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giovedì 12 novembre 2020

 
ASSASSINIO AL CIMITERO ETRUSCO 
 
Titolo originale: Assassinio al cimitero etrusco
Titolo in francese: Crime au cimetière étrusque
Titolo in inglese: The Scorpion with Two Tails
Paese di produzione: Italia, Francia
Lingua: Italiano, etrusco
Anno: 1982
Durata: 98 min
Genere: Orrore, thriller
Regia: Christian Plummer (Sergio Martino)
Soggetto: Ernesto Gastaldi, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Maria Chianetta, Jacques
     Leitienne
Produttore: Luciano Martino
Casa di produzione: Dania Film S.r.l. (Roma), Medusa Film 
    (Roma), Imp.Ex.Ci.Sa (Nizza), Les Filmes Jacques
    Leitienne (Parigi)
Distribuzione in italiano: Medusa Film
Fotografia: Giancarlo Ferrando
Montaggio: Eugenio Alabiso, Daniele Alabiso
Effetti speciali: Paolo Ricci
Musiche: Fabio Frizzi
Scenografia: Antonello Geleng
Costumi: Antonello Geleng
Trucco: Franco Rufini, Giovanni Rufini
Interpreti e personaggi:
    Elvire Audray: Joan Mulligan Barnard
    Paolo Malco: Mike Grant
    Claudio Cassinelli: Archeologo Paolo Dameli
    Marilù Tolo: Contessa Maria Volumna
    Wandisa Guida: Heather Hull
    Gianfranco Barra: Commissario
    Franco Garofalo: Fotografo Gianni Andrucci
    Maurizio Mattioli: Masaccio
    Carlo Monni: Senaldi
    Anita Sagnotti Laurenzi: Prof.ssa Sorensen
    Jacques Stany: Nick Forte
    Luigi Rossi: Vecchio suonatore di aulos
    John Saxon: Arthur Barnard
    Van Johnson: Mulligan, padre di Joan
    Nazzareno Cardinali: Guardia del corpo della Contessa
    Angela Doria: Hilda
    Antonino Maimone: Boss a New York
    Fulvio Mingozzi: Ufficiale doganale
    Lucia Monaco: Julie
    Mario Rovelli (Novelli): Guadia del corpo della Contessa
    Gennarino Pappagalli: Archeologo
    Bruno Alias 
    Giuseppe Marrocco
    Mario Cecchi
    Bruno Rosa
    Ettore Martini
    Anna Maria Perego
Doppiatori originali:
    Paila Pavese: Joan Barnard
    Pino Colizzi: Paolo Dameli
    Sandro Iovino: Arthur Barnard
    Luciano De Ambrosis: padre di Joan, Mulligan
    Vittorio Stagni: Gianni Andrucci
Location: Volterra, Cerveteri, Formello, New York, R.P.A.
     Elios Studios di Roma

Trama: 
Joan, la bionda moglie dell'archeologo americano Arthur Barnard, ha le notti sconvolte da incubi atroci in cui assiste a sacrifici umani officiati dagli Etruschi in un'orrida grotta. Le modalità dell'offerta agli Dei Inferi sono terribili: il sacrificatore afferra il cranio della vittima e lo gira a 180 gradi, facendo sì che la faccia venga trovarsi proprio sopra alla parte posteriore della spina dorsale. Joan è scossa da premonizioni e teme per la vita del flaccido marito, impegnato in importanti scavi. A un certo punto l'uomo le telefona, cercando di dirle qualcosa, ma nel corso della chiamata viene ucciso. L'assassino parla in etrusco nella cornetta: "Ecn turce Šarún". Joan, sconvolta, decide di mettersi in viaggio per l'Italia, determinata a far luce sul mistero. Giunge in una Toscana molto diversa da quella che conosciamo, caratterizzata da fenomeni di vulcanismo, abitata da un'accozzaglia di truci banditi intabarrati e tombaroli. Ne sono certo, non è un frutto di qualche distorsione percettiva: questi manigoldi hanno un aspetto rignanesco! L'aristocrazia ha cognomi di origine etrusca: una tipica nobildonna è la contessa Maria Volumna. Alcuni cognomi dei violenti popolani sono invece di origine longobarda, come ad esempio Senaldi. La statuaria Joan nel corso delle sue indagini si imbatte in diversi personaggi. Incontra l'affascinante contessa Volumna, ma non riesce a ottenere dalla sua conoscenza alcun risultato utile. In bosco trova un vecchio suonatore di flauto doppio, che sa molte cose sugli antichi abitanti di quelle terre, da lui chiamati Raséni. Pian piano emerge la verità, che ha un sapore spiritico. Joan conosce la lingua etrusca senza mai aver compiuto alcuno studio, proprio perché è la reincarnazione di una sacerdotessa. Colpo di scena, non è una vera bionda, in realtà ha i capelli castani! Grazie al potere della reminiscenza l'ardimentosa eroina riesce a ritrovare la grotta che ha visto nei suoi sogni. L'anziano auleta si rivela essere proprio il sacrificatore che all'epoca le ha girato la testa fino a spezzarle il collo. A queste arcane rivelazioni si intrecciano vicende più prosaiche: si scopre che l'ingenuo Arthur nel corso dei sui scavi archeologici è rimasto coinvolto in un brutto affare coi gangster rignaneschi, che depredavano le tombe per poi nascondervi colossali quantità di letale polvere bianca (non certo borotalco o zucchero a velo, è ovvio). Il culmine si ha quando la protagonista raggiunge un luogo occulto, il Sancta Sanctorum degli Etruschi, in cui le stesse leggi della fisica sono violate! 
 
 
 
Recensione: 
Mi si perdonino i francesismi, ma ogni volta che guardo film come questo mi sento immerso in pieno nella stagione degli escrementi di celluloide, veri e propri ammassi di scorie espulsi dall'ano della senescente Settima Arte. Un ano che non è certo sensuale e desiderabile come quello di Rita Hayworth! Credo che non sia poi un caso se lo stesso regista abbia in seguito rinnegato la sua opera, motivando la sua ardua scelta con le seguenti parole: "<Il film> non ha aggiunto nulla alla mia carriera, nemmeno dal punto di vista economico". Detto questo, la pellicola di Martino è uscita dieci anni dopo il capostipite del giallo italiano archeologico, L'etrusco uccide ancora (Armando Crispino, 1972). Sembra quasi che le due opere in questione segnino l'inizio e la fine di un'epoca. In origine Martino intendeva dirigere una serie televisiva in ben otto parti, il cui titolo doveva essere Il mistero degli Etruschi, o in alternativa Lo scorpione a due code. Negli archivi SIAE si trovano due diverse sceneggiature, una di Ernesto Gastaldi e l'altra di Dardano Sacchetti, entrambe risalenti al 1982. Il nome del produttore cinematografico francese, Jacques Leitienne, compare per ragioni legate a un'asfissiante burocrazia. Un dettaglio tecnico: nonostante l'opera martiniana sia stata concepita per essere trasmessa in televisione, è stata girata in 16mm e montata come se dovesse essere proiettata nei cinematografi. La fonte di queste informazioni è Roberto Curti, Italian Gothic Horror Films, 1980-1989, McFarland, 2019. Gli sviluppi successivi sono stati prettamente berlusconiani: il film, acquistato da Reteitalia, è stato trasformato in una miniserie TV per essere trasmesso in due puntate su Canale 5. Questo riarrangiamento, firmato da Claudio Lattanzi, non è tuttavia mai stato trasmesso, né sulle reti di Berlusconi né altrove. In buona sostanza, Assassinio al cimitero etrusco è un pastone acido che mescola elementi polizieschi e horror come se fosse stato vomitato da un gigante ingozzatosi di trash. Non ha affatto goduto dello stato di cult raggiunto dal film di Crispino, pur dando un contributo all'immagine degli Etruschi sepolcrali, lugubri, posseduti dall'ossessione del proprio annientamento nell'Ade. In realtà non tutto è da buttare, qualche trovata buona c'è: ad esempio il senso della putrefazione immanente connessa alla reminiscenza, un orrore ontologico che prende forma tramite i cagnotti. Molto bella la musica, composta da Fabio Frizzi, storico collaboratore di Lucio Fulci: a cui si deve la colonna sonora di film horror fulciani come Zombi 2 (1979) Paura nella città dei morti viventi (1980), ... e tu vivrai nel terrore! - L'aldilà (1981).
 
 
Il fantaetrusco di Gastaldi-Chianetta  

La caratteristica precipua della lingua etrusca ricostruita dagli sceneggiatori è la trasformazione delle consonanti velari in palatali davanti alle vocali anteriori -e-, -i-. Così turce "donò", che i Rasna pronunciavano /'turke/, suona invece /'turtʃe/, con la cosiddetta "c di cena". Allo stesso modo muluvanice "donò, diede in dono" viene pronunciato /mulu'vanitʃe/. Manca la benché minima nozione di grammatica. Locuzioni corrette come tular Rasnal "i confini dell'Etruria" sono ripetute durante il rito che si vede all'inizio del film, soltanto perché sono prese di peso dalle attestazioni reali e incorporate nella trama. Quando si tratta di costruire una frasettina, tutto è sbagliato: non viene nemmeno compreso il concetto di declinazione. Il capolavoro di Gastaldi-Chianetta è la frase "Ecn turce Šarún", che dovrebbe significare "Egli è stato dato a Šarún". Qualcosa non quadra: il verbo è attivo, il pronome ecn è chiaramente all'accusativo: Šarún non è il destinatario, bensì il soggetto. La frase dovrebbe quindi tradursi con "Šarun lo ha dato", che significa poco. Se ecn "lui" (complemento oggetto) e turce "ha dato" sono ineccepibili (a parte la pronuncia della forma verbale), dovremmo domandarci cosa possa essere Šarún, con quell'accento anomalo sull'ultima sillaba. Stando all'intenzione degli sceneggiatori, Šarún sarebbe una sorta di divinità ctonia dell'Etruria, che presiede ai fenomeni vulcanici. Non stupisce che non risultino corrispondenze né attestazioni, trattandosi di un'invenzione. Se gli sceneggiatori fossero stati furbi, avrebbero usato il nome estrusco di Efesto, Šeθlans, oppure avrebbero formato un teonimo dalla ben nota parola verse "fuoco", qualcosa come Versens (non attestato). Al pubblico le parole con troppe consonanti piacciono poco. Perché una parola sconosciuta che finisce con una o più consonanti possa colpire l'immaginazione, è preferibile che l'accento cada sull'ultima sillaba. Ecco com'è nato l'improbabile Šarún. Con tutti i nomi etruschi di donna che si conoscono, bellissimi e affascinanti, la sacerdotessa ne ha ricevuto uno tutto sommato banale e inverosimile: Cere. Com'è ovvio attendersi è pronunciato come in italiano. Si tratta chiaramente del nome dell'antica città di Cere, in latino Caere, attestato in etrusco come Caisra, Cisra, Ceizr-, Χaire-. Che altro dobbiamo dire? Considerato che la lingua etrusca non ha avuto un'immensa fortuna cinematografica, dovremmo accontentarci e non pretendere troppo. Magari in qualche spettatore incuriosito si sarà acceso il nobile interesse per l'etruscologia!

 
Il mito dei Criptoetruschi  
 
Pellicole di etruscheria spicciola come quella di Martino hanno contribuito a diffondere il mito dei Criptoetruschi, ossia l'idea che da qualche parte, nei distretti più impervi e selvosi della Toscana, sopravvivano ancora oggi in un segreto catacombale persone continuatrici della lingua e della religione etrusca. Ne avevo già parlato qualche anno fa in un mio brevissimo contributo pubblicato su questo stesso portale: 
 

In un paese, credo fosse nel Casentino, si era diffusa una favola. I suoi abitanti si reputavano genuini discendenti degli Etruschi, mantenutisi nei secoli senza senza alcuna contaminazione esterna. In un articolo su una rivista c'erano anche fotografie di queste persone, di cui ricordo le sembianze oltremodo grottesche - cosa che confermerebbe la presenza di una lunga tradizione endogamica. Lovecraft avrebbe di certo preso spunto da queste cose per uno sconvolgente racconto su qualche antichissimo orrore dalla Toscana. Il problema è che la rivista in questione era ben lungi dall'essere fidedigna; con ogni probabilità si trattava di una squallida trovata per attrarre turisti in un borgo remoto e non certo prospero. In ogni caso, non c'è stata alcuna rivendicazione di una pretesa conoscenza della lingua etrusca o della pratica di sacrifici pagani. Come ho già fatto notare nel 2014, si trovano alcuni individui col cognome Rasna in un'area montuosa a nord di Firenze. 
 
Elementi  di fantafisica etrusca 
 
L'accesso dantesco al Sancta Sanctorum degli Etruschi emerge a causa dei sommovimenti di Šarún. Joan vi si inoltra, arrivando a un luogo che potrebbe essere uscito dalla fantasia di H.R. Giger o di Ridley Scott, tanto ricorda il pianeta degli Ingegneri del film Alien: Covenant (2012). Si vedono alcune teste gigantesche scolpite nella nuda roccia, massi a cui sono state date sembianze umanoidi. Le loro proporzioni ciclopiche opprimono e schiacciano chiunque si trovi in quel tempio, illuminato da un enorme diamante appeso al soffitto come un sole artificiale. Arriva anche Paolo Dameli, l'archeologo, che si rivela corrotto e pericolosissimo. Anzi, è proprio l'assassino che ha ucciso Arthur, il marito di Joan. Ecco il surreale dialogo che si svolge nell'arcana cripta:
 
Joan: "L'ultimo grande potere: la Sfera Cosmica, l'Anti-Universo. La Spirale del Tempo."
Paolo: "Joan, dov'è il tesoro? Joan, Joan, il posto è questo, tu l'hai trovato. Il sacro tesoro della Dodecapoli. Dimmi dov'è il tesoro!"
Joan: "I ciechi non sanno che la luce esiste, mostrargliela sarebbe inutile, non la vedrebbero. Paolo, il tesoro è là. Là c'è la Fine e l'Inizio del Tempo e la materia ha il segno contrario e opposto."
Paolo: "Sembra un grosso diamante. Se lo fosse varrebbe più di mille Kon-ai-Noor (sic!). Se riesco..."
Joan: "Non lo toccare, Paolo! Non lo toccare! Antimateria! Antigravità! Se lo tocchi, Paolo, se tu lo tocchi!" 
(- Paolo rimane colpito da una forte scossa, accompagnata da un rumore simile a quello di un gigantesco flipper! -)
Joan: "Il cristallo è completamente avvolto dal vuoto, è protetto da una forza che è contraria alla forza di gravità e respinge via l'aria. Altrimenti non potrebbe esistere, si sarebbe dissolto all'inizio del Tempo. La materia e l'antimateria non potrebbero coesistere se non ci fossero anche la gravità e l'antigravità. Solo così l'Universo può essere."
Paolo: "Da quanto tempo sai tutto questo?"
Joan: "È come se voci antiche mi parlassero dentro. Andiamo via da qui! Qui tutto appartiene agli Immortali!" 
Paolo: "Allora sei tu l'ultima degli Immortali. Sei tu. Adesso mi dirai dov'è il tesoro! E mi dirai la verità questa volta! Altrimenti... ho già spezzato il collo a molta gente e potrei farlo anche a te!"
Joan: "Allora sei tu che hai ucciso Arthur e tutti gli altri!" 
Paolo: "Certo. A volte con l'aiuto di quelli che volevano la droga."
Joan: "E adesso tu vuoi uccidere anche me." 
Paolo: "Se tu sei veramente immortale, non dovresti avere nessuna paura, non credi?"
Joan: "Io sono la Guardiana del Sacro Tesoro!" 
Paolo: "E se non mi dici subito dove si trova, resterai qui per il resto dell'Eternità!"
Joan (esagitata): "L'ultima conoscenza è il Tesoro degli Dei!!"   
 
A questo punto arriva il Deus ex Machina, che salva una situazione catastrofica. Collega di Joan e agente segreto in incognito, Mike Grant fa la sua irruzione, vincendo il malvagio e riportando l'ordine. Direi che la lunga digressione fantafisica della sacerdotessa etrusca reincarnata non era proprio necessaria. 

Dameli o Domelli? 

L'archeologo corrotto si presenta come Paolo Dameli, ma in diversi siti del Web il suo nominativo è scritto Paolo Domelli. Probabilmente Domelli, pronunciato Dameli nella versione in inglese, è stato mantenuto anche nella versione in italiano con la pronuncia americanizzata.
 
Scene memorabili 
 
I cagnotti che escono dagli occhi di un'antica scultura raffigurante un auleta. Pullulano, spingono, trascinano con sé anche alcune ributtanti pupe rossicce, cadono in massa e si spargono dovunque, contorcendosi.
 
Mike Grant che emerge dagli Inferi, simile a uno zombie avvolto dai gas sulfurei del vulcanismo, procedendo in modo retrogrado come un gambero, guidato dalla testa girata sulla schiena.   
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 
 
Arrivati a questo punto, non resta che riportare alcuni significativi estratti davinottiani.  
 

Cotola ha scritto: 
 
"Desolante thriller di Martino (che si firma con uno pseudonimo) che non provoca il benché minimo spavento nello spettatore e non avvince per nulla. Che dire poi della pasticciatissima sceneggiatura che serve un finale a dir poco delirante e ridicolo? Meglio stendere un velo pietoso e passare avanti" 
 
Deepred89 ha scritto:  
 
"Mediocre film di Sergio Martino che combina con scarsi risultati thriller, horror e poliziesco. La regia è insolitamente rozza e la sceneggiatura arranca stancamente senza decidere che strada prendere, fino ad un finale con uno dei colpi di scena più ridicoli di tutto l'horror made in Italy. Cast interessante sfruttato nel peggiore dei modi e penalizzato da un doppiaggio indegno. Insufficiente." 
 
Puppigallo ha scritto:
 
"Pagliacciata horror poliziesca con attori dati in pasto a un copione ridicolo, che li trasforma inevitabilmente in macchiette viventi, credibili come l'esistenza di un politico onesto. Se non altro, si sorride quando subentrano le visioni della bionda e, soprattutto quando viene recitata la "raggelante" frase, o formula antica "Echen turce sciarù!". Da non dormire la notte...E non dimentichiamo le uccisioni tramite rottura del collo "Crac!" ed è tutto finito (gli etruschi erano per la rapidità). La colonna sonora è riciclata da vari zombimovie, mentre il resto è O.T. (Original Trash)."
 
Markus ha scritto:
 
"Tra le grotte degli etruschi con qualche rancore di troppo trascinato ai nostri giorni e la modernissima New York si consuma uno pseudo-horror con venature poliziesche. Sergio Martino dirige senza nerbo un film che ha la pecca maggiore nel non suscitare la benché minima paura. Resta però un certo desiderio di vedere come andrà a finire e un secondo tempo stranamente più avvincente del primo, quasi a voler tenere le scene "migliori" per il gran finale. Si nota una certa povertà di mezzi (statue di evidente cartongesso, attori perlopiù mediocri)."

sabato 18 gennaio 2020

PRONUNCIA ORTOGRAFICA DI NOMI GENOVESI, VENETI E SICILIANI IN ITALIANO

Accadde molto tempo fa. Non importa, ci sono traumi che non si dimenticano. Ci sono ferite che non rimarginano. Una stoltissima annunciatrice televisiva disse che sarebbe stata trasmessa La Venexiana, film erotico di Carlo Bolognini (1986), vagamente ispirato all'omonima commedia composta da un anonimo autore nel XVI secolo. C'è un piccolo problema. L'annunciatrice in questione - possa Yog-Sothoth divorare in eterno la sua anima, defecarla, vomitarla e ingurgitarla di nuovo in un eterno ciclo di dannazione atelorroica - pronunciò la lettera -x- di Venexiana come un gruppo consonantico /ks/, uscendosene con un'oscenità innominabile: una pronuncia ortografica escrementizia, ossia /vene'ksjana/, mentre deve essere /vene'sjana/. Infatti in veneto la lettera x trascrive la sibilante s sorda e la sibilante sonora /z/ come nell'italiano rosa, ad esempio in xe "è", voce del verbo esser "essere" da pronunciarsi /ze/, non certo /*kse/ come fanno alcuni. Un tempo anche Venexia era pronunciata con la consonante sonora /z/, ma questo uso sembra essere tramontato. La televisione - sia dannato in eterno nella Geenna quel porco del suo inventore - ha sì una colpa fondamentale nella diffusione del peggior materiale fecale ideologico. Non bisogna però dimenticare che un'istituzione diabolica, creata direttamente dal Principio del Male, ossia il sistema scolastico, è responsabile dello sterco che la televisione poi diffonde. L'annunciatrice microcefala che ha inventato un gruppo consonantico /ks/ inesistente, avrebbe potuto chiedersi da dove diavolo si sarebbe dovuta originare una pronuncia tanto insensata, Diabole Domine! Invece nulla. Perché vige la totale sottomissione ai dettami di una scuola demente in cui il corpo docente insegna che la lettera x va pronunciata sempre e comuncue /ks/, indipendentemente dal contesto. Su Splinder, la piattaforma blogosferica oggi sparita nel Nulla, esisteva un blogger che si faceva chiamare Rosso Venexiano. Ebbene, in un'occasione ho sentuto una tipa pronunciare il nick come /'rosso vene'ksjano/, quando avrebbe fatto bene a dire /'rosso vene'sjano/ (a parte il fatto che in veneto sarebbe Roso Venexiàn). Ho quasi avuto una sincope! Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo!

Roberto Benigni, attore e comico di cui non ho alcuna stima, in un'occasione ebbe a dire che il cognome Craxi in realtà si dovrebbe scrivere Crasi e che la lettera x il celebre Bettino se l'è messa per far colpo. Questa opinione non era poi così lontana dal vero. Lo stesso politico socialista lo riconobbe nel corso di un'intervista. La vera pronuncia del suo cognome, anche se non è proprio il Crasi postulato dal comico toscano, è Crasci. Infatti in siciliano la lettera x si usa per trascrivere il suono palatale che in italiano è reso con sc davanti a vocali anteriori (e, i). Oggi questo uso è in declino, ma un tempo era generale e si scriveva xumi "fiume", xuri "fiore", etc. Facendo sfoggio di una gran simpatia, lo stesso Craxi disse che esiste anche una variante tronca del suo cognome, la più antica, che suona Crascì. Resta da capire per quale motivo ideologico lo stesso possessore di questo cognome abbia sempre tollerato l'abominevole pronuncia ortografica /'kraksi/ (che in Meridione spesso diventava /'krakkissi/ e simili). Forse sapeva bene che contro la belluina ignoranza del volgo crasso non è possibile andare, pena l'impopolarità. Così ha fatto dell'errore delle plebi scolarizzate una specie di vessillo, un nome d'arte - cosa che alla fine l'ha perduto. Per il resto, devo riportare che mi sono imbattuto in una siciliana matura malata di pronuncia ortografica, che giungeva nei suoi eccessi a risultati inverecondi. Apparteneva alla mala genia dei burosauri e pronunciava la stessa lingua italiana in modo assurdo e grottesco, tanto da articolare EX INAM come EKISSÌNAME /ekis'siname/: un suo interlocutore andò su tutte le furie, pensando che gli stesse parlando di una fantomatica entità denominata EKISSÌNAMA, al plurale. Per scrivere in siciliano, oggi si usano ortografie italianizzate, ad esempio ciumi "fiume", sciuri "fiore", il che almeno ha evitato ulteriori tremendi abusi. Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo! 

Veniamo ora all'augusta e inclita città marinara di Genova. Tutti sanno dell'esistenza del patriota Nino Bixio, genovese doc. Ecco, ora rivolgo una domanda retorica a tutti gli utenti. Come pronunciate il cognome Bixio? Immagino che lo facciate come la scuola maledetta vi ha insegnato, ossia attribuendo a quella strana, singolare -x- il valore di un gruppo consolantico /ks/. Così ecco che Bixio lo pronunciate /'biksjo/. Invece nell'ortografia tradizionale genovese la lettera x suona come j nel francese jour: è una fricativa palatale sonora /ʒ/. Così il genovese quaexi "quasi" suona /'kwɛʒi/. Ricordo che il carissimo amico Kremo riportava la cosa parlando della microtoponomastica del circondario genovese e di Torriglia in occasione di una mia visita. Il cognome Bixio si deve pronunciare /'biʒu/. Proprio come il francese bijou, ma con l'accento sulla prima sillaba. L'etimologia è la stessa dell'italiano bigio "grigiastro". Adesso, e qui son dolori, veniamo a come la pronuncia ortografica di Bixio è stata adattata nel Meridione d'Italia. Data la difficoltà endemica a pronunciare il gruppo consonantico /ks/, si sono prodotte molteplici pronunce aberranti: bìkissio /'bikissjo/, bìkkissjo /'bikkissjo/ e addirittura bikìssjo /bi'kissjo/, con l'accento su una sillaba inesistente, come se significasse "Colui che bacia due volte". Ma se lo avessero chiamato Nino Bigio non sarebbe stato meglio per lui e per tutti? Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo!

mercoledì 15 gennaio 2020

PRONUNCIA ORTOGRAFICA DI PAROLE SPAGNOLE E NAHUATL IN ITALIANO

Infinite sono le aberrazioni indotte dalla pronuncia ortografica. Persino una lingua come lo spagnolo, sorella dell'italiano per comune origine dal latino volgare, non è riuscita a sfuggire a questo tristissimo fato. Televisione e scuola hanno provocato scempi che dire atroci è ancor poco.
 
Dai banchi di memoria stagnanti stoccati nel mio cervello sofferente e infiammato emergono ogni giorno ricordi disgustosi, come fiotti di bile rigurgitati dallo stomaco. Ricordo ancora un caso di pronuncia ortografica dello spagnolo emerso quando vidi un film con Gilberto Govi, Che tempi!, di Giorgio Bianchi (1948). Il signor Felice Pastorino, interpretato dal famoso comico genovese, si trovava di fronte un argentino, Manuel Aguirre, interpretato da Alberto Sordi. Così accadeva che il Pastorino, leggendo il cognome Aguirre /a'girre/, lo pronunciasse come se fosse *Agüirre /a'gwirre/. Subito l'argentino gli faceva notare l'errore, ma ecco che il genovese batteva i piedi per terra, prendendola male, strepitando. Protestava con furia, pretendendo di aver ragione: "Guardi che so leggere!" Non voleva capire che in Aguirre la -u- è soltanto un segno diacritico per indicare la retta pronuncia della -g-, non diversamente da quanto accade in italiano con la -h- in parole come ghetto. Il Pastorino eccedeva anche sul piano lessicale, affermando che in spagnolo hombre significherebbe "amico" anziché "uomo", ma questo è un altro discorso. Di fronte a tanti spropositi, Aguirre replicava serafico e sorridente: "Muy simpático!" Forse pensava "Maricón cabrón hijo de puta!", ma non lo dava a vedere. Un tempo erano molto comuni in tutta Italia personalità simili al signor Pastorino da Genova. In Brianza un uomo così lo si chiama Paulìn Vunciùn, perché "el g'ha semper resùn". Suo fratello è Bastiàn Cuntrari.   
 
Su una televisione privata lombarda, all'epoca in cui ancora scanalavo, mi imbattei in un gruppo folkloristico che cantava una singolare canzone milanese. Il protagonista era un pappone che faceva prostituire la compagna e la massacrava di sganassoni a ogni minimo segno di ribellione. Era un energumeno, un gorilla! Ai nostri giorni una cosa simile non potrebbe nemmeno più essere pensata, figurarsi trasmessa nell'etere. Alla fine, le gesta dello squallido magnaccia si concludevano in modo inglorioso. Arrivavano i poliziotti e caricavano il criminale su un cellulare denominato Mosquito, conducendolo a marcire in galera. Il punto è che il cantante pronunciava Mosquito con una consonante labiovelare /kw/, come se fosse stato scritto in italiano: /mos'kwito/ anziché /mos'kito/

Non si creda che questa peste della pronuncia ortografica risparmiasse persone di cultura elevata. Ricordo quando consultai l'Enciclopedia UTET e mi imbattei nella voce QUEBRACHO, che è il nome di varie specie di piante dal legno durissimo (Aspidosperma quebracho-blanco, Schinopsis Lorentzii, Schinopsis balansae), assai diffuse in Argentina: era riporta in caratteri fonetici la falsa pronuncia /kwe'brako/, quando sarebbe stato semplicissimo trascrivere /ke'bratʃo/. Non si dice di usare la /β/ bilabiale dello spagnolo, abbastanza simile alla mostra /v/, ma almeno si potrebbero rendere in modo corretto suoni presenti nella nostra lingua, evitando vere e proprie aberrazioni! 

Sembra che secoli fa ci fosse maggior senno. Il famosissimo nome di Don Chisciotte (Don Quijote, Don Quixote) fu scritto così in Italia proprio per evitare delittuose pronunce ortografiche. In inglese invece la trascrizione è stata fedele all'originale, Quixote, cosa che ha generato una terrificante falsa pronuncia /kwik'soʊti:/ o /kwik'səʊti:/, tuttora in uso. In tempi più recenti è incappato nelle maglie della pronuncia ortografica il generale Armando Diaz (Napoli, 1861 - Roma, 1928). Il militare era italiano, ma il cognome mostra una chiara origine spagnola. La sua pronuncia quindi ha avuto una consonante affricata: /'diats/. Si noterà che in Brianza questo stesso cognome ha dato origine a bestemmie un tempo comunissime: da giovane avrò sentito un milione di volte urlare "porco dìaz!" e anche "porco dìez!", con indebolimento della vocale atona, ma sempre con la consonante affricata finale /-ts/. Non sarebbe stato più semplice pronunciare un più verosimile /'dias/? Non si pretende certo una consonante interdentale /θ/, inesistente in italiano e in lombardo, ma non ci sono dubbi che realizzare una fricativa /-s/ costa meno fatica che realizzare un'affricata /-ts/.  

Tutte queste aberrazioni sono ben lungi dall'essere estinte: non di rado ci si imbatte tuttora in una falsa pronuncia del cognome della prosperosa Belén Rodriguez, che le genti della televisione pronunciano ortograficamente /ro'drigwets/ (in gran parte della Spagna è /ro'ðrigeθ/, in America Latina è /ro'ðriges/). Direi che pronunciare come se fosse scritto Rodrighes andrebbe più che bene per un italiano. Pronunciare -gu- come in italiano è un'assurdità, visto che la -u- è qui soltanto un segno diacritico che non ha nessuna realtà storica.

Il malcostume della pronuncia ortografica di origine scolastica si applica purtroppo anche alla lingua Nāhuatl, scritta per tradizione secondo le consuetudini ispaniche. Così lo stesso nome degli Aztechi subisce in Italia pronunce false come /ats'teki/ e addirittura /at'tseki/ (come se fosse scritto *Azzechi!), mentre si deve pronunciare /as'teki/, con una semplicissima /s/. La forma Nāhuatl era infatti āztecatl /a:s'te:katɬ/ "azteco", al plurale Āztecah /'a:s'te:kaʔ/ "Aztechi". Un'altra vittima dello scempio è la famosa larva branchiata di una salamadra messicana, detta axolotl. Gli studenti fanno la gara tra chi riesce ad articolare la pronuncia più inverosimile. Di solito vince quello che pronuncia /akso'lotel/, seguito da un altro che pronuncia /akso'lolt/. La pronuncia corretta è /a:'ʃu:lutɬ/. La parola deriva infatti dal Nahuatl āxōlotl e significa "servo dell'acqua", da ātl "acqua" e da xōlotl "servo". La consontante -x- si pronuncia come la sc- di scena. La caratteristica -tl finale non è una sequenza di suoni ed è difficile da pronunciare per un europeo: la -t- deve essere articolata quasi contemporaneamente a una -l- sorda. L'accento è sulla penultima sillaba, che ha la vocale lunga.  
 
I Russi hanno evitato le pronunce ortografiche in modo molto naturale, trascrivendo i nomi traslitterati in cirillico secondo criteri fonetici approssimativi ma abbastana validi. Non ho affatto simpatia per le genti di Vladimir Putin, ma devo dire che hanno evitato la devastazione che da noi è stata prodotta dalla scuola e dai media - almeno per quanto riguarda la pronuncia delle parole straniere.

giovedì 26 dicembre 2019

RIGURGITI DI UN'UMANITÀ TERMINALE

Dovendo andare a un inutile convegno con un collega, mi è toccato affrontare una stramaledetta macchinetta dei biglietti della metropolitana. Malfunzionante, è ovvio. Il collega cercava di usare il bancomat per acquistare i biglietti per entrambi. Mentre stava digitando il codice, non senza fatica, ecco che un folto gruppo di vecchiacci americani dementi si ammassava su di noi. Quelle spaventose creature ci soffiavano sul collo, ci assillavano. Una carampana isterica continuava a urlarci a squarciagola: "K'HANNOWOGHE!, K'HANNOWOGHE!". Ecco cosa vedevo in quell'abisso ctonio: patetici esemplari di un popolo ridotto a una massa di decerebrati, con un'intelligenza media inferiore a quella di una pecora! Alla fine ho capito che questa esclamazione "K'HANNOWOGHE" si trascrive "COD not working", essendo COD l'acronimo di "Cash on delivery". Un incubo! Questa condizione, che le genti chiamano “vita”, è in realtà la caduta agli Inferi! 
 
Marco "Antares666" Moretti, giugno 2018 

venerdì 15 febbraio 2019


MATTATOIO 5

Titolo originale: Slaughterhouse-Five
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1972
Durata: 104 min
Genere: Fantascienza, drammatico, tragicommedia 
Sottogenere: Autobiografico, guerra

Regia: George Roy Hill
Soggetto: Kurt Vonnegut Jr. (dal romanzo Mattatoio n° 5 o
      La Crociata dei Bambini
)

Sceneggiatura: Stephen Geller
Fotografia: Miroslav Ondříček
Montaggio: Dede Allen
Musiche: Glenn Gould
Scenografia: Henry Bumstead, Alexander Golitzen, John
      McCarthy Jr. e George C. Webb
Interpreti e personaggi
    Michael Sacks: Billy Pilgrim
    Ron Leibman: Paul Lazzaro
    Eugene Roche: Edgar Derby
    Sharon Gans: Valencia Merble Pilgrim
    Valerie Perrine: Montana Wildhack
    Holly Near: Barbara Pilgrim
    Perry King: Robert Pilgrim
    Friedrich von Ledebur: ufficiale tedesco
    Ekkehardt Belle: giovane guardia tedesca
    Sorrell Booke: Lionel Merble
    Roberts Blossom: Wild Bob Cody
    John Dehner: professor Rumfoord
    Gary Waynesmith: Stanley
    Richard Schaal: Howard W. Campbell Jr.
    Gilmer McCormick: Lily Rumfoord
    Stan Gottlied: vagabondo
    Karl-Otto Alberty: guardia tedesca (Gruppo 2)
    Henry Bumstead: Eliot Rosewater
    Lucille Benson: madre di Billy Pilgrim
    John Wood: ufficiale inglese

Premi
    Festival di Cannes 1972: Premio della giuria
    Saturn Award per il miglior film di fantascienza 1972

Trama:
Non esiste un vero filo conduttore, perché il protagonista, Billy Pilgrim, vive al di fuori del tempo. Per lui non ha un vero significato la successione degli eventi. Innanzitutto è un soldato americano poco più che adolescente, prigioniero a Dresda durante la seconda guerra mondiale. La sua dimora è chiamata Schlachthof Fünf, ossia Mattatoio 5, proprio perché ricavata da un edificio che era stato un macello. La sua vita in cattività è a dir poco grama: c'è un diabolico italoamericano, Paul Lazzaro, che gli dà il tormento, senza requie. Billy è però anche un uomo maturo, socio dell'azienda di famiglia, destinato ad imbarcarsi su un aereo pur sapendo che precipiterà, facendolo ritornare nella Dresda bombardata, attraverso un cunicolo nella realtà: a un certo punto si vedrà la sua faccia assiderata e paonazza, piena di frammenti di ghiaccio, sporgere dal suolo nevoso, la bocca tremula che borbotta qualche fonema indistinto, cercando di articolare proprio le parole
"Schlachthof Fünf". Mentre queste cose accadono - posto che l'avverbio "mentre" abbia qualche significato in questo contesto - vediamo lo stesso Billy Pilgrim sequestrato sul pianeta alieno Tralfamadore, in una specie di cupola. Infatti la ricca atmosfera di quel mondo ameno è composta da acido cianidrico. Insieme a Billy c'è la discinta Montana Wildhack, una pornodiva californiana che per lavoro prende i falli in bocca e si fa cospargere di genetico. Ecco che i Tralfamadoriani, che sono guardoni e oltremodo morbosi, cercano di spingere la coppia a copulare e a concepire un figlio. Billy si sente in imbarazzo, vuole che sia spenta la luce. Ecco che il protagonista si ritrova anziano nelle vesti di un guru New Age, un predicatore pacifista che invita il genere umano a rinunciare ad ogni guerra. Mentre parla al pubblico nel corso di un convegno, sorge dalla massa un esagitato Paul Lazzaro, che lo abbatte a colpi di arma da fuoco. La morte è soltanto un'illusione per un uomo che vive come le genti di Tralfamadore, in uno stato estraneo ad ogni parvenza di flusso temporale. Infatti si ritrova a Dresda, ancora una volta giovanissimo, nell'atto di osservare le rovine della città devastata dallo spaventoso bombardamento genocidario del febbraio del '45.

Recensione:
A mio avviso il film di Roy Hill è una pizza colossale, anche se la critica ne dice mirabilia. La sua visione è particolarmente consigliata a chi ha problemi d'insonnia. Nonostante l'imperante esagitazione, ci si sente tanto disorientati dai continui cambiamenti di scena da provare presto apatia e torpore. Sono portato a credere che ciò sia dovuto soprattutto all'incapacità del regista: l'autore del romanzo mi sembra molto interessante. La pellicola è stata proiettata il 5 giugno 2006 al Cineforum Fantafilm dell'amico Andrea "Jarok" Vaccaro, a Milano. Purtroppo non ho potuto assistere alla proiezione. Sarebbe stato molto interessante partecipare al dibattito.


Pronunce distorte!

Catturati dai militari del Reich, i soldati anglosassoni balbettano in preda al terrore. Quando il paonazzo comandante tedesco cerca di insegnare a prigionieri il nome della loro nuova dimora, i risultati sono a dir poco deprimenti. Il militare teutonico tuona con voce stentorea un virile e ben scandito Schlachthof Fünf, ossia Mattatoio 5, e i figli della Terra dei Coraggiosi biascicano un ridicolo SHUTTO FEE, che in italiano trascriveremmo come SCIATTOFÌ. Persino la ripetizione delle singole componenti di Schlachthof risulta difettosa: Schlacht diventa SHAH e Hof diventa O! Che dire? La propaganda antitedesca si nutre anche di queste cose. :) In realtà è solo una piccola parte di qualcosa di molto più vasto. Lo sappiamo fin troppo bene. Per tradizione inveterata, gli anglosassoni sono in massima parte arroganti e privi di qualsiasi rispetto per tutte le lingue del genere umano diverse dalla loro. 

Vonnegut e la distruzione di Dresda  

Il romanzo vonnegutiano da cui il film in analisi è stato tratto, Mattatoio n°5, o La Crociata del Bambini (Slaughterhouse-Five; or, The Children's Crusade: A Duty-Dance With Death), è soltanto in parte fantascientifico. Contiene elementi autobiografici degni della massima nota. L'autore fu realmente prigioniero in Germania durante la guerra. Ci testimonia quanto è accaduto a Dresda, e questo dovrebbe bastare a mettere a tacere i negazionisti che vorrebbero ridurre i criminali bombardamenti a lanci di miccette. Accade questo, che i miliziani americani della peste politically correct hanno criticato Mattatoio n° 5 dando vita ad indecorose polemiche. Questo è l'impianto delle loro tesi invereconde: Kurt Vonnegut avrebbe preso la stima di oltre 130.000 morti causati dai bombardamenti di Dresda da un'opera del controverso David Irving, Apocalisse a Dresda (1963). Siccome David Irving è negazionista dell'Olocausto e vicino a ideologie neonaziste, ecco che lo stesso Vonnegut è stato colpito dal discredito. Ma, Diabole Domine, Vonnegut là a Dresda ci è stato davvero, sotto le bombe! La sua testimonianza varra ben di più delle baggianate di qualche democratico rincoglionito!

Definizioni incongrue

A quanto ho potuto appurare, il pianeta Tralfamadore è stato introdotto per la prima volta nell'opera di Vonnegut dieci anni prima della pubblicazione di Mattatoio n°5, per la precisione nel romanzo Le Sirene di Titano (The Sirens of Titan, 1959). Compare poi qualche anno dopo in un altro romanzo, Dio la benedica, signor Rosewater (God Bless You, Mr. Rosewater, 1965). Mattatoio n° 5 non è l'ultima opera dello scrittore di Indianapolis a fare menzione dei Tralfamadoriani. A distanza di anni, nel 1990, li vediamo in Hocus Pocus. Nel 1997 compaiono infine in Cronosisma (Timequake). Non sembrano esserci riferimenti a scritti più recenti. L'autore è defunto nel 2007: stando al metodo logico-deduttivo di Sherlock Holmes, molto difficilmente può aver scritto qualcosa dopo l'exitus. In realtà i Tralfamadoriani sono descritti in modo assai diverso nei vari testi in cui compaiono, tanto che non possiamo sostenere la natura coerente dell'ispirazione.

Riporto un brano altamente significativo tratto proprio da Le Sirene di Titano

Non c'era nulla di offensivo in questo amore. Vale a dire, non era omosessuale. Non poteva esserlo, poiché Salo non aveva sesso.
Era una macchina, come tutti i tralfamadoriani.
Era tenuto insieme da biette, morse, dadi, bulloni e magneti.
La pelle color mandarino di Salo, che era così espressiva quando lui era turbato emotivamente, poteva essere messa o tolta come una giacca a vento terrestre.


Come vediamo, stando a questa descrizione i Tralfamadoriani sarebbero macchine. Una specie di robot senzienti. Invece in Dio la benedica, signor Rosewater, Tralfamadore è soltanto un pianeta della mente, un Gedanken inventato nel corso di una discussione filosofica. In netta contrapposizione a quanto visto ne Le Sirene di Titano, i Tralfamadoriani di Mattatoio n° 5 o La Crociata dei Bambini sono creature organiche, seppur peculiarissime. Ecco un estratto vonnegutiano che ce li descrive come simili a utensili per sgorgare i cessi:

Passò un altro mese senza incidenti, e poi Billy scrisse una lettera al 'News Leader' di Ilium, e il giornale gliela pubblicò. In essa descriveva gli esseri di Tralfamadore.
La lettera diceva che erano alti sessanta centimetri, erano verdi, e avevano una strana forma. Le loro ventose d'aspirazione erano a terra, e i loro gambi, estremamente flessibili, puntavano di solito verso il cielo. In cima a ogni gambo c'era una piccola mano con un occhio verde nel palmo. Questi esseri erano amichevoli, e erano in grado di vedere in quattro dimensioni. Sentivano pietà dei terrestri che avevano esclusivamente una capacità visiva tridimensionale. 


I loro poteri hanno dell'incredibile: la loro definizione è in pratica un oggetto spaziotemporale, così esistono al contempo in ogni singolo istante dall'inizio alla fine dell'Universo. George Roy Hill nella sua trasposizione cinematografica ha mantenuto alcuni elementi, sopprimendone altri. Nessun riferimento alle occhiute ventose delle latrine. Alcuni affermano che i Tralfamadoriani di Hill sarebbero soltanto voci narranti, prive di corporeità, eppure in almeno una scena del film ho visto uno di questi alieni e aveva un corpo fisico: somigliava a una specie di sciatore gobbo e intabarrato in vesti sgargianti, con una maschera senza lineamenti sul volto.
In Hocus Pocus, i Tralfamadoriani sono i protagonisti di un racconto dello scrittore fallito Kilgore Trout, pubblicato a puntate su una rivista pornografica. Il titolo di questo racconto è evocativo: I Protocolli degli Savi di Tralfamadore. La natura di questi alieni è multidimensionale; essi hanno il controllo di ogni aspetto della vita del genere umano, un po' come i Rettiliani inventati da David Icke.
In Cronosisma vediamo forse l'immagine più suggestiva delle genti di Tralfamadore, descritti addirittura come elementi chimici antropomorfizzati! Questa è fantascienza che travalica i confini della psichedelia profonda.


Elementi di grammatica tralfamadoriana

Possediamo in sostanza soltanto due glosse dell'idioma degli alieni respiratori di acido cianidrico. Sappiamo, perché è lo stesso Vonnegut a dircelo, che il nome del pianeta Tralfamadore nella lingua degli sturalavandini animati e verdastri ha un duplice significato. Si traduce al contempo come "cinquecentoquarantuno" e come "tutti noi". Un caso abbastanza eclatante di polisemia. Vero è che queste traduzioni sono riportate ne Le Sirene di Titano, ma riteniamo ragionevole che valgano anche per i Tralfamadoriani di Mattatoio n°5, pur così dissimili. Da queste poche informazioni sfuggite a Vonnegut, possiamo tuttavia ricostruire qualcosa di interessante.

TRALFAMADORE = 541

Questi sono gli elementi estraibili dalla glossa e relativi al sistema numerale tralfamadoriano: 

ore = 1
ma = 4
tra = 5
ad = 10
adore = 11
adma = 14
attra = 15
mad = 40
madore = 41
madma = 44
mattra = 45
trad = 50
tradore = 51
tradma = 54
trattra = 55
alfa = 100
alfaore = 101
alfama = 104
alfatra = 105
alfad = 110
aldadore = 111
alfadma = 114
alfattra = 115
alfamad = 140
alfamadore = 141
alfamadma = 144
alfamattra = 145
alfatrad = 150
alfatradore = 151
alfatradma = 154
alfatrattra = 155
malfa = 400
malfaore = 401
malfama = 404
malfatra = 405
malfad = 410
malfadore = 411
malfadma = 414
malfattra = 415
malfamad = 440
malfamadore = 441
malfamadma = 444
malfamattra = 445
malfatrad = 450
malfatradore = 451
malfatradma = 454
malfatrattra = 455
tralfa = 500
tralfaore = 501
tralfama = 504
tralfatra = 505
tralfad = 510
tralfadore = 511
tralfadma = 514
tralfattra = 515
tralfamad = 540
tralfamadore = 541
tralfamadma = 544
tralfamattra = 545 


Abbiamo poi il prezioso pronome personale collettivo ed inclusivo: 

TRALFAMADORE = TUTTI NOI 

Questa è l'analisi: 

tral = tutto, tutti  
fa = io
fa-ma = noi (forma inclusiva)
d-ore = in uno, insieme  

Si capisce subito che il prefisso d- è quindi una specie di locativo. La possibilità concreta è che la lingua di Tralfamadore sia nata negli abissi della mente di Vonnegut e che abbia un significato filosofico profondo, per quanto a noi inconoscibile. In tale idioma gli parlavano le Voci. Si avverte nei suoi scritti l'angoscia che lo pervadeva, l'onnipresente tentativo di immaginare che forma avessero davvero coloro che gli trasmettevano questi strani suoni. 

Eternismo atensionale estremo  

Nell'ontologia temporale di Kurt Vonnegut non sono necessari passaggi che connettono tra loro regioni distanti dello spaziotempo, come ad esempio le singolarità nude e i wormholes: siamo di fronte a un quadro immobile, con un numero immenso di dimensioni e troppo complesso per essere descritto. I Tralfamadoriani in realtà non si spostano, non sperimentano il succedersi di diverse configurazioni come fanno i comuni mortali. Percepiscono nello stesso identico istante eterno ogni cosa! Siamo di fronte alla più estrema forma di eternismo atensionale finora concepita da mente umana. Nemmeno Einstein era arrivato a tanto. Si pone dunque un problema molto grave. Come possono gli alieni di Tralfamadore rapportarsi agli esseri umani? Come possono interagire con qualcuno che vive in una dimensione a loro ignota? Nel romanzo non mancano spunti umoristici e satirici: l'Universo finisce per un errore in un test di volo compiuto da un pilota di Tralfamadore. Questo dettaglio è stato ignorato da Roy Hill, che forse lo riteneva imbarazzante.

Altre recensioni e reazioni nel Web

Riporto alcuni interventi critici che mi paiono utili. Questi sono tratti da Filmtv.it

Un film a metà strada tra il sogno e l'incubo della prigionia in Germania durante il bombardamento di Dresda. Una delle cose più assurde che notai fu il personaggio di un nazista americano vestito come il generale Patton che incitava dei prigionieri di guerra angloamericani ad arruolarsi nelle SS. Roba da fantastoria. Più realistica la scena di un prigioniero fucilato perché sorpreso con un soprammobile trovato fra le macerie.
(Mr Rossi)


Diciamo che,"sotto suggerimento" mi sono accinto a vedere questo strano embrione di film semi fantascientifico-bellico e anche abbastanza sperimentale,anzi,molto sperimentale per certi versi.
Forse e' proprio questa eccessiva sperimentazione di mondi paralleli-onirici ,visionari,(dreamers) e ancora chi piu' ne ha piu' ne metta,rende la visione alquanto stranita e abbastanza incapace di far capire il senso della storia,gia' in se' insipida e poco attraente (nonostante riferimenti personali molto accattivanti tipo la storia della guerra,le parti semi-fantascientifiche e qualcosa di psicologico,anche se in forma ridotta rispetto a quello appena menzionato).
Purtroppo,tutto questo calderone di belle speranze e buoni propositi basati su un libro probabilmente di nicchia (ma forse neanche tanto...),personalmente mi e' sembrato grottesco e poco sublime nel doverlo ricordare:infatti si rimane con poco o nulla nel palmo della mano da dover rimembrare ai posteri,se non una visione di una pellicola difficile,anche abbastanza angosciante (forse anche per la voglia di capirdi qualcosa (!) e che alla lunga non soddisfa il palato degli spettatori di film di facile consumo (forse un po' come me) e convince molto di piu' a certi fruitori di Cinema piu' difficile o attratti da vette sublimi e pero' non facili da trovare.voto.5.

(Chribio1)


Film decisamente palloso, da alcuni additato come immenso capolavoro, da altri come immane cagata. Nel mezzo, io.
(alfatocoferolo)

domenica 20 gennaio 2019

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE LINGUE IMPOSSIBILI: IL CASO DELL'ITALIANO

Noam Chomsky, ritenuto uno dei massimi intellettuali viventi, è il fondatore della teoria della grammatica generativa. Egli opera secondo la convinzione indefettibile dell'esistenza di uno schema platonico immanente nel cervello umano, che plasma le strutture del linguaggio - al punto che, secondo tale dottrina plotiniana, tutte le lingue del mondo possono essere ritenute emanazioni di un singolo archetipo emanante dall'Uno: la Lingua Umana. In altre parole, se il latino è così diverso dal cinese, se il tedesco è così diverso dal turco, è soltanto perché i diversi parlanti usano etichette di aspetto dissimile per descrivere le stesse identiche cose. La discrepanza tra gli idiomi viene così ad essere classificata come un mero accidente, una bazzecola, una bagatella. Un punto nero dovuto alla pervicace e colpevole lontananza di Homo sapiens dall'Uno, sorgente di ogni perfezione. Secondo lo studioso ashkenazita, idolatrato dai radical chic e dai democratici del mondo intero, un pilastro della grammatica generativa, assolutamente irrinunciabile, è la natura ricorsiva della Lingua Umana, e di conseguenza di tutte le sue manifestazioni concrete nel corso della Storia. Vediamo di spiegare meglio questo cruciale concetto.  

Questo è riportato su Wikipedia in italiano alla pagina Ricorsività (linguistica)

La ricorsività in linguistica è il fenomeno per cui una regola linguistica può essere applicata al risultato di una sua stessa precedente applicazione. La semiotica distingue tra codici ricorsivi e non. Così, i codici animali (ad esempio, la danza delle api) non possono essere ricorsivi, mentre le lingue naturali (e i codici matematici) sì.

Questa proprietà di alcune regole è in linguistica legata ad esempio all'uso delle proposizioni relative. Così, nella frase

    Marco accarezza il cane.

i nomi "Marco" o "cane" possono essere sostituiti da una porzione di enunciato composta da uno dei due nomi e da una relativa: 

    Marco, che ben conosci, accarezza il cane.

E poi ancora:

    Marco, che ben conosci, accarezza il cane, che scodinzola davanti al portone. 

Infine:

    Marco, che ben conosci, accarezza il cane, che scodinzola davanti al portone, che è chiuso.

Come si vede, le subordinate possono agganciarsi a segmenti che sono essi stessi subordinati alla reggente "Marco accarezza il cane". Tale processo potrebbe continuare all'infinito.

Il linguista italiano Andrea Moro approfondisce il concetto a prima vista paradossale di "lingua impossibile", da lui concepita come lingua non ricorsiva. Infatti ha scritto due volumi sull'argomento, in verità non eccessivamente ponderosi: I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili (2015) e Le lingue impossibili (2017).
Va da sé che quando uno studioso fa propria la dottrina plotiniana di Chomsky e diviene un alfiere dell'Assoluto costituito dalla Lingua Umana, è tenuto a propugnare l'inesistenza di qualsiasi risultato di un'osservazione che possa portare ad inficiare la teologia dell'Uno riverberante nell'Universo. Questa è la deduzione di Moro: se la Lingua Umana è ricorsiva, ne consegue che tutte le lingue umane sono per necessità ricorsive, dunque le lingue impossibili sono tutte e sole le lingue che non possiedono la ricorsività. 


Mi spiace togliere Cristo dalla croce al neoplatonico Noam Chomsky e al suo gonfaloniere Andrea Moro, ma il concetto di ricorsività linguistica presenta non poche difficoltà intrinseche. Innanzitutto non è assolutamente vero che è possibile applicare la ricorsività ad libitum, come un'operazione reiterabile un numero infinito di volte. Certo, i grammatici generativi sono i primi a sostenere che la ricorsività presenta limiti pratici, ma de facto questa loro precisazione rimane lettera morta: essi non ne tengono conto in concreto, sostenendo a spada tratta il principio romantico della mente umana infinita, illimitata e senza vincoli di sorta. Lo studio dei casi concreti ci racconta una storia diversa. Moro et alteri citano come un significativo esempio di ricorsività il testo della famosa canzone di Angelo Branduardi, Alla Fiera dell'Est, che si ispira alla tradizione ebraica: 

E infine il Signore, sull'Angelo della Morte, sul macellaio, che uccise il toro, che bevve l'acqua, che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò. 

L'originale è un canto pasquale noto come Chad Gadya, ossia "Un Capretto", redatto in una lingua singolare che sembra un misto di ebraico e aramaico. Appartiene al tipo delle canzoni cumulative, in cui una struttura metrica semplice viene modificata tramite aggiunte successive, cosicché ogni verso è più lungo del precedente. Si tratta senza dubbio di una costruzione artificiosa (alcuni direbbero che è una pippologia - cosa senza dubbio un po' irrispettosa - o un gioco escogitato da qualche bell'ingegno per stupire i commmensali). Sfido chiunque a usare simili concatenazioni verbali nel linguaggio di tutti i giorni. Esiste un limite invalicabile all'uso di meccanismi ricorsivi in grado di incassare proposizioni in altre proposizioni o anche soltanto di accostare tra loro diversi segmenti. Dopo un certo numero di iterazioni, un ascoltatore si sente un Neanderthal e perde il filo del discorso, immancabilmente: gli elementi incorporati o saldati in altro modo contribuiscono a formare architetture contorte in modo diabolico, oltre che prive di qualsiasi utilità concettuale.

Non possiamo definire "processo innocuo" l'incassamento o incorporazione di segmenti, come ad esempio frasi subordinate (ipotassi), o la giustapposizione di frasi coordinate (paratassi). Questo modo di enunciare il pensiero umano presenta anzi numerose complicazioni anche interpretative. Spesso sorge il dubbio che la ricorsività spinta sia stata favorita artificialmente dal mondo scolastico e che non sia poi qualcosa di così innato e naturale come i chomskiani vorrebbero. Grammatica universale dell'unica Lingua Umana? Ma anche no. Prova ne sia un fatto scomodo: non poche persone inciampano nel meccanismo ricorsivo e producono frasi senza senso. La sorgente del linguaggio di Homo sapiens sarà anche pura e cristallina, ma la sua estrinsecazione reale non somiglia affatto a un abisso senza fondo, in cui possono essere travasati interi oceani a proprio piacimento; somiglia piuttosto all'uretra di un uomo venereo affetto da gonorrea, che diviene angusta e piena di cavernule - o a un intestino colpito dal morbo di Crohn, in cui abbondano occlusioni e diverticoli, con tratti in necrosi e altre similari amenità.  

Non è necessario incassare frasi oltremodo elaborate per generare assurdità marchiane: bastano anche elementi meno complessi. Può essere ambigua la ricorsività aggettivale (quella di segmenti come "una bella, grande e accogliente dimora"). Altrettanto ambigua può rivelarsi la ricorsività possessiva (quella di segmenti come "il pelo del cavallo della figlia del barone"). Del resto i chomskiani considerano una manifestazione di ricorsività linguistica già la semplice applicazione dell'operatore logico denominato merge, ossia in pratica la stessa giustapposizione di due parole in una frase semplice del tipo soggetto + verbo (es. "i cadaveri puzzano"). Fanno questo per togliersi dalle ovvie difficoltà del caso, potendo esistere combinazioni di ricorsività di diversi tipi, che generano problemi senza fine e che non sono universali nel complesso panorama delle lingue umane.

Fornisco alcuni semplici esempi di ambiguità meritevoli di essere commentati, tratti dalla lingua italiana. Il primo proviene dal linguaggio disarticolato dei giornalisti: 

L'uomo era stato arrestato per aver compiuto la truffa su ordine della magistratura di Siracusa. 

Con tutto il rispetto, a leggere il titolo sembra che sia stata la magistratura di Siracusa ad aver ordinato all'uomo di compiere la truffa! Questo non è un modo corretto di fare informazione.

Il giornalista strutturava così la frase: 

<L'uomo era stato arrestato> [per aver compiuto la truffa] <su ordine della magistratura di Siracusa>. 

Credeva che fosse evidente riferire il segmento <su ordine della magistratura di Siracusa> alla proposizione principale <l'uomo era stato arrestato>. Cosa ho invece inteso io quando ho sentito l'annuncio? Questo: 

<L'uomo era stato arrestato> [per aver compiuto la truffa su ordine della magistratura di Siracusa]. 

In questo caso, su ordine della magistratura di Siracusa si riferisce alla truffa! Nel mio cervello si è mosso all'istante il comando dell'esilarazione: mi sono messo a ridere per una buona mezz'ora.

L'ambiguità si risolve facilmente riformulando la frase in questo modo:

L'uomo era stato arrestato su ordine della magistratura di Siracusa per aver compiuto la truffa.  

Certo, in questo caso c'è un po' troppa distanza tra il verbo era stato arrestato e il segmento per aver compiuto la truffa, che descrive la causa dell'azione.  

Passiamo a un secondo esempio, anch'esso proveniente dal linguaggio destrutturato dei giornalisti: 

Il cadavere è stato trovato nell'appartamento in avanzato stato di decomposizione.  

Il giornalista avrebbe potuto evitare di farmi esplodere in un accesso di riso convulso, semplicemente annunciando: 

Il cadavere in avanzato stato di decomposizione è stato trovato nell'appartamento. 

Naturalmente, ogni individuo con capacità mentali nella norma sa che a decomporsi sono i cadaveri, non gli appartamenti. Possiamo anche formulare: 

Il cadavere è stato trovato in avanzato stato di decomposizione nell'appartamento. 

Però così facendo rimane un'ambiguità residua, dato che si potrebbe pensare di raggruppare in avanzato stato (di decomposizione nell'appartamento) anziché (in avanzato stato di decomposizione) nell'appartamento. In questo caso, il cadavere avrebbe potuto essere anche trovato in un parco pubblico, a patto che fosse giunto a un avanzato stato di decomposizione mentre si trovava in un appartamento. Ancora una volta, soltanto il buon senso riesce a risolvere il problema. 

Il tema della decomposizione dei cadaveri ha prodotto frasi giornalistiche anche più ambigue. Questa, per esempio:

Una donna di 48 anni con patologie psichiatriche gravi è rimasta chiusa in casa con il cadavere del padre morto da un circa mese in totale stato di decomposizione. 

Il padre della donna è morto in totale stato di decomposizione? Oppure è il mese ad essere in tali poco augurabili condizioni? 

Le cose si fanno ancor più grottesche quando entrano in gioco le mirabili proprietà degli aggettivi. Anche un semplice aggettivo può infatti essere problematico, visto che i giornalisti hanno la brutta tendenza di farlo migrare a proprio piacimento all'interno della frase. Prendiamo questo esempio: 

Il marito cornuto della contessa le ha ucciso l'amante. 

Naturalmente non si può dire:

Il marito della contessa cornuto le ha ucciso l'amante. 

Ci sono diverse soluzioni. La prima è usare una diversa intonazione (in cui sia amante che cornuto hanno il pieno accento sulle loro sillabe toniche), marcata nella grafia dall'uso della virgola: 

Il marito della contessa, cornuto, le ha ucciso l'amante. 

Altrimenti, se contessa cornuto fosse un tutt'uno fonetico in cui l'accento principale cade su cornuto, saremmo costretti a interpretare così: 

Il marito della contessa Cornuto le ha ucciso l'amante.

In tal caso, Cornuto sarebbe proprio il cognome della contessa fedifraga. 

In ultimo, un giornalista abbastanza creativo potrebbe pensare di migrare lo scomodo aggettivo cornuto alla fine della proposizione. In tal caso avremmo: 

Il marito della contessa le ha ucciso l'amante cornuto. 

Ciò non avrebbe il benché minimo senso, perché da che mondo è mondo sono i mariti a essere resi cornuti dalle mogli che si fanno l'amante, non gli amanti ad essere resi cornuti dal sesso fatto dalle mogli coi propri mariti, ritenuto legittimo dalle religioni e dalle leggi del mondo. E se la contessa avesse avuto un secondo amante? Beh, in tal caso l'amante ucciso avrebbe avuto le corna a causa del rivale. Tuttavia non si capisce perché il consorte della nobildonna ninfomane non abbia ucciso entrambi gli amanti, accanendosi anzi sul più sfortunato.  

Letto sul Corriere della Sera

Erdoğan porta in spalla la bara di un suo amico ucciso durante i funerali delle vittime del golpe. 

Che significa? Che l'amico è stato ucciso durante i funerali? Il giornalista voleva dire che Erdoğan ha portato in spalla la bara dell'amico durante i funerali in questione. Il termine "ucciso", riferito alle circostanze della morte dell'amico di Erdoğan, genera tuttavia una grave ambiguità. Infatti è possibile interpretare così:

<Erdoğan porta in spalla la bara di un suo amico> [ucciso durante i funerali delle vittime del golpe].

Vediamo che si comprende qualcosa di errato, ossia si è indotti a pensare che l'uccisione dell'amico di Erdoğan sia avvenuta durante i funerali delle vittime del golpe, e che lo statista turco possa aver portato in spalla la bara dell'amico in una diversa occasione. Ad esempio durante una conferenza stampa.

Anche le etichette più semplici, se male usate, provocano paradossi. Basti pensare a queste frasi:

Trovata cura per tumore al seno non metastatico.
In aumento i casi di tumore al pancreas metastatico.


Certo, è chiaro che "metastatico" e "non metastatico" sono etichette riferite alla neoplasia, non alla parte del corpo colpita. Eppure il cervello tenta di fare l'associazione a prima vista più improbabile, analizzando le frasi in questo modo:

<Trovata cura per tumore> [al seno non metastatico].
<In aumento i casi di tumore> [al pancreas metastatico].


Avremmo dunque a che fare con un "seno non metastatico" e con un "pancreas metastatico", il che è del tutto fuorviante, anche se logicamente ben fondato. Ancora una volta possiamo porci una domanda: era poi così difficile enunciare il concetto con frasi non ambigue? Eccole:

Trovata cura per tumore non metastatico al seno.
In aumento i casi di tumore metastatico al pancreas.  


Se uno indagasse a fondo, si perderebbe in un universo grottesco. Una volta mi sono imbattuto in una casetta per uccelli antincendio. Ospita stormi di colibrì che trasportano in minuscoli ditali l'acqua per spegnere gli incendi, seguono i corsi di educazione civica e ripetono all'infinito: "Faccio la mia parte! Ognuno deve fare la sua!"
Ci sono problemi persino con la famosa focaccia di Recco al formaggio. Questo è un breve dialogo tratto da Invasori dallo Spazio di Acciaio, un mio romanzo di fantascienza erotico-satirica, che non è mai stato pubblicato:


- L’uomo assisté all’uccisione del figlio impotente – commentò il Topo, come se stesse leggendo i messaggi che un suggeritore nascosto gli mostrava su uno schermo piatto.
- E come mai il figlio impotente è stato ucciso? – iniziò a cavillare il Cinque Cervelli. Il Topo non rispose utilizzando la logica, ma pronunciò un nuovo paradosso in stile giornalistico. Era prigioniero, non si rendeva conto dell’inconsistenza.
- Ho mangiato una focaccia di Recco al formaggio – disse.
Il Cinque Cervelli obiettò subito: - Quindi sei stato in un luogo che si chiama “Recco al Formaggio” per mangiare una focaccia?
- No, credo che fosse una focaccia condita con formaggio di Recco – specificò il Topo.
- Diamine – esclamò il Cinque Cervelli – Ma potrebbe essere stata anche una focaccia di Recco condita con un formaggio generico, magari non di Recco. Magari gorgonzola.
- Quindi una focaccia al gorgonzola di Recco – concluse il Topo.
- Non si è mai prodotto gorgonzola a Recco – affermò ironico il Cinque Cervelli.


Le conclusioni che possiamo trarre sono a dir poco deprimenti. E pensare che l'italiano è facilitato dalla presenza di uscite aggettivali spesso distinte per genere, che evitano molte ambiguità. Provate a pensare a cosa accadrebbe se si facesse un uso disinvolto di una lingua che non distingue il genere degli aggettivi e che non ha una sintassi rigidissima! Altra conclusione è questa: Moro dovrebbe concludere che l'italiano corrente non è una lingua pienamente ricorsiva, perché produce frasi secondo regole che i parlanti non riescono più a comprendere bene. Certo, potrebbe sempre sostenere, come spesso fanno i chomskiani, che noi siamo programmati per comprendere enunciati ricorsivi, e che non è colpa di nessuno se poi ne produciamo di gravemente difettosi e se il nostro potere di ricorsione linguistica non è infinito. Allora come può sostenere, di fronte a una concreta fallibilità, l'esistenza di un archetipo eterno che nessuno ha mai potuto misurare? Sarebbe come fantasticare di un'isola perfetta fatta di cristallo, descrivendone le coste con grande dettaglio, senza che nessuno possa mai fornire nemmeno la più esile prova della sua esistenza. Se Karl Popper fosse qui, direbbe che i discorsi di Moro e del suo mentore, l'ashkenazita americano, non possono essere falsificati. In realtà potrebbero essere falsificati benissimo, come ho dimostrato. l punto è che non serve a nulla, è come la lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento. Questo perché nel loro idealismo, i grammatici generativi rifiutano di considerare come tale ogni falsificazione delle loro teorie.

Quando Alessandro Manzoni codificò la lingua italiana perché divenisse la lingua del Regno d'Italia, fu sfiorato dal presentimento di sviluppi aberranti? Probabilmente no. Non ebbe neppure un vaghissimo sentore del fatto che le cose sarebbero finite in modo tanto squallido.  La sua lingua, che aveva con tanta cura risciacquato nell'Arno, è stata ridotta a una pseudolingua giornalistica! E cosa direbbe Dante Alighieri se sapesse che secoli dopo la Commedia si sta qui a borbottare di seni non metastatici e di magistrature che ordinano di compiere truffe?

Già quanto ho finora esposto è ricco di indizi assai solidi del fatto che la grammatica generativa di Noam Chomsky non è una teoria dotata di credibile fondamento scientifico; può invece essere ascritta al vasto reame della Pseudoscienza.