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sabato 5 agosto 2017

NATURA ANTIFISICA DI TARZAN E DEI TARZANIDI


Il personaggio di Tarzan, creato da Edgar Rice Borroughs e protagonista di ben ventiquattro suoi romanzi, ha avuto un grandissimo successo e ha dato origine a tutta una serie di imitazioni e di derivati. Sono così tanti questi emuli e così simili all'originale che sono stati ribattezzati Tarzanidi, come se fossero idealmente discendenti dell'unico capostipite Tarzan, anche se ovviamente non c'è tra loro alcun nesso genetico. Questi Tarzanidi non comprendono soltanto figure maschili, ma anche un gran numero di eroine che divennero sogni proibiti per intere generazioni. Il nome di questi personaggi è stato coniato dal critico francese Francis Lacassin. Forse a causa della nazionalità del suo ideatore, non è mai riuscito ad attecchire nei paesi di lingua anglosassone. In inglese le Tarzanidi sono chiamate Jungle girls, mentre non sono riuscito a trovare un valido equivalente maschile del termine. 

Il mito di Tarzan e la folta schiera dei suoi epigoni costituiscono la dimostrazione lampante di un fatto a dir poco sorprendente: il completo scollamento tra la realtà fisica delle cose e l'immaginario collettivo. Le plebi acefale si lasciano ipnotizzare da vere e proprie assurdità che dovrebbero subito saltare agli occhi ed essere respinte. Infatti l'essenza stessa di Tarzan e dei Tarzanidi è contraria alle leggi stesse della fisica. Uomini e donne statuarie, i rappresentanti di questa stirpe fantastica sono almeno parzialmente anentropici. Non sono toccati dall'usura dei corpi e dalla produzione di sporcizia, non si ammalano e non decadono, non invecchiano, sono immuni a qualsiasi effetto deleterio dell'ambiente in cui vivono. Sono forse un popolo di semidei e di semidee? Possibile che nessuno finora abbia mai pensato a questa stranezza? A nessuno è saltata agli occhi?

Facciamo alcuni esempi concreti per far capire il concetto. Come sarebbe nella realtà una donna che vivesse nella foresta pluviale come una bestia dei campi? Laida, di aspetto abominevole, piena di sporcizia. La sua pelle sarebbe unta e cosparsa di abrasioni - in particolare quella dei piedi, che sarebbe spessa e dura come il cuoio, oltre che sudicia e nera come la pece. Solo le mosche la troverebbero attraente e farebbero a gara per deporvi la covata. Nulla di più assurdo e paradossale della figura longilinea di Sheena, la Regina della Giungla. Pulita e profumata, perfettamente pettinata come se fosse appena uscita da un salone di bellezza, nonostante vada scalza in un ambiente che farebbe rabbrividire chiunque, ha i piedi morbidi e bianchi, dalle unghie perfette, vellutati e pronti a concedere un sensualissimo footjob all'eroe di turno fino a farlo eiaculare tra le dita.

Tutto questo è il prodotto di un'esasperazione del darwinismo. Si trovava naturale pensare che il figlio un gentleman britannico, anche se abbandonato da bambino e cresciuto dalle scimmie, avrebbe sviluppato una personalità civile e avrebbe trovato modo di sbarbarsi, di depilarsi, di curare il proprio aspetto alla perfezione, di tagliarsi la chioma e di pettinarsela, di fare la manicure e la pedicure anche con gli strumenti più rudimentali - oltre che di pensare e di esprimersi come un perfetto europeo. Avrebbe appreso a parlare in una lingua del mondo civile, magari per scienza infusa. Come a dire: il neonato di un inglese abbandonato in mezzo agli scimpanzé diverrebbe in automatico un parlante della lingua inglese, perché tale capacità è genetica.

Questa assurdità della favella inglese innata, per quanto possa sembrare ingenua ai nostri giorni, è stata propagandata dal cinema e dai fumetti. Per contro, il Tarzan dei romanzi di Edgar Rice Burroughs parlava una lingua peculiare che non presenta alcuna somiglianza con nessun'altra. L'autore attribuiva questa lingua alle scimmie, a dispetto del fatto innegabile che non sono mai state trovati animali di questo genere in grado di articolare suoni umani. Lo stesso nome Tarzan significa "Pelle Bianca", dai vocaboli "scimmieschi" tar "bianco" e zan "pelle". In qualche modo l'autore aveva cercato di risolvere il problema del linguaggio che un bambino avrebbe sviluppato in assenza di genitori umani, facendogliene insegnare uno dai primati. L'idioma creato da Burroughs ha un aspetto tipicamente umano ed è chiamato Mangani, come i suoi locutori, una specie immaginaria di scimmie gigantesche con caratteri intermedi tra quelli degli scimpanzé e dei gorilla. 

È una vecchia questione. Gli esperimenti di deprivazione linguistica non sono stati infrequenti in passato. Il primo caso noto risale all'epoca del Faraone Psammetico I e avrebbe dato come risultato due bambini in grado di pronunciare la parole frigia bekos "pane" alla vista del sovrano - cosa che sembra piuttosto improbabile, anche se è narrata da Erodoto. In epoca a noi più vicina l'Imperatore Federico II, detto Stupor Mundi, crebbe un gruppo di bambini senza insegnare loro a parlare, sperando che iniziassero a parlare in ebraico. Salimbene de Adam ci dice che fu fatica vana, perché i bambini morirono tutti. Per quanto riguarda le fantasie su Tarzan e sui Tarzanidi, a porre su di esse la pietra tombale dovrebbero bastare i molti spaventosi resoconti sui bambini selvaggi cresciuti con le fiere in India ed altrove, nessuno dei quali fu mai in grado di apprendere un linguaggio umano.

mercoledì 24 agosto 2016


EPEPE

Titolo originale: Epepe
AKA: Metropole
Autore: Ferenc Karinthy
Genere: Romanzo
Sottogenere: Letteratura mitteleuropea, romanzo
     kafkiano, romanzo distopico  
Lingua originale: Ungherese
1a pubblicazione: 1970
1a edizione italiana: 2015
Editore italiano: Adelphi
Traduzione: Laura Sgarioto
Codice ISBN: 978-88-45-97662-9

Trama:
Budai è un linguista poliglotta ungherese che deve partecipare a un convegno internazionale a Helsinki. Così prende l'aereo, ma anziché giungere a destinazione, si ritrova in una città non identificabile in cui tutti parlano una lingua a lui del tutto sconosciuta. Per il protagonista è l'inizio di un inimmaginabile inferno in un ambiente dall'opprimente densità di popolazione. Portato da un pullman in un albergo, Budai consegna a un funzionario della reception i suoi documenti e il suo assegno di viaggio, ricevendone in cambio una certa quantità di denaro e la chiave di una camera. Subito si accorge che ogni tentativo di comunicare con gli autoctoni è assolutamente vano: in qualsiasi lingua a lui nota cerchi di dire qualcosa, nessuno è in grado di afferrare neppure una sillaba. Anche la scrittura è di origine ignota, soltanto i numeri arabi sono ben riconoscibili in un mare di inestricabili ideogrammi. Pur essendo avvantaggiato rispetto a una persona di media istruzione, l'esule magiaro non riuscirà a trovare il bandolo della matassa. 

Recensione:
Epepe materializza gli incubi kafkiani che hanno a lungo dominato i paesi del blocco comunista, in cui la riduzione dell'individuo a un atomo di una società disumanizzante era considerata un'utopia da perseguire con ogni mezzo. Davvero singolare che sia stata permessa da quei regimi orwelliani l'espressione abbastanza libera di queste inquietudini nell'arte, ad esempio nei cartoni animati in cui si vedevano persone inghiottite da folle immense e grigie che uscivano come una marea spaventosa da edifici simili ad alveari umani, sotto un cielo di piombo. Forse il fine era quello di demoralizzare le persone fin dalla tenera infanzia per fiaccare ogni possibile germe di individualismo, di certo non quello di mettere in guardia da un'agghiacciante distopia. Siamo di fronte a qualcosa come l'architettura della Germania Est, con i suoi casermoni color merda, progettati per uccidere sul nascere l'anelito di libertà.

Incomunicabilità assoluta

L'unico contatto che Budai riesce ad instaurare con una persona della metropoli sovraffollata è destinato a risolversi in modo drammatico. Si tratta della ragazza bionda il cui supposto nome, che lo studioso ungherese non è capace di trascrivere foneticamente, dà il titolo al romanzo. Epepe, ma anche Bebe, Bebebe, Tetete, Tjetjetje e via discorrendo, tanto incerta è la natura dei fonemi della lingua di quel paese enigmatico. La sua professione è quella di ascensorista: Budai riesce a conoscerla durante i suoi penosissimi spostamenti da un piano all'altro dell'albergo. Cerca di conversare con lei durante le pause, quando i due si rifugiano in un ambiente appartato all'ultimo piano. Dai faticosi tentativi di apprendere la lingua, lui riceve ben poco giovamento. In occasione di un blackout, Epepe si rifugia nella camera di Budai, gli eventi precipitano e i due finiscono a letto. Dopo aver copulato litigano in modo furioso: lei ripete una parola in ungherese pronunciata dall'uomo, che pensa di essere preso in giro e comincia a percuoterla. Dopo averla ridotta a un cencio, si pente e implora il suo perdono: lei si eccita ed ha inizio una nuova copula, ancor più focosa della prima. Un episodio che scandalizzerà non pochi lettori, dato che descrive una sessualità manesca e irruenta d'altri tempi, quando la donna era considerata un oggetto. A seguito di questa avventura, Budai perde l'unico appiglio che gli è rimasto, finendo col diventare un vagabondo in una terra ostile.   

Vane ipotesi

Cos'è realmente il mondo in cui Budai si trova imprigionato? Un altro pianeta? Una dimensione parallela? Un'altra linea temporale? La Terra di un remoto futuro? Che sia un mondo diverso dal nostro lo si capisce immediatamente. Le leggi fisiche non sono esattamente le stesse. Sembra che persino l'incredibile ammassarsi di persone in ogni spazio disponibile obbedisca a qualche forma di fluidodinamica in cui non vigono gli stessi parametri caratteristici del nostro universo. Come spiegare l'assoluta estraneità della lingua a ogni nozione a noi familiare e al contempo l'uso dei nostri stessi numeri arabi? Come sono giunte le cifre in quella terra sconosciuta? Da una parte si sarebbe portati a pensare che sia esistito un contatto che ha portato all'adozione dei numeri arabi, ma dall'altra non si riesce a farsene una ragione. Così le costellazioni in cielo sono quelle che conosciamo, ma la religione non è cristiana e nemmeno islamica, ebraica, buddhista o altro che possiamo descrivere. Quadri appesi alle pareti fanno presupporre l'esistenza di terre incontaminate con montagne e mari, tuttavia per quanto Budai può saperne la città non ha confini, si estende a perdita d'occhio senza che si riesca a scorgere qualcosa di diverso. Ogni teoria fallisce, non spiega proprio nulla e cade in contraddizione con i dati di fatto.     

Uno scontro razziale in discoteca

Un episodio bizzarro mi ha particolarmente colpito. In un mondo in cui tutti i tipi umani sono rappresentati, dal nordico all'ottentotto, dal cinese al patagone, all'improvviso accade qualcosa di imprevisto. In una discoteca ctonia due compagnie si scontrano: una è formata da bianchi, l'altra da neri. Tanto violenta è la rissa che scaturisce da un futile motivo, che presto si arriva a un accoltellamento. In quell'umanità la genetica sembra funzionare in uno strano modo. A differenza di quanto accade sul nostro pianeta, i vari fenotipi non sono miscibili, ma coesistono come l'aqua e l'olio in una bottiglia: per quanto si agiti il contenitore finiranno col separarsi, simile attraendo simile e allontanandosi dal dissimile. Senza dubbio è un'interessante metafora, anche se non si capisce bene di cosa.

La conlang di Epepe

Riporto in questa sede le magre nozioni della lingua del mondo distopico di Epepe, ricavate dalla lettura del libro. Innanzitutto c'è la descrizione, seppur insoddisfacente, del sistema numerale: 

dütt, uno
klooz, grooz, due
tösh, baar, tre
gedirim
, quattro
baar, tösh, cinque (*)
kus, sei
rod, dod, sette
hodod, otto
dohodod
, nove

ezrez, dieci

(*) L'autore commenta: "stranamente, il 3 e il 5 sembravano intercambiabili, o forse solo lui non era capace di distinguerli." Forse le due diverse forme servono a distinguere gli esseri animati o umani da quelli inanimati o non umani, anche se non è chiaro perché solo in questi numerali si manifesti la distinzione. La diversità tra i numerali 3 e 5 potrebbe essere tonale, anche se è chiaro che qualcosa non quadra. L'autore deve aver inserito questa indeterminazione per aumentare il senso di mistero e di inquietudine nel lettore. 

I numerali hodod "otto" e dohodod "nove" sono palesemente formati a partire da rod, dod "sette" tramite l'uso di suffissi. Inutili i tentativi fatti dal protagonista di collegare alcuni numerali con i loro equivalenti in lingue note: si tratta di semplici assonanze, e per giunta alquanto vaghe. "Certo, con un po' di fantasia il gedirim (4) poteva essere assimilato al russo četyre, il kus (6) al kuusi del finlandese, l'ezrez (10) all'ashr dell'arabo." 

Una forma che ricorre spesso nelle conversazioni è identificata come un pronome: 

klött "Lei, Voi" 

Forse si tratta di una forma di origine onorifica, come l'italiano Vossignoria. Sono attestate le varianti klütt e glütt. Quando Budai viene espulso dall'albergo per insolvenza, gli viene contestato il mancato pagamento del conto di due settimane con questa frase: 

"Tuluplubru klött apalapala groz paratléba... Klött, klött, klött...! 

Si distingue il numerale groz "due", sopra riportato come klooz, grooz, in una forma atona. Si deduce che paratléba deve esprimere il concetto di "conto". Qui il klött assume una sfumatura di accusa.

Poche traduzioni si possono ottenere in modo abbastanza sicuro dal contesto narrativo: 

chlom brattibratt "hai da accendere?"
durung! "smettila!"

je duruntj "la devi smettere"


Durante lo scontro razziale tra bianchi e neri alla discoteca, volano esclamazioni insultanti come "Durumba!" e "Undurumbunda!" Si nota che il morfo durum- potrebbe essere lo stesso che compare in "Durung!" e in "Je duruntj"

Budai ha stilato, con immensa fatica, un elenco di vocaboli scelti tra quelli più tipici della vita urbana nel mondo moderno, che dovrebbero essere internazionali, parole come "cacao", "cioccolato", "caffè", "arancia", "taxi", "hotel", "buffet", "aeroporto", "ambasciata", ma non ne menziona nessuno, limitandosi a constatare che nessuno è formato a partire da radici note. Ci è anche riportato un inno rivoluzionario, soltanto che ci manca la traduzione e non abbiamo il benché minimo elemento per capirci qualcosa:  

Cetec topa debette
E
tek gl
ö chri fefee
Bügiüti gnemelaga
Pecice... ! 

Durante la rivolta, i militari urlano alla massa degli insorti prima la parola "Cetencia!" e poi una sua variante, "Cetencio!" Si potrebbe pensare che sia un adattamento dell'italiano "sentenza", intesa come "condanna"? Non mi faccio illusioni in proposito: in un diverso contesto un poliziotto usa la parola "cetence" in una domanda. Budai cerca disperatamente di aggrapparsi a qualcosa di noto, così ipotizza che la lingua possa avere in comune qualcosa con le lingue altaiche come il turco o con le lingue uraliche come il magiaro e il finlandese, a causa della grande frequenza dei suoni bemollizzati ö, ü, che in diverse sequenze sembrano obbedire a un principio di armonia vocalica. D'altro canto le parole pronunciate dalla ragazza bionda, Epepe, sono caratterizzate da una fonetica un po' diversa, con abbondanza del suono laterale -tl- e uscite in -lli che ricordano il Nahuatl, anche se non sussiste alcuna relazione tra le due lingue. "Jejee tlehuatlan... muula tlalaalli?", dice Epepe in un'occasione. E ancora: "Tuulli ulumulu alaulp tleplé..." Forse la lingua usata dagli uomini è un po' diversa da quella usata dalle donne, come avviene tra diversi popoli indigeni delle Americhe. Sarebbe interessante sottoporre tutte le frasi riportate a un'analisi serrata per vedere se si riesce a estrapolare qualcosa ancora. Purtroppo temo che il materiale sia insufficiente e dubito che l'autore abbia interesse a fornircene di nuovo. Non escludo che all'origine della creazione di Karinthy possano esserci suoi episodi di glossolalia. 

domenica 14 giugno 2015


LA FRISLANDIA: UN'UTOPIA ONIROSTORIA

In occasione di un mio viaggio a Bergen, in Norvegia, acquistai la copia di una mappa del XVI secolo, che mi stupì non poco. Quella città anseatica è ricchissima di interessanti luoghi e di memorie, come ad esempio il lebbrosario, la cui parte pubblica è ora adibita a museo. Avremo modo di parlare delle meraviglie di Bergen in altra occasione. Tornando alla mappa, notai che riportava una grande isola chiamata Frisland, situata poco a sud dell'Islanda e di dimensioni ad essa confrontabili. La mappa era così dettagliata che si potevano scorgere i nomi dei porti e delle città di Frisland. Nella parte meridionale di quella terra misteriosa c'era ad esempio un centro abitato chiamato Sorando. La cosa stimolò la mia fantasia, e per anni mi sono chiesto quale fosse l'origine di quella bizzarria. Nella riproduzione di una mappa del secolo successivo al posto di Frisland erano riportati alcuni scogli, con la dizione Insula Frisland fabulosa vel submersa.  

Da dove nasce questo singolare mito? Converrete che è davvero strano che un'intera isola di tali dimensioni sia stata inventata dal nulla con tanto di dettagli geografici accurati e di toponomastica. Eppure è altrettanto incontrovertibile che Frisland non ha alcuna reale esistenza nel mondo in cui viviamo.

Nomi di centri abitati:

Andefort
Aqua
Banar (Bamar)

Bondendea portus (Bondendon) 
Cabaru (Caboru)
Campa
Doffais
Frislant
Godmec (Gramec)
Ocibar
Rane
Rouea (Rovea)
Sanestol
Sorando (Sorand) 
Venai
 

Nomi di promontori (C. sta per caput):

Aneses
C. Bouct (Bouet)  
C. Cunalar
C. Deria
C. Spagia (Spagnia)
 

Nomi di Golfi:

Golfa Norda
Sudero Golfo
 

Nomi di isole vicine a Frisland:

Duilo
Ibini (Ibim)
Ilofo (Ilofe)
Ledeuc (Ledovo)
Monaco
Portlanda (Porlanda, Podanda) 
Spirige
Streme
 

Come si può vedere, a prescindere da possibili corruzioni, questa toponomastica non è molto trasparente, anche se si possono ravvisare alcune radici germaniche come -stol, God-, -landa, -fort, Norda, Sudero, e persino un possibile prestito latino o romanzo, Port-, incorporato nel toponimo Portlanda. Il nome del centro abitato di Aqua ha l'aria di essere un falso amico. Il termine portus è latino, mentre golfo (con la variante golfa) viene dall'italiano: sono descrizioni che nulla hanno di nativo. Il resto non sembra avere alcuna somiglianza con il norreno. Ci sono stati tentativi di confrontare i toponimi frislandesi con nomi di città delle isole Fær Øer, ma i risultati della comparazione appaiono subito risibili: nella massima parte dei casi non sussiste nemmeno la parvenza di un'assonanza.

Nel tardo XVI secolo i cartografi davano per assodata la realtà della grande isola di Frisland (nota anche con le varianti Frislandia, Frislanda, Friesland, Frixland, Frischlant, etc.), e la cosa creò non poca confusione nei navigatori: in più occasioni gli esploratori scambiarono per Frisland le coste della Groenlandia e identificarono quest'ultima con l'isola di Baffin. Soltanto in seguito fu fatta chiarezza: nella seconda metà del XVII l'isola misteriosa scompare dalle mappe. Si può dire che siamo di fronte a un mito che ha creato gravi difficoltà e fraintendimenti.

Sbaglieremmo tuttavia se pensassimo che il fascino della Frislandia sia scomparso. Ancora oggi c'è chi fantastica su quella terra, ritenendola reale e sprofondata. In fondo il mito di Atlantide costituisce un modello ragionevole a cui ispirarsi. Ricordo nitidamente l'esistenza di un sito web ispirato a Frisland, i cui autori avevano costituito una specie di micronazione e si proclamavano gli eredi del popolo dell'isola scomparsa. Il loro assunto era semplice: Frisland si trovava a nord ovest dell'Irlanda, dove oggi si trovano fondali bassi molto estesi, che in effetti disegnano una sagoma assai simile a quella riportata sulle antiche mappe. Il fenomeno della subsidenza, unitamente a una serie di spaventosi maremoti avrebbero portato alla sommersione di quel regno un tempo florido, lasciando come uniche vestigia lo scoglio che al giorno d'oggi è chiamato Rockall. La casa regnante di Frisland sarebbe riuscita a fuggire e a rifugiarsi in Inghilterra, e i suoi eredi sarebbero proprio gli autori del sito web, che a quanto pare ha fatto la stessa fine della patria dei loro antenati. Questa è la descrizione in inglese, salvata da un backup e rimasta soltanto in alcuni siti come menzione:

FRISLAND. Kingdom of FRISLAND.

Rockall Island, United Kingdom. The Kingdom of Frisland, with a long and illustrious history stretching back many centuries, suffered severe flooding in the later Middle Ages until only a small area remained above water - the island of Rockall. This was unilaterally annexed by the United Kingdom on 10th February 1972, in defiance of international law. Exactly thirty years later the Senate and People of Frisland repudiated this annexation and declared independence from the UK. Sovereignty projects and governments-in-exile.

Il sito originale era molto più ampio e conteneva notizie pseudostoriche sul Regno di Frisland, descritto come pagano e parlante una lingua inclassificabile. All'epoca, interessato a questa creazione, avevo salvato una pagina con le genealogie dei suoi re, che deve essere sepolta nelle budella rugginose del mio vecchio computer e che non sono riuscito a recuperare. Ricordo che molti nomi erano formati a partire dalla radice PHOSI-. Invece ho ritrovato una lista delle Sacerdotesse della Terra e un elenco di nomi geografici.     

L'utopia di Frislandia si fonda in realtà sui viaggi realmente avvenuti di due navigatori veneziani, i fratelli Nicolò e Antonio Zeno, vissuti nel XIV secolo. Nicolò è nato nel 1340, di Antonio si ignora la data di nascita; entrambi sono morti nei primi anni del XV secolo. Nel 1558 Nicolò Zeno, un discendente del primo Nicolò, ha pubblicato una mappa assieme a diverse lettere a sua detta scritte dal suo avo, e tutto ciò che si è scritto su Frisland si fonda su questi documenti. Questo è ciò che è riportato sulla Wikipedia in inglese alla pagina sui Fratelli Zeno, che propongo qui tradotto in italiano:

Le lettere 

Le lettere sono divise in due parti. La prima serie contiene lettere da Nicolò al fratello Antonio. La seconda contiene lettere da Antonio al loro fratello Carlo.
Le prime lettere (da Nicolò ad Antonio) affermano che Nicolò nel 1380 si mise in viaggio da Venezia all'Inghilterra e alle Fiandre. Esistono prove che tale viaggio ebbe luogo, e che Nicolò ritornò a Venezia intorno al 1385.
In queste lettere, Nicolò sostiene di essere stato spiaggiato su di un'isola tra la Gran Bretagna e l'Islanda, chiamata Frislanda, che egli descrive di dimensioni maggiori dell'Irlanda.
Per fortuna Nicolò fu soccorso da Zichmni, che è descritto come il principe che possedeva alcune isole chiamate Porlanda al largo della costa meridionale di Frislanda, e che governava il Ducato di Sorant, o Sorand, nel sud est dell'isola.

Nicolò invitò Antonio a raggiungerlo in Frislanda, cosa che fece, e vi rimase per quattordici anni. Sotto la guida di Zichmni, Antonio attaccò l'Estlanda, che è probabilmente da identificarsi con le Isole Shetland, coe indicato dalla somiglianza tra i nomi di luogo menzionati nelle lettere.
Zichmni poi tentò di attaccare l'Islanda. Dopo averla trovata troppo ben difesa, attaccò sette isole lungo il suo lato orientale: Bres, Talas, Broas, Iscant, Trans, Mimant e Damberc. Tutte queste isole sono fittizie.
Zichmni quindi costruì un forte su Bres e lasciò Nicolò a presidiarlo. Nicolò fece un viaggio in Groenlandia e vi trovò un monastero provvisto di riscaldamento centralizzato. Egli tornò quindi in Frislanda, dove morì, essendo stato a settentrione per quattro o cinque anni.
Poco dopo la morte di Nicolò, Zichmni ebbe notizia che un gruppo di pescatori frislandesi dispersi aveva fatto ritorno dopo un viaggio di più di venticinque anni. Questi pescatori sostennero di essere approdati nell'estremo occidente, nei paesi sconosciuti chiamati Estotiland e Drogeo. Dissero anche di aver incontrato strani animali e cannibali, da cui erano scappati soltanto dopo aver insegnato loro come pescare.
Ispirato dai racconti dei pescatori, Zichmni intraprese un viaggio a occidente con Antonio a guida della sua flotta. A ovest della Frislanda, come si vede sulla mappa di Zeno, essi incontrarono una grande isola chiamata Icaria, che non esiste.

Secondo le lettere, gli abitanti di Icaria li salutarono prima che approdassero. Soltanto una persona tra le genti di Icaria era in grado di parlare una lingua che Zichmni comprendeva. Gli abitanti affermarono che i visitatori non erano i benvenuti nell'isola, e che l'avrebbero difesa combattendo fino all'ultimo uomo, se necessario.
Zichmni veleggiò lungo l'isola cercando per un posto dove approdate, ma gli abitanti lo inseguirono, e Zichmni rinunciò ai suoi sforzi.
Navigando a occidente, approdarono a un promontorio chiamato Trin, all'estremità meridionale di Engrouenlanda. A Zichmni piacevano il clima e il suolo, ma il suo equipaggio trovava quella terra inospitale. I marinai tornarono a casa con Antonio, mentre Zichmni rimase ad esplorare l'area e a costruire una città.

L'originale inglese del testo è molto diffuso in vari network; non sono però ancora riuscito a identificare l'autore di tale riassunto. Il testo delle lettere non sono finora stato in grado di reperirlo, ci sono soltanto alcuni studi che riportano di certo informazioni di estremo interesse, anche se per certi versi mi sembrano alquanto farraginosi e inconcludenti, come ogni tentativo di far quadrare con la realtà un'opera di fantasia.  


sabato 14 giugno 2014

UNA GLOSSOLALIA DI ANTONIN ARTAUD

La poesia Cogne et foutre di Antonin Artaud si conclude con un singolare testo glossolalico: 

Ya menin
fra te sha
vazile
la vazile

a te sha menin
tor menin
e menin menila 

ar menila
e inema imen. 

In preda a un'inspiegabile ispirazione, nel 2007 ho tradotto la glossolalia, pubblicandola poi su Esilio a Mordor:

O spiriti
oscuri del cosmo,
radiosa
acqua radiosa,  

dagli spiriti del cosmo,
spiriti della pietra,
spiriti della terra, il vento,  

infiammate il vento
di spirito di conoscenza terrestre.  

La traduzione, se così si può chiamare, è stata da me composta leggendo un adattamento della glossolalia in questione per un brano musicale in cui i versi erano ripetuti diverse volte, e non avevo neanche letto il testo della poesia. Cosa avesse in mente Antonin Artaud quando proferì e mise per iscritto il suo componimento glossolalico può essere immaginato leggendo i versi di Cogne et foutre

Je connais un état hors de l'esprit, de la conscience, de l'être, 
et qu'il n'y a plus ni paroles ni lettres, 
mais où l'on entre par les cris et par les coups. 
Et ce ne sont plus des sons ou des sens qui sortent, 
plus des paroles 
mais des corps. 
Cogne et foutre, 
dans l'infernal brasier où plus jamais la question de la parole 
ne se pose ni de l'idée. 
Cogner à mort et foutre la gueule, foutre sur la gueule, 
est la dernière langue, la dernière musique que je connais 
et je vous jure qu'il en sort des corps 
et que ce sont des corps animés. 

Posso quindi immaginare che con la parola tradotta con "spiriti" indichi in realtà autentici demoni. Ormai l'autore non può più esprimere un'opinione in proposito, essendo morto da tempo. Non so quindi se esista una connessione tra la sua ispirazione e la mia. Tuttavia il testo ha una sua coerenza interna e se ne potrebbe trarre un breve vocabolario, anche se insufficiente alla costruzione di una conlang