mercoledì 31 luglio 2019


RAMI SECCHI

Piero Angela sostiene che il solo fine di un essere umano è la riproduzione. Egli ritiene che una persona senza progenie sia qualcosa di inutile, un ramo secco dell'Evoluzione. Quindi, seguendo simili premesse evoluzionistiche e neopositiviste, recidere un ramo secco non sarebbe affatto un male, bensì il compimento dell'opera della Natura, ovvero la rimozione di qualcosa che pesa sulla società. Da questo pensiero allo sterminio di massa tramite iniezioni letali o alle camere a gas il passo è brevissimo. Il tutto senza nessuna necessità di affermare una qualsiasi forma di razzismo, senza propugnare la selezione di una fantomatica razza eletta, senza evocare lo spettro di Adolf Hitler a ogni piè sospinto e soprattutto senza cambiare le istituzioni vigenti. Senza che la costituzione muti di un iota e mantenendo intatta l'impalcatura democratica delle nazioni, sarà possibile cancellare la vita di chiunque per ragioni a cui nessuno sembra pensare anche solo per un attimo. Il genocidio non riguarderà soltanto gli anziani e i malati cronici di ogni genere: un giorno per finire terminati potrebbe bastare essere single e non aver generato. Quello che le genti non possono capire è che la radice del genocidio prossimo venturo è sempre rimasta operante e indisturbata. Nessuno si è reso conto dell'esistenza di questo serpente, la cui radice è eminentemente darwinista.

domenica 28 luglio 2019


CARNE

Titolo originale: Carne
Paese di produzione: Francia
Anno: 1991
Durata: 40 min
Rapporto: 2.35 : 1
Genere: Drammatico
Regia: Gaspar Noé
Soggetto: Gaspar Noé
Sceneggiatura: Gaspar Noé
Produttore: Les Cinémas de la Zone
Fotografia: Dominique Colin
Montaggio: Lucile Hadžihalilović
Musiche: Olivier Le Vacon
Interpreti e personaggi:
    Lucile Hadžihalilović: infermiera
    Blandine Lenoir: figlia del macellaio
    Philippe Nahon: macellaio
    Frankie Pain: padrona del locale
    Hélène Testud: cameriera
Sottotitoli in italiano: ZiaMarti & deadkennedys (TnTvillage)
Premi e riconoscimenti: 
    Prix George Sadoul 1991
    Prix des Rencontres Cinématographiques Franco-
         Américaines d'Avignon 1991


Sinossi:
Riporto in questa sede la didascalia che appare all'inizio, in caratteri gialli su uno sfondo scuro e opprimente: 

La viande de cheval, interdite dans la plus part des pays du monde, est pourtant très appréciée du peuple français. Des chevaux provenant des quatre coins du monde, sont quotidiannement dépecés puis commercialisés dans les deux milles boucheries chevalines de France. Cette chair, de nature douceâtre, a la réputation d'être la plus saine des viandes rouges.
Mais par préjugé, à cause de son prix modéré et de sa teinte violacée, certains l'appelent "CARNE".
 

Anche se il francese è soltanto un dialetto del latino volgare, proprio come l'italiano, e per questo dovrebbe essere ben comprensibile a tutti, riporto la traduzione a cura di ZiaMarti e dei deadkennedys: 

La carne di cavallo, proibita nella maggior parte dei paesi del mondo, è invece particolarmente apprezzata dal popolo francese. I cavalli provenienti dai quattro angoli del mondo sono quotidianamente fatti a pezzi e la loro carne messa in vendita nelle duemila macellerie cavalline della Francia. Questa carne di natura dolciastra ha la reputazione di essere tra le carni rosse più salutari in assoluto, ma per pregiudizio a causa del suo prezzo basso e del suo colore violaceo, alcuni la chiamano "CARNE".  


Trama:
È la tetra storia di un macellaio in cui non brilla neppure un barlume dello Spirito. Fatto senza il Verbo, egli è un puro e semplice golem, è come un ammasso di creta semovente mosso dai demoni. Questo essere brutale e osceno ingravida un'operaia, che fugge da lui lasciandogli il frutto della concupiscenza. Così il macellaio gestisce il suo negozio e cresce da solo la figlia, visibilmente ritardata e incapace persino di verstirsi. La lava e cerca di fare di tutto per trattenere la propria natura animalesca, che lo spingerebbe a consumare un rapporto incestuoso. Accade un giorno che la giovane, sconvolta dal suo primo menarca, raggiunge il padre in macelleria. Lui crede che lei sia stata stuprata da un garzone, un saraceno. Così lo raggiunge e gli assesta una pugnalata in corpo. Non riesce nel suo intento omicida, ma viene gettato in carcere. Perde la macelleria e la figlia, incapace di badare a se stessa, viene ricoverata in un manicomio. Scontata la pena, l'energumeno trova lavoro come cameriere in un bar gestito da una procace bionda di mezz'età, con cui finisce con l'avere una relazione. Qui viene la parte più tremenda... 


Recensione: 
Fin dal primo istante ci si trova immersi nell'angoscia e nell'incubo. Quella mostrata da Carne è una realtà degradata, un vero e proprio deserto ontologico. Non sembra nemmeno che sulla sua desolazione splenda lo stesso sole che l'abitudine ci spinge a considerare una preziosa fonte di luce. Persino i colori non sono normali, sembra che tutto viri verso un rosso fosco, quasi bruno, di certo allo scopo di imitare l'aspetto della carne equina sanguinolenta. La colonna sonora è inquietante, induce frenesia. Ho come una certezza in me, emersa dapprima in modo subliminale e poi sempre più esplicito, che in realtà l'intera vicenda non si svolga sul nostro stesso pianeta, bensì in qualche profondissimo recesso delle Tenebre Esteriori.

Alcune note etimologiche

Nel francese gergale, il vocabolo carne "carne equina" è chiaramente un prestito dall'italiano. Si tratta di un doppione di chair "carne", che invece si è evoluta come naturale esito dal latino carnem, forma accusativa di caro "carne". Nei sottotitoli in italiano questa opposizione si perde, dato che sia chair che carne vengono resi nella lingua di Dante con un'unica parola: carne

Una grande verità 

A un certo punto, in uno dei momenti più drammatici della pellicola, il brutale macellaio si protende verso la prosperosa donna bionda che ha davanti a sé. Si slaccia la patta. Prima che che la penetri, stantuffando dentro il suo canale procreativo e riempiendola di sperma, compare lo sfondo nero con una scritta che inchioda lo spettatore:  

LA PLUPART DES EMRYONS SONT CONÇUS PAR ACCIDENT.

La maggior parte  degli embrioni sono concepiti accidentalmente.

Un monito che andrebbe scolpito nel marmo e affisso ad ogni angolo di strada! Eppure l'uomo continua. Verso la fine della pellicola lo vediamo possedere more ferarum l'amante che ormai odia e disprezza - e lo fa con una certa violenza, sempre iniettandole il genetico nella matrice fertile. E pensare che la donna bionda avrebbe potuto soddisfare l'uomo usando la bocca, senza correre il pericolo di rimanere fecondata, senza immettere nel mondo un nuovo dannato! Evidentemente l'energumeno non apprezza neppure la sensuali voluttà della fellatio: in lui tutto è genoma fremente, teso come un argano di balestra da campo. Nessuna consapevolezza, nemmeno l'ombra di un pensiero. Soltanto il buio bestiale di un golem. Non è neppure la bramosia del piacere a muovere quel corpo immane, ma il comando del DNA e in ultima analisi la forza da cui ha origine: IL TERRORE DELLA MORTE! 

giovedì 25 luglio 2019


THE CHIMP

Anno: 1932
Regia:
James Parrott 
Produzione: Hal Roach 
Sceneggiatura: Harley M. Walker
Distribuzione: Metro-Goldwin-Mayer
Dialoghi: Harley M. Walker
Fonico: Elmer Raguse
Durata: 25 min 13 sec
Genere: Comico
Interpreti e personaggi:  
  Stan Laurel e Oliver Hardy, nei panni di sé stessi;
  Charles Gemora (la gorilla Ethel);
  Tiny Sandford (Destructo, il forzuto del circo);
  Jimmy Finlayson (presentatore dei numeri circensi);
  Billy Gilbert (proprietario della pensione);
  Dorothy Granger (Ethel, moglie del proprietario);
  Bobby Burns (pensionante).
Titolo in italiano: Il circo è fallito 

Comicità anarchica 

I copioni dei cortometraggi prodotti da Hal Roach, aventi per protagonisti Laurel e Hardy, subivano aggiustamenti e modifiche durante le riprese. Una cosa tutto sommato naturale e niente affatto rara nel mondo del cinema. Secondo quanto si legge in Laurel and Hardy: The Magic Behind the Movies, di Randy Skretvedt (Bonaventure Press, 2019), ciò accadeva spesso allorché si trattava di testi scritti da Harley M. Walker, accreditato come autore dei dialoghi di “The Chimp”.
L’espressione che meglio si presta a descrivere questo cortometraggio è “comicità anarchica”.
Non vi è traccia alcuna della melassa profusa a piene mani da Charlie Chaplin in “The Circus” (1928): a regnare è il gusto per la sovversione dei ruoli e delle regole, in barba a tutti i canoni.
Per questo “The Chimp”, a quasi novant’anni dalla sua realizzazione, conserva una sorprendente freschezza, cosa che non si può certo dire di opere coeve o posteriori.
Nel cast si segnalano alcuni straordinari caratteristi presenti in altri cortometraggi di Hal Roach. Mi riferisco anzitutto a James Finlayson, l’attore calvo coi baffoni ben noto ai fan di Laurel e Hardy.
Nel ruolo del proprietario della pensione troviamo il bravissimo Billy Gilbert, che molti di voi ricorderanno nei panni del medico ospedaliero in “County Hospital” (1932). Merita una menzione anche Stanley J. "Tiny" Sandford nella parte del forzuto del circo (nel 1933 lo ritroveremo sul set di “Busy Bodies”).
Straordinaria l’interpretazione della gorilla Ethel da parte di Carlos Cruz “Charles” Gemora. Era, questi, un immigrato filippino di piccola statura dalle spiccate doti artistiche. Trovò lavoro come scultore e truccatore a Hollywood e, in seguito, come attore, sempre indossando un costume da gorilla.
In questo ruolo ebbe modo di recitare accanto a Lon Chaney in “The Unholy Tree”, di Jack Conway (1930); Bela Lugosi in “Murders of the Rue Norgue”, di Robert Florey (1932); i Fratelli Marx in “At the Circus”, di Edward Buzzell (1939); Robert Mitchum in “White Witch Doctor”, di Henry Hathaway (1953). 

Pietro Ferrari


Trama: 
Stan e Oliver lavorano presso un circo equestre come inservienti. A causa della loro proverbiale inettitudine provocano il crollo del tendone, facendo fallire il circo. L’impresario, a corto di quattrini, annuncia ai dipendenti che non potendo pagarli in denaro suddividerà fra loro i beni del circo. A ciascuno verrà assegnato ciò che saprà disegnare su un foglio. Oliver si ritrova così proprietario di Ethel, una simpatica e intelligentissima femmina di gorilla; Stan del “circo delle pulci”, una scatoletta piena di insetti molesti. Mentre Oliver tenta di fabbricare con delle assi una gabbia per Ethel, si materializza un leone che prende a inseguire il bizzarro terzetto. Dopo una lunga corsa per le vie della città, i fuggitivi giungono nei pressi di una pensione il cui proprietario, proprio in quel mentre, è in preda a una crisi di gelosia furiosa poiché la moglie, che di nome fa Ethel proprio come la gorilla, è andata chissà dove e tarda a tornare. Mentre Oliver si accinge a firmare il registro degli ospiti, piombano nella hall Stan e Ethel, terrorizzati dal riapparire del leone. Il proprietario dà in escandescenze e intima loro di uscire. A questo punto non resta ai due che ingegnarsi. Oliver entra in una rimessa, si spoglia e fa vestire Ethel con i propri pantaloni, la giacca e il cappello. Lui, a sua volta, indossa la gonna di tulle di Ethel (che è una provetta ballerina). A vestizione conclusa, Stan e la scimmia riescono a farsi ammettere alla pensione. Mentre Oliver attende un segnale dell’amico, vede ricomparire il leone. Urlando per il terrore riesce, non si sa bene come, a chiudere il felino nella rimessa. Stan si affaccia alla finestra e Oliver gli fa segno di lanciargli i propri abiti: l’imbranatissimo Stan lancia i pantaloni dritti su un filo steso poco più sotto. Nel tentativo di recuperarli, Stan e Ethel cadono entrambi addosso al povero Oliver. Dopo aver abbandonato Ethel nei pressi di un cassonetto, i due amici tornano alla pensione. Arrampicandosi per la grondaia, Ethel raggiunge la finestra della loro stanza e vi si introduce, andandosi poi stendere nello stesso letto dove dorme Oliver, cui schiocca un bacio sul collo. Questi lancia un urlo e scaccia la scimmia, dicendole di andare a coricarsi nello sgabuzzino. Ethel obbedisce, ma non senza aver sottratto a Oliver la coperta. A questi non rimane che coricarsi accanto a Stan. Dopo pochi istanti i due cominciano a grattarsi: Stan ha lasciato inavvertitamente aperta la scatola del “circo delle pulci”! Nel frattempo, in una stanza vicina, un anziano pensionante mette in funzione un grammofono. Nell’udire il motivo musicale, Ethel si mette a ballare trascinando con sé Stan nella danza. Oliver esorta ripetutamente Ethel a tornare a letto. Il proprietario della pensione, che ancora rimugina sopra il ritratto della moglie fedifraga, nell’udire le parole di Oliver crede che siano rivolte alla “sua” Ethel e, impugnata una pistola, si precipita verso la stanza dei due amici, intimando loro di aprire la porta. I due fanno appena in tempo a nascondere Ethel nel letto della stanza accanto, quand’ecco che il proprietario fa saltare la serratura con una pistolettata e irrompe nella stanza gridando “Dov’è lei?”. “Lei chi?” replica basito Oliver. “La mia Ethel!” Stan indica senza esitazioni la stanza accanto. Il proprietario, scorgendo una figura nascosta sotto le coperte, attacca una vera e propria filippica – il cui effetto comico è moltiplicato dalle espressioni stupefatte di Stan e Oliver. “Pensa a quello che mi hai fatto, tu, che porti il mio nome, tu, la madre dei miei figli! Tu che io amo più della vita stessa!” In quel preciso istante la moglie del proprietario, rientrata a casa con l’aria trionfante della moglie infedele reduce da un appuntamento con l’amante, fa il suo ingresso nella stanza attirata dal vociare del marito. Questi nel vederla esclama: “Ethel!”. La gorilla, sentendo pronunciare il proprio nome, esce da sotto le coperte. La Ethel depilata scappa in preda al terrore e il marito, per lo spavento, lascia cadere a terra la pistola gridando a Stan e Oliver di portar via la scimmia. Ethel, stanca di tutto quel baccano, afferra la pistola e si mette sparare una gragnuola colpi sul pavimento, facendo fuggire tutti quanti.


Pietro Ferrari 


Alcune considerazioni

Ricordo di aver visto questo filmato quando ero ancora allo stadio larvale! Ne rammento anche un altro, in cui Oliver finiva immerso in una piscina piena di un elisir ringiovanente, emergendone come uno scimpanzé: una splendida satira al darwinismo! Peccato che queste comiche siano sempre state associate alla più estrema superficialità, quando in realtà contengono fulgidi tesori.  

Una constatazione lapalissiana 

Il titolo originale del corto cozza in modo stridente con il fatto che Ethel, la scimmia protagonista, non è affatto uno scimpanzé (genere Pan), bensì un gorilla (genere Gorilla). La forma abbreviata chimp, derivata da chimpanzee, è documentata per la prima volta nel 1877. Il nome esteso chimpanzee è documentato in inglese già nella prima metà del XVIII secolo (1738) e deriva da una lingua Bantu del Congo o dell'Angola (cfr. Kikongo chimpenzi "scimmia") - anche se attualmente non risulta che l'ominide sia presente sul territorio dell'ex colonia portoghese. Come mai il cortometraggio mostra una simile confusione tra grosse scimmie? La risposta è abbastanza semplice: non ci si può aspettare che una persona di cultura anche media avesse, nella prima metà del XX secolo, l'acume e le conoscenze di un tassonomo. Non è poi escluso che la scelta abbia avuto una sua componente estetica: The Gorilla non sarebbe suonato bene come The Chimp.

domenica 21 luglio 2019


L'ORDINE DEL TEMPO 

Autore: Carlo Rovelli 
Anno: 2017
Genere: Saggio
Sottogenere: Divulgazione scientifica

Temi: Fisica
Editore: Adelphi Edizioni 
Collana:
Piccola Biblioteca Adelphi, 705
Edizione: 11ª ediz. 
Pagine: 207 pp.
Illustrazioni: 37
Codice ISBN: 978-88-459-3192-5
Traduzioni:
    Inglese: The Order of Time
    Francese: L'Ordre du temps
    Spagnolo: El orden del tiempo

Risvolto:

Come le Sette brevi lezioni di fisica, che ha raggiunto un pubblico immenso in ogni parte del mondo, questo libro tratta di qualcosa della fisica che parla a chiunque e lo coinvolge, semplicemente perché è un mistero di cui ciascuno ha esperienza in ogni istante: il tempo. E un mistero non solo per ogni profano, ma anche per i fisici, che hanno visto il tempo trasformarsi in modo radicale, da Newton a Einstein, alla meccanica quantistica, infine alle teorie sulla gravità a loop, di cui Rovelli stesso è uno dei principali teorici. Nelle equazioni di Newton era sempre presente, ma oggi nelle equazioni fondamentali della fisica il tempo sparisce. Passato e futuro non si oppongono più come a lungo si è pensato. E a dileguarsi per la fisica è proprio ciò che chiunque crede sia l'unico elemento sicuro: il presente. Sono tre esempi degli incontri straordinari su cui si concentra questo libro, che è uno sguardo su ciò che la fisica è stata e insieme ci introduce nell'officina dove oggi la fisica si sta facendo.  

«Pensiamo comunemente il tempo come qualcosa di semplice, fondamentale, che scorre uniforme, incurante di tutto, dal passato verso il futuro, misurato dagli orologi. Nel corso del tempo si succedono in ordine gli avvenimenti dell'universo: passati, presenti, futuri; il passato è fissato, il futuro aperto... Bene, tutto questo si è rivelato falso»

Indice: 

Forse il mistero più grande è il tempo   13

PARTE PRIMA. LO SFALDARSI DEL TEMPO   17

1. La perdita dell'unicità   19
    Il rallentare del tempo   19
    Diecimila Śiva danzanti   22

2. La perdita della direzione   26
    Da dove viene l'eterna corrente?   26 
    Calore   28
    Sfocare   32

3. La fine del presente   39
    Anche la velocità rallenta nel tempo   39
    Adesso non significa nulla   41
   La struttura temporale senza il presente   45

4. La perdita dell'indipendenza   55
    Cosa succede quando non succede niente?   55
    Cosa c'è dove non c'è niente?   64
    La danza di tre giganti   68

5. Quanti di tempo   73
    Granularità   74
    Sovrapposizioni quantistiche di tempo   78
    Relazioni   79

PARTE SECONDA: IL MONDO SENZA TEMPO   83

6. Il mondo è fatto di eventi, non di cose   85

7. L'inadeguatezza della grammatica   93

8. Dinamica come relazioni   102
    Eventi quantistici elementari e reti di spin   107

PARTE TERZA: LE SORGENTI DEL TEMPO   113

9. Il tempo è ignoranza   115
    Tempo termico   117
    Tempo quantistico   120

10. Prospettiva   125
     Siamo noi a girare!   125
     Indicalità   131

11. Cosa emerge da una peculiarità   137
     È l'entropia, non l'energia, a trascinare il mondo   137
     Tracce e cause   143

12. Il profumo della madeleine   147

13. Le sorgenti del tempo   163

La sorella del sonno   173

Note   179

Indice analitico 201

L'autore

Fisico teorico, membro dell'Institut universitaire de France e dell'Académie internationale de philosophie des sciences, Carlo Rovelli è responsabile dell'Équipe de gravité quantistique del Centre de Physique théorique dell'Università di Aix-Marseille. Ha pubblicato, fra l'altro, Che cos'è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (2011), La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose (2014) e, presso Adelphi, Sette brevi lezioni di fisica (2014), che è stato tradotto in 40 lingue. 

Recensione: 

Un mio collega, il buon G., mi parlò anni fa delle idee sulla natura del tempo sostenute da Rovelli. Ne descrisse l'impalcatura metafisica come una forma di eternismo non tensionale o B-eternismo. Secondo Rovelli, così mi disse G., il tempo non esiste, il succedersi degli attimi non è reale. Quindi presente, passato e futuro sono tutti definiti allo stesso identico modo, non esiste tra loro alcuna vera differenza ontologica - dato che il senso di scorrimento da noi sperimentato è illusorio. In altre parole, ciò che noi chiamiamo "presente", "passato" e "futuro" sono soltanto diverse configurazioni che coesistono nel medesimo spazio. A questa concezione si oppone il presentismo, che reputa reale soltanto il presente (il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora). Provando una forte idiosincrasia verso le ontologie temporali eterniste - e in particolare verso il B-eternismo - devo confessare agli eventuali lettori che mi sono avvicinato all'opera di Rovelli non soltanto per puro caso, ma anche con un certo pregiudizio. Mi sono imbattuto nel volumetto dalla copertina di un piacevole color mattone in una libreria valdostana che sono solito frequentare d'estate, tra una giornata di camminate e l'altra. L'ho subito comprato e con mia grande sorpresa ne ho trovato la lettura entusiasmante. La sintesi rovelliana ha allargato senza dubbio i miei orizzonti, facendomi comprendere molte cose di capitale importanza sulla natura del tempo. Una cosa mi ha presto stupito: quanto affermava G. non era nemmeno vero, nasceva soltanto da un comune fraintendimento. Se Carlo Rovelli non è un presentista, non è neppure un eternista; in particolare non è affatto un B-eternista, sarebbe riduttivo e inesatto ritenerlo tale. Il problema è che ad occuparsi della natura del tempo sono soprattutto i filosofi, che non sono al contempo anche fisici. In pratica il microcosmo accademico dei fisici e quello dei filosofi neppure si parlano. Raccomando quindi la lettura dell'opera di Rovelli a chiunque sia interessato ad indagare il Mistero del Tempo, che è indissolubilmente legato al problema della nostra stessa esistenza - il cui significato ultimo permane sconosciuto. Il linguaggio è piacevole e mai ostico, la trattazione è spesso arricchita da pregevoli versi poetici di svariati autori. Ci sono anche schemini con immagini dei Puffi!!  

Il Tempo di Newton e la sua fine 

Ecco l'equivoco fondante, di natura squisitamente linguistica: quando si afferma che "il tempo non esiste", sia allude al Tempo di Newton - non al fatto innegabile che gli eventi si presentano in una successione ordinata. La locuzione Tempo di Newton si applica all'idea di tempo concepito come una dimensione assoluta, come il contenitore che contiene tutto ciò che esiste - potendo anche non contenere nulla, essendo la sua definizione indipendente dalla presenza o meno di enti nello spazio. Questo tempo-contenitore, immaginato come a priori rispetto all'esistenza, è considerato identico in tutto l'universo fisico, cosicché è possibile dire che in un dato istante misurato da un orologio, gli eventi che ricorrono sulla Terra sono simultanei a quelli che ricorrono su un pianeta di Alpha Centauri - e allo stesso identico modo sono sumultanei a quelli che ricorrono sul quasar più remoto, ben oltre qualsiasi capacità umana di osservazione. Questa idea sostenuta dal buonsenso comune, che in un certo qual senso ha fatto grande l'Occidente permettendone il progresso tecnologico, è crollata come un castello di carte. Non ha potuto reggere al lavorio del metodo scientifico. Albert Einstein ha dimostrato la natura illusoria del Tempo di Newton, riducendolo al rango di una costruzione mentale legata alla nostra percezione fallace dell'essenza delle cose. Il tempo non è indipendente dallo spazio. Il tempo è una dimensione di uno spazio quadridimensionale, lo spazio di Minkowski. Materia ed energia sono due facce della stessa moneta, legate tra loro dalla celeberrima equazione E = mc2. La massa influenza lo scorrere del tempo misurato dagli orologi. Più si procede velocemente, più il tempo misurato dagli orologi rallenta. Non esistono dimensioni assolute, scorrelate l'una dall'altra. L'Occidente non si è mai più ripreso da una simile crisi ontologica. Ancora oggi c'è chi stigmatizza Einstein e la sua opera, paragonando la Relatività generale al sesso infantile di Sigmund Freud e alla lotta di classe di Karl Marx. Costoro accusano lo scienziato di Ulm di aver fatto precipitare il genere umano nell'irrazionalità e nel Caos. Eppure è vano il loro sfuriare. Quando nel Cielo si è prodotta una crepa, la frattura non sarà mai ricomposta. Quando una torre crolla, le pietre che la compongono non torneranno mai più al loro posto.

Tempo e termodinamica

Eppure, nonostante la morte del Tempo di Newton la domanda continua a risuonare angosciante. "Da dove viene l'eterna corrente?", si chiede l'autore, citando alcuni versi di Rilke. Come spiegare la nostra esperienza presentacea? Come spiegare il nesso tra causa ed effetto, come spiegare quella realtà che possiamo chiamare Freccia del Tempo? La risposta, pur essendo concettualmente semplice, non è affatto banale. La radice di tutto è nel calore. Il meccanico classico maneggia soltanto equazioni che sono invarianti rispetto al tempo, non comparendo in esse alcuna differenza tra il presente e il passato: così un moto uniformemente accelerato diventa un moto uniformemente decelerato invertendo il presente e il passato, come se misurassimo il tempo con un orologio le cui lancette procedono in senso antiorario. Entrambi i movimenti sono fisicamente possibili, allo stesso identico modo. Quando però si parla di calore, le cose cambiano. Il calore passa spontaneamente dal corpo più caldo a quello più freddo. Invertendo il presente e il passato, misurando il tempo con un orologio le cui lancette si muovono in senso antiorario, si descrive qualcosa di antifisico. Come Rovelli fa notare, dovunque nell'universo compare il tempo come variabile non invertibile, vi appare per incanto anche il calore. Il secondo principio della termodinamica parla chiaro: 

  «È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo senza l'apporto di lavoro esterno.» (formulazione di Clausius).
  «È impossibile realizzare una trasformazione ciclica il cui unico risultato sia la trasformazione in lavoro di tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea.» (formulazione di Kelvin-Planck).
 «È impossibile realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%.» 


In questa irreversibilità risiede la radice stessa della Freccia del Tempo, lo scoglio su cui si infrangono i sogni dei B-eternisti, quell'ingombrante presenza che permette di ordinare gli eventi che occorrono nell'universo fisico, di distinguere il prima e il poi, il passato, il presente e il futuro di ogni osservatore. La sua origine è termodinamica!

Mi si perdonerà, immagino, se non userò un linguaggio rigoroso - ma reputo che sia troppo importante esprimere la penetrante intuizione che mi è derivata dalla lettura del trattato di Rovelli. Si tratta di cose che ho dedotto, non mi limito a riportare in modo pedissequo quanto ho letto. Si tratta di un'elaborazione critica simile a un processo di ruminazione, o forse piuttosto di fermentazione, da cui infine è scaturito un diamante splendente come il sole.   

Si può esemplificare così il funzionamento della Freccia termodinamica del Tempo:  

1) Il futuro è in tutto e per tutto coincidente con l'entropia. Quando diciamo di ignorare il futuro, non proferiamo una banalità, ne definiamo la vera e più intima essenza. Le variabili che definiscono questo immenso reame sono sfocate, non le possiamo conoscere in alcun modo - non per mancanza di adeguati strumenti d'indagine, bensì per impossibilità definitoria.

2) Il presente somiglia in modo sorprendente a una misura quantistica, ossia al collasso della funzione d'onda di Schrödinger. Per questo lo sperimentiamo come qualcosa di netto, puntiforme, che ci sembra privo di estensione e di sostanza, pur essendo tutto ciò che definisce il nostro essere.  

3) Il passato  somiglia in modo sorprendente a un processo di filtraggio quantistico. Tutto ciò che nasce dal collasso della funzione d'onda, procede verso l'annientamento fino a diventare irriconoscibile. Alla fine raggiunge il suo estremo orizzonte, che è come un buco nero, un inghiottitore cosmico che tutto stritola e rende inconoscibile.

In buona sostanza, l'esistenza nel suo farsi è qualcosa che viene dall'Ignoranza e finisce nel Nulla.

Davvero splendida la parte in cui Rovelli esplora le fondamenta stesse della realtà, l'Universo senza Tempo. Lo descrive con alata fantasia come un tessuto cavernoso. Proprio come quello che compone il membro virile e che ne permette l'erezione. Questa è proprio la mia impressione. Le strutture subatomiche da cui emerge la Freccia termodinamica del Tempo sono paragonabili nella loro essenza a parti infinitesimali di uno spermodepositore gigantesco, immane!   

Eternismo e presentismo:
non esiste un vero conflitto

Il dibattito tra presentisti ed eternisti, che infuria tra i filosofi avvelendando gli animi, è ora della fine insostanziale. Questo perché non esiste e non può esistere un osservatore assoluto. L'ontologia temporale, questa è la conclusione a cui sono giunto dopo anni di meditazioni incessanti, dipende proprio dall'osservatore - anzi, lo definisce. Noi siamo figli della Freccia termodinamica del Tempo, che definisce la nostra esistenza. Non possiamo e non potremo mai osservare questo universo fisico stando all'esterno della Freccia del Tempo. Quindi per noi vale il presentismo. Il nostro essere è presentista. Per noi passato, presente e futuro hanno nature drammaticamente dissimili. Non sono equivalenti. Non hanno la stessa ontologia. Per noi, figli della Freccia termodinamica del Tempo, davvero esiste soltanto il presente. Per un'entità che stia al di fuori di questo spazio-tempo di Minkowski e che lo osservi, potrà benissimo valere invece una forma di eternismo, forse addirittura di B-eternismo: vedrà tutti gli esseri viventi, tutti i dettagli delle loro misere esistenze e dell'evoluzione del Cosmo come bizzarre geometrie spaziali. Per questo essere il nostro presente, il nostro passato e il nostro futuro non sono altro che pareti, cunicoli o pavimenti in un dedalo tortuoso multidimensionale! 

giovedì 18 luglio 2019


CONTRO I BEI TEMPI ANDATI 

Titolo originale: C'était mieux avant!
Anno: 2018
Autore: Michel Serres
Lingua originale: Francese
Genere: Saggio
Editore: Bollati Boringhieri
Collana: Temi
Traduzione: Chiara Tartarini
Codice ISBN: 8833929922
Codice EAN: 978-8833929927
Formato: Paperback
Pagine: 74 pp. 

Sinossi (da www.bollatiboringhieri.it): 
A ottantasette anni compiuti, ovunque celebrato tra i più acuti epistemologi dei nostri giorni, Michel Serres rivendica per sé un unico privilegio: sconfessare motivatamente chiunque deprechi il presente in nome di un passato migliore. Catastrofisti e declinisti di ogni risma sono avvertiti. Non sarà consentito loro alcun vagheggiamento del buon tempo andato. Ogni nostalgia del «prima» dovrà mostrare il proprio volto ipocrita di difesa di prerogative acquisite e chiusura preconcetta al nuovo. Così Vecchio Brontolone, eroe negativo di questo pamphlet, è incalzato senza tregua dal suo coetaneo Serres, che gli fa sgranare le litanie edulcoranti dell’«eh, una volta sì che...», per il gusto di rivoltarle una a una. Figlio della profonda provincia francese, Serres li ha vissuti, quei tempi decantati, ma a differenza della gran parte dei professori suoi colleghi ha conosciuto la guerra mondiale e coloniale, la malnutrizione, la durezza del lavoro che sfiancava il corpo, la difficoltà degli spostamenti, l’esistenza stentata in ambienti malsani, dove alle donne erano riservati perlopiù sudore, sottomissione e ignoranza.
Le conquiste di civiltà tanto macroscopiche quanto sottovalutate dai passatisti – il balzo della speranza di vita, la sensibilità ecologica, la parità di genere, i progressi giganti dell’igiene e della medicina – sono perfettibili, certo. Ma perché dimenticare gli oltre settant’anni di pace, condizione eccezionale nella storia d’Europa? Serres e la sua giovanissima eroina positiva, Pollicina, che con il cellulare tiene in mano il mondo intero, parteggiano per una vita dolce e lieve, solo adesso possibile. Se è ottimismo, non presenta però tratti di ingenuità. È combattente, argomentato, trascinante come il brio occitano di una prosa che non ha eguali.


Indice:

  Caudillo, duce, Führer, grande timoniere..., 10
  Guerra e pace, 11
  Ideologie, 14
  Contratto naturale, 17
  Stato eccitato della società, 18
  Malattie, 21
  Vita e morte, 23
  Intensive e palliative, 24
  Pulizia, igiene, 25
  Donne, 28
  Maschi al lavoro, 29
  La pattumiera degli attrezzi, 32
  Lavandaie e mestole, 35
  Gru, 36
  Re dello scacciamosche, 40
  La schiena contadina, 42
  Convitti, 43
  I viaggi ordinari, 45
  Comunicazioni, 47
  Concentrazione e distribuzione, 49
  Provenienza alimentare, 51

  Lingue e accenti, 54
  Abiti e giacigli, 56
  Sessualità, 57
  La fata elettricità, 59

  Bruttura e bellezza, 60
  Parlavamo tra di noi, aspettando, 62
  I media, 63
  Da capo: ritorno al politico, 65
  Grandezza delle specie, 67
  Piccolezza, 69
  L'onda che l'arrecò impaurita si ritrae, 72
  L'invio, 73

Recensione:  
Sembrava promettente. L'ho adocchiato in una libreria in Valle d'Aosta, poi mi sono finalmente deciso a comprarlo. Ebbene, ne sono rimasto deluso. Avrei fatto meglio a spendere quei soldi in alcolici. Un libro tedioso, di una noia assoluta e mortale dalla prima parola all'ultima. In aggiunta a ciò, le argomentazioni dell'autore non trasformano certo Martino il Manicheo nel dottor Pangloss. Premetto una cosa: sono perfettamente consapevole del fatto che non bisogna provare nostalgia di epoche mai vissute. Questo però non significa che il presente sia il Paese della Cuccagna, una terra incantata in cui non esiste alcun male. Quella che contesto è l'impostazione pinkeriana dell'opera. Serres è in larga misura debitore a Steven Pinker, il moderno Maiale Clarinetto che decanta senza sosta le magnifiche sorti e progressive. Come a dire: in passato c'era il vaiolo, c'era il colera e non si riusciva a tenere la merda lontana dal piatto, quindi adesso dobbiamo metterci a ballare l'hula hoop perché abbiamo la nutella. Certo, Serres dimostra un'innata sobrietà che gli fa onore. Non arriva agli eccessi di Pinker, l'allegro ashkenazita che è arrivato a ritenere gli Yanomami dell'Amazzonia il popolo più violento della Terra, citando soltanto le percentuali di morti violente e omettendo l'esigua consistenza numerica delle tribù. Capiamo anche perché Bolsonaro ha appeso nel suo studio il ritratto di Pinker e non quello del pensatore francese.  

Ogni generazione vedrà sempre il proprio presente come un tempo malvagio e si struggerà costantemente di nostalgia per i tempi andati, perché questo è insito nel genoma di Homo sapiens. Si tratta di quella stessa istruzione genetica che rende ogni individuo della nostra specie insoddisfatto della propria condizione e lo spinge a cercarsi problemi a non finire, inventandosene anche dove non ce ne sono. La facoltà motrice potremmo ben chiamarla "paranoia". Siamo una specie paranoica - oltre che semi-intelligente. Ogni sguardo che un essere umano dà alla realtà delle cose è distorto. E lo sarà fino alla Fine dei Tempi, piaccia o no a Serres, a Pinker e ai seguaci del panglossismo militante. Ha quindi pochissimo senso puffare il presente e dimostrare che è meglio del gargamellesco passato.

La mia tesi è tutto sommato abbastanza semplice, seppur poco intuitiva. Il passato e il presente sono essenzialmente incomparabili. Non è possibile nemmeno descriverli usando lo stesso linguaggio. Differiscono in modo radicale per categorie ontologiche. Di fatto il passato e il presente sono universi in toto dissimili, come se non fossero neppure riducibili alle stesse leggi fisiche.

Anni fa ho sentito un vecchiaccio lamentarsi del pane, a sua detta cotto male. Eppure era pane di frumento, che nei "bei tempi andati" era privilegio del Re e dei suoi nobili, al massimo dei borghesi più floridi. Il vecchiaccio aveva vissuto i tempi della Guerra e sperimentato sulla propria pelle le lunghe code per ricevere la propria razione di pane nero della tessera annonaria (80-85% di abburattatura). Un pane duro che faceva schifo, oggi non lo mangerebbe nemmeno un clochard. Nonostante ciò, passato tanto tempo, le lamentele andavano al pane di frumento. Vedete che distorsione percettiva?
Se il vecchiaccio in questione - ormai tumulato - avesse letto il libro di Serres, non avrebbe cambiato idea: avrebbe continuato a lamentarsi dell'abbondanza del presente per agognare la carestia del passato.


Anni fa ho ascoltato le lamentele di un anziano muratore (in milanese müradur o müraduu, ossia colui che dirige i lavori): quando era un giovane manovale (in milanese magütt, ossia colui che lavora con cazzuola e malta), tutto sarebbe stato meglio. "Ci si aiutava di più", continuava a borbottare. E poi: "Tutto era più buono. Quando tornavo dal lavoro, a notte fonda, mia moglie mi faceva trovare la tavola imbantita imbandita di ravioli". Tutto era più buono perché da giovane le papille gustative gli funzionano bene, perché quando si invecchia si perde anche la metà della capacità di percepire i sapori. Le tavole imbandite di ravioli erano una pia fantasia, anzi, una menzogna palese. In tempi di carestia, voglio proprio vedere come un magütt potesse ingozzarsi di alimenti sopraffini. Vedete come si possono distorcere anche i ricordi?  
Se il muratore in questione avesse letto il libro di Serres, non avrebbe cambiato idea: avrebbe continuato a lamentarsi dell'abbondanza del presente per agognare la carestia del passato.

Per capire fino in fondo i tempi andati, è necessario sapere qualcosa di come ci si puliva lo sfintere anale dopo aver defecato. Suppongo che fosse al di là di ogni immaginazione per un marito leccare alla moglie o a un'amante quel buchino che oggi ci appare tanto adorabile e sensuale. Troppo forte era l'associazione alle latrine, alle esalazioni escrementizie e al penetrante odore che le accompagnava, quello dell'acido fenico! Non dimentichiamo che persino tra coniugi l'intimità era handicappata da mille tabù e proibizioni. Esistevano infiniti disgusti, che rendevano impraticabili anche contatti oggi molto diffusi e naturali, come ad esempio la fellatio. Anche perché lo smegma era un dato di fatto, una costante del moto. Sì, i genitali erano spesso cosparsi di una pasta bianchiccia dall'odore schifoso di formaggio, che si addensava fino a formare pupazzetti! A chi sarebbe venuta voglia di leccare simili brutture? Ora mi pongo una domanda. Perché Serres non scende così nel dettaglio? Perché non riesce a infrangere la barriera della vergogna. Si limita a parlare dei fortissimi tabù un tempo imperanti, che si traducevano in bislacchi eufemismi: il reggiseno era il "reggigola" (francese soutien-gorge), i piedi erano le "estremità" e via discorrendo. Trovo interessante un aneddoto del filosofo occitano. Un'eroina della Resistenza, vistosamente gravida, chiedeva al medico da dove le sarebbe uscito il bambino, stupendosi nel sentirsi rispondere che la via di uscita era la stessa via dell'uccello seminatore. Che dire poi di quella coppia che dopo un'accurato interrogatorio da parte del medico curante ammise di aver consumato per anni rapporti sessuali usando l'ombelico anziché la vagina? Adesso mi si deve spiegare quale reale comunicazione a livello verbale o anche solo di pensiero potrebbe mai sussistere tra una persona della prima metà del XX secolo e una persona dell'epoca di Pornhub. Certo, oggi possiamo nominare e leccare tutto, anche se il politically correct non ci fa respirare. 

Interessante la descrizione su alcune norme igieniche. Nelle campagne le camicie e la biancheria si lavavano due volte in un anno, diventando prima gialle virando infine verso il fecale (Serres, pudibondo, parla di color "isabella" - opposto a "cande", aggettivo attribuito dei panni appena lavati). I bambini, che non avevano ancora sviluppato il senso del disgusto, si mettevano in bocca le dita sporche di merda ogni volta che i puritani genitori distoglievano lo sguardo: così facendo contraevano la poliomielite e rimanevano storpi (eh sì, all'epoca si usava questa parola senza provare alcun senso di colpa). Tale malattia invalidante, per chi non lo sapesse, è provocata da un virus a trasmissione oro-fecale. Ho fatto in tempo a vedere, durante i miei anni giovanili, non pochi ragazzi con le conseguenze tremende di una poliomielite subita nell'infanzia, ridotti a camminare con le stampelle o peggio ancora a trascinarsi su una carrozzina. Adesso non se ne vedono più, il virus è stato combattuto e sconfitto - non senza fatica. Meglio non proseguire, prima che i cospirazionisti più stravaganti traggano spunto da quanto scritto in questa sede: potrebbero cominciare a dire che la poliomielite è scomparsa perché non si ciucciano più le dita cosparse di escrementi! Finisco anche la recensione, che rischia di diventare più lunga dell'opera originale!

lunedì 15 luglio 2019


SEROTONINA

Autore: Michel Houellebecq
Titolo originale: Sérotonine
Anno: 2019
Lingua: Francese
Tipologia narrativa: Romanzo
Genere: Distopico, esistenziale 
Editore: La nave di Teseo
Collana: Oceani
Traduzione (in italiano): Vincenzo Vega
Traduzione (in inglese): Shaun Whiteside
Codice EAN: 9788893447393 

Sinossi (da Googlebooks):
Florent-Claude Labrouste è un quarantaseienne funzionario del ministero dell'Agricoltura, vive una relazione oramai al tramonto con una torbida donna giapponese, più giovane di lui, con la quale condivide un appartamento in un anonimo grattacielo alla periferia di Parigi. L'incalzante depressione induce Florent-Claude all'assunzione in dosi sempre più intense di Captorix, grazie al quale affronta la vita, un amore perduto che vorrebbe ritrovare, la crisi della industria agricola francese che non resiste alla globalizzazione, la deriva della classe media. Una vitalità rinnovata ogni volta grazie al Captorix, che chiede tuttavia un sacrificio, uno solo, che pochi uomini sarebbero disposti ad accettare.


Recensione: 
Il sacrificio a cui Florent-Claude Labrouste si sottopone è lo stesso che Giulio Cesare, magistralmente interpretato da John Wayne, in un vecchio film storico rinfaccia a un astronomo egiziano. In poche parole, si tratta della castrazione. Una castrazione chirurgica, nel caso dell'uomo di Scienza della corte di Cleopatra. Una castrazione chimica, ma non meno efficace, nel caso del dipendente del Ministero dell'Agricoltura. Impotenza assoluta indotta dal farmaco. Il Captorix, per l'appunto. Quando una cantante bionda e prosperosa si inginocchia davanti al protagonista nel corso di un incontro dopo tanti anni di separazione - e gli prende in bocca l'uccello - ecco che lo spermodepositore flaccidissimo non mostra segni di vita. Dopo qualche minuto d'insistenza, la fellatrice smette di lavorare il glande con le labbra e con la lingua: capisce che non c'è più niente da fare. Gli ex amanti si lasciano quindi come se tra di loro ci fosse sempre stato soltanto il più mortificante tra i possibili rapporti tra maschio e femmina: ciò che con infame eufemismo è denominato "amicizia". Com'è risaputo, l'animale che le donne più odiano è il camoscio: se si imbattono in un esemplare, serbano rancore per tutta la vita. Il teatrino mi è parso davvero buffo. Nella mia fantasia mi sono immaginato la donna con tratti simili a quelli di una melomane e grandissima cornificatrice, che ha ornato il cranio del marito di palchi colossali, da fare invidia a un cervo gigante della megafauna pleistocenica. Labrouste non è soltanto quello che il Necchi chiamava "un non trombante". Il Captorix, inutile girarci intorno, è uno strumento di lobotomia chimica. Dovrebbe limitarsi a stimolare la produzione di serotonina (l'ormone della felicità). Il sospetto è che in pratica lesioni il lobo frontale. Ecco perché impedisce di sentirsi avvolti dal nero e oleoso tocco della depressione. Così Houellebecq definisce la pillola magica partorita dal suo ingegno:      

«È una piccola compressa bianca, ovale, divisibile. Non crea né trasforma; interpreta. Ciò che era definitivo, lo rende passeggero; ciò che era ineluttabile, lo rende contingente.»

E ancora:
«non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo, ma trasformando la vita in una serie di formalità aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire, per qualche tempo.» 

L'impotenza assoluta è un effetto collaterale che nessuno a quanto pare sa spiegarsi, un'ironia del Diavolo. Lo scrittore francese tenta persino un abbozzo di spiegazione pseudoscientifica o, meglio, di pseudospiegazione scientifica. Lo stravagante dottor Azote, il cui cognome significa "Senza Vita", rivolge queste parole al suo paziente: 

«Comunque vorrei che facesse un prelievo di sangue, per controllare il tasso di testosterone. Di norma dovrebbe essere bassissimo, la serotonina prodotta per mezzo del Captorix inibisce la sintesi del testosterone, contrariamente alla serotonina naturale, non mi chieda come mai perché non se ne sa niente.» 

Eppure, anche seguendo questa terapia, il misero travet è ben lungi dall'essere diventato un puffo! Continua a vedere il mondo come l'ammasso escrementizio che è.

«In Occidente nessuno sarà più felice, pensava ancora, mai più, oggi dobbiamo considerare la felicità come un’antica chimera, non se ne sono più presentate le condizioni storiche.» 

Una lucida quanto annichilente disamina della nostra condizione. Apparteniamo a una civiltà moribonda, il cui exitus non è lontano. Crolleremo sotto il peso di infinite criticità. Senza contare una cosa che forse potrà apparire banale ma non lo è. Chi ha detto che abbiamo il diritto di essere felici?    

Una nipponica antropofaga e genocida    

Il protagonista ha un crollo esistenziale quando scopre la verità sulla sua compagna, la giapponesina di nome Yuzu. La donna d'Oriente ha lasciato traccia delle sue imprese erotiche in alcuni densi filmati in formato mp3, che inviava alle sue amiche. Praticava le gangbang spermatiche: decine di uomini si masturbavano intorno a lei nuda e inginocchiata, per poi scaricarsi a turno nella sua bocca e sulla sua faccia. Lei ingurgitava il liquame seminale, uccidendo milioni di spermatozoi nell'acido del suo stomachino, per poi avviarli con la peristalsi alle fetide caverne del suo ventre serico, finendo col trasformarli tutti in merda! Prendeva l'essenza stessa di ogni uomo, ciò che contiene tutte le istruzioni per replicarne una copia, un clone, quindi con un'operazione di Magia Nera degradava tale codice genetico, riducendolo a scoria, a schifosissima abominazione. Quando un amante si accingeva a leccare l'ano di Yuzu, sul roseo sfintere c'erano particelle microscopiche che recavano traccia della degradazione stercorale degli homunculi inghiottiti! Questi esserini agonizzanti, destinati a morire asfissiati già al loro scaturire nella bocca della donna, dopo qualche ora fuoriuscivano come terriccio pastoso dall'orifizio tanto desiderato da altri uomini ansiosi di sburrare, rinnovando il ciclo del sacrificio a Moloch! Non basta. La giapponesina non si limitava ad amanti umani. Si faceva possedere carnalmente da grossi cani! Mentre ciucciava la rubizza virilità di un esemplare robusto, credo un pitbull, un altro animale nerboruto, se non erro un alano, faceva scivolare i suoi corpi cavernosi nella vagina accogliente della ninfomane nipponica. Alla fine usciva il materiale genetico canino. Anche in questo caso gli spermatozoi eiettati nel cavo orale venivano trangugiati a boccate e condotti nel loro luogo di digestione, verso la nemesi dell'assimilazione e del rifiuto. I caldi girini che inondavano il vaso procreativo, nell'impossibilità di fecondare un ovulo, morivano tutti soffocati, lentamente, in un'agonia estenuante. E pensare che Labrouste è sempre stato perplesso dalla complessità e dalla stranezza della vulva della sua compagna. Per questo motivo preferiva consumare la sua vita di coppia intrudendo il fallo nel retto femminile ben lubrificato. Le papule sul glande subivano lo sfregamento con le aspre superfici degli stronzi formati nell'ultimo tratto intestinale e già pronti all'evacuazione. Scavando nell'anfratto merdoso, ecco che il miracolo si ripeteva ogni volta: una marea di seme invadeva la spelonca stercoraria, tingendosi di bruno da candida che era, contaminandosi e consumandosi in un'ecatombe inenarrabile di creature uccise. Crema di aborti mista a bruttura fecale! Ovviamente mi faccio beffe della dottrina dell'homunculus, professata dai tristi fetolatri di Verona: reputo il seme un po' di muco che esce da un budellino. Ho però dimostrato che è possibile utilizzare la morte degli spermatozzi (sic) per produrre bizzarre creazioni letterarie, che dovrebbero far meditare sulla nullità della natura umana. Tra i pochi lettori capitati qui per caso, spero che qualcuno abbia avuto un'erezione leggendo queste righe morbose.

Etimologia di Captorix 

Trovo davvero bizzarro l'aspetto fonetico del nome del farmaco houellebecquiano, che ricorda i famosi antroponimi celtici in -rīx "Re". Possiamo ricostruire un antroponimo gallico *Caχtorīx "Re dei Prigionieri" (-χ- trascrive una forte aspirazione): la cosa è ancor più sorprendente dal momento che *caχtos "prigioniero; schiavo" (antico irlandese cacht, gallese caeth) è proprio la naturale evoluzione di un precedente *captos, che troviamo anche nel latino captus "preso" e captīvus "prigioniero". L'antroponimo gallico trascritto come Moenicaptus dimostra che il gruppo -pt- era conservato in qualche variante della lingua: ecco che *Captorīx diventa un nome del tutto credibile! Sarà un purissimo caso? Non mi si dica che Houellebecq conosce il gallico! Come mai anche in autori che non sembrano avere conoscenze di lingue antiche, paiono emergere frammenti di nozioni occulte che hanno tutta l'aria di provenire da mondi perduti? Caso? Coincidenze? Sincronicità junghiana? Entanglement quantistico? Oppure queste cose accadono perché la vita che viviamo non è altro che un incubo delirante? Ne sono sempre più convinto: quest'ultima è la spiegazione giusta. Forse un giorno mi sveglierò e capirò tutto!

L'istinto del leone 

A un certo punto, allo scopo di riconquistare una sua vecchia fiamma, Labrouste è preso da una forza irresistibile quanto aberrante. Vuole uccidere il figlio piccolo della donna, un'affascinante morettina, sperando assurdamente di poter indurre in lei il calore e di poterla così fare nuovamente sua. Studia tutto nei minimi particolari: si reca in un albergo abbandonato che si trova non lontano dalla casa in cui la sua amata vive col figlio, per poter colpire il giovanissimo con un fucile di precisione e stroncare la sua vita. Proprio quando l'orrido piano sembra scattare e andare in porto, subentra un tremore della mano che lo fa fallire. L'uomo è preso da una subitanea onda d'orrore e si ritrae. La forza inumana che lo aveva posseduto fino a pochi istanti prima si è ormai dileguata per sempre. È proprio quella stessa forza che spinge i maschi dei leoni a trucidare i cuccioli che la leonessa ha generato in precedenti relazioni! Cosa sperava di ottenere in realtà? Credeva davvero che tutto si sarebbe aggiustato se avesse compiuto l'infame delitto? Non si rendeva neanche più conto di essere impotente a causa del Captorix? In realtà lui voleva vendicarsi. Voleva punire la donna che lo aveva abbandonato per concepire un figlio con uno sconosciuto, agendo spinta dal Genio della Specie. Con questa scelta, lei aveva rifiutato il suo ex amante, dichiarandone il fallimento biologico. Lo aveva marchiato con un epiteto che brucia anche dopo decenni: SFIGATO.

L'estinzione del ceto medio 

Serotonina non è soltanto un affresco a tinte foschissime di questo malaugurato presente: è anche un geroglifico di un futuro ben più spaventoso che incombe su tutti noi. Descrive un fatto che può essere considerato un portento funesto per l'intero Occidente: il declino del ceto medio. Questa classe sociale di grande importanza langue sempre più in situazioni critiche e si avvia verso l'annientamento. Credo che la cosa sia sotto gli occhi di tutti. Molti anni fa lessi su un libro di storia romana qualcosa che mi colpì in modo profondo. Secondo l'autore, Carlo Bornate (1871 - 1959) uno dei segni del declino dell'Impero Romano fu la scomparsa dell'ordine equestre. Proprio gli Equites, ossia i Cavalieri, costituivano il ceto medio di Roma. Si collocavano a metà strada tra i plebei e i patrizi, costituendo una specie di cuscinetto che attutiva le frizioni sociali. Era proprio l'ordine equestre a permettere l'esistenza e la tenuta dell'ascensore sociale, quel mirabile meccanismo che evita la stagnazione con tutte le sue funeste conseguenze. Fame, tumulti, tirannia e peste! Possiamo ben capire che dal blocco dell'ascensore sociale scaturisce sempre la rovina: poveri sempre più poveri e senza garanzia alcuna di potersi sostentare, plutocrati sempre più ricchi e strapotenti. Piove sul bagnato e altrove imperversa la peggiore siccità. I Gilets jaunes non sono poi così diversi dai Bagaudae dell'epoca imperiale, dal momento che si sono formati dallo stesso ribollente calderone di insicurezza e di disperazione. Ora come allora la causa ultima del disastro è soltanto una: la globalizzazione.  

Un goffo predatore sessuale 

Tra le tante cose strane, Houellebecq descrive un esemplare di paedoraptor. Non si tratta di un rettile preistorico come il velociraptor che tutti abbiamo visto nella saga di Jurassic Park. A prima vista il predatore è in tutto e per tutto simile a un professore tedesco sulla quarantina, che fa sfoggio di un certo lusso. Labrouste si imbatte in lui nel corso di una vacanza nel Cotentin. Non fa la sua conoscenza di persona, certo, si limita a guardarlo da lontano col binocolo. Così scopre che ogni giorno il paedoraptor accoglie nel suo bungalow una bambina sui dieci anni. La giovinetta dà l'impressione di essere avvezza a questo tipo di rapporti. Evidentemente ha appreso come fare qualche soldo manipolando gli uccelli. Così Labrouste approfondisce le indagini, fino ad approfittare dell'uscita del predatore, penetrando così nel suo bungalow, che era stato lasciato aperto. Qui si mette alla tastiera del computer, ovviamente non protetto da password alcuna, accedendo così al materiale pedoporno come se nulla fosse. Il professore tedesco rientra in quel mentre e trova l'intruso, ma non può ovviamente far valere il proprio diritto alla privacy. Labrouste biascica che non parlerà, che non lo denuncerà, approfittando della sorpresa dell'altro per fuggire via a gambe levate. Di lì a poco il pedosauro balza sulla macchina e fugge via con addosso un terrore folle. Si converrà che tutto l'impianto narrativo è a dir poco implausibile.    

Un gravissimo errore 

Vantando la sua smisurata cultura musicale ed elargendola con generosità ai bibliofagi, il geniale Houellebecq scivola su un grosso pezzo di sterco. Per la precisione si tratta di una gigantesca torta di vacca. Certo, non sarà appetitosa come i grassi e unti dolciumi di Gianni M., ma comunque meglio non calpestarla. Unico in tutto il Web ad aver notato la marchiana incongruenza è l'amico C., ossia Cesare Buttaboni. In poche parole riassumo l'accaduto. Quando Labrouste incontra dopo tanti anni il suo compagno di sventure universitarie, il gagliardo normanno Aymeric Florent, i loro discorsi virano sulla musica. A un certo punto il protagonista descrive la passione del nobile per i Pink Floyd e menziona Ummagumma come "il disco della mucca". Cosa c'è di sbagliato? In fondo tutti noi ricordiamo un famoso disco dei Pink Floyd con una bella mucca pezzata in copertina. Il punto è che quel disco non si intitola Ummagumma. Come giustamente il Buttaboni mette in evidenza, è sulla copertina di Atom Heart Mother che compare il famigerato bovino dal manto bianco e nero, dotato di smisurate ghiandole lattifere! Ecco a voi la recensione buttaboniana, la cui lettura raccomando vivamente a tutti:


La domanda che mi pongo è questa: davvero un sapiente come Houellebecq ha potuto commettere un simile svarione? A parer mio, anche se non ne ho prova alcuna, lo ha fatto apposta. Ha ingannato volutamente i lettori. Il motivo non è difficile da comprendere. Noi viviamo ormai un'intera esistenza navigando nel Web ma non sappiamo davvero nulla. Sono passati da un pezzo i tempi in cui la conoscenza la si doveva sudare! Internet è diventato una protesi del nostro cervello, ma il suo funzionamento è fallace. Questo ci vuole insegnare Houellebecq: "Io posso inserire un'informazione falsa, ad esempio posso dire che I miserabili è un romanzo di Alexandre Dumas padre, perché tanto ciò che ho scritto se lo berranno tutti, come una fellatrice spermatofaga manda giù una boccata di sburra da uno sconosciuto in un glory hole!"  

Etimologia di Yuzu  

Mark Montagna di Zucchero, col suo solito paternalismo, ha provveduto a rendermi edotto sull'origine del nome della giapponesina spermatofaga e bestialista erotica. Mi è infatti apparsa, un giorno, la pagina di un sushi bar milanese che pubblicizzava un sake assai peculiare, il cui nome era proprio Yuzu. Si spiegava che yuzu in giapponese è il nome dato a un agrume simile al bergamotto e alla leggera bevanda alcolica che se ne ottiene. La parola in questione, scritta ユズ o 柚子, è un prestito dal coreano yuja (유자), che a sua volta proviene dal cinese yòuzi (柚子) "pomelo". Il peculiare agrume, il cui nome scientifico è Citrus junos, sarebbe originario della Cina centrale e del Tibet, dove cresce anche allo stato selvatico. Sarebbe un ibrido tra il mandarino (Citrus reticulata) e il limone di Ichang (Citrus ichangensis). Durante la dinastia Tang (618 - 907 d.C.) fu introdotto in Corea e quindi in Giappone. Proprio nel Paese del Sol Levante sono state selezionate alcune varietà della pianta, a fini ornamentali Una di queste varietà è chiamata yukô (日本語) e non si trova altrove; lo yuzu fiorito (hana yuzu, 花柚子) è coltivato per i suoi fiori, belli e profumati, mentre lo yuzu leone (shishi yuzu, 獅子柚子) ha frutti con una spessa scorza nodosa.

Microrecensioni e reazioni nel Web

Sul sito www.ibs.it numerosi lettori hanno espresso le loro opinioni. Ce ne sono davvero tante e sono piuttosto eterogenee, mi limito a riportarne alcune: 

Raffaele ha scritto: 

"Libro che divide. O si ama, o si odia."

Simone ha scritto: 

"Houellebecq ha perso mordente. Certo, la sua scrittura asciutta e dissacrante riesce ad evitare la noia, e tutto sommato si legge bene. Però non succede nulla. Ma veramente nulla, nonostante per tutto il tempo ci si attenda un qualcosa che sembra essere nell'aria. Evitabile, a meno che non si sia realmente suoi fan. Ed io lo sono."

Ruud ha scritto:

"La lettura di Houellebecq è sempre spiazzante e disturbante: al di là del continuo e costante indugiare sul sesso, le storie dello scrittore francese costituiscono una veritiera rappresentazione delle nevrosi dell'uomo occidentale moderno, anche ripetutamente profetica per certi versi." 

Antonio Iannone ha scritto: 

"La depressione deprime, per utilizzare una tautologia, ovvero: costringe gli uomini a osservare, non con il nichilismo divertito che tanti consensi brandisce, bensì con la crudezza di un “cuore messo a nudo” l’annientamento di qualsiasi prospettiva. Florent-Claude sopprime una-per-una tutte le possibilità della vita; quelle che non sopprime, sopprimono lui. Il lamento si fa ecolalico, diviene a tutti gli effetti allarme del male. «Non bisogna lasciar crescere la sofferenza oltre un certo livello», confida. Non resta che la fuga, geografica, psichica: romanzesca. "Serotonina" è forse l'opera più narrativa di Houellebecq." 

Carmine ha scritto: 

"Romanzo depresso e deprimente, senza trama nè struttura, una manciata di argomenti buttati dentro a caso (pedofilia, quote latte, psicofarmaci) ma che non hanno la forza di essere provocatori. Un protagonista sempre sull'orlo del suicidio che a un certo punto sarebbe auspicabile, soprattutto quando vorrebbe uccidere un bambino (cosa totalmente senza senso, anche all'interno di un contesto già abbastanza privo di senso). Serotonina è un capolavoro? No, semplicemente Houellebecq non ha più niente da dire, il suo pensiero era già tutto nei romanzi precedenti. Solo con dei contorsionismi intellettuali è possibile attribuire un significato a questo brutto romanzo."

Lorenzo ha scritto:

Sarà ormai ripetitivo, quello che volete, ma un libro di Houellebecq rimane un libro di Houellebecq: da leggere.