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sabato 9 luglio 2022


NEL TEMPIO DEGLI UOMINI TALPA

Titolo originale: The Mole People
Lingua originale: Inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1956
Durata: 77 min
Dati tecnici: B/N
     rapporto: 1,37:1
Genere: Fantascienza, orrore
Regia: Virgil W. Vogel
Soggetto: Laszlo Gorog
Sceneggiatura: Laszlo Gorog
Produttore: William Alland
Casa di produzione: Universal Pictures
Fotografia: Ellis Carter
Montaggio: Irving Birnbaum
Musiche: Heinz Roemheld, Hans J. Salter, Herman Stein
Costumi: Jay A. Morley Jr.
Trucco: Joan St. Oegger, Bud Westmore
Interpreti e personaggi:
    John Agar: Dott. Roger Bentley
    Cynthia Patrick: Adad
    Hugh Beaumont: Dr. Jud Bellamin
    Alan Napier: Elinu, il gran sacerdote
    Nestor Paiva: Prof. Etienne Lafarge
    Phil Chambers: Dott. Paul Stuart
    Rodd Redwing: Nazar
    Bill Miller: Ragazzino arabo
    Dr. Frank C. Baxter: Sé stesso
Doppiatori italiani:
    Nando Gazzolo: Dott. Roger Bentley
    Fiorella Betti: Adad
    Bruno Persa: Dott. Jud Bellamin
    Gino Baghetti: Elinu, il gran sacerdote
    Luigi Pavese: Prof. Etienne Lafarge
    Riccardo Mantoni: Dott. Paul Stuart
    Renato Turi: Sharu
    Serena Verdirosi: Ragazzino arabo
    Giorgio Capecchi: Dott. Frank C. Baxter
Titoli in altre lingue:
    Tedesco: In den Klauen der Tiefe
    Francese: Le peuple de l'enfer
    Spagnolo: Bajo el signo de Ishtar 
    Finlandese: Kätketty maailma
    Russo: Подземное население
    Turco: Cehennem Mahlukları

Trama:
Una narrazione del dottor Frank C. Baxter, professore di inglese alla University of Southern California e complottista militante, spiega la premessa del film e il suo fondamento nella realtà. Discute brevemente le teorie della Terra Cava, enunciate da John Symmes e Cyrus Teed, tra gli altri, affermando che le sequenze cinematografiche sono una rappresentazione romanzata di questa "scienza" non ortodossa.
Due archeologi, il Dottor Roger Bentley e il Dottor Jud Bellamin trovano i discendenti dei Sumeri, genti albine che vivono nelle profondità della Terra e tengono in schiavitù gli Uomini Talpa, umanoidi mutanti impiegati per raccogliere i funghi che servono come fonte primaria di cibo. Gli antenati di questi Sumeri albini si trasferirono nel sottosuolo dopo le inondazioni catastrofiche che avevano colpito l'antica Mesopotamia. Trovarono un ambiente molto ostile alla sopravvivenza, riuscendo con grande fatica ad adattarsi. Da allora non hanno avuto alcun contatto con il mondo esterno. Hanno tramandato un'idea singolare: sono convinti di essere gli ultimi esseri umani sopravvissuti alla catastrofe. Per questo motivo, dapprima credono che gli archeologi giunti dalla superficie della Terra siano spiriti maligni da distruggere. Poi, di fronte alla manifestazione di un potere loro sconosciuto, si convincono che siano messaggeri di Ishtar, la loro Dea. Esseri divini, non umani.
Queste persone vivono sottoterra da così tanto tempo e sono indebolite a tal punto da non sopportare la vista della luce proveniente dalla torcia degli archeologi. Ogni volta che la popolazione dei Sumeri aumenta, sacrificano giovani donne nel Fuoco di Ishtar - un cunicolo da cui giunge la luce del sole, i cui effetti sono tossici e letali. Tuttavia, c'è tra loro una ragazza di nome Adad con la pelle della naturale tonalità caucasica, che viene disprezzata dagli altri poiché ha il "marchio dell'oscurità". Quando uno degli archeologi viene ucciso da un uomo talpa, accade che Elinu, il Sommo Sacerdote, si rende conto all'improvviso che i nuovi arrivati non sono affatto dei, bensì semplici mortali. Ordina così la loro cattura e prende la loro torcia per controllare il Popolo Talpa, non sapendo che nel frattempo la batteria si è esaurita. Gli archeologi vengono quindi inviati al Fuoco di Ishtar proprio mentre l'obbrobrioso Popolo Talpa si ribella. Adad si reca nel cunicolo sacro ad Ishtar, solo per rendersi conto che si tratta davvero di luce naturale proveniente dalla superficie e che gli uomini sono sopravvissuti all'esposizione. Adad e gli archeologi risalgono quindi in superficie, in fretta e furia. Sfortunatamente, durante la loro risalita si verifica un devastante terremoto. Inorridita di fronte al mondo sconosciuto che vede per la prima volta, con quell'immensità che è il cielo, Adad è invasa dal terrore assoluto; decide improvvisamente di tornare a casa sua ma muore schiacciata da un pilastro che le cade addosso. Del mondo dei Sumeri albini non resta così traccia alcuna: sono scomparsi nel Nulla! 


Recensione: 
Diamine, posso garantire che non ci sono molti film sui Sumeri! Mi dispiace molto che uno di quei pochi sia una simile pataccata. Eppure anche le pataccate prodotte in quegli anni ormai lontani erano spesso ricche di spunti filosofici. Non ci si stanca mai di riflettere quando le si guarda, spinti dallo schifo verso un presente insensato. Le meditazioni in cui mi sono impegnato guardando la pellicola di Vogel riguardano una varietà di argomenti come la pluralità dei mondi, il Multiverso, la solitudine del genere umano nel Cosmo. Sono tutte questioni che non possono conoscere soluzione alcuna, perché nell'Esistenza la logica non la fa da padrona.  
Gli Uomini Talpa, chiamati Tenebriani (ossia "Figli delle Tenebre") nella versione in italiano, sono goffi e deformi, rachitici, scuri come la pece. Sono ripugnanti ma abbastanza inoffensivi. I Sumeri albini esercitano su di loro una rara efferatezza, applicano sistemi draconiani, percuotendoli fino alla morte e arrivando persino ad impedire loro di nutrirsi. Memorabile è il ritrovamento di due scheletri di Tenebriani incatenati, i cui teschi oblunghi mostrano i segni di spaventose torture e di una morte violenta. Vite spezzate, macinate dal Moloch del lavoro, in una società in cui ogni insubordinazione comporta la pena capitale. 
Le sequenze ci svelano numerose perle e meraviglie. Notevoli le danzatrici con i capelli tinti di nero! E che dire della pettinatura modernissima della bionda ed esuberante Adad? Non fa nulla per nascondere di essere una diva di Hollywood! Che dire poi della dieta a base di funghi grotteschi? I bicchieri a tavola sono splendidi e di foggia moderna, pur contenendo a quanto pare soltanto acqua di fonte. Davvero notevole è il colpo di genio dei funghi, che in qualche modo apportano i nutrienti necessari e permettono di fissare la vitamina D in condizioni di totale assenza della luce solare, evitando ai Sumeri albini di soccombere alla decalcificazione delle ossa.  


Il problema della lingua

Qualche commentatore ha schernito questo film facendo notare che i Sumeri parlerebbero perfetto inglese. In realtà non è affatto così. Quando gli archeologi sono portati al cospetto del Sommo Sacerdote Elinu e del Re, viene spiegato l'arcano. Il Re è incuriosito dagli intrusi. Ecco il dialogo, altamente significativo: 

Il Sommo Sacerdote Elinu: "Ecco, o Re, coloro che vennero catturati nelle ombre della notte."
Il Re (rivolto alle guardie): "Portateli qui."
Il Re (rivolto agli archeologi): "Chi siete?"
Dottor Roger Bentley: "Siamo amici. Siamo diversi da te, ma siamo tuoi amici."
Il Re: "Parla la nostra lingua!"
Dottor Roger Bentley: "Nel nostro mondo la tua lingua può essere studiata su tavole antiche.
Il Sommo Sacerdote Elinu: "Non c'è altro mondo oltre al nostro!"
Il Re: "C'è solo il Cielo, dove vivemmo molto tempo fa e da cui fummo scacciati per i nostri peccati tra i tuoni e le folgori!"
Il Sommo Sacerdote Elinu: "Il mondo è questo, e noi soli lo abitiamo! Voi non siete come noi. Lassù è il Cielo, e solo gli Dei vivono là. O forse voi siete Dei?" 

Quindi il Dottor Bentley e i suoi colleghi comprendono alla perfezione il sumerico perché lo hanno studiato, utilizzando come testi le antiche tavole redatte in scrittura cuneiforme. Le conversazioni nel film sono in inglese perché questa pareva la scelta più logica al regista, che non poteva girare metà film in una lingua incomprensibile, mettendo i sottotitoli: gli spettatori sarebbero insorti! Purtroppo, l'allusione alle antiche tavole è sfuggita a molte persone, cadendo subito nel dimenticatoio. In realtà il sumerico si studia partendo da manuali, grammatiche e dizionari in cui sono riportate traslitterazioni. Altrimenti non se ne uscirebbe. Certo, è ben chiaro che questo concetto sarebbe stato troppo difficile da spiegare al Sommo Sacerdote Elinu e al Re fantoccio. In ogni caso, anche così i problemi sarebbero soltanto all'inizio. Il sumerico non era una lingua monolitica e immutabile, identica per tutto il tempo in cui è stata attestata. Così possiamo affermare per certo che la lingua parlata da un popolo rimasto isolato così a lungo, sarebbe stata naturalmente soggetta a cambiamenti che la avrebbero resa incomprensibile. Supponendo che il popolamento del sottosuolo sia avvenuto nel 5.000 a.C., come immaginato nel film, ci sarebbero ben 5.000 anni tra la lingua dei primi abitatori e quella dei loro discendenti contemporanei. Giusto per far capire la portata del problema, si consideri che soltanto 2.000 anni fa, su Roma regnava Augusto e il latino classico era nel pieno della sua fioritura. Tornando ai Sumeri albini, c'è un'ulteriore difficoltà. A causa dell'isolamento, l'evoluzione della loro lingua sarebbe stata imprevedibile da parte degli studiosi. C'è poi un'ulteriore difficoltà. A causa dell'ambiente davvero privo di input sensoriali e di risorse, moltissimi concetti sarebbero diventati inesprimibili. Dove non esiste il miele, per non parlare di altri dolcificanti ignoti nell'antichità, come può essere espresso il concetto di dolce? Se l'unico cibo è costituito da funghi, se non c'è nemmeno la benché minima traccia di cereali, che ne può essere di tutta l'impalcatura culturale dei Sumeri, fondata sul grano? Che dire poi del più nobile derivato dei cereali, ossia la birra? La civiltà dei Sumeri, antichissimi produttori di birra, non potrebbe mai essere la stessa senza la bionda bevanda! 


Sempre il solito problema della sodomia!
 
Dalle poche parole del Sommo Sacerdote Elinu si possono conoscere interi universi. Il think tank dei Sumeri albini è molto semplice da dedurre. I loro antenati praticavano sesso anale sfrenato, deponendo lo sperma negli escrementi e leccando buchi del culo con voluttà! Di più, facevano di tutto con ogni parte del loro corpo, uomini con donne, uomini con uomini, donne con donne. Tutto questo non piaceva affatto agli Dei, che erano estremamente puritani e furiosi, proprio come il Dio della Bibbia. Così scatenarono il finimondo!

Dialogo sulla scoperta dell'arcano

Il Sommo Sacerdote Elinu era un astutissimo manipolatore, una persona di grande intelligenza, anche se sempre usata per scopi malvagi.

Il Sommo Sacerdote Elinu: E non è tutto. Il re ha mostrato debolezza e scarsa capacità di giudizio. Crede nella divinità di questi intrusi. Trattare con il divino è il NOSTRO ufficio. Se ne abbandoniamo la più piccola particella agli estranei, la nostra posizione presto svanirà.
Sacerdote: Ma questi estranei non sono divini?
Il Sommo Sacerdote Elinu: No, sono mortali. Non mangiano quando hanno fame? Non dormono quando sono stanchi? Quando le guardie li attaccarono, i loro volti non mostravano forse le paure degli uomini mortali?
Sacerdote: Ma non possiedono il potere del cielo?
Il Sommo Sacerdote Elinu: Ah. Il cilindro che portano lo possiede. Se tu avessi quel cilindro, o tu, o tu, potresti usarlo anche tu. E se è il potere del cielo, non dovremmo forse possederlo noi e usarlo per controllare le bestie dell'oscurità, le persone e... sì, se necessario, anche uno stesso re vacillante? Seguirai quindi questi intrusi ovunque vadano e mi porterai quel cilindro. 


Il finale manipolato

Nel finale originale, il Dottor Bentley e Adad sarebbero vissuti felici e contenti. Quelli dello studio di produzione, riluttanti all'idea di una relazione interrazziale, hanno insistito per imporre un finale smerdante, due settimane dopo la conclusione delle riprese. Ma quale relazione interraziale dell'ostrega! I Sumeri erano bianchi proprio come noi e nessuno si accorgerebbe della differenza, non erano mica MANDINGO! Così, per colpa dello stupido puritanesimo dei produttori, il povero Dottor Benley è rimasto senza la figa! 

Etimologie mancanti 

Nonostante i nomi propri di persona Elinu (maschile) e Adad (femminile) abbiano una chiara sonorità sumerica, non si riesce a trovarne un'etimologia convincente e neppure a determinarne il significato. Adad è il nome accadico del dio delle tempeste e dei fulmini, chiamato Hadad dagli Aramei e Haddu dalle genti di Ugarit - che certamente non è adatto come antroponimo femminile. L'equivalente sumerico di Adad è Iškur "Dio della Pioggia" o Immir "Vento del Nord". 

Errori vari

Nella versione italiana ricorre l'oscena pronuncia di Gilgamesh con la consonante iniziale palatale! Tanto per cercare di spiegarlo in termini comprensibili ai profani, il nome divino non inizia con la "g di getto", bensì con la "g di gatto"

Lafarge dice: "Dottor Bentley, ricorda le tavolette di Gilgamesh che George Smith ha trovato?" George Smith non ha trovato le tavolette di Gilgamesh. Fu l'assistente del British Museum che tradusse per primo le tavolette nel 1872. Le tavolette furono scoperte nel 1839 da A.H. Layard. Successivamente, il Dottor Stuart mette in dubbio l'esistenza di una "versione sumera dell'Arca di Noè". Il dottor Bentley risponde così: "Esattamente. È stato dimostrato che il diluvio è un fatto storico, perché non una versione sumera?" Il punto è che la versione sumera esiste eccome: è la storia di Utnapishtim e del diluvio, che si trova proprio nell'Epopea di Gilgamesh, di cui si parlava prima; quindi, non dovrebbe essere una sorpresa per il dottor Stuart. Questi non sembrano essere archeologi molto eruditi.

Nella versione originale, il nome di Schliemann è pronunciato dai personaggi del film come "shlaiman" /'ʃlaɪman/ anziché "shleeman" /'ʃli:man/. Orbene, Schliemann era già all'epoca abbastanza famoso nel mondo dell'archeologia, così gli archeologi professionisti avrebbero dovuto essere consapevoli di come viene pronunciato il suo nome. Schliemann, per chi non lo sapesse, è quello della mitica Troia. Tuttavia ho potuto constatare che nella versione in italiano, il nome di Schliemann è pronunciato correttamente.

Si suppone che la civiltà scoperta dagli archeologi sia sumera, ma le scritte sui muri delle stanze del re e del sommo sacerdote sono tutte in geroglifici egiziani. Non si trova una sola iscrizione in segni cuneiformi. La Dea Ishtar, menzionata molte volte, è una divinità babilonese, non sumera. L'origine del teonimo è chiaramente semitica. Il simbolo di Ishtar era una stella a otto punte, non il logo appuntito mostrato nel film, simile a una V coricata. L'equivalente divinità sumera è Inanna. Si potrebbe andare avanti a lungo. Il nome del fondatore della dinastia sumera sopravvissuta nelle profondità dell'Himalaya è Sharu. L'antroponimo è semplicemente la parola babilonese che significa "Re", ossia 
 Šarru(m). In sumerico, la parola per indicare il Re è invece Lugal, ossia "Uomo Grande" (lu significa "uomo", gal significa "grande").

venerdì 20 agosto 2021

IL MISTERO DEL VINO DI SICOMORO

Il sicomoro (Ficus sycomorus) era molto considerato nell'antico Egitto, essendo l'albero sacro alla Dea Hathor, patrona della fecondità. Era anche chiamato "albero dell'Eternità" e "albero dei Faraoni": col suo legno venivano fabbricati i sarcofagi. I frutti del sicomoro, simili a fichi di colore chiaro e rossiccio, erano un cibo molto apprezzato. Provenendo da un albero sacro, erano associati all'immortalità e spesso venivano posti nelle tombe come offerta per i defunti. Oltre a questo, con tali fichi veniva prodotta una bevanda inebriante, che è da tempo scomparsa. A quanto pare era forte, al punto che bruciava la gola ed era paragonato alla fiamma (vedi The Fig in Ancient Egypt su Reddit). Diversi anni fa mi sono imbattuto in contributi di navigatori che si chiedevano perché il vino di sicomoro non fosse più stato prodotto. Non ho più trovato tracce dei loro interventi, ma cercherò di dare una risposta a questo importante interrogativo. 
 

Non mi stupisce troppo l'incapacità di trovare qualsiasi traccia di uno specifico termine egiziano per indicare una bevanda prodotta dai fichi del sicomoro. Col passaggio al Cristianesimo, caddero in disuso e furono obliate molte parole che appartenevano alla sfera semantica degli antichi culti. Altre furono invece conservate in copto, perché non suscettibili di ricevere un'interpretazione positiva in senso cristiano. A scomparire furono proprio quelle parole che non poterono subire l'esaugurazione, perché i concetti che esprimevano erano incompatibili con la nuova religione, che non fu esente da manifestazioni di fanatismo e di furore iconoclastico. Qualcosa di simile come accadde anche in latino, dove parole come templum e altāre si conservarono, mentre i sinonimi fānum e āra furono colpite da interdetto e scomparvero dalla lingua popolare. 
 
Si potrebbe dedurre che il vino di sicomoro era bevuto unicamente in occasione di rituali funebri, motivo per cui finì con l'essere abolito. La sua memoria si sarebbe quindi persa rapidamente. Non sono però chiari i dettagli di questo processo di scomparsa di un'antica eredità. 
Sbagliano coloro che hanno ipotizzato che la causa della scomparsa di questa bevanda sia stato l'Islam. Evidentemente non era già più conosciuta quando gli Arabi hanno conquistato l'Egitto. Per quanto la Shari'a proibisca l'alcol, non è sempre stata applicata con lo stesso rigore e non si può pensare che abbia causato la completa scomparsa di ciò che considera haram. Fautori dell'uso smodato del vino non sono mancati dalla Turchia alla Spagna moresca, così come i pederasti! Dovremmo pensare che il fanatismo cristiano in Egitto sia stato molto più efficace, eliminando tutto ciò che era intrinsecamente connesso con i riti pagani. Il problema non era il potere ubriacante della bevanda, bensì il fatto che fosse offerta alle divinità antiche e che non avesse alcun uso profano.  
Forse un simile tabù era già da tempo presente presso gli Ebrei. Sarebbe assurdo poter disporre di una risorsa abbondante come i frutti di sicomoro e non sfruttarla per la produzione di bevande alcoliche, quando basterebbe poco per farlo. Esisteva persino la professione di raccoglitore di fichi di sicomoro. La raccolta non veniva eseguita manualmente, bensì servendosi di strumenti affini a rastrelli, dato che i frutti crescono anche sul tronco degli alberi. Non sappiamo se questi fichi entrassero a far parte della produzione della sicera, assieme ad altri ingredienti, anche se non come unica componente. Non dispendo di sufficienti dati per definire la questione, ho pensato che fosse interessante chiedere a un rabbino molto esperto un'opinione per chiarire meglio questi dubbi, se nelle consuetudini israelitiche esista qualche interdizione a questo proposito. Ho quindi trovato un'inattesa pista sul Web, che mi ha permesso di giungere a una conclusione ragionevole.  

La soluzione del mistero 

Una neopagana che si fa chiamare Hearth Moon Rising riporta nel suo sito un'importante informazione. La pagina è la seguente:  


Questo è il testo tradotto: 
 
"Non sono stata capace di scoprire tramite i miei libri o una ricerca in Internet se il fico del sicomoro sia mai stato fermentato per i riti di Hathor. Ho scoperto che questo fico è talvolta davvero fermentato in vino, ma che ha un gusto di aceto che lo rende più adatto come medicina che come divertimento."
 
Il vino di sicomoro conteneva alcol acetico, ossia etanolo con tendenza a generare acido aceto, che conferiva un tipico sapore acido e irritante. Ecco perché si diceva che "bruciava la gola". Era bevuto soltanto per finalità religiose perché non era buono. Ho avuto esperienza di vino e di idromele in incipiente stato di inacetimento. Nel primo caso era un vino vecchio e imbottigliato male. Nel secondo caso era un idromele prodotto da amici a partire da una decozione conservata in condizioni non ottimali. La sensazione di entrambe le bevande era la stessa. Erano ancora commestibili, ma berle dava un certo fastidio e infiammavano le vie urinarie. La bevanda sacra alla Dea Hathor doveva essere simile. Una divinità egizia poteva imporre ai suoi devoti le cose più stravaganti, anche baciare il culo dei babbuini! Figuriamoci se era un problema bere una pozione un po' acida. Il punto è che quando la gente è diventata cristiana, nessuno glielo faceva più fare di ingurgitare qualcosa di poco gradevole. Allo stesso modo, il popolo di Israele non aveva motivo alcuno di usare quei fichi asprigni per la produzione di alcolici, quando disponeva di buona uva, frutta adatta, cereali e miele. Con questo, il mistero è risolto. 
 
Note etimologiche

Questa è l'evoluzione del nome del sicomoro nella lingua degli Egizi dalle origini al suo periodo finale: 

 
Egiziano (Antico Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:hat/
 
Egiziano (Medio Regno)
nht "sicomoro" (pronuncia /'na:ha/
 
Egiziano (Nuovo Regno) 
nht "sicomoro" (pronuncia /'nɔ:hə/, /'no:hə/)
 
Copto
ⲛⲟⲩϩⲉ (pronuncia /'nu:hə/
 
Da questo fitonimo deriva il nome di persona maschile Sinuhe, che significa "Figlio del Sicomoro". Nell'Egiziano del Medio Regno doveva pronunciarsi /siˀ'na:ha/. Si deve notare che il nome, di genere maschile, contiene un elemento che è morfologicamente femminile.
 
Questo è il nome del sicomoro in alcune importanti lingue semitiche:  

Ebraico 
שִׁקְמָה  šiqmā "sicomoro" (pronuncia biblica /ʃiq'ma:/
        altre trascrizioni: shikma, shikmah
     singolare costrutto: שִׁקְמַת־  šiqmat "sicomoro di"
     plurale: שִׁקְמִים  šiqmīm "sicomori" 
     plurale costrutto: שִׁקְמֵי־‎‎  šiqmē "sicomori di"
Note: 
Il singolare è di genere femminile, il plurale è invece di genere maschile. Indica l'albero e il suo frutto. 

Aramaico 
šeqmā "sicomoro" (albero e frutto) 
      (prestito dall'ebraico) 
   altri significati: "fico selvatico", "fico acerbo" 
   variante: šqem, šiqmā, šaqmā "sicomoro" 
   plurale: šiqmīn "fichi di sicomoro"
   plurali alternativi: šeqmātā, šeqmē 
tittā "sicomoro" (frutto) 
   varianti ortografiche: titā, tettā 
Note: 
Il vocabolo tittā, attestato come designazione del fico del sicomoro, è affine all'accadico tittu, tētu "fico" e all'ebraico תְּאֵנָה  te'ēnā "fico". In aramaico esiste anche tā "mora di gelso; emorroide", affine all'accadico tuttu "mora di gelso" e all'ebraico תוּת t "mora di gelso".

Accadico 
messikanu "sicomoro" (varianti: musukanu, musukannu,
    mesukannu, etc.);
sukannu "sicomoro" 
Note: 
Si tratta di prestiti dal sumerico (vedi sotto). Alcuni ritengono che in ebraico si trovi parola isolata mesukkān "sicomoro" in Isaia 40, 20, ma non sono sicuro che sia vero: sembra invece che sia un fraintendimento di הַֽמְסֻכָּ֣ן hamsukkān "impoverito, danneggiato". La questione sembra non essere risolta a tutt'oggi, ci sono studiosi che insistono col dire che mesukkān è un albero, anche se la traduzione "sicomoro" non è accettata da tutti. Secondo Haupt (1917), l'albero sarebbe invece da identificarsi con l'Acacia nilotica. Se questo vocabolo esistesse, sarebbe evidentemente un prestito dal sumerico tramite l'accadico.  
 
Arabo  
جُمَّيْز  jummayz "sicomoro" 
سَوْقَم  sawqam "sicomoro" (Yemen, obsoleto)
سَقُوم  saqūm "sicomoro" (Algeria) 
Note: 
Il primo di questi nomi del sicomoro, jummayz, ha una corrispondenza nell'ebraico mishnaico: גמזיות "sicomori", con ogni probabilità da vocalizzarsi come gummazyōt. I due nomi sawqam e saqūm sono chiari prestiti dall'aramaico.

Questo è il nome del sicomoro nella lingua di Sumer: 

Sumerico 
1) šam "sicomoro" (glosse accadiche: "sukannu",
    "musukanu", fonte: Uruanna, II.509); 
2) giš mes maganna "sicomoro", alla lettera "albero
     di Magan" (giš è un determinativo e non si pronuncia). 
Note: 
Magan era un paese mitico la cui identificazione finora non è stata determinata con sicurezza. Alla luce di questa evidenza, finora negletta, può essere identificato con l'Oman: l'unica delle terre proposte ove cresce il sicomoro. Resta però il fatto che questo vocabolo avrebbe potuto indicare anche alberi diversi. Sarebbero necessari studi più approfonditi.  
Chiaramente l'accadico messikanu (e varianti) è derivato proprio da giš mes maganna.

Sicomoro e sicamino 

In greco σῡκόμορος (sykómoros) è etimologizzato come "fico-gelso", da σῦκον (sŷkon) "fico", μόρον (móron) "mora di gelso". Si tratta di un'etimologia popolare. In realtà la parola sembra un adattamento dell'ebraico šiqmā (vedi sopra). Si tratta però di un ragionamento circolare, in quanto il nome ebraico del sicomoro è a sua volta derivato dalla stessa radice mediterranea da cui hanno avuto origine anche il greco σῦκον e il latino fīcus (verosimile prestito dall'etrusco). Esiste poi in greco un altro fitonimo collegato a questo: συκάμινος, variante συκάμνος "gelso bianco", "gelso nero", che nel greco d'Egitto è usato anche col significato di "sicomoro". Questa parola è derivata direttamente dal plurale aramaico šiqmīn "fichi di sicomoro" ed è passata in latino come sȳcamīnus
 
Ancora su un equivoco
 
Il vino di sicomoro è menzionato nell'opera di Paolo Mantegazza, Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze (1871). Il fisiologo monzese ha riportato in un elenco un gran numero di bevande fermentate, con una breve nota sulla sua produzione e spesso anche sul paese in cui sono usate. Molte informazioni sono preziose, altre sono invece abbastanza discutibili. Così egli scrive:
 
Vino di sicomoro, succo dell'albero. Inghilterra 
 
A questo punto mi viene un sospetto. Mantegazza deve aver commesso lo stesso errore in cui è incappato Michel Houellebecq, definendo "sicomoro" l'acero montano. La causa è senza dubbio derivata dall'uso volgare di chiamare "sicomoro" svariate specie di aceri e persino il platano (sycomore o sycamore in inglese, sycomore in francese). Questa abitudine deprecabile è contraria all'etimologia della parola e di certo è derivata dall'ignoranza di qualche autore moderno: ancora nel XIV secolo il francese sicamour indicava correttamente la pianta africana e mediorientale di biblica memoria.    

venerdì 1 gennaio 2021

LA CREZIONE DEL TEHOM E DEL TOHU-VA-BOHU

Questo è riportato nel Libro della Genesi (1, 1:4): 
 
"Creazione del cielo e della terra. - In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo gorno." 
 
Il termine "abisso" è la traduzione del vocabolo ebraico TEHOM, che è corradicale dell'accadico TIAMAT. Ora, nel passo biblico si omette di precisare che il Tehom, anteriore alla creazione del cielo e della terra, fu creato da Dio. Quindi secondo questa narrazione il Dio dell'Antico Testamento avrebbe tratto qualcosa da una realtà preesistente chiamata Abisso, a cui gli studiosi rabbinici attribuiscono il nome di TOHU VA-BOHU, indicante una condizione di disordine. Uno stato precosmico, anteriore all'instaurarsi delle stesse leggi di Natura. Se le cose stanno così, allora tale Dio è minore dell'Abisso detto Tehom e della condizione di Caos, perché nessuno può essere chiamato Principio Primo se ha bisogno di una precedente sostanza - comunque sia definita - per effettuare la propria Creazione. 
 
Dunque i teologi niceni che ammettono l'origine di tutte le cose in questo Dio, dovrebbero rispondere a una pressante domanda:  
 
"Chi ha creato l'Abisso? Chi ha creato il Caos?" 
 
E ancora: 
 
"Chi ha creato la tenebra da cui questo Dio avrebbe tratto la Luce?" 
 
Se infatti un simile Dio disse "Sia la luce!", significa che egli è minore della Tenebra, da cui avrebbe compiuto una simile opera. Può la Vera Luce essersi originata dalla Tenebra? No. Deve essere quindi evidente a tutti che l'intera impalcatura dell'Antico Testamento è fallace. Questo si deduce dalle parole del Libro chiamato Genesi, che il Dio di cui si parla in tali scritti non è affatto il Vero Dio, ma è il Malvagio Creatore che ha bisogno della Tenebra per plasmare il Nulla.

sabato 10 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI MELQART

Melqart (fenicio Mlqrt /mil'qart/) è il nome della divinità tutelare della città fenicia di Tiro. Si hanno anche le trascrizioni Melkart, Melkarth e Melgart, meno precise; la forma accadica è Milqartu. L'etimologia del teonimo è trasparente. Melqart significa "Re della Città": deriva da mlk /milk/ "re" e da qrt /qart/ "città". La cosa più degna di nota a questo riguardo è il risultato dello scontro tra il fonema /k/ di /milk/ e il fonema /q/ (occlusiva uvulare) di /qart/: il primo scompare, assorbito dal secondo, in modo tale da evitare ogni cacofonia. Il fenicio mlk "re" corrisponde all'ebraico מֶלֶךְ melekh "re", mentre qrt "città" corrisponde all'ebraico קִרְיָה qiryāh "città; accampamento" (stato costrutto קִרְיַת־ qiryath-; plurale קְרָיוֹת qərāyōth). Il corrispondente vocabolo arabo è قَرْيَة qarya "città". 
 
Melqart aveva l'epiteto Bʽl Ṣr /baˁal 'tsˀu:r/ "Signore di Tiro". I Greci lo hanno identificato con Eracle. Per i Romani egli era Ercole di Tiro. L'interpretatio graeca e l'interpretatio romana avevano il loro fondamento nelle caratteristiche salienti della divinità in questione, di cui ogni anno si festeggiava il risveglio, chiamato in greco ἔγερσις (égersis), in corrispondenza del mese di febbraio - e non del solstizio d'inverno. Il ciclo vita-morte-resurrezione era il significato profondo di questa festa, in occasione della quale i marinai di Tiro si abbandonavano a danze vorticose e a sfrenatezze.   
 
Alcune citazioni interessanti 
 
Così scrisse Erodoto (Storie, libro 2, 44): 
 
[1] καὶ θέλων δὲ τούτων πέρι σαφές τι εἰδέναι ἐξ ὧν οἷόν τε ἦν, ἔπλευσα καὶ ἐς Τύρον τῆς Φοινίκης, πυνθανόμενος αὐτόθι εἶναι ἱρὸν Ἡρακλέος ἅγιον. [2] καὶ εἶδον πλουσίως κατεσκευασμένον ἄλλοισί τε πολλοῖσι ἀναθήμασι, καὶ ἐν αὐτῷ ἦσαν στῆλαι δύο, ἣ μὲν χρυσοῦ ἀπέφθου, ἣ δὲ σμαράγδου λίθου λάμποντος τὰς νύκτας μέγαθος. ἐς λόγους δὲ ἐλθὼν τοῖσι ἱρεῦσι τοῦ θεοῦ εἰρόμην ὁκόσος χρόνος εἴη ἐξ οὗ σφι τὸ ἱρὸν ἵδρυται. [3] εὗρον δὲ οὐδὲ τούτους τοῖσι Ἕλλησι συμφερομένους: ἔφασαν γὰρ ἅμα Τύρῳ οἰκιζομένῃ καὶ τὸ ἱρὸν τοῦ θεοῦ ἱδρυθῆναι, εἶναι δὲ ἔτεα ἀπ᾽ οὗ Τύρον οἰκέουσι τριηκόσια καὶ δισχίλια. εἶδον δὲ ἐν τῇ Τύρῳ καὶ ἄλλο ἱρὸν Ἡρακλέος ἐπωνυμίην ἔχοντος Θασίου εἶναι: [4] ἀπικόμην δὲ καὶ ἐς Θάσον, ἐν τῇ εὗρον ἱρὸν Ἡρακλέος ὑπὸ Φοινίκων ἱδρυμένον, οἳ κατ᾽ Εὐρώπης ζήτησιν ἐκπλώσαντες Θάσον ἔκτισαν: καὶ ταῦτα καὶ πέντε γενεῇσι ἀνδρῶν πρότερα ἐστὶ ἢ τὸν Ἀμφιτρύωνος Ἡρακλέα ἐν τῇ Ἑλλάδι γενέσθαι. [5] τὰ μέν νυν ἱστορημένα δηλοῖ σαφέως παλαιὸν θεὸν Ἡρακλέα ἐόντα, καὶ δοκέουσι δέ μοι οὗτοι ὀρθότατα Ἑλλήνων ποιέειν, οἳ διξὰ Ἡράκλεια ἱδρυσάμενοι ἔκτηνται, καὶ τῷ μὲν ὡς ἀθανάτῳ Ὀλυμπίῳ δὲ ἐπωνυμίην θύουσι, τῷ δὲ ἑτέρῳ ὡς ἥρωι ἐναγίζουσι.
 
"Volendo io su questi fatti sapere qualche cosa di preciso da coloro che potevano esserne informati, feci vela anche per Tiro di Fenicia, essendo a conoscenza che colà c'era un venerato santuario di Eracle. E vidi il tempio riccamente adorno di molti doni votivi, tra l'altro c'erano due stele, una d'oro puro, l'altra di smeraldo, che nella notte emanava intensi bagliori. Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiesi loro da quanto tempo era stato innalzato il santuario. Ma trovai che neppure quelli s'accordavano con i Greci poiché assicuravano che la costruzione del tempio era stata contemporanea alla fondazione di Tiro e Tiro era abitata già da 2300 anni. Siccome, poi, a Tiro avevo visto un altro tempio di Eracle, detto Tasio, mi recai anche a Taso e vi trovai il santuario di Eracle fondato dai Fenici, i quali, messisi in mare per ricercare Europa, avevano colonizzato Taso: e ciò era avvenuto ben cinque generazioni umane prima che, in Grecia, venisse alla luce Eracle, figlio di Anfitrione. Le mie ricerche, dunque, dimostrano all'evidenza l'antichità del dio Eracle. E a mio parere, fanno molto bene quei Greci che hanno santuari eretti a due Eracli: a uno, che chiamano Olimpio, offrono sacrifici come a un dio; all'altro onori funebri come a un eroe." 
 
Flavio Giuseppe scrisse quanto segue su Hiram I, Re di Tiro (circa 965 a.C. - 935 a.C.), citando come fonte Menandro, che tradusse testi dal fenicio al greco (Antichità giudaiche, libro VIII, 144-146): 
 
[144] Μέμνηται τούτων τῶν δύο βασιλέων καὶ Μένανδρος ὁ μεταφράσας ἀπὸ τῆς Φοινίκων διαλέκτου τὰ Τυρίων ἀρχεῖα εἰς τὴν Ἑλληνικὴν φωνὴν λέγων οὕτως· ‘τελευτήσαντος δὲ Ἀβιβάλου διεδέξατο τὴν βασιλείαν παρ᾽ αὐτοῦ υἱὸς Εἴρωμος, ὃς βιώσας ἔτη πεντηκοντατρία ἐβασίλευσε τριάκοντα καὶ τέσσαρα. [145] οὗτος ἔχωσε τὸ Εὐρύχωρον τόν τε χρυσοῦν κίονα τὸν ἐν τοῖς τοῦ Διὸς ἀνέθηκεν· ἔτι τε ὕλην ξύλων ἀπελθὼν ἔκοψεν ἀπὸ τοῦ ὄρους τοῦ λεγομένου Λιβάνου εἰς τὰς τῶν ἱερῶν στέγας· [146] καθελών τε τὰ ἀρχαῖα ἱερὰ καὶ ναὸν ᾠκοδόμησε τοῦ Ἡρακλέους καὶ τῆς Ἀστάρτης, πρῶτός τε τοῦ Ἡρακλέους ἔγερσιν ἐποιήσατο ἐν τῷ Περιτίῳ μηνί· τοῖς τε Ἰτυκαίοις ἐπεστρατεύσατο μὴ ἀποδιδοῦσι τοὺς φόρους καὶ ὑποτάξας πάλιν αὑτῷ ἀνέστρεψεν. ἐπὶ τούτου ἦν Ἀβδήμονος παῖς νεώτερος, ὃς ἀεὶ ἐνίκα τὰ προβλήματα, ἃ ἐπέτασσε Σολόμων ὁ Ἱεροσολύμων βασιλεύς.’
 
"144 Di questi due re fa menzione anche Menandro che tradusse le memorie dei Tirii dalla lingua fenicia alla parlata greca, con queste parole: «Morto Abibalo, gli succedette nel regno suo figlio Eirom, il quale visse cinquantatre anni e ne regnò trentaquattro;
145 questi realizzò l'Euruchoron e innalzò una colonna d'oro nel tempio di Zeus; viaggiò e tagliò gran copia di legname dal monte chiamato Libano per i tetti dei templi,
146 abbatté antichi templi e ne eresse di nuovi ad Eracle e ad Astarte; e fu il primo che celebrò la risurrezione di Eracle nel mese di Peritio; fece una spedizione contro gli Itikai, che non pagavano i tributi e, quando li ebbe assoggettati, se ne tornò indietro. Durante il suo regno, il giovanotto Abdemone aveva sempre successo nella soluzione dei problemi che gli erano sottoposti da Salomone, re di Gerusalemme.»" 
(Edizione UTET, a cura di Luigi Moraldi) 

Il mese macedone di Peritios corrispondeva al nostro febbraio.

Le Colonne d'Ercole nell'antichità omerica erano immaginate a Oriente, all'ingresso del Mar Nero. In seguito, con l'ampliarsi degli orizzonti della civiltà ellenica e con l'espansone del dominio di Roma, anche il mito cambiò per influsso fenicio. Proprio due colonne di bronzo ornate da iscrizioni si trovavano in un famoso tempio di Melqart fondato dalle genti di Tiro, nel luogo di Gades (attuale Cadice). Strabone descrisse il tempio, ma si mostrò scettico a proposito dell'identificazione  delle famose Colonne d'Ercole con i manufatti citati. Queste cose scrisse nella Geografia, volume 2, libro 3, capitolo 5: 
 
περὶ δὲ τῆς κτίσεως τῶν Γαδείρων τοιαῦτα λέγοντες μέμνηνται Γαδιτανοὶ χρησμοῦ τινος, ὃν γενέσθαι φασὶ Τυρίοις κελεύοντα ἐπὶ τὰς Ἡρακλέους στήλας ἀποικίαν πέμψαι: τοὺς δὲ πεμφθέντας κατασκοπῆς χάριν, ἐπειδὴ κατὰ τὸν πορθμὸν ἐγένοντο τὸν κατὰ τὴν Κάλπην, νομίσαντας τέρμονας εἶναι τῆς οἰκουμένης καὶ τῆς Ἡρακλέους στρατείας τὰ ἄκρα ποιοῦντα τὸν πορθμόν, ταῦτα δ᾽ αὐτὰ καὶ στήλας ὀνομάζειν τὸ λόγιον, κατασχεῖν εἴς τι χωρίον ἐντὸς τῶν στενῶν, ἐν ᾧ νῦν ἔστιν ἡ τῶν Ἐξιτανῶν πόλις: ἐνταῦθα δὲ θύσαντας μὴ γενομένων καλῶν τῶν ἱερείων ἀνακάμψαι πάλιν. χρόνῳ δ᾽ ὕστερον τοὺς πεμφθέντας προελθεῖν ἔξω τοῦ πορθμοῦ περὶ χιλίους καὶ πεντακοσίους σταδίους εἰς νῆσον Ἡρακλέους ἱερὰν κειμένην κατὰ πόλιν Ὀνόβαν τῆς Ἰβηρίας, καὶ νομίσαντας ἐνταῦθα εἶναι τὰς στήλας θῦσαι τῷ θεῷ, μὴ γενομένων δὲ πάλιν καλῶν τῶν ἱερείων ἐπανελθεῖν οἴκαδε. τῷ δὲ τρίτῳ στόλῳ τοὺς ἀφικομένους Γάδειρα κτίσαι καὶ ἱδρύσασθαι τὸ ἱερὸν ἐπὶ τοῖς ἑῴοις τῆς νήσου, τὴν δὲ πόλιν ἐπὶ τοῖς ἑσπερίοις. διὰ δὲ τοῦτο τοὺς μὲν δοκεῖν τὰ ἄκρα τοῦ πορθμοῦ τὰς στήλας εἶναι, τοὺς δὲ τὰ Γάδειρα, τοὺς δ᾽ ἔτι πορρώτερον τῶν Γαδείρων ἔξω προκεῖσθαι. ἔνιοι δὲ στήλας ὑπέλαβον τὴν Κάλπην καὶ τὴν Ἀβίλυκα, τὸ ἀντικείμενον ὄρος ἐκ τῆς Λιβύης, ὅ φησιν Ἐρατοσθένης ἐν τῷ Μεταγωνίῳ νομαδικῷ ἔθνει ἱδρῦσθαι: οἱ δὲ τὰς πλησίον ἑκατέρου νησῖδας, ὧν τὴν ἑτέραν Ἥρας νῆσον ὀνομάζουσιν. Ἀρτεμίδωρος δὲ τὴν μὲν τῆς Ἥρας νῆσον καὶ ἱερὸν λέγει αὐτῆς, ἄλλην δέ φησιν εἶναί τινα, οὐδ᾽ Ἀβίλυκα ὄρος οὐδὲ Μεταγώνιον ἔθνος. καὶ τὰς Πλαγκτὰς δὲ καὶ τὰς Συμπληγάδας ἐνθάδε μεταφέρουσί τινες, ταύτας εἶναι νομίζοντες στήλας, ἃς Πίνδαρος καλεῖ πύλας Γαδειρίδας, εἰς ταύτας ὑστάτας ἀφῖχθαι φάσκων τὸν Ἡρακλέα. καὶ Δικαίαρχος δὲ καὶ Ἐρατοσθένης καὶ Πολύβιος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν Ἑλλήνων περὶ τὸν πορθμὸν ἀποφαίνουσι τὰς στήλας. οἱ δὲ Ἴβηρες καὶ Λίβυες ἐν Γαδείροις εἶναι φασίν: οὐδὲν γὰρ ἐοικέναι στήλαις τὰ περὶ τὸν πορθμόν. οἱ δὲ τὰς ἐν τῷ Ἡρακλείῳ τῷ ἐν Γαδείροις χαλκᾶς ὀκταπήχεις, ἐν αἷς ἀναγέγραπται τὸ ἀνάλωμα τῆς κατασκευῆς τοῦ ἱεροῦ, ταύτας λέγεσθαί φασιν: ἐφ᾽ ἃς ἐρχόμενοι οἱ τελέσαντες τὸν πλοῦν καὶ θύοντες τῷ Ἡρακλεῖ διαβοηθῆναι παρεσκεύασαν, ὡς τοῦτ᾽ εἶναι καὶ γῆς καὶ θαλάττης τὸ πέρας. τοῦτον δ᾽ εἶναι πιθανώτατον καὶ Ποσειδώνιος ἡγεῖται τὸν λόγον, τὸν δὲ χρησμὸν καὶ τοὺς πολλοὺς ἀποστόλους ψεῦσμα Φοινικικόν.  

"Intorno poi alla fondazione di Gadi quegli abitanti ricordano un certo oracolo, dal quale dicono che fu già tempo comandato ai Tirii d’inviare una colonia alle Colonne d’Ercole: che le persone spedite ad esplorare il luogo, essendo pervenute allo stretto vicino a Calpe, credendo che que’ promontorii dai quali esso è formato fossero i termini della terra abitata e della spedizione di Ercole (e che per questo l’oracolo le avesse denominate Colonne), approdarono al di qua dello stretto medesimo in quel luogo nel quale ora si trova la città degli Assitani; ma che avendo poi quivi sagrificato e vedendo che gli augurii non riuscivauo favorevoli se ne tornarono al proprio paese. Di lì a qualche tempo (soggiungono) furono spediti alcuni altri, i quali si spinsero fino al di là dallo stretto lo spazio di circa mille e cinquecento stadii, e trovarono un’isola consacrata ad Ercole, posta rimpetto ad Onoba città dell’Iberia. E pensando che quelle fossero le Colonne, sagrificarono al Dio. Ma tornando contrarii gli indizii rimpatriarono anch’essi. Se non che essendo inviata una terza missione fondarono Gadi, fabbricando il tempio di Ercole nelle parti orientali dell’isola, e la città nelle parti occidentali. Di qui poi è venuto che sotto il nome di Colonne alcuni intendono i promontorii dello stretto, altri intendono Gadi; ed altri un luogo ancor più lontano. V’ha chi stima che le Colonne siano Calpe ed Abila, che è un monte di Libia opposto a Calpe, e situato secondo Eratostene fra’ Metagoni, schiatta di nomadi. Altri le crede invece quelle due isolette cbe stanno presso ai monti già mentovati, ed una delle quali è chiamata isola di Giunone. Anche Artemidoro parla dell’isola di Giunone e del suo tempio, ma nega che ne sussista alcun’altra, nè il monte Abila nè la gente dei Metagoni. Alcuni poi riferiscono a que’ luoghi le Plancte e le Simplegadi, e tengono che queste siano le Colonne da Pindaro denominate Porte Gaditane, affermando che furon l’ultimo punto a cui Ercole giunse. Del resto Dicearco, Eratostene, Polibio e la maggior parte degli scrittori greci sogliono collocar le Colonne vicino allo stretto; ma gli abitanti d’Iberia e di Libia affermano che sotto quel nome debba intendersi Gadi; perchè i luoghi intorno allo stretto non rendono punto immagine di colonne. V’ha eziandio chi vuol cbe s’intendano le colonne di bronzo di otto cubiti che sono nel tempio d’Ercole in Gadi, su le quali sta inscritto quanto fu speso nella fondazione del tempio stesso. Queste (dicono essi) son quelle colonne alle quali pervenivano i navigatori come ad ultimo punto dei loro viaggi, ed avendo in costume di far quivi sagrifizii ad Ercole, s’adoperarono a diffondere questa opinione che le dice l’estremo confine e della terra e del mare. Anche Posidonio stima che questa opinione sia più credibile di tutte, e che l’oracolo e le molte spedizioni ricordate poc’anzi siano una menzogna fenicia."
(traduzione di Francesco Ambrosoli, 1832) 

Nell'Antico Testamento si trova un riferimento a Melqart, che pure nn viene esplicitamente nominato: è però ben riconoscibile dai suoi attributi. Questo è il testo (1 Re 18, 27): 
 
וַיְהִ֨י בַֽצָּהֳרַ֜יִם וַיְהַתֵּ֧ל בָּהֶ֣ם אֵלִיָּ֗הוּ וַיֹּ֙אמֶר֙ קִרְא֤וּ בְקֹול־גָּדֹול֙ כִּֽי־אֱלֹהִ֣ים ה֔וּא כִּ֣י שִׂ֧יחַ וְכִֽי־שִׂ֛יג לֹ֖ו וְכִֽי־דֶ֣רֶךְ לֹ֑ו אוּלַ֛י יָשֵׁ֥ן ה֖וּא וְיִקָֽץ׃
 
"Essendo già mezzogiorno, Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: «Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà»." 

Questo è un riferimento satirico abbastanza caustico alle fatiche di Melqart, ai suoi viaggi e al suo risveglio.
 
Il Signore di Tiro e l'Ade 
 
Le connessioni di Melqart con l'Oltretomba non mancano. È stato ipotizzato che nel teonimo la città faccia riferimento non soltanto a Tiro, ma soprattutto al Regno dei Morti. Sappiamo che questa idea dell'Ade come città nacque tra i Sumeri. URUGAL "Grande Città" è uno dei nomi sumerici dell'ultima destinazione di tutti i viventi. Variante: ERIGAL. L'aggettivo in sumerico segue sempre il nome: GAL significa "grande", mentre URU significa "città" (variante: IRI). In accadico questo toponimo arcano è stato preso a prestito come IRKALLA o ERKALLU. Del resto anche l'Eracle greco è strettamente connesso con l'Oltretomba. In origine era infatti un eroe mortale, elevato poi al rango di divinità per le sue portentose imprese. Nell'Odissea (libro XI) si menziona l'incontro tra Ulisse e l'ombra di Eracle, subito specificando che si tratta di un mero simulacro, dato che l'eroe siede alla mensa degli Dei dell'Olimpo. 
 
τὸν δὲ μέτ’ εἰσενόησα βίην Ἡρακληείην,
εἴδωλον· αὐτὸς δὲ μετ’ ἀθανάτοισι θεοῖσι
τέρπεται ἐν θαλίῃς καὶ ἔχει καλλίσφυρον Ἥβην. 

«Subito dopo intravidi il vigore di Eracle, |
la sua immagine; ma lui invece con gli dèi immortali |
gode a banchetto e sua è Ebe dalle belle caviglie»
 
Ovviamente si tratta di un'aggiunta posticcia, di un artifizio che serviva a evitare la contraddizione con la tradizione più antica, anteriore all'importazione del mito cananeo della resurrezione dell'eroe divinizzato. 
 
Melqart a Cartagine 
 
Cartagine mantenne a lungo un legame particolare con Tiro, tanto che fino all'epoca ellenistica versava un notevole tributo alla città madre, pari alla decima parte degli introiti annui del tesoro. Non sorprende dunque sapere che l'Eracle di Tiro vi era molto venerato. La pronuncia punica di Melqart era /mil'kar/, dati gli sviluppi che la lingua subì a Cartagine nel corso dei secoli. L'antica consonante /k/ era divenuta una fricativa /χ/, mentre la consonante /q/ era divenuta /k/. La desinenza tipica del femminile /-t/, che in genere divenne /-θ/, qui cadde del tutto, forse per evitare l'incongruenza semantica, dato che il teonimo è maschile. 
 
La pronuncia del punico era molto sincopata: possiamo dire che i Cartaginesi "mangiavano le parole". Analizziamo alcuni importanti antroponimi formati a partire dal nome di Melqart. 
i) Il punico ʽbdmlqrt /amil'kar/, da un più antico /ˁabdmil'qart/, significa "Servo di Melqart". In latino il nome fu preso a prestito con l'accento sulla penultima sillaba: Hamilcar, Amilcar /(h)a'milkar/
ii) Il punico ḥmlqrt /imil'kar/, da un più antico /ħi:mil'qart/, significa "Fratello di Melqart". Si può immaginare che si sia in parte confuso col precedente /amil'kar/ per via del suono molto simile nelle fasi tarde della lingua.   
ii) Il punico bdmlqrt /bomil'kar/, da un più antico /bo:dmil'qart/, significa "Nella mano di Melqart". Il prefisso b- "in" aggiunto a yd /jo:d/ ha dato bd /bo:d/ "nella mano". In latino il nome fu preso a prestito con l'accento sulla penultima sillaba: Bomilcar /bo'milkar/; la quantità della prima sillaba è incerta.  
 
Melqart in Sicilia 
 
Sono state trovate monete d'argento con l'immagine di una testa d'uomo provvisto di orecchini, simile dalle raffigurazioni greche di Eracle, e la scritta RŠ MLQRT, ossia "Promontorio di Melqart" (alla lettera "Testa di Melqart", pronuncia fenicia /ru:ʃ mil'qart/, punico /rusmil'kar/; trascrizioni comuni e inesatte sono Ras Melqart e Rash Melqart). Queste monete sono tetradrammi, coniati a partire dalla metà del IV secolo a. C. L'identificazione del toponimo non è sicura. Molti hanno creduto che la monetazione indicasse Cefalù, ma questa ipotesi è infine stata smentita (cfr. Kōkalos: Studi pubblicati dall'Istituto di Storia Antica dell'Università di Palermo, volume 20, pag. 121). Nonostante ciò, questa errata identificazione è tuttora presente in modo pervasivo nel Web, trovandosi nella stessa Wikipedia come data per assodata. Regna una grande confusione: c'è chi propone l'identificazione con Eraclea Minoa, con Lilibeo (attuale Marsala) e addirittura con Selinunte. Eraclea Minoa non era uno stanziamento punico, ma aveva avuto una notevole influenza fenicia, traeva il suo nome da Eracle e aveva un nome non greco, Makara, che potrebbe ben essere derivato da Melqart. Secondo Leuven (1989), RŠ MLQRT non indicherebbe un toponimo, bensì un'istituzione dell'amministrazione cartaginese in Sicilia. Un'idea molto simile è sostenuta da Bonnet e Manfredi (1995): significherebbe "capi" o "eletti", nonostante non sia presente alcun suffisso per marcare il plurale. Ciò è tuttavia smentito con sicurezza da due iscrizioni trovate a Cartagine, che contengono la locuzione ʻM RŠ MLQRT "assemblea del popolo del Promontorio di Melqart"). 
 
Melqart in Sardegna 
 
Tra i Sardi il nome di Melqart è stato adattato in un modo davvero singolare: Makeris. Questo pone una serie di problemi a livello fonetico, al punto che Edward Lipiński si è opposto a questa identificazione (Dieux et Déesses de l'univers phénicien et punique, 1995). Con ogni probabilità Makeris è il prodotto di una metatesi da un più chiaro *Mekari-, derivato direttamente dal punico /mil'kar/. In italiano è spesso reso con Maceride.
 
Pausania riporta questo nella Periegesi della Grecia, volume IV (libro 10, capitolo 17, 1-2): 
 
[1] βαρβάρων δὲ τῶν πρὸς τῇ ἑσπέρᾳ οἱ ἔχοντες Σαρδώ, εἰκόνα οὗτοι χαλκῆν τοῦ ἐπωνύμου σφίσιν ἀπέστειλαν. ἡ δὲ Σαρδὼ μέγεθος μὲν καὶ εὐδαιμονίαν ἐστὶν ὁμοία ταῖς μάλιστα ἐπαινουμέναις: ὄνομα δὲ αὐτῇ τὸ ἀρχαῖον ὅ τι μὲν ὑπὸ τῶν ἐπιχωρίων ἐγένετο οὐκ οἶδα, Ἑλλήνων δὲ οἱ κατ᾽ ἐμπορίαν ἐσπλέοντες Ἰχνοῦσσαν ἐκάλεσαν, ὅτι τὸ σχῆμα τῇ νήσῳ κατ᾽ ἴχνος μάλιστά ἐστιν ἀνθρώπου. μῆκος δὲ ἀπ᾽ αὐτῆς εἴκοσι στάδιοι καὶ ἑκατόν εἰσι καὶ χίλιοι, εὖρος δὲ ἐς εἴκοσί τε καὶ τετρακοσίους προήκει.
[2] πρῶτοι δὲ διαβῆναι λέγονται ναυσὶν ἐς τὴν νῆσον Λίβυες: ἡγεμὼν δὲ τοῖς Λίβυσιν ἦν Σάρδος ὁ Μακήριδος, Ἡρακλέους δὲ ἐπονομασθέντος ὑπὸ Αἰγυπτίων τε καὶ Λιβύων. Μακήριδι μὲν δὴ αὐτῷ τὰ ἐπιφανέστατα ὁδὸς ἐγένετο ἡ ἐς Δελφούς: Σάρδῳ δὲ ἡγεμονία τε ὑπῆρξε τῶν Λιβύων ἡ ἐς τὴν Ἰχνοῦσσαν καὶ τὸ ὄνομα ἀπὸ τοῦ Σάρδου τούτου μετέβαλεν ἡ νῆσος. οὐ μέντοι τούς γε αὐτόχθονας ἐξέβαλεν ὁ τῶν Λιβύων στόλος, σύνοικοι δὲ ὑπ᾽ αὐτῶν οἱ ἐπελθόντες ἀνάγκῃ μᾶλλον ἢ ὑπὸ εὐνοίας ἐδέχθησαν. καὶ πόλεις μὲν οὔτε οἱ Λίβυες οὔτε τὸ γένος τὸ ἐγχώριον ἠπίσταντο ποιήσασθαι: σποράδες δὲ ἐν καλύβαις τε καὶ σπηλαίοις, ὡς ἕκαστοι τύχοιεν, ᾤκησαν.
 
Questa è la traduzione fatta da Antonio Nibby (1817), che per gli standard moderni sarebbe considerata deprecabile: 

"1. De’ barbari occidentali quelli, che occupano la Sardegna mandarono un ritratto di bronzo di quello, che loro diede il nome.
2. La Sardegna per grandezza, ed abbondanza non la cede alle isole più lodate: quale fosse l’antico nome, che dai nazionali avea, nol so; que’ Greci però, che navigarono per commercio la chiamarono Icnusa, perchè la figura della isola è molto simile alla impronta del piede umano. La sua lunghezza è di mille, e centoventi stadj; di quattrocento settanta la sua larghezza. Si dice, che i primi a passare con navi nella isola furono Affricani, e loro condottiere fu Sardo di Maceride, di Ercole, al quale si dà il soprannome di Egizio, e di Affricano. Molto celebre fu il viaggio di Maceride a Delfo. Sardo poi portò gli Affricani in Icnusa, e perciò l’isola cangiò il nome nel suo. La flotta degli Affricani non discacciò gl’indigeni; ma questi li accolsero più per forza, che per benevolenza. Nè gli Affricani, nè i naturali sapevano edificare città; ma abitavano dispersi in capanne, e spelonche come potevano."
 
Melqart in Britannia 
 
Riporto alcune interessantissime informazioni tratte dal lavoro di Corinne Bonnet, Melqart in Occidente. Percorsi di appropriazione e di acculturazione (in  P.  Bernardini  –  R.  Zucca, Il Mediterraneo di Herakles, Roma, 2005): 
 
"Persino nella lontanissima Corstopitum (Corbridge), lungo il vallo di Adriano, due altari gemelli associano in una dedica greca l'Eracle di Tiro (con interpretatio  graeca)  ad Astarte (senza interpretatio!), come se non ci fosse Melqart senza Astarte." 

giovedì 8 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI MILKOM

Gli Ammoniti (ebraico בּטֵי עִמּוֹן Benē-ʽAmmōn "Figli di Ammone") erano una delle più cospicue tribù di origine amorrea stanziate in Palestina. Fierissimi nemici di Israele, adoravano come principale divinità Milkom (ebraico מִלְכֹּם Milkōm). In italiano, in inglese e in francese si trova scritto anche Milcom.
 
Il Re Salomone era avidissimo di piaceri sessuali e fu molto influenzato dalle donne a cui si era consegnato in tutta la sua fragilità durante l'orgasmo. Accadde così che fu convinto ad adorare divinità straniere, i cui culti erano sanguinari. Nel Primo Libro dei Re (capitolo 11, versetto 5) è riportato quanto segue:  
 
.וַיֵּלֶךְ שְׁלֹמֹה--אַחֲרֵי עַשְׁתֹּרֶת, אֱלֹהֵי צִדֹנִים; וְאַחֲרֵי מִלְכֹּם, שִׁקֻּץ עַמֹּנִים
 
"Salomone seguì Astarte, divinità dei Sidoni, e Milcom, l'abominevole divinità degli Ammoniti." 
 
Ovviamente il Dio di Israele non ne è stato felice (versetto 6):  
 
.וַיַּעַשׂ שְׁלֹמֹה הָרַע, בְּעֵינֵי יְהוָה; וְלֹא מִלֵּא אַחֲרֵי יְהוָה, כְּדָוִד אָבִיו

"Cosí Salomone fece ciò che è male agli occhi dell'Eterno e non seguí pienamente l'Eterno, come aveva fatto Davide suo padre." 

Eppure il sovrano libidinosissimo non si è lasciato persuadere (versetto 7): 
 
.אָז יִבְנֶה שְׁלֹמֹה בָּמָה, לִכְמוֹשׁ שִׁקֻּץ מוֹאָב, בָּהָר, אֲשֶׁר עַל-פְּנֵי יְרוּשָׁלִָם; וּלְמֹלֶךְ, שִׁקֻּץ בְּנֵי עַמּוֹן

"Allora Salomone costruí sul monte di fronte a Gerusalemme un alto luogo per Kemosh, l'abominazione di Moab, e per Molek, l'abominazione dei figli di Ammon."
 
In questo versetto si rimarca la totale confusione tra i teonimi Milkōm e Mōlekh. Un lettore potrebbe pensare che l'abominazione dei Figli di Ammon sia proprio Moloch e che questo sia soltanto un'altro modo di chiamare Milkom. Di Moloch e della sua natura si è già parlato diffusamente: 
 
 
Questa incapacità di operare una distinzione tra due nomi assonanti, nonostante la diversità formale e morfologica, a quanto pare ha radici assai profonde: potremmo dirla connaturata alla stessa tradizione biblica. Probabilmente ciò si deve al fatto che i sacrifici offerti dagli Ammoniti a Milkom dovevano essere simili al sacrificio molk che i Fenici celebravano in onore di Baal: uccisione e combustione di bambini. Se questo fosse provato, dovremmo assumere che la condotta di Salomone in vecchiaia non fosse poi così innocua. Dubito molto che le offerte bruciate fossero petali di fiori. Eppure il Dio di Israele, sdegnato da questi fatti, si mostrò abbastanza clemente nei confronti di Salomone, dicendogli che non gli avrebbe strappato il regno mentre era in vita, riservandosi di mandarlo in rovina soltanto dopo la sua morte. In pratica le colpe di Salomone ricaddero sul suo successore. Sappiamo del resto che per YHWH ci sono figli e figliastri. 

Per quanto riguarda il tempio di Milkom fatto edificare da Salomone (circa 1100 a.C. - circa 931 a.C.) sul Monte degli Ulivi, non ebbe comunque una durata così effimera. Fu infatti distrutto da Giosia (648 a.C. - 609 a.C.), diciassettesimo Re di Giuda e riformatore religioso, che proibì i culti stranieri. 

La teoria della mimazione 
 
La mimazione è definita come un procedimento morfologico che consiste nell'aggiungere una -m alla desinenza dei sostantivi, con valore indeterminativo, ma in molti casi indistinguibile da quello della forma semplice. Si trova in accadico e in altre lingue semitiche. Facciamo alcuni esempi concreti proprio dall'accadico: da šarru "re" si ha šarrum "un re", "il re"; da šarratu "regina" si ha šarratum "una regina", "la regina". La mimazione sussiste in tutte le forme declinate del singolare: da šarri "del re" si ha šarrim "di un re", "del re"; da šarrati "della regina" si ha šarratim "di una regina", "della regina"; da šarra "re" (acc.) si ha šarram "un re", "il re"; da šarrata "regina" (acc.) si ha šarratam "una regina", "la regina" (acc.) e via discorrendo. Nei nomi maschili non si usa la mimazione al plurale: šarrū "re" (pl.); šarrī "dei re"; "re" (acc.). Nei nomi femminili la mimazione si ha invece anche al plurale: šarrātum "le regine", šarrātim "delle regine"; "le regine" (acc.). Nella lingua antica la mimazione è prevalente. Nelle fasi più recenti della lingua la mimazione scompare per via dell'usura fonetica, tranne che in alcuni casi in cui si è fossilizzata, soprattutto nella formazione di avverbi. 
 
Nelle lingue di Canaan la mimazione scomparve presto, tuttavia si possono trovare alcuni casi in cui è documentata. In amorreo abbiamo ḪAB-DU-MA-DA-GAN accanto a ḪAB-DU-DA-GAN "Servo di Dagon". In ugaritico abbiamo bnm 'il /binum 'ˀili/ accanto a bn 'il /binu 'ˀili/ "figlio di El" (vedi Lipiński). Non è quindi difficile immaginare che Milkom altro non sia che una forma mimata di mlk /'milku/ "re". Il teonimo dunque significherebbe "Il Re". Resta però un problema non irrilevante. In accadico le forme mimate non spostano l'accento sulla desinenza, che finisce per scomparire del tutto in neobabilonese. Lo stesso dovrebbe essere nelle fasi più antiche delle lingue semitiche nordoccidentali. Dall'ugaritico mlk /'milku/ si otterrà la forma mimata /'milkum/, non /mil'kum/. Per contro, la forma documentata in ebraico biblico, Milkōm, ha l'accento sulla vocale lunga /o:/. Il mutamento nell'accento potrebbe comunque essere uno sviluppo successivo. Secondo alcuni studiosi, la mimazione in ebraico si sarebbe conservata in forme come יוֹמָם yōmām "di giorno" (da יוֹם yōm "giorno"), חִנָּם khinnām "gratuitamente", רֵיקָם reqām "vanamente, invano", אָמְנָם 'omnām "veramente", שִׁלְשׁוֹם shilshōm "l'altroieri", פִּתְאוֹם pith'ōm "improvvisamente". Le ultime due riportate hanno proprio una terminazione in -ōm come quella di Milkōm, che potrebbe essersi sviluppata da un precedente /-um/

Una forma possessiva fossilizzata 

A parer mio andrebbe favorita una spiegazione diversa da quella della mimazione. In fenicio e in altre lingue del Paese di Canaan suffisso -ōm è il possessivo di terza persona plurale maschile, che traduce "loro". In ebraico il corrispondente suffisso è -ām. La corrispondenza fonetica è perfettamente regolare. Nella lingua biblica da מֶלֶךְ melekh "re" si forma il possessivo di terza persona plurale maschile מַלְכָּם malkām /mal'ka:m/ "il loro re". Dal fenicio mlk /milk/ "re" si forma il possessivo di terza persona plurale maschile mlkm /mil'ko:m/. Ecco spiegato l'arcano, senza bisogno di postulare un cambiamento nella posizione dell'accento. 
 
MILKŌM = IL LORO RE (in fenicio)
MALKĀM = IL LORO RE (in ebraico biblico) 
 
Il teonimo doveva in origine essere una forma reverenziale, in seguito sclerotizzata, come spesso accade nelle cose della religione. 
 
Milkom e l'archeologia 
 
Nel 1961 furono eseguiti scavi ad Amman, in Giordania, scoprendo un'importante iscrizione risalente al IX-VIII secolo d.C. Data la scarsità dei miei mezzi (non sono un affiliato alle inique baronie universitarie del globo terracqueo) non ho potuto visionare il testo. Trovato nella cittadella dell'Età del Ferro, riporta il nome di Milkom, ovviamente nel suo puro e semplice scheletro consonantico MLKM. Evidente è la sua connessione col concetto di regalità e la sua separazione concettuale dal fenicio mlk /molk/ "sacrificio per olocausto". La divinità degli Ammoniti ordina al sovrano del suo popolo di edificare un'elaborata costruzione con portici e stanze, garantendo protezione e sostegno all'opera. Milkom è attestato in questo contesto come deità della dinastia ammonita; sono anche trovati anche ostraka riportanti antroponimi formati sulla radice del teonimo in questione. Mi piacerebbe molto analizzare questi nomi di persona e pubblicarne la lista completa. Purtroppo ciò mi è impossibile, perché il mondo accademico ha il pessimo costume di nascondere quante più informazioni può. Che dobbiamo farci? La Bibbia è sopravvissuta, mentre i testi dei Cananei pagani sono andati smarriti, perché la Storia dà voce soltanto ai vincitori, sopprimendo i vinti e facendone cadere la memoria nell'Oblio.  

martedì 6 ottobre 2020

ETIMOLOGIA DI MOLOCH

Quando sentiamo menzionare il nome Moloch (scritto anche Moloc), la mente va subito a un demone che macina vite umane. Un mostro che si nutre delle persone immolate in suo onore. Si può parlare di Moloch anche in senso figurato, quando si intende attribuire a una persona o a un'istituzione un carattere brutale, che si manifesta con una sfrenata bramosia di potere assoluto e di distruzione. Una tipica frase di esempio: "Il mondo del lavoro è un Moloch"

Detto questo, Moloch è generalmente inteso come il nome di una divinità cananea. La forma ebraica del teonimo è מֹלֶךְ Mōlekh ed appare molte volte nell'Antico Testamento, in particolare nel Levitico. Si trovano anche traslitterazioni diverse, come Molech e Molek. La trascrizione greca è Μόλοχ. In latino è scritto Moloch. Stando alle Scritture, il sacrificio delle vittime, che erano bambini, era compiuto tramite olocausto: tutta la carne veniva bruciata su un altare chiamato תֹּוֹפֶת tōpheth, che fungeva da griglia. Per indicare l'atto sacrificale si trova l'espressione idiomatica לְהַעֲבִיר בָּאֵשׁ ləhaʻavīr bā'esh "passare nel fuoco". Il fuoco usato per l'olocausto era tenuto costantemente acceso. Tra gli Ebrei questi riti cruenti furono compiuti fino ad epoca abbastanza tarda, nonostante fossero ferocemente condannati dai Profeti e puniti in modo molto severo dalla Legge. A Gerusalemme, nella Valle di Hinnom (גֵּי־הִנֹּם Gēi-Hinnōm, Gēhinnōm), si trovava il tōpheth dove avvenivano le immolazioni. Il toponimo Gēhinnōm è stato adattato in Gehenna ed è divenuto sinonimo di Inferno. Tuttora la maggior parte degli Israeliti vede la cremazione con immenso orrore: la ragione profonda è connessa all'idea che bruciare un corpo equivalga a compiere un olocausto a Moloch. 
 
Moloch, Geiger e i Masoreti
 
Esiste un'etimologia considerata da molti una certezza, per quanto falsa, inconsistente e tutto sommato ridicola. Secondo questa fabbricazione, Mōlekh sarebbe derivato da מֶלֶךְ melekh "re, sovrano", con il vocalismo di בּשֶׁת bōsheth "vergogna, cosa vergognosa". In realtà non si tratta di una trovata così antica: il primo a supporre l'incrocio fonetico tra "re" e "vergogna" fu il rabbino Abraham Geiger (1810 - 1874) noto per essere il fondatore della Riforma dell'Ebraismo. Secondo questa capziosa ermeneutica cabalistica, attribuire a una parola il vocalismo di un'altra, avrebbe un significato occulto e implicherebbe per necessità un cambiamento del significato. Già esisteva una tradizione consolidata di attribuire etimologie fittizie a nomi e vocaboli di oscura origine, concependo complesse macchinazioni secondo princìpi che mi paiono illogici. Sul piano meramente fonetico, il principio ispiratore era la falsa pronuncia del Tetragrammaton יהוה YHWH, ideata dai Masoreti utilizzando le vocali di אֲדֹנָי 'Adōnai "Signore" e ottenendo così יְהֹוָה Yəhōwāh "Geova" - senza però alcun mutamento nel concetto espresso. Anche se meno nota, esiste un'altra pronuncia masoretica יֱהֹוִה Yəhōwīh, formata a partire dalle vocali di אֱלוֹהִים 'Elōhīm "Dio". In epoca più recente Wilhelm Gesenius ha proposto la pronuncia יַהְוֶה Yahweh, basandosi sulla trascrizione Ιαβε fornita da Teodoreto di Cirro e da altri autori - che tuttavia sembra influenzata dalle vocali di הַשֵּׁם ha-Shēm "Il Nome". Il problema è che Geiger ha applicato questo modo di procedere anche sul piano semantico, immaginando che trarre le vocali dalla parola bōsheth "vergogna" per applicarle a melekh "re", avrebbe prodotto qualcosa come "Re Abominevole". Questa paretimologia non è opera dei Masoreti, come pure alcuni credono nel vasto Web (anche se è masoretica la vocalizzazione). Va tuttavia notato che bōsheth è stato usato come nomignolo di scherno per sostituire il teonimo בַּעַל Baʻal in un paio di nomi teoforici. 
 
Paul Mosca ha giustamente scritto: "La teoria secondo cui una forma molek suggerirebbe immediatamente al lettore o all'ascoltatore la parola boset (piuttosto che qodes* o ohel**) è il prodotto dell'ingenuità del diciannovesimo secolo, non di una tendenziosità masoretica o pre-masoretica." (testo originale, 1975: "The theory that a form molek would immediately suggest to the reader or hearer the word boset (rather than qodes or ohel) is the product of nineteenth century ingenuity, not of Massoretic [sic]*** or pre-Massoretic tendentiousness.")

* קֹדֶשׁ qōdesh = santità
** אוֹהֶל 'ōhel = tenda
*** Con ogni probabilità l'autore ha scritto Massoretic anziché Masoretic per scoraggiare una pronuncia ortografica con una consonante sonora /z/

Ho recuperato un'informazione che credo interessante e curiosa. Prima di Geiger, John Milton chiamò Moloch "orrido re" nel Paradiso perduto. Milton aveva conoscenze di ebraico e di aramaico sufficienti per leggere l'Antico Testamento in lingua originale. Potrebbe aver appreso l'ebraico dal semitista Joseph Mede, durante il suo soggiorno a Cambridge.

Demoni e vampiri della Mesopotamia 

Abbiamo la testimonianza biblica di una coppia divina, il dio Adrammelech e la dea Anammelech, il cui culto era tipico della città mesopotamica di Sepharvaim (a nord di Babilonia) e caratterizzato da offerte di bambini tramite olocausto (2 Re, 17:31). Il nome אַדְרַמֶּלֶךְ 'Adrammelekh significa probabilmente "Re magnifico". Il nome עֲנַמֶּלֶךְ ʽAnammelekh significa probabilmente "Anu è re" (il Dio del Cielo era chiamato Anu in accadico, dal sumerico An). Le genti di Sepharvaim finirono deportate in Samaria dagli Assiri. Si hanno alcune menzioni di Maliku "Re" come epiteto accadico del Dio degli Inferi, Nergal. Abbiamo inoltre il vocabolo accadico maliku (variante malku) "ombra dei morti", usato per denotare una specie di zombie o di vampiro. Questa parola alla lettera significa "re, principe", ma è possibile che si tratti di una semplice omofonia e che la sua vera origine sia diversa. In ogni caso, non risultano riti di olocausto di bambini in onore delle ombre dell'Ade. 
 
Moloch, Milkom e Melqart 

Sono stati fatti tentativi di ricondurre Moloch a מִלְכֹּם Milkōm, la divinità degli Ammoniti, o a Melqart, il nume tutelare della città fenicia di Tiro, poi identificato con Ercole. Si tratta di due evidenti derivati della parola cananea mlk /milk/ "re". Li analizzeremo con maggio dettaglio in altra sede. La somiglianza fonetica ha portato alla confusione diversi studiosi.
 
Un antico equivoco 
 
Tra le genti di Canaan non esisteva in realtà alcuna divinità rispondente al nome e alle caratteristiche cultuali di Moloch. Ad Ugarit troviamo un dio Mlk /'maliku/, /'milku/, alla lettera "Re", connesso con l'Oltretomba; a quanto consta era destinatario soltanto di offerte di animali. In fenicio il termine mlk /molk/ significava "olocausto", "offerta sacrificale": indicava l'atto rituale, non la divinità che lo riceveva. Ciò fu notato per la prima volta da Otto Eissfeldt nel 1935. La locuzione fenicia lmlk /lə'molk/ si traduce "in olocausto" (la preposizione lə- "a" esiste tale e quale in ebraico, lingua molto simile al fenicio). Coloro che misero per iscritto i testi biblici, interpretarono questa locuzione come "a Moloch", attribuendo un essere personale a quello che in realtà era un tipo di sacrificio. Si deve parlare di "sacrificio molk" e non di "sacrificio a Moloch". Il fenicio /molk/ è passato come prestito all'ebraico e si è adattato ai suoi vincoli fonotattici, diventando Mōlekh /'mo:leχ/. Nella lingua scritturale non sono tollerate due o più consonanti in finale di parola, con l'eccezione di alcune forme verbali, così il gruppo /lk/ ha sviluppato una vocale per poter essere pronunciato. La consonante finale /k/ è diventata regolarmente una fricativa uvulare /χ/ (simile al suono dello scozzese loch). La vocale breve /o/ è diventata lunga, essendo tonica e venendosi a trovare in sillaba aperta. Detto questo, il destinatario del sacrificio molk era Baal. 
 
Etimologia di molk

Il vocabolo fenicio mlk "olocausto, offerta per combustione" non ha etimologia nota. Sono state fatte svariate ipotesi sulla sua origine, tutte scarsamente soddisfacenti nonché problematiche. Stupisce l'isolamento di questa parola: non ha parantele credibili. La somiglianza fonetica con mlk /milk/ "re" è notevole, tuttavia la distanza semantica è grande e incolmabile. Non si ha alcuna connessione evidente tra il concetto di "olocausto" e quello di "dominare, regnare, essere sovrano". Si tratta di una somiglianza fortuita. In protocananeo si risale alle seguenti protoforme: 
 
*malku "re"
*milku "re" 
*malak- "dominare, regnare, essere sovrano" 
*mulku "olocausto" 

Le prime due sono diverse vocalizzazioni di una radice comune a tutte le lingue semitiche nordoccidentali e all'accadico, la terza è la corrispondente radice verbale e la quarta è la parola problematica. Un'ipotesi è che la radice di *milku / *malku "re" e *malak- "regnare" in origine significasse "possedere". Così *mulku "olocausto, offerta per combustione" potrebbe aver significato "cosa posseduta", "proprietà del Dio". Il punto è che non abbiamo nessuna prova di questi slittamenti semantici, e non è affatto certo che il significato della parola che indicava il sovrano avesse come significato originario quello di "possedere". Alexander Militarev ed altri sostengono invece che al contrario il significato di "dominare" sia secondario e derivato da quello di "re". La forma protosemitica ricostruita è *maliku, glossata con "capo straniero". Potrebbe anche darsi che le forme cananee *malku e *milku siano entrambe esiti di *maliku. Qualcuno suggerisce che il protosemitico *maliku sia stato ricostruito con la vocale -i- per render conto dell'arabo malik "re" (che potrebbe tuttavia essere un prestito dall'aramaico); non dobbiamo dimenticarci però che in accadico la forma maliku "re, principe" è ben documentata ed è più conservativa rispetto a malku, che pure si trova. Questo per dare l'idea dell'estrema complessità dell'argomento.
 
Come riportato da James Germain Février, Jean-Baptiste Chabot ha ipotizzato un legame con il siriaco məlak "promettere", che è però semanticamente inaccettabile: il sacrificio molk è un atto reale, non una promessa di un'offerta futura. Il significato originario della parola in questione non può in alcun modo essere stato "promessa, voto". È errato tradurre l'ebraico Mōlekh con "voto". 
 
Secondo alcuni semitisti (Wolfram von Soden et al.), il fenicio mlk "olocausto" sarebbe una forma sostantivata causativa derivata dalla radice verbale ylk / wlk "offrire" tramite un prefisso m-. Tuttavia, se così fosse, non ci aspetteremmo una protoforma *mulku. Avremmo un diverso vocalismo, come ad esempio *mawliku, con una vocale tonica tra -l- e -k-, cosa che non corrisponde ad alcun dato disponibile.
 
A mio avviso è più ragionevole supporre che il protocananeo *mulku "olocausto, offerta per combustione" sia il residuo di un'antica radice che significava "passare nel fuoco, bruciare", poi andata perduta.   
 
Il sacrificio molk a Cartagine 
 
La lingua punica è una forma tarda della lingua fenicia. Il suo centro di diffusione era Cartagine. Nel corso dei secoli ha subìto peculiari sviluppi fonetici. La consonante fenicia /k/ (pronunciata [kh]), in punico si è evoluta infine in una fricativa uvulare /χ/, parallelamente all'evoluzione di /p/ (pronunciata [ph]) nella fricativa labiodentale /f/ e di /t/ (pronunciata [th]) nella fricativa interdentale /θ/. Questi mutamenti dovevano essere in corso, ma non ancora completati, all'epoca in cui Plauto scrisse il Poenulus. Esistono iscrizioni neopuniche in caratteri latini che ci permettono di conoscere questi dettagli.

milch /milχ/ "re" 
*molochim /molo'χi:m/ "re" (pl.)
*maloch /ma'loχ/ "egli regnò"
molch
/molχ/ "olocausto, sacrificio" 
 
Non va taciuto che esistono alcune peculiarità proprie della lingua punica, che non si riscontrano nella lingua fenicia di origine. Abbiamo attestazioni di una forma femminile mlkt "olocausto, sacrificio", con ogni probabilità risalente a un protocananeo *mulkatu, parallelo al maschile *mulku. Verosimilmente la pronuncia della forma femminile punica era /mol'χo:/

In punico abbiamo attestata la formula mlk 'dm bšʽrm btm (varianti mlk'dm bšrm btm, mlk 'dm bšrm bnʽtm) "un sacrificio umano della sua stessa carne" (vedi Krahmalkov). In caratteri latini si sarebbe scritto così: MOLCHADOM BYSAREM BITHEM (varianti: MOLCHADOM BYSARIM BINATHIM, etc.). Non ci sono dubbi di sorta sull'interpretazione di mlk 'dm, il cui secondo elemento è l'equivalente punico dell'ebraico אָדָם 'ādām "uomo, essere umano". Ogni tentativo di stravolgere la traduzione può soltanto essere tendenzioso.
 
Le iscrizioni di N'Gaous 
 
Quando mi sono imbattuto per la prima volta nella parola neopunica molchomor "sacrificio di un agnello" (varianti morchomor, morcomor, mochomor), ho pensato erronemente che si trattasse di un vocabolo tramandato da Agostino d'Ippona. Approfondendo l'argomento, ho trovato che invece si tratta di una parola neopunica incorporata nei testi latini di alcune iscrizioni trovate in Algeria, a N'Gaous, l'antica Nicives (Nicivibus). Nella Rete non è difficile reperire pubblicazioni sull'argomento, anche se dubbi e confusioni non vi mancano di certo. Questo ad esempio è un articolo trovato su Jstor.org:  

 
I testi, risalenti circa al III secolo d.C., sono i seguenti (ho messo in neretto il termine punico):  

1) [Q]uod bonum et faus|[tu]m feliciter sit fac[tu]m. Domino sanc|[t]o Saturno sacrum | [m]ag(num) nocturnum mor|[c]homor ex voto A(ulus) Qui|[nti]us Victor et Elia Rufina | [co]n(iux) eius pro Impetrato fil(io) l(ibentes) v(otum) s(olverunt) a(gnum) v(i)k(arium)
 
*oppure:  (pro) v(i)k(ario)
 
2) Quod bonum faus(t)um fe[lici]|ter factum sit. Domino sancto S[at]|urno, anima pro anima, sangu[ine] | pro sanguine, vita pro vita, pro salute C[o]|ncess(a)e et voto pro voto sac[ru]|m solverunt mo(l)chomor C[…|…]us Rufinianu[s …|…] co[niux ? …
 
3) Q(uod) b(onum) f(austum) f(eliciter) f(actum) s(it). D(omino)  s(ancto) S(aturno) sacrum m(agnum) | nocturnum anima pr[o] | anima, sang(uine) pro sang(uine), | vita pro vita, pro Con[ces]|s(a)e  salute<m> ex viso et voto [sa]|crum reddiderunt molc[ho]|mor Felix et Diodora li[b(entes)] | animo agnum pro vika[rio]. 

4) [Q(uod) b(onum) f(austum) f(eliciter) f(actum) s(it) sacrum] magnum [noc]|[tur]num anima pro anima, vita pro [vi]|ta, sanguine pro sanguine, pro salu[te] | Donati, sacrum solvit ex viso capi[te m]|orcomor  Faustina agnum pro vi[kari]|o libens animo reddit.
 
5) Quod bonum faustum feliciter factum sit. | Domino sancto Saturno magnum nocturnum […] co […] ex [viso …|…] sacrum […
 
6) Q(uod) [b(onum] e(t) f(austum) f(eliciter) s(it) (factum), D(omino)  s(ancto) S(aturno), | sac[r]u(m) mag(num) nocturnum | anim[a] pro anima, vita pro | vita, s[a]ng(uine) pro sang(uine), morch(omor), ag[n](um) vik(arium), M(arcus) Cossutius Mar(…) | pro [Do?]nato  fi(lio) lib(ens) a(nimo) vot(um) red(dit). 

La forma morchomor è derivata dall'assimilazione di -l-, causata dalla -r finale. Come si vede dall'analisi delle iscrizioni sopra riportate, è esplicitamente menzionato l'oggetto del sacrificio: l'agnello (agnum, all'accusativo). È anche menzionato il fatto che l'olocausto dell'agnello è fatto in sostituzione (pro vikario, vikarium) qualcosa di diverso: l'olocausto di un bambino. Inoltre si comprende che il destinatario del sacrificio era Baal, identificato con Saturno (Crono).  
 
Tendenziosità moderne 
 
Alcuni biblisti, forti dell'autorità delle Scritture, si rifiutano di prendere in considerazione i dati del fenicio e del punico e per motivi religiosi insistono con l'esistenza personale di Moloch come divinità. Tuttavia rifiutano il vocalismo di Molekh cercando di restaurare una lettura Melekh "Re", presumibilmente pre-masoretica, da loro considerata la sola autentica. L'argomento da loro fornito si basa sulla traduzione greca dell'Antico Testamento detta Septuaginta o LXX. Ebbene, nel Pentateuco della Septuaginta troviamo che Mōlekh è sorprendentemente tradotto con ἄρχων (árkhōn), ossia "governatore, comandante, capo". Più precisamente, in Levitico 18,21 e in Levitico 20,1-5, troviamo לַמֹּלֶךְ la-Mōlekh (lammōlekh) "a Moloch" tradotto col dativo ἄρχοντι (árkhonti). Questo però non prova che la traduzione sia corretta e che ἄρχων (gen. ἄρχοντος; pl. ἄρχοντες) "governatore, comandante, capo" corrisponda alla perfezione a melekh "re" sul piano semantico. Un re possiede una dimensione mistica ed esoterica sconosciuta al governatore. Non mi risulta affatto che in greco le parole ἄρχων e βασιλεύς "re" siano mai state usate come sinonimi. La spiegazione è secondo me del tutto diversa: i 72 traduttori, pur provendo dalle Tribù di Israele, hanno risentito di profondi influssi dello Gnosticismo. Nei sistemi degli Gnostici, la parola Arconte era usata per indicare le potenze demoniache che governano il mondo. Così si deve tradurre ἄρχοντι "al demone". I traduttori potrebbero essere stati Esseni, ed è comunque un dato di fatto che il testo in ebraico da essi utilizzato non è quello della tradizione rabbinica. Anche di fronte all'evidenza lampante offerta dalle attestazioni del neopunico molchomor "sacrificio di un agnello", questi biblisti non demordono. Affermano così che l'ebraico אִמֵּר 'immēr "agnello" non sarebbe potuto diventare -omor. Questo loro argomento è semplicemente insulso. Il punico era sì molto simile all'ebraico, ma non identico; i suoi suoni erano peculiari e frutto di un'evoluzione propria, indipendente da quella della lingua di Israele. È davvero molto stupido credere che in punico le parole dovessero sottostare alla fonologia dell'ebraico biblico, come se questo fosse l'unica lingua possibile a cui ricondurre qualsiasi cosa. 
 
Manipolazioni ideologiche buoniste 

In quegli infetti nidi di vipere che sono le università americane, è stata partorita un'idea politically correct che ha meno senso dei peti dei muli, basandosi sui più folli preconcetti di quest'epoca degenerata. Nonostante siano stati trovati inequivocabili resti di ossa carbonizzate di bambini in luoghi dedicati al culto di Baal, va guadagnando terreno la tesi secondo cui i Cananei sarebbero stati adoratori dei Puffi, da loro onorati con offerte floreali e cantilene puerili!