letter, I seemed to recall that Nyarlathotep was already in Providence.... I seemed to remember that persons had whispered to me in awe of his horrors, and warned me not to go near him. But Loveman's dream letter decided me.... As I left the house I saw throngs of men plodding through the night, all whispering affrightedly and bound in one direction. I fell in with them, afraid yet eager to see and hear the great, the obscure, the unutterable Nyarlathotep." 
(Lettera a Reinhardt Kleiner, 21 dicembre 1921) 

Traduzione per gli anglofobi non anglofoni: 
 
"Non avevo mai sentito prima il nome NYARLATHOTEP, ma mi sembrò di capire l'allusione. Nyarlathotep era una specie di uomo di spettacolo o di conferenziere itinerante che si esibiva nelle sale pubbliche e suscitava paura diffusa e discussione con le sue esibizioni. Questi spettacoli consistevano di due parti: la prima, un'orribile, forse profetica, bobina cinematografica; e in seguito alcuni straordinari esperimenti con apparati scientifici ed elettrici. Quando ho ricevuto la lettera, mi è sembrato di ricordare che Nyarlathotep era già a Providence... Mi è sembrato di ricordare che le persone mi avevano sussurrato in soggezione dei suoi orrori, e mi avevano avvertito di non avvicinarmi a lui. Ma la lettera del sogno di Loveman mi ha fatto decidere... Quando ho lasciato la casa ho visto una moltitudine di uomini arrancare nella notte, tutti sussurrando spaventati e legati in una direzione. Mi sono imbattuto in loro, impaurito ma desideroso di vedere e ascoltare il grande, l'oscuro, l'indicibile Nyarlathotep." 
 
La prima comparsa di Nyarlathotep nell'opera lovecraftiana si ha con l'omonimo racconto breve: Nyarlathotep, scritto nel 1920 e pubblicato per la prima volta nello stesso anno su The United Amateur. Il figlio di Azathoth compare in Egitto nella sua forma di Faraone Nero. Viaggia per il mondo mostrando al pubblico meravigliose macchine elettriche che fanno irrompere nel mondo un'epidemia di incubi atroci. Il genere umano finisce col perdere la propria definizione, sprofondando nell'Abisso e disperdendosi. Questa è la sintetica descrizione della trama su Wikipedia in italiano: "In un mondo oppresso "da un mostruoso senso di colpa" l'avvento di Nyarlathotep, oscuro profeta venuto dal passato, sparge visioni d'incubo alle quali neppure i più scettici possono rimanere indifferenti."
 
Pochi fanno riferimento alla menzione di Nyarlathotep nel racconto I ratti nei muri (The Rats in the Walls), scritto nel 1923. Nel romanzo La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath (The Dream-Quest of Unknown Kadath), scritto tra il 1926 e il 1927, Nyarlathotep compare con l'aspetto di un Faraone dell'Egitto ed è un implacabile avversario del protagonista Randolph Carter, cercando con ogni mezzo di intralciare il suo cammino. Nel racconto horror La casa delle streghe (The Dreams in the Witch House, 1932), Nyarlathotep appare a Walter Gilman e alla strega Keziah Mason nella forma dell'Uomo Nero, un avatar del Diavolo ben noto ai cacciatori di streghe. Viene scambiato per un colossale Mandingo, pur avendo tratti somatici descritti come caucasici. Nel racconto horror L'abitatore del buio (The Haunter of the Dark, 1935) Nyarlathotep assume un aspetto inconsueto, manifestandosi come un mostro tentacolato dotato di ali di pipistrello, che abita nel campanile di una chiesa di proprietà di una singolare setta, detta della "Saggezza Stellare" (Starry Wisdom). In questa forma, il Caos Strisciante è incapace di tollerare la luce del sole. Nyarlathotep compare anche in altre opere dell'Autore, anche come semplice citazione. Nel racconto horror Colui che sussurrava nelle tenebre (The Whisperer in Darkness, 1930), il nome della maligna entità cosmica ricorre in rituali di adorazione celebrati dai Funghi di Yuggoth. 
 
Secondo Fritz Leiber, che apparteneva alla Chiesa di Satana di LaVey, Nyarlathotep rappresenterebbe tre cose: 
1) Lo scherno che l'Universo oppone a ogni tentativo umano di comprenderlo;
2) Una visione negativa del mondo commerciale e dell'autopromozione su cui si fonda;
3) La razionalità autodistruttiva del genere umano, una sorta di intelligenza maligna opposta all'incoscienza di Azathoth.      

Etimologia interna 
 
Il teonimo è chiaramente formato a partire da NYARLATH, il cui significato nella lingua di R'lyeh è chiaramente ricostruibile: "Entropia". Indica il Caos Dilagante, ben diverso dal Caos Primordiale rappresentato da Azathoth. Le conseguenze ontologiche sono chiare e profonde. L'Entropia è figlia della Creazione, che a sua volta procede dal Tohu va-Bohu: così Nyarlathotep procede da Azathoth, ne è un'ineluttabile conseguenza. L'etimologia R'lyehian potrebbe riflettere queste basi filosofiche. La terminazione -OTEP si traduce con "Futuro" ed è formata a partire da OT "di" e da EP "poi, dopo". Quindi Nyarlathotep rappresenta l'Entropia che è il Futuro. La Frecchia del Tempo è l'amaro frutto della Creazione. Mi rendo conto che è un'interpretazione un po' ardita, ma in fondo non vi trovo grandi difetti. L'elemento OT "di" deve essere validato e non dispongo di una casistica sul suo uso. Certamente è difficile pensare che Lovecraft abbia fatto ragionamenti simili per costruire il nome di Nyarlathotep. Chiara è invece la connessione con l'Antico Egitto e con la sua lingua venerabile, che ora esporremo nel dettaglio. 

Etimologie esterne 

La radice verbale egiziana ḥtp /'ħa:tap/ significa "essere soddisfatto; essere quieto". Da questo verbo deriva il sostantivo ḥtp /'ħa:tip/ "pace". A causa della debolezza delle vocali atone, le due forme si sono presto confuse nella pronuncia.  I derivati di questa radice nella lingua copta sono il verbo ϩⲱⲧⲡ /ho:təp/ "essere riconciliato; essere contento" e il sostantivo ϩⲱⲧⲡ /ho:təp/ (m.) "pace, riconciliazione". La forma verbale maschile ḥtp.w /'ħatpu/ significa "egli è soddisfatto". Come sostantivo significa "pace". La sua pronuncia si è evoluta nel Medio Regno in /'ħatpə/ per diventare poi /'ħɔtpə/ nel Nuovo Regno. In copto il risultato è ϩⲟⲧⲡ /hɔtəp/, forma qualitativa del verbo ϩⲱⲧⲡ e aggettivo col significato di "calmo, soddisfatto". In greco l'adattamento di questa forma verbale egiziana /'hɔtpə/ nei nomi propri maschili è -ῶϕις (-ôphis). La consonante aspirata /ph/ (poi diventata una fricativa bilabiale /φ/) rende in qualche modo il gruppo consonantico /tp/, ma si hanno anche altri esiti. Prendiamo come esempio l'evoluzione dell'antroponimo Jmn.w-htp.w /ʼa'ma:nu 'ħatpu/ "Ammone è soddisfatto", divenuto /ʼa'ma:nə 'ħatpə/, quindi /ʼa'mo:nə 'ħɔtpə/ e /ʼamən'ħɔtpə/, trascritto in greco come 'Αμενῶϕις (Amenôphis), con le varianti 'Αμενῶϕϑις (Amenôphthis) e 'Αμενῶϑης (Amenôthēs). I nomi maschili di questo genere, che sono numerosissimi, sono resi nella pronuncia egittologica con -hetep o con -hotep. Questa seconda variante doveva essere molto popolare. Probabilmente incuriosì Lovecraft, che la utilizzò per dar vita a Nyarlathotep. Se questo fosse vero, si potrebbe pensare che il nome originale del demone cosmico fosse *NYARLATHOTH "Abitante dell'Entropia", diventato poi NYARLATHOTEP in una sorta di ibrido R'lyehian-egiziano antico. Gioverà far notare che la prima parte del nome è incompatibile con la fonologia della Lingua dei Faraoni. Secondo alcuni buontemponi, Nyarlathotep sarebbe derivato dall'alterazione di un fantomatico Near-Hotep, un insulso ibrido inglese-egiziano antico, il cui significato sarebbe qualcosa come "Vicino alla Pace", "Quasi-Pace". Ciò non ha il benché minimo senso, visto che il Faraone Nero è un portatore di marasma, non certo di pace. A quanto posso saperne con le mie pur limitate conoscenze, non è dimostrabile che Lovecraft avesse la conoscenza necessaria per comprendere il significato dell'elemento hotep
 
Con mio grande stupore, ho scoperto che ci sono stati molteplici tentativi cervellotici di interpretare Nyarlathotep come un nome puramente egizio, arrivando a *n(y)-'rrwt-ḥtp "Colui che appartiene alla porta è soddisfatto" e facendo notare che Yog-Sothoth è la Porta. Tuttavia Nyarlathotep è figlio di Azathoth, non di Yog-Sothoth. Bisognerà poi stabilire il vocalismo di questo nome ricostruito e controllare la sua correttezza grammaticale. Sono piuttosto scettico. Per chi avesse il tempo e la pazienza di leggere, riporto il link al bizzarro documento, presente sulla piattaforma Blogspot: 
 
 
La possibile origine dunsaniana 
 
Nell'opera di Lord Dunsany si trovano due teonimi dall'aspetto egiziano, che potrebbero aver fornito ispirazione a Lovecraft. Non dobbiamo dimenticare che il Solitario di Providence era un appassionato lettore dello scrittore irlandese. Nell'antologia di racconti Gli Dèi di Pegana (The Gods of Pegāna) compare un falso profeta chiamato Alhireth-Hotep. In un'altra antologia, Degli dèi di Averon (The Sorrow of Search) compare una divinità maligna chiamata Mynarthitep. Il teologo Robert M. Price ha notato queste somiglianze e pensa a una connessione diretta. Anche Will Murray e Sunand T. Joshi sono di questa idea. A parer mio, in qualche modo si sarebbe avuta questa sintesi: Mynarthitep + Alhireth-Hotep = Nyarlathotep. L'elemento Mynar- si sarebbe agglutinato con l'elemento Alhireth- dando Mynarlhath-, abbreviandosi e divenendo infine l'enigmatico Nyarlath-. Sarebbe prevalso il suffisso -Hotep, forte di assonanze egiziane, sul meno consueto suffisso -hitep, che pure ne deve essere un'alterazione. Forse all'origine di questo fenomeno sta una distorsione percettiva. Il Maestro dell'Orrore Cosmico dovette sentire qualcuno parlare di Lord Dunsany, pronunciando Nynarthitep e Alhireth-Hotep in rapida successione, in un discorso sincopato. I suoi nervi acustici gravati dal sovraccarico cognitivo devono aver trasmesso al cervello un nome contratto! In fondo lo sanno tutti: gli anglosassoni mangiano le parole!   
 
Un'inattesa fonte di ispirazione 
 
Secondo Will Murray (1991) ad ispirare la figura di Nyarlathotep è stato con ogni probabilità l'inventore Nikola Tesla, personaggio spettrale e inquietante che durante le sue conferenze utilizzava spesso misteriose apparecchiature elettriche. Nonostante non avesse la carnagione scura attribuita da Lovecraft al Caos Strisciante, le somiglianze sono in effetti notevoli! In pratica, Nyarlathotep sarebbe... un Nikola Tesla abbronzato!   

domenica 1 novembre 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI AZATHOTH

Azathoth è il più potente degli Dei Esterni. I suoi epiteti sono questi: Caos Primigenio, Caos Nucleare, Demone Sultano, Signore di Tutte le Cose, Tenebra Profonda, Dio Cieco e Idiota. Si dice che bestemmia e gorgoglia senza sosta nel centro dell'Universo. Il suo intelletto un tempo doveva essere smisurato come il suo potere, ma qualche ignoto evento perturbatore lo ha lesionato. Così l'entità abissale si è trasformata in un demente. In luogo in cui brancica è conosciuto come Corte di Azathoth. Si dice che gli altri Dei Esterni lo intrattengano danzando e suonando il flauto, con ogni probabilità per impedirne il risveglio - fatto che distruggerebbe l'intero Cosmo. Per alcuni Azathoth è il Creatore dell'Universo, per altri l'Universo stesso altro non è che un suo sogno. 
 
Il Solitario di Providence ha menzionato Azathoth per la prima volta in un suo promemoria risalente al 1919. Si tratta di una brevissima nota che riporta il teonimo con due parole di spiegazione: "AZATHOTH - hideous name" (ossia "nome orribile"). La prima menzione del Demone Sultano in un'opera compiuta di Lovecraft è nel romanzo La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath (The Dream-Quest of Unknown Kadath), scritto tra il 1926 e il 1927, e pubblicato postumo soltanto nel 1943. Questo è un estratto particolarmente significativo: 
 
"There were, in such voyages, incalculable local dangers; as well as that shocking final peril which gibbers unmentionably outside the ordered universe, where no dreams reach; that last amorphous blight of nethermost confusion which blasphemes and bubbles at the centre of all infinity—the boundless daemon-sultan Azathoth, whose name no lips dare speak aloud, and who gnaws hungrily in inconceivable, unlighted chambers beyond time amidst the muffled, maddening beating of vile drums and the thin, monotonous whine of accursed flutes; to which detestable pounding and piping dance slowly, awkwardly, and absurdly the gigantic ultimate gods, the blind, voiceless, tenebrous, mindless Other Gods whose soul and messenger is the crawling chaos Nyarlathotep."
 
Questa è la traduzione di Gianni Pilo: 
 
"In viaggi simili, c’erano dei pericoli incalcolabili, per non parlare poi dell’ultimo, sconvolgente pericolo, che sussurrava cose indicibili, una volta usciti dal normale universo, e che nessun sogno poteva raggiungere: l’ultima nebbia incorporea del Caos totale che bestemmia e gorgoglia al centro di tutto l’infinito, l’incontenibile demonio, il sultano Azathoth, il cui nome nessuna bocca osa proferire, che digrigna affamato i denti in spazi bui e inconcepibili che si trovano al di là del tempo, tra i colpi soffocati di tamburi che levano la ragione, e la monotona nenia di flauti maledetti. Al ritmo di quegli odiosi suoni lancinanti e rullanti ballano lentamente, mostruosamente e assurdamente i ciclopici Ultimi Dèi, ciechi, atoni, tenebrosi, irrazionali. Gli Altri Dei il cui messaggero è Nyarlathotep, il Caos Strisciante. " 
 
Azathoth avrebbe dovuto essere il titolo di un romanzo iniziato nel 1922 e mai compiuto: ne resta soltanto un frammento, pubblicato postumo nel 1938. Il testo originale può essere letto seguendo questo link: 
 
 
L'ultimo riferimento si ha nel racconto L'abitatore del buio (The Haunter of the Dark), scritto nel 1935 e pubblicato l'anno successivo su Weird Tales (vol. 28, n° 5, pagg. 538-553), nel dicembre del 1936 - pochi mesi prima della morte dell'Autore. Questo è un estratto particolarmente significativo: 

"He thought of the ancient legends of Ultimate Chaos, at whose centre sprawls the blind idiot god Azathoth, Lord of All Things, encircled by his flopping horde of mindless and amorphous dancers, and lulled by the thin monotonous piping of a daemoniac flute held in nameless paws."
 
Questa è la traduzione di Giuseppe Lippi (RIP): 
 
"Pensò alle antiche leggende del Caos Primigenio, al cui centro brancica goffamente, cieco e idiota, il dio Azathoth, Signore di Tutte le Cose, circondato dalla sua inetta schiera di danzatori ottusi e amorfi e cullato dal sottile, monotono lamento d'un flauto demoniaco stretto da mani mostruose."  
 
Etimologia interna 
 
Nella lingua di R'lyeh AZATH significa "Caos", o meglio "Regno del Caos". Indica il Caos Primordiale, la condizione che in ebraico è conosciuta come תֹהוּ וָבֹהוּ Tōhū wā-Bōhū. Secondo la narrazione di Genesi, prima della creazione della Luce, la Terra era desolata, vuota, non formata. Il suffisso R'lyehian -OTH è molto comune e significa "nativo di; abitante". Così AZATHOTH significa "Abitante del Regno del Caos". Un Cultista pensa ovviamente che Lovecraft abbia evocato la lingua di R'lyeh, che non l'abbia semplicemente inventata. Se l'etimologia R'lyehian del nome del Caos Primigenio non pone particolari problemi ai Cultisti, diverso è il discorso per gli scettici che ricercano nel nostro mondo le fonti di ispirazione dell'opera del Solitario di Providence. Passiamo quindi in rassegna le principali ipotesi che sono state enunciate.     
 
Etimologie esterne 
 
Queste sono le possibili fonti di ispirazione: 
 
1) Il demone Azazel 
In ebraico il misterioso nome עֲזָאזֵלʻAzāzēl è connesso al capro espiatorio. In origine indicava il luogo desolato dove era mandato a morire il capro che portava su di sé i peccati del Popolo di Israele, durante il giorno dello Yom Kippur. In seguito, sul finire del Periodo del Secondo Tempio, il nome ʻAzāzēl venne ad essere associato con l'Angelo Caduto. Da toponimo è passato ad essere il nome di un demone. Quasi inutile a dirsi, l'etimologia è sconosciuta. Come spesso accade, sono state fabbricate numerose etimologie popolari, tutte da rigettarsi (es. "la capra è consumata"; "Contro Dio"; "Più forte di Dio", etc).
Si trova anche in arabo come عزازيل ʻAzāzīl (sicuramente un prestito dall'ebraico). 
Il Solitario di Providence, secondo Robert M. Price, avrebbe preso da ʻAzāzēl la prima parte del nome di Azathoth

2) La città biblica di Anathoth
Nelle Scritture עֲנָתוֹת ‘Anāthōth è il nome di una città levitica data ai Figli di Aronne nella tribù di Beniamino (Giosuè, 21:13-18; 1 Cronache, 6:54-60). È riportato che vi nacque Geremia. Il toponimo deriva dal nome della divinità femminile cananea ‘Anat (ebraico עֲנָת ‘Anāth, cananeo
‘nt /‘a'no:t/, ugaritico ‘nt /‘a'na:tu/; trascrizione greca Ἀνάθ). La sua trascrizione greca è Ἀναθώθ. La forma derivata è scritta in ebraico עַנְּתֹתִי ‘annethōthī o עַנתֹתִי ‘anthōthī "abitante di Anathoth"; l'adattamento greco è Ἀνθωθίτης o Ἀναθωθίτης.
Troviamo anche due menzioni di ‘Anāthōth come nome di persona maschile (1 Cronache, 7:8 e Neemia 10:19). 
Le etimologie popolari fabbricate per questo nome (es. dal verbo ענה "corrispondere; essere occupato") sono da rigettarsi.   
Il Solitario di Providence, secondo Robert M. Price, avrebbe preso da ‘Anāthōth la seconda parte del nome di Azathoth. Secondo questa ipotesi, il nome del Demone Sultano sarebbe una parola macedonia: Azazel + Anathoth = Azathoth
 
3) Il termine alchemico Azoth 
Nel latino medievale degli Alchimisti era usata la parola azoth (varianti: azoc, azoch), che indicava il principio primo dei metalli, ossia il mercurio. Questo era creduto presente in tutti i metalli e all'origine delle loro peculiari proprietà, quindi da loro estraibile. Era anche definito come un solvente universale simile all'etere e all'alchaest. Si credeva che fosse possibile ottenerlo sciogliendo spirito vitale nella materia grossolana e ottenendo per successiva cristallizzazione la pietra filosofale. Nell'opera di Paracelso il termine azoth, spiegato come "mercurio corporeo", indica la Panacea, la Medicina Universale o Elisir di Vita, cura di tutti i mali. Il suo simbolo era il Caduceo. L'etimologia non è difficile come potrebbe sembrare a prima vista: azoth deriva dall'arabo الزَاؤُوق az-zā'ūq (al-zā'ūq, al-zā'būq) "mercurio". Esistono anche altre proposte etimologiche, non altrettanto convincenti. Nel gergo dei Sufi, el-dhat è riportato col significato di "essenza, quiddità" (variante ezzat), e sarebbe derivato dal persiano az-zauth. Tuttavia non sono stato in grado di trovare ulteriori spiegazioni: a quanto pare queste parole si trovano citate soltanto in libri sull'Alchimia. È stato persino pensato che azoth fosse la trasposizione di Ain Soph nella lingua degli uccelli! Aleister Crowley cercò assurdamente di spiegare l'enigmatico vocabolo con un acronimo cabalistico. In lingua italiana azoth è stato assimilato come azoto (da non confondersi col nome dell'omonimo elemento chimico, che deriva invece dal greco e significa "privo di vita": ἀ- "non" + ζωή "vita"). In spagnolo il mercurio è chiamato azogue, prestito dall'arabo andaluso. 
L'origine ultima della parola araba al-zā'ūq è ricostruibile: deriva dal siriano zīwag, a sua volta è un prestito da una lingua iranica (medio persiano *zhīwak, antico persiano *jīvaka-, estensione di jīva- "vivo"). La radice protoindoeuropea è gwei- "vivo", ben nota a tutti. Così si può dimostrare che questa parola è parente della prima parte del composto inglese quicksilver "mercurio", alla lettera "argento vivo". 
I Solitario di Providence, sempre secondo Robert M. Price, potrebbe aver alterato Azoth aggiungendovi un tipico suffisso -oth: Azoth + -oth = Azathoth.
 
4) Thoth, il dio egiziano della saggezza e delle arti 
Il teonimo Thoth deriva dall'antico egiziano ḏḥwtj, pronunciato /tˀə'ħawtə/ nel Medio Regno. Non perdo tempo a deprecare la fallace pronuncia egittologica convenzionale. Il significato di ḏḥwtj è "(Egli) è come un Ibis". Infatti la divinità è comunemente raffigurata come un uomo con la testa di ibis. Gli esiti della forma egiziana in copto sono i seguenti: 

ⲑⲱⲟⲩⲧ (Thōout) in bohairico
ⲑⲱⲧⲑ (Thōtth) in bohairico e in sahidico
ⲑⲟⲟⲩⲧ (Thoout) in sahidico
ⲑⲱⲑ (Thōth) in bohairico e in sahidico 

Questo nome divino è passato in greco come Θώθ (Thoth), con la variante Θεύθ (Theuth). 
Il solitario di Providence, secondo Phileus P. Sadowsky, avrebbe preso da Thoth la seconda parte del nome di Azathoth. La ricostruzione tentata dallo stesso Sadowsky è Izzu Tahuti, che significherebbe "Forza di Thoth". Questo nonostante Azathoth sia descritto come "divinità cieca e idiota", in totale opposizione a Thoth, a cui le genti dell'Egitto attribuivano tra le altre cose l'invenzione della scrittura. 

sabato 8 agosto 2020

L'ETNONIMO SHARDANA E UNA SUA SOPRAVVIVENZA IN BASCO

Si è molto parlato dei valorosi Shardana, i guerrieri che invasero l'Egitto, divenendo le guardie del corpo del Faraone Ramses II il Grande, il Ramesse di cui narrano le Scritture. Pur essendo di per sé evidente l'identità tra questi Shardana e i Nuragici della Sardegna, come ci mostra anche l'iconografia, ci sono sempre accademici che cercano di negarla con ogni mezzo. I motivi di un simile atteggiamento non sono chiari, anche se il sospetto è che in qualche modo abbiano la loro origine nella politica. 
 

 
In egiziano l'etnonimo era trascritto usando come di  costume le consonanti, ma aggiungendovi alcuni segni che possono essere considerati matres lectionis e fornire una rudimentale indicazione della pronuncia delle vocali. La traslitterazione comune è Šrdn o Šrdn.w (essendo w il suffisso che forma il plurale dei sostantivi maschili, spesso omesso). Più corrette sono le varianti Š³rd³n³ e Š³rdyn³, che presuppongono una pronuncia /ʃar'da:na/ o /ʃar'danna/. Il suono /d/ non si trovava in parole egiziane native e veniva trascritto usando lo stesso carattere geroglifico che trascriveva la dentale sorda enfatica /ṭ/ (quello che sembra una mano rattrappita). Con buona pace di alcuni studiosi wikipediani, in egiziano non avevano valore distintivo le vocali atone nella sillaba precedente quella accentata - anzi, già nel Medio Regno dovevano suonare indistinte, come /ə/. L'uso della mater lectionis ³ (il geroglifico che rappresenta un rapace) doveva servire a suggerire ai parlanti egiziani il valore di una vocale piena e distinta, /a/
     

 
Abbiamo anche trascrizioni dell'etnonimo in lingue semitiche del Medio Oriente.
Ugaritico: Šrdnn(m), Trtn(m)
Accadico: Še-er-ta-an-nu 

Queste forme mi fanno propendere per la pronuncia /ʃar'danna/, con una nasale forte. Una variante /ʃer'danna/ è certo possibile, anche se credo che non ci fosse una gran differenza: la vocale /e/ presupposta dalla trascrizione accadica era dovuta all'influenza del suono palatale iniziale. È anche possibile che fosse una vocale /æ/ molto aperta, in pratica una via di mezzo tra /a/ e /e/. Trovo incredibile e meritevole di scherno l'idea di Bartoloni (2004), riportata dai genialoidi wikipediani, secondo cui "una sostituzione di vocale avrebbe mutato completamente il significato della parola". Questo significa ignorare completamente ogni elementare principio di fonotattica dell'antico egiziano e delle lingue semitiche. Una parola come Šrdn era riconoscibile all'istante come straniera, proprio come noi tutti comprendiamo all'istante che non sono germogliate nella Firenze di Dante parole come gangster, gangbang, blowjob, snuff movie, etc. Non sarebbe ora che gli archeologi la smettessero di pretendere di occuparsi di linguistica? 
 

 
Il fatto è a quanto pare ignorato dai vasconisti, che non lo commentano nemmeno, ma esiste in basco la parola sardana, che ha un duplice significato. Come aggettivo significa "audace, coraggioso" (glossa spagnola "osado, atrevido"), mentre come sostantivo indica una particolare danza circolate tipica della Catalogna, che si crede importata dalla Sardegna. Ebbene, all'origine del vocabolo basco sardana "audace, coraggioso" sta chiaramente l'etnonimo Shardana. Ne consegue che tale etnonimo è ben fondato e ben pronunciato. In basco la consonante s trascrive un suono apicale, che sembra quasi una via di mezzo tra /s/ e la palatale /ʃ/.
 
La forma protobasca ricostruibile è *sardaNa "audace, coraggioso" (< "sardo") con una consonante nasale forte (per facilità si potrebbe scrivere *sardanna) e una sibilante apicale.
 
Stando ai suoi residui toponomastici, in paleosardo questo vocabolo doveva essere pronunciato *SÀRDANA e avere un plurale *SÀRDARA, che è effettivamente attestato come nome di paese: Sardara (in sardo Sàrdara), nella provincia del Sud Sardegna, ex Medio Campidano. 

Incredibile quanto queste parole siano trascurate dal mondo accademico. Larry Trask nel suo Etymological Dictionary of Basque (University of Sussex, 2008) non menziona neppure il vocabolo in questione, come se fosse fatto di aria sottile (made of thin air). Secondo lo studioso inglese, ormai deceduto, l'isolamento del basco sarebbe stato assoluto e tutto ciò che non rientrava in questi schemi era etichettato come "made of thin air". Ho trovato un post nel vasto Web in cui si parla dell'etimologia di sardana, ma soltanto nella sua accezione di "ballo circolare catalano" e per giunta usando un approccio che a mio avviso non è affatto scientifico.
  
 
Senza dubbio è una falsa etimologia: la formazione è incompatibile con la fonologia del protobasco e con la sua morfologia. 
Questa è la proposta etimologica dell'autore del testo, Antonio Arnaiz Villena:

SARTU (vasco)= agarrados, ensartados (castellano)
ANA (o ANAI, vasco)=hermandad (castellano)

1) sartu significa "entrare, inserire": è un infinito, non è un participio passivo col significato di "afferrati; tesi" e la semantica non quadra affatto;    
2) anai significa "fratello" e non fratellanza; la sua protoforma è complessa (Trask ricostruisce *aNanea); 
3) non si ha alcun caso di sartu come primo elemento di parole composte, ridotto a sard-: si ignora la fonotattica basca; la formazione è grammaticalmente erronea;
4) una simile paretimologia, sommamente improbabile, non spiega il nome degli Shardana, mentre al contrario il nome degli Shardana spiega il nome della danza.