Visualizzazione post con etichetta noam chomsky. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta noam chomsky. Mostra tutti i post

giovedì 31 gennaio 2019

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE LINGUE IMPOSSIBILI: IL CASO DEL PIRAHÃ

La lingua Pirahã (o Mura-Pirahã) è parlata dall'omonima esigua popolazione che vive in una zona remota dell'Amazzonia brasiliana. Unica superstite nota delle lingue Mura, prive di parentele esterne dimostrabili, ha suscitato un vespaio di polemiche tra i settari chomskiani per via della sua stravagante natura, che sembra violare un principio capitale della cosiddetta grammatica universale. La notizia è circolata in tutto il mondo: la lingua dei Pirahã ignora la ricorsività linguistica. Vediamo di riassumere le informazioni rilevanti nel modo più sintetico possibile.

1) La lingua Pirahã ha una struttura fonetica particolarmente semplice: il suo inventario di fonemi è in assoluto uno dei più poveri finora riscontrati tra gli idiomi del genere umano. Le vocali sono soltanto tre: /a/, /i/, /o/. Alcuni fonemi consonantici hanno allofoni molto diversi tra loro, ma questo non cambia le cose, trattandosi di varianti condizionate dalla posizione nella parola (es. si pronuncia [m-] all'inizio di una parola e [-b-] nel mezzo; si pronuncia [n-] all'inizio di una parola e [-g-] nel mezzo, etc.). Esiste una consonante glottidale /Ɂ/, che nell'ortografia più comune è trascritta con x.

2) La lingua Pirahã, come quella dei Nambiquara, non possiede veri numerali e in ogni caso non è possibile designare quantità maggiori di due. È stata definita "una lingua senza numeri". A quanto riportato nel 1986 da Daniel L. Everett, un missionario che passò molti anni tra quelle genti e infine divenne ateo, ci sono soltanto due parole per esprimere concetti attinenti ai numeri; per giunta il loro aspetto fonetico è estremamente simile, essendo distinte soltanto dall'intonazione. Esse sono hói "uno" e hoí "due", "paio". Nel 2008, in seguito alle ricerche eseguite sul campo da Michael C. Frank, si è appurato che in realtà hói più che "uno" significherebbe "poco" o anche "meno", mentre il quasi omonimo hoí significherebbe "più di uno", "qualche". Per fissare le idee, se dessimo a un Pirahã dieci savoiardi e subito dopo ce ne riprendessimo due, i biscotti rimasti sarebbero indicati con la parola hói - proprio perché sono meno di quelli che c'erano prima. Ogni quantificazione risulta impossibile. Stando così le cose, si capisce che concetto stesso di numero tra i Pirahã è a dir poco nebuloso. Possiamo dire che le api hanno le idee più chiare!

3) Nella lingua Pirahã manca qualsiasi distinzione tra singolare e plurale nei sostantivi e negli aggettivi. I pronomi personali plurali umani si formano aggiungendo ai pronomi personali singolari una sorta di suffisso, -a(i)tiso, che non sono riuscito a ricondurre a parole per indicare "molti" o simili. I pronomi di terza persona per indicare esseri non umani sono invariati al plurale. Tra l'altro, i pronomi personali umani sembrano proprio essere prestiti, forse non troppo remoti, dalla Língua Geral Amazônica (Nheengatu), una lingua del gruppo Tupí che un tempo era diffusissima in Brasile: serviva da mezzo di comunicazione tra i vari gruppi nativi ed era parlata persino dai coloni di ascendenza portoghese.

ti "io" (pron. [tʃi]) deriva da Nheeng. se-, ixé 
gi, gixai "tu" (pron. [ni], [niʔai]) deriva da Nheeng. ne-, indé 
hi "egli" deriva da Nheeng. i-,


I pronomi plurali di prima e seconda persona plurale della lingua Nheengatu, che non rientrano nelle categorie logiche dei Pirahã, non sono stati presi a prestito: ne sono stati prodotti di nuovi a partire da quelli singolari. 

tiatiso "noi", da ti "io" - diverso da Nheeng. iané-, iandé 
gixaitiso "voi", da gixai "tu" - diverso da Nheeng. pe-, penhẽ  
hiaitiso "essi", da hi "egli" - diverso da Nheeng. ta-, aintá 


4) Nella lingua Pirahã mancano termini per designare i colori. Gli unici aggettivi usati possono essere tradotti con "chiaro" e "scuro", non permettendo di specificare ulteriori qualità cromatiche. In dizionari presenti nel Web ho trovato tuttavia più di due parole: xaaíbi "chiaro", xíbigái "scuro" (ma anche "oscurità, ombra") e kopái "nero". Non basta: in un suo studio Everett riporta tio "scuro" (glossato con "dark") e ha incluso nel suo vocabolario diversi termini per indicare i colori. Si tratterebbe in realtà di frasi descrittive: per dire "rosso" bisogna ricorrere a una proposizione complessa che significa "essere come il sangue". È anche possibile che i Pirahã abbiano fabbricato queste frasi suppletive appositamente per rispondere alle domande degli etnologi, non perché sentissero la necessità di esprimere concetti pur così elementari. Everett deve aver mostrato qualcosa di rosso a un Pirahã, continuando ad assillarlo, chiedendogli che parola usava la sua gente per chiamare quell'oggetto rosso, fino ad estorcere qualcosa che tradotto suona "è come il sangue". Resta il fatto che tutto questo materiale andrebbe passato al vaglio.

5) La lingua Pirahã ha un sistema particolarmente semplice per designare la parentela. Anzi, parrebbe il più semplice finora noto, sempre prestando fede ad Everett. Non esistono parole distinte per indicare "padre" e "madre", ma solo una parola per dire "genitore": baíxi. Qualcuno obietterà che anche noi possediamo la parola "genitore" (e gli anglofoni hanno "parent"), che va bene per entrambi i sessi. Il punto è che i Pirahã non hanno i mezzi linguistici per distinguere tra "padre" e "madre". In concetto stesso di matrimonio come unione tra i sessi, fondamentale nella cultura cristiana, non ha per loro importanza alcuna.

6) Per esprimere il complemento di possesso, la lingua Pirahã usa mezzi abbastanza elementari: si prefigge il pronome personale non modificato al nome della cosa posseduta. Se c'è un possessore, il suo nome va prima del pronome, anch'esso non modificato. Questi due esempi sono riportati su Wikipedia (2019) e con ogni probabilità presi dall'opera di Everett:

paitá hi xitóhoi "i testicoli di Paita"
    (lett. "Paita, egli, testicoli")


ti kaiíi "la mia casa"
    (lett. "io, casa")


Non sono possibili nidificazioni possessive. Non è possibile, servendosi di un'unica stringa, tradurre una proposizione come "il legno dell'asta della freccia di Paita". Si rende necessario formulare in modo diverso i concetti, ad esempio in questo modo: "Paita ha una freccia. Questa è l'asta della freccia. Questo è il legno dell'asta".

7) Nella lingua Pirahã non è possibile alcuna struttura ipotattica e si notano soltanto limitatissimi esempi di paratassi. Non esiste alcuna congiunzione: il più comune esempio di paratassi consiste nel giustapporre due brevi frasi. Non esiste la possibilità di usare un unico verbo per due soggetti, come ad esempio in frasi come "Giovanni e Maria vengono". È necessario tradurre "Giovanni viene. Maria viene", e considerare questa come paratassi rudimentale. Everett ha dato inizio all'annosa controversia del suffisso -sai, che egli credeva un formante ipotattico, qualcosa di corrispondente all'italiano "che", "come", "quando" e all'inglese "that", "who", "which", "when", o addirittura uno strumento per sostantivare i verbi, come il famoso suffisso inglese -ing. Questi sono alcuni esempi dell'uso del suffisso -sai:

hi ob-áaxái kahaí kai-sai "egli sa davvero come fare frecce"
(dove kahaí "freccia"; kai- "fare", donde kai-sai "come fare", "facendo", etc.)  


tiobáhai hóoí ai-sai xabahíoxoi "la produzione di archi dei bambini non è corretta"
(dove ai- somiglia a kai- "fare" e potrebbe esserne una variante, anche se non mi è chiaro come una consonante /k-/ possa sparire)


pii boi-sai ti xaháp-i-hiabi-haí "se piove non verrò"
(dove pii "acqua", boi- "venire", i.e. "piovere", donde pii boi-sai "piovendo")


hi gáí-sai xaibogi ap-a-áti "egli ha detto di andare velocemente"
(dove g
áí- "dire", donde gáí-sai "dicendo", "avendo detto")

Alla fine lo stesso Everett, dopo aver approfondito la sua conoscenza della lingua, è giunto a una conclusione sconcertante e anti-chomskiana: nemmeno questo semplice suffisso -sai marca una costruzione ipotattica, si tratta soltanto di grossolana paratassi. Nessun formante in grado di sostantivare un verbo: si tratta soltanto di una particella enfatica. Un caso di tremendo equivoco, in cui colui che studia una lingua esotica la interpreta servendosi delle categorie della propria. Il Pirahã non permette frasi nidificate nemmeno a un singolo livello. La motivazione ipotizzata dall'antropologo è quasi lapalissiana: non avendo il concetto di numero (che è stato riscontrato persino nei pulcini!), i Pirahã non hanno nemmeno bisogno della ricorsività linguistica.  

8) Secondo quanto sostenuto da Mario Antonio Gonçalves, i Pirahã sarebbero in grado di apprendere il portoghese, lingua romanza, di chiaro ceppo indoeuropeo, notoriamente dotata di ricorsività possessiva, oltre che di costruzioni ipotattiche e paratattiche. A detta di tale autore, la maggior parte degli uomini di questo popolo sarebbe in grado di comprendere il portoghese. In realtà queste dichiarazioni non corrispondono a quanto dichiarato da Everett, la cui esperienza è molto più vasta. Si è potuto appurare che i Pirahã sono in grado di apprendere soltanto un lessico portoghese molto rudimentale. Utilizzano come lingua franca per comunicare con altri gruppi tribali uno strano idioma il cui vocabolario include parole portoghesi e Nheengatu, con grammatica rigorosamente Pirahã - cosa notata anche da Gonçalves - il che non toglie che la comunità sia in buona sostanza descrivibile come monolingue. Poche parole portoghesi sono state incorporate nella lingua nativa, come ad esempio kóópo "tazza" (< port. copo) e bikagogia "affare" (< port. mercadoria).  

9) Il verbo nella lingua Pirahã non è poi così semplice, pur non distinguendo il plurale dal singolare e pur specificando la persona tramite i pronomi preposti alla radice. Esiste la possibilità di formulare frasi transitive, il cui ordine è SOV (soggetto-oggetto-verbo). Così abbiamo per esempio: 

ti xíbogi ti-baí "io bevo il latte" (dove il verbo è ti- "bere", essendo -bai un suffisso intensivo)

ti gi kapigaxiítoii hoaí "io ti do la matita" (dove il verbo è hoai "dare")

Impressionante è il numero di suffissi (o meglio di affissi) che servono ad esprimere l'aspetto del verbo. Quello che si guadagna in semplicità con l'assenza di forme coniugate a noi familiari, lo si guadagna in complessità con questi bizzarre formazioni. Una classificazione di affissi verbali si deve a Sheldon (1988). Eccone alcuni: 

-boi (causativo / incompletivo)
-boiga (causativo / completivo)
-hoi (incoativo / incompletivo)
-hoaga (incoativo / completivo)
-aip (futuro / da qualche parte)
-aop (futuro / altrove)
-aob (passato)
-xiig (continuativo)
-ta (ripetitivo)
-ab (durativo)
-sog (desiderativo)
etc. 


L'uso del passato e del futuro deve essere ben peculiare, visto che tali genti non parlano di eventi troppo distanti nel tempo. Resta il fatto che né gli affissi verbali, né la struttura SOV delle brevi frasi transitive, possono essere etichettate come "ricorsività" allo scopo di salvare la teoria della grammatica generativa. Farlo sarebbe un atto di disonestà intellettuale.

I Pirahã e la religione 

Riporto in questa sede un intervento che mi è parso particolarmente significativo. Invito tutti a leggerlo con attenzione. 


Maurizio Pistone    
02/04/12

Non so se il signor Everett ha studiato la storia delle missioni, e in particolare la storia delle missioni in Brasile. Ma proprio lì, quasi quattrocento anni fa, alcuni sui colleghi cattolici (non è detto quale sia la religione di Everett, ma mi sembra di capire che sia un protestante) si trovarono di fronte a una situazione imbarazzante.

I missionari cattolici, che avevano studiato letteratura classica, immaginavano di trovare presso le tribù "pagane" credenze che in qualche modo fosse riconducibile a qualcuna delle religioni che avevano preceduto il cristianesimo.

Per loro questo era molto importante anche da un punto di vista teologico. Una delle prove tradizionali dell'esistenza di Dio è il consensus gentium. Ogni popolo, per quanto malvagio e perverso (e chi non è cristiano è ovviamente perverso e malvagio) ha comunque un'idea di Dio, una qualche forma di religione. Trovare popoli che non hanno idee riconducibili all'idea euromediterranea di "Dio" e di "religione", per loro fu fonte di infinito smarrimento. Da una parte sembrava preclusa la possibilità di comunicare con questi popoli: come si fa a tradurre la Bibbia in una lingua che non ha i termini base per esprimere il senso religioso? Ma la loro stessa fede sembrava messa in dubbio. Alla fine alcuni di loro, riscontrando presso quasi tutte le popolazioni, se non una qualche idea di Dio, almeno delle pratiche esorcistiche per allontanare il male, conclusero che, se non è universale l'idea di Dio, è universale quella del Demonio.

Dall'articolo sembra di capire che la prima scoperta di Everett sia appunto che queste persone non hanno nessun bisogno di essere convertite al cristianesimo. Per un missionario, è chiaramente una tragedia infinita. Quello che si dice della lingua (di cui so solo quello che ho letto in quell'articolo) in fondo è prevedibile. Popolazioni che vivono secondo modalità di caccia e raccolta, non hanno una coscienza del trascorrere del tempo. Vivono nel presente. Non coltivano. Non conservano la carne (questo punto mi sembra decisivo). Non pianificano la loro vita, per questo non hanno bisogno di strutture logiche e linguistiche complesse. Non hanno, presumibilmente, un'idea di proprietà privata. Non so se mancano del tutto dell'idea di numero, come è detto nell'articolo, ma è chiaro che la numerazione e il calcolo  sono strettamente legati all'idea di proprietà: "Dove sono i miei teschi di tapiro? Ne avevo diciotto, li ho contati proprio ieri, e adesso ce ne sono solo quindici! Chi mi ha rubato i miei teschi di tapiro?" Purtroppo nell'articolo non viene detto nulla sulla struttura familiare, che però nelle popolazioni che vivono a quello stadio di civiltà deve essere piuttosto lasca: "Quante mogli hai? Quanti figli hai?" "Eh... tanti..."

Insomma, non vorrei fare troppo l'analista dilettante, ma mi sembra che il signor Everett se la sia presa con Chomsky per non dover prendere di petto il Padreterno.  

Penso che il problema sia molto più profondo di quanto il Pistone possa immaginare. 

Interpretazione di Everett e reazione chomskiana 

Secondo Everett la lingua dei Pirahã sarebbe un esempio di idioma primordiale. La teoria da lui sostenuta implica che l'origine del linguaggio simbolico umano sia da ricercarsi nella specie Homo erectus. Il Pirahã sarebbe dunque un campione significativo delle lingue più antiche degli ominidi  dotati di sufficiente complessità cerebrale per articolare suoni e pensare con simboli, lingue anteriori alla stessa diffusione di Homo sapiens, ossia preadamitiche. Le sue peculiarità dimostrerebbero che le lingue sono nate come strumento di comunicazione e non di computo, come invece sostenuto da Chomsky e dai suoi mirmidoni. I Pirahã sarebbero rimasti talmente isolati da mantenere una cultura e un mondo concettuale non influenzato da sviluppi che si sono imposti nella maggior parte dell'umanità. In realtà non esistono lingue primitive. Questo ci dice l'evidenza. Anche il Pirahã è il risultato di una continua evoluzione fonetica e semantica che dura dalla notte dei tempi, a partire da una protolingua preistorica che oggi sarebbe irriconoscibile. Nonostante l'estrema lontananza dai nostri schemi logici e le sue carenze, dà comunque prova di una sua intrinseca complessità. A quanto ho appreso, Chomsky ha reagito a queste tesi in modo furibondo, accusando Everett di essere un "ciarlatano". Cercando in tutti i modi di occultare lo scandalo, il linguista ashkenazita idolatrato dai radical chic ha sostenuto in sintesi qualcosa di questo genere: i Pirahã sarebbero predisposti dalla Natura alla comprensione di proposizioni ricorsive, come tutti gli esseri umani, anche se poi per qualche misterioso, imperscrutabile motivo hanno deciso di non servirsene; potendo enumerare gli enti, avrebbero scelto di non farlo, a causa di una qualche specie di agnosia. 

Ordalia su Chomsky!

Spingo ogni ragionamento ai suoi limiti. Così, partendo dalla teoria di Noam Chomsky, vedo dove ci condurrebbe se restasse passo dopo passo coerente con le proprie premesse. Il risultato ha tutto il sapore del paradosso, come mi accingo a dimostrare. Appurato che per i grammatici generativi le lingue impossibili sono quelle che non hanno la ricorsività, e che tutte le lingue umane hanno la ricorsività (questo è il dogma fondante della loro setta), essi sono tenuti a una deduzione potenzialmente devastante: la lingua Pirahã non è una lingua umana. Sarebbe quindi d'obbligo postulare, se si portassero alle estreme conseguenze le dottrine chomskiane, che i Pirahã non sono realmente esseri umani, bensì ominidi. Questi poveri nativi si dovrebbero quindi ascrivere a una specie ominide finora sconosciuta, che potrebbe benissimo essere etichettata come Homo nambiquarensis pirahã. Oppure dovremmo pensare che i Pirahã siano sì appartenenti a Homo sapiens, ma che abbiamo vissuto così a lungo con ominidi di specie diversa da adottare una lingua non umana? Avrebbero perso una parte del corredo logico umano stando con esseri che tecnicamente sarebbero definibili come "subumani"? Va da sé che simili conclusioni non sarebbero soltanto definibili come razzismo: saremmo addirittura di fronte a un caso di infraspeciazione. Dunque il chomskismo, se si ammettesse la natura non ricorsiva del Pirahã, porterebbe all'infraspeciazione. Curioso che il mondo intellettuale dei Figli Americani di Ashkenaz, così impegnato sul fronte dell'antirazzismo e della democrazia, produca poi simili gemme, tali da fare impallidire le dottrine di Gobineau. Tra Noam Chomsky e Philip Roth, direi che non so chi ritenere il più abile produttore di vasi di Pandora. 

lunedì 28 gennaio 2019

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE LINGUE IMPOSSIBILI: IL CASO DEL NAHUATL

Nella lingua Nāhuatl parlata dagli Aztechi esistono certamente meccanismi di incorporazione o di incassamento assai sviluppati e produttivi, ma non sono affatto applicabili a piacere in catene infinite di ricorsività, come la setta dei grammatici generativi pensa debba accadere in tutte le lingue definibili come umane. In altre parole, i meccanismi ricorsivi nella lingua azteca mostrano limiti severissimi e le categore grammaticali non collimano affatto con quelle dei parlanti della lingua inglese. Così la forma mentis teorizzata da Noam Chomsky e dai suoi seguaci non può applicarsi con successo a questo caso che ho trovato: ogni sforzo per rendere malleabile questa lingua amerindiana e plasmarla sulle categorie del mondo anglosassone è destinato a fallire miseramente. 

Fornisco nel seguito alcuni esempi eloquenti, ricordando che l'ortografia usata è quella spagnola classica, con la lettera x che si pronuncia come sh in inglese; ch si pronuncia come nell'inglese chair; qu seguito dalle vocali e, i, si pronuncia come k; hu indica la consonante w dell'inglese water, uh in fine parola è lo stesso suono ma sordo; h seguita da consonante o in fine di parola dopo vocale diversa da u è un'occlusiva glottidale (in pratica un lieve colpo di tosse); z indica la consonante s dell'italiano sale, e lo stesso suono ha c davante alle vocali e, i. Il trattino (macron) marca le vocali lunghe. Per chi necessitasse di spiegazioni più chiare, rimando al Web, cominciando da  questo documento di Wikibooks:  


Veniamo dunque alla struttura grammaticale per confutare le tesi di Noam Chomsky. Wikipedia in inglese ospita un sunto della grammatica del Nāhuatl classico:


Esistono ovviamente risorse di gran lunga migliori. Ad esempio il corso di R. Joe Campbell e Frances Karttunen, consultabile e scaricabile gratuitamente al seguente link:


A parer mio nessun testo è migliore di Introduction to Classical Nahuatl di James Richard Andrews, che mi ha permesso di apprendere la lingua quando ero uno studente universitario. 


In Nāhuatl la ricorsività possessiva si ferma a un solo livello di incassamento. La sua applicazione più generale comporta al massimo l'uso della forma possessiva del nome del possessore. Il nome della cosa posseduta ha in ogni caso il prefisso possessivo di terza persona (singolare ī-; plurale īn-, īm-).  

ītlaxcal oquichtli "il pane dell'uomo"
      (lett. "il suo pane, l'uomo") 
ītlaxcal moquich "il pane del tuo uomo"
      (lett. "il suo pane, il tuo uomo")
īteōcuitl tlahtoāni "l'oro del principe"
      (lett. "il suo oro, il principe")
īezzo noyāōuh "il sangue del mio nemico"
      (lett. "il suo sangue, il mio nemico")
īmezzo toyāōhuān "il sangue dei nostri nemici"
      (lett. "il loro sangue, i nostri nemici")


Come facciamo se dobbiamo dire "il pane della donna dell'uomo"? Dobbiamo dire ītlaxcal cihuātl, īcihuāuh oquichtli "il pane della donna, la donna dell'uomo" (lett. "il suo pane, la donna, la sua donna, l'uomo"). Che io sappia, non esiste modo alcuno di aggirare l'ostacolo e di ottenere catene ricorsive possessive. Possiamo utilizzare la congiunzione īhuān "e" per ottenere frasi di questo tipo: 

īntlaxcal oquichtli īhuān cihuātl "il pane dell'uomo e della donna" 
    (lett. "il loro pane, l'uomo e la donna")
īnteōcuitl tlamacazqui
īhuān tlahtoāni "l'oro del sacerdote e del
    principe" (lett. "il loro oro, il sacerdote e il principe")
īntōtoltin Xuan īhuān Maria "i tacchini di Giovanni e di Maria"
   (lett. "i loro tacchini, Giovanni e Maria")


Se però vogliamo dire qualcosa come "l'oro del cortigiano del principe" o "l'oro dell'inserviente del sacerdote", rimaniamo bloccati, dobbiamo ricorrere a una costruzione diversa e non ricorsiva. Se i grammatici generativi volessero chiamare "ricorsività" la semplice giustapposizione di parole, dovrebbero ammettere che il processo non è possibile estenderlo: si blocca al primo livello. Se si blocca al primo livello, come è possibile, di grazia, chiamarlo "ricorsività"?

Già soltanto con quanto sopra riportato, possiamo senza timore di smentita sostenere che quanto Chomsky teorizza sulla ricorsività possessiva non vale per la lingua che stiamo trattando. 

A partire da un verbo attivo è possibile formare il corrispondente verbo non attivo, che copre le funzioni del nostro verbo passivo e delle forme impersonali. 
Se il verbo di partenza è intransitivo, il verbo non attivo da esso ottenuto è impersonale. 

cochi "gli dorme" : cochīhua "si dorme", "tutti dormono" 
cuīca "egli canta" : cuīco "si canta", "la gente canta", "tutti
   cantano" (si trova anche cuīcalo, seppur di rado)
huetzi "egli cade" : huechohua "si cade", "tutti cadono"
huetzca "egli ride" : huetzco "si ride", "la gente ride", "tutti ridono"
nemi "egli vive", "egli abita" : nemohua "si vive", "la gente vive"
miqui "egli muore" : micohua "si muore", "la gente muore", "tutti
   muoiono" 
pano "gli guada, attraversa" : pan
ōhua "si guada, si attraversa"
    (si trova anche panōlo)
yōli "egli vive", "egli è vivo" : yōlīhua "si vive", "la gente vive"


Sei il verbo di partenza è transitivo con un grado di transitività (con un prefisso diretto tē- "qualcuno" o tla- "qualcosa), il verbo non attivo da esso ottenuto è intransitivo, e può anche essere usato con significato impersonale.

tēitta "egli vede (qualcuno)" : itto "egli è visto" (si trova anche
   ittalo)
tētlazohtla
"egli ama (qualcuno) : tlazohtlalo "egli è amato"

tlacua "egli mangia (qualcosa)" : cualo "egli è mangiato";
    "ciò è mangiato", "si mangia" (ossia "la gente mangia, tutti
    mangiano")

tlacui "egli prende (qualcosa)" : cuīhua "egli è preso", "ciò è preso"
    (si trova anche cuīhualo; un derivato fossile cuīlōni significa
    "omosessuale passivo", lett. "colui che viene preso")
tlamati "sapere qualcosa" : macho "ciò è saputo"; "si sa"
    (ossia "la gente sa, tutti sanno")
tlanamaca "egli vende (qualcosa)" : namaco "egli è venduto",
    "ciò è venduto"


Se il verbo di partenza è transitivo con due gradi di transitività (con un prefisso indiretto tē- "a qualcuno" e un prefisso diretto tla- "qualcosa"), tutto è più complesso: il verbo non attivo da esso ottenuto ha un grado di transitività (con solo il prefisso indiretto tē- "a qualcuno" o con solo il prefisso diretto tla- "qualcosa").

tētlamaca "egli dà (qualcosa a qualcuno)" :
     tēmaco "egli è dato (a qualcuno)",
     tlamaco "a lui è dato (qualcosa)"


Quello che non si può mai fare è esprimere il complemento di agente di un verbo non attivo con significato passivo. Non si può dire, per nessun motivo, "l'uomo è stato ucciso da un giaguaro". Bisogna invece usare la costruzione attiva: "un giaguaro ha ucciso l'uomo". Ecco un altro limite severissimo e intrinseco nella possibilità di costruire frasi. E pensare che in italiano esiste la possibilità di appiccicare al complemento d'agente intere frasi subordinate o coordinate. Ad esempio noi riteniamo possibili concatenazioni simili, facendone regolare uso nei nostri testi e nella nostra parlata quotidiana:

"L'uomo è stato ucciso da un giaguaro che aveva il pelo completamente nero." 

"L'uomo è stato ucciso da un giaguaro che aveva il pelo completamente nero, come il sacerdote aveva previsto analizzando i portenti."

Per un cittadino di Tenōchtitlan, questo era davvero troppo. Usava costruzioni del tutto diverse, che noi riterremmo contorte. Più in generale, non è possibile applicare meccanismi ricorsivi a complementi di vario genere. Non è possibile tradurre alla lettera frasi di questo genere:

"Giovanni ha ricevuto un pompino da Maria, che fino ad allora non l'aveva mai fatto a nessuno." 

I composti nominali sono numerosissimi ed articolati. Dalla composizione di parole semplici nascono lunghe catene di sillabe, che gli Spagnoli ritenevano "brutte", "sgraziate". Alcune sono così antiche da essere ormai considerate parole semplici a tutti gli effetti. Vediamo alcuni esempi significativi. 

ācalli "barca" < ātl "acqua" + calli "casa"
ācītlalin "goccia di rugiada" < ātl "acqua" + cītlalin "stella"
āxīxtli "orina" < ātl "acqua" + xīxtli "merda, escremento umano"
āxīxcalli "vespasiano" < āxīxtli "orina" + calli "casa"
āxīxcōmitl "pitale" < āxīxtli "orina" + cōmitl "vaso"
callālli "cortile" < calli "casa" + tlālli "terra"
cōāēhuatl "pelle di serpente" < cōātl "serpente" + ēhuatl "pelle"
mīllācatl "contadino" < mīlli "campo" + tlācatl "persona"
mizconētl "cucciolo di puma" < miztli "puma" + conētl "cucciolo"
nacazcuitlatl "cerume" < nacaztli "orecchio" + cuitlatl
    "escremento"
teōcalli "tempio" < teōtl "dio" + calli "casa"
teōcuitlatl
"oro; argento" < teōtl "dio" + cuitlatl "escremento"
teōcuitlaxiquipilli "borsa del denato" < teōcuitlatl "oro; argento" +
    xiquipilli "borsa"

tōnalāmatl "calendario" < tōnalli "giorno" + āmatl "carta"
tōtōmātlatl "rete per catturare uccelli" < tōtōtl "uccello" + mātlatl
   "rete"
tōtoltetl "uovo" (di tacchino) < tōtolin "tacchino" + tetl "pietra"
tzontecomatl "cranio" < tzontli "capelli" + tecomatl "vaso"
yacacuitlatl "caccola" < yacatl "naso" + cuitlatl "escremento"
zoquiātl "acqua fangosa" < zoquitl "fango" + ātl "acqua"


I prodotti di questo processo sono innumerevoli. Si potrebbe riempire una fitta enciclopedia. Talvolta si hanno formazioni fossili. Così cuitlaxcōlli "intestino" è senza dubbio un antico composto di cuitlatl "escremento", ma il secondo elemento è oscuro. Alcuni studiosi lo credono derivato da cōātl "serpente", ma i dettagli fonetici non tornano.
Da ātl "acqua" e da tepōlli "pene" deriva ātepōcatl "girino", con notevole irregolarità. Possiamo poi comporre questa parola con mōlli "salsa, ragù" per ottenere atepōcamōlli "ragù di girini". Da āhuacatl "avocado" (ma anche "testicolo") si formava in modo analogo āhuacamolli "ragù di avocado".
L'idiomatica gioca un ruolo fondamentale. Così da ātl "acqua" e da xāyacatl "maschera" (a sua volta da yacatl "naso, faccia"; il primo elemento è fossile), otteniamo āxāyacatl "mosca acquatica" (lett. "maschera d'acqua"). Le uova di tale insetto fornivano ai contadini messicani un ghiotto caviale, chiamato āhuauhtli, ossia "amaranto d'acqua" (da hauhtli "amaranto"). Un involtino ripieno di caviale di mosca d'acqua era detto āhuauhtamalli (da tamalli "involtino"), mentre un pasticcino cucinato a partire da tale ingrediente era detto āhuautlaxcalli (da tlaxcalli "pane"). 


Leggendo tutto questo, esulterebbe certamente il celebre ashkenazita Noam Chomsky, appoggiato dal suo entusiasta discepolo Andrea Moro. Peccato che nemmeno quelli che ho mostrato siano davvero elementi ricorsivi. 

Già Alfredo Trombetti (1866-1929), che Mussolini definì "italico genio", aveva riportato un paio di esempi interessanti:

niccua in nacatl "io mangio la carne"
ninacacua "io mangio la carne"


La parola nacatl "carne" è incorporata nella seconda variante. Si prende il verbo tlacua "egli mangia (qualcosa)", si sostituisce il prefisso tla- "qualcosa" con qui- "lo", "lui", "ciò", e si ottiene quicua "egli lo mangia". Col prefisso personale ni- "io", abbiamo direttamente niccua "io lo mangio". L'elemento in è un semplice connettore, che possiamo omettere nella traduzione. Nella variante ninacacua, ecco che nacatl "carne", senza il suffisso assolutivo -tl, rimpiazza l'elemento pronominale per esprimere "ciò". Già Trombetti affermava che la variante sintetica era rara rispetto a quella analitica. Possiamo usare queste frasi:

niccua in ātepōcamōlli "io mangio il ragù di girini"
niccua in āhuauhtamalli "io mangio un involtino di uova di mosca
     d'acqua"
niccua in āhuauhtlaxcalli "io mangio un pasticcino di uova di
     mosca d'acqua"

niccua in nacamōlli
"io mangio il ragù di carne"
Xuan quicuāni in xīxtli "Gianni mangia la merda" (abitualmente)


Non possiamo però produrre in modo troppo disinvolto e arbitriario tutte le forme concepibili servendoci dell'incorporazione, dando vita a inusitati gioielli come *nātepōcamōlcua "io mangio il ragù di girini", *nāhuauhtamalcua "io mangio involtini di uova di mosca d'acqua", *ninacamōlcua "io mangio il ragù di carne" o persino... *xīxcua "egli mangia la merda" (gli Aztechi erano estremamente puritani e punivano con la morte molti comportamenti dissoluti: dubito che concepissero la coprofagia). Che dire poi di frasi come "io mangio il ragù di carne che mia madre mi ha preparato su consiglio di mia zia"? Ancora una volta, vediamo che gravi ostacoli sono posti sul cammino dei grammatici generativi. Essi non potranno mai fare con la lingua degli Aztechi ciò che è permesso loro con la lingua di Albione o con quella di Roma!

Conclusioni 

Non esiste alcun riflesso in Nāhuatl di una grammatica generativa universale che permette di reiterare all'infinito costruzioni possessive, aggettivali, ipotattiche o di altro genere. Se milioni di persone hanno eletto Noam Chomsky nell'Olimpo dei massimi intelletti del genere umano, beh, hanno commesso un grave errore. Certo, sarei ritenuto piuttosto indisponente e grossolano se osassi affermare senza mezzi termini che Chomsky è un pirla. Il punto è che me ne frego ed esprimo ciò che penso, anche a costo di usare un linguaggio da barista della Bovisa. Come linguista, l'ashkenazita americano è scadente. Non solo: è ancora peggiore come filosofo del linguaggio. Ha prodotto danni ingentissimi, diffondendo disinformazione e pseudoscienza. Ha ridotto il dibattito sulla natura stessa del linguaggio umano a un complicatissimo castello di inconsistenze, che in ultima analisi non significano nulla: la grammatica generativa è mero flatus vocis. Non per niente lo idolatrano coloro strepitano di "cultura" a ogni piè sospinto e poi usano i libri come soprammobili. Guardando il film The Believer mi ha stupito molto udire che Daniel "Danny" Balint volesse dar vita a dibattiti a cui invitare proprio Chomsky! 

giovedì 24 gennaio 2019

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE LINGUE IMPOSSIBILI: IL CASO DELL'EBRAICO BIBLICO

Nella sua utile e bella guida all'ebraico biblico, intitolata Lo stato costrutto ebraico - La costruzione ebraica del genitivo, Gianni Montefameglio spiega come funziona il complemento di possesso in quell'antica lingua. Il documento può essere consultato sul sito www.biblista.it e scaricato in formato .pdf al seguente url:


Premetto questo: per semplicità utilizzo la scrittura ebraica non vocalizzata, fornendo al contempo una trascrizione semplificata. Veniamo al dunque. Il nome del possessore si trova nello stato assoluto e porta l'articolo determinativo ה, ha-. Il nome della cosa posseduta lo precede, spesso è in forma ridotta foneticamente e non prende mai l'articolo. 

Così da עמק, ʻemeq "valle" e da מלך, melekh "re" abbiamo: 
עמק המלך, ʻemeq ha-melekh "la valle del re". 

Come ci viene detto, è sempre possibile sostituire il nome allo stato costrutto con una coppia di nomi in stato costrutto, tramite quello che è un bell'esempio di meccanismo di ricorsività possessiva. Così possiamo dire: 

עמק בן־המלך, ʻemeq ben ha-melekh "la valle del figlio del re". 

Volendo si può procedere oltre. Sarebbe possibilissimo coniare una frase come questa: 

דבש עמק בן־המלך, devash ʻemeq ben ha-melekh "il miele della valle del figlio del re"

Oppure, perché no, addirittura questa:

םתיקות דבש עמק בן־המלך, metiqut devash ʻemeq ben ha-melekh "la dolcezza del miele della valle del figlio del re". 

Bene, sappiamo che Noam Chomsky andrebbe in sollucchero studiandosi questi particolari, perché riterrebbe che la ricorsività possessiva della lingua dell'Antico Testamento sia una prova capitale della teorie della grammatica generativa. Esiste una sola Lingua Umana, archetipo platonico, emanazione dell'Uno: questo egli sostiene. Tutte le lingue parlate da qualsiasi gruppo umano manifestatosi nella Storia non sono che casi particolari dell'unica Lingua soggiacente. Questa Lingua archetipica è caratterizzata dal meccanismo della ricorsività, che rende possibile applicare una regola linguistica al risultato di una sua precedente applicazione. Se quella che è ritenuta la Prima Lingua, la lingua del Popolo Eletto, gioca tanto bene con la ricorsività, significa dunque che tale caratteristica è l'impronta stessa del Logos, che permea l'intera Creazione di Dio e la rende possibile. Mai entusiasmo potrebbe dirsi più fallace!

Ricordo don M., che era un uomo di dura cervice, oltre che smisuratamente vanitoso. Non aveva tratto gran profitto dai suoi studi in seminario, così il vescovo gli aveva raccomandato di seguire un corso di ebraico biblico. In realtà glielo aveva imposto (anche in un'altra occasione aveva fatto ricorso a misure coercitive, per far sì che il prete facesse uso di un inglese decente). Mi trovavo in Inghilterra, in quel di Brighton, ed ero ospite di una famiglia di tradizioni cockney assieme a don M. In quell'occasione, vidi che l'ecclesiastico teneva spesso in mano una grammatica della lingua ebraica e che aveva sulla scrivania una copia della Bibbia in tale lingua. Così ebbe a dirmi che stava facendo grandi progressi nell'imparare l'ebraico. "È una lingua primitiva di un popolo primitivo, anzi, primordiale", mi spiegò, "Quindi è di una semplicità estrema. È elementare, può esprimere soltanto concetti terra a terra." In pratica una lingua di ominidi. Queste affermazioni mi lasciarono basito. Ben sapevo che don M. stava dicendo spaventose stronzate, come del resto era suo costume. Il suo pensiero era una mistura di ignoranza, di antisemitismo e di pregiudizi medievali sull'ebraico come lingua adamitica - quindi infantile, priva di qualsiasi mezzo per esprimere pensieri elevati, da contrapporsi alla natura arzigogolata del latino. 

Questi concetti non sono poi così estranei al mondo accademico. Prendiamo ad esempio l'ottima Grammatica elementare dell'ebraico biblico, ad uso degli studenti dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova (è l'Istituto Superiore ad essere di Genova, non le Scienze Religiose...). Si può consultare e scaricare liberamente al seguente link:


Ebbene, a pagina 3 troviamo questo sunto: 

L’Ebraico è una lingua relativamente facile:
– il verbo, che ha solo due tempi, non ha nulla della complessità del verbo greco;
– il nome non ha declinazione;
– il vocabolario è relativamente povero;
– la sintassi è semplice e piana, ama mettere in fila le sue proposizioni coordinandole con una semplicità che potremmo dire infantile: è la “paratassi” ebraica.


Avremo modo di mostrare quanto queste tesi siano ingannevoli. 

Sappiamo che l'ebraico biblico non è la Prima Lingua del genere umano. Si tratta di una lingua derivata come tutte le altre. Nello specifico, è un idioma cananeo, proprio come il fenicio e l'ugaritico. C'è chi accusa queste lingue semitiche di non essere complesse dal punto di vista sintattico? E chi l'ha detto che la sintassi ipercomplessa sia un vantaggio? Possiamo facilmente mostrare che l'ebraico biblico è una lingua sobria. Si tratta di una caratteristica che deve essere vista come un pregio, non come un difetto. 

Fornisco il link al capitolo secondo della Encyclopedia of Hebrew Language and Linguistics, che tratta della sintassi: 


Innanzitutto faccio notare che nei testi in lingua inglese la definizione di paratassi e di ipotassi è un po' diversa da quella usata in Italia. Noi riteniamo pertinente all'ipotassi ogni proposizione subordinata, non le coordinate, che sono invece pertinenti alla paratassi. Per gli anglosassoni, basta l'uso di una congiunzione come "and", "or" o simili per far sì che si parli di ipotassi. Riporto in questa sede tre esempi presi dal documento di cui sopra, ma in scrittura non vocalizzata, usando una trascrizione meno precisa ma più comprensibile ai lettori:

ותרא האשה כי טוב העץ למאכל, wa-tere ha-'isha ki tov haets le-ma'akhal "e la donna vide che l'albero era buono come cibo." 

כי עשית זות אתה מכל־הבהמה ומכל חיתתהשדה, ki ʻasita zot 'arur 'atta mi-kal-ha-behema u-mi-kol khayyat ha-sade "perché hai fatto questo, sei più maledetto di ogni animale, domestico o selvatico."

וישלחהו יהוה אלהים מגן־עדן לעבד את־האדמה, wa-yshallekhehu YHWH 'elohim mi-gan ʻeden laʻavod et ha'-adama "e Dio YHWH lo cacciò fuori dal gardino dell'Eden affinché lavorasse la terra."

Possiamo dire con certezza che non era ritenuto necessario applicare più di una volta i meccanismi ricorsivi di incorporazione di proposizioni subordinate, o coordinare un'infinità di proposizioni dello stesso livello della principale. Un singolo livello di ricorsività era più che sufficiente in caso di subordinazione. Si può dire che Dio cacciò Adamo dall'Eden perché coltivasse la terra. Non si può dire che Dio cacciò Adamo dall'Eden perché coltivasse quella terra che era ricchissima di argilla e priva di palmizi, diversamente dalle valli che sarebbero poi state date al primo principe del paese di Sodoma e Gomorra, divenute sterili dopo che la collera divina si fu abbattuta sulla zona, permettendo la sola fuga di Lot, che fu sedotto dalle proprie figlie dopo che bevve con avidità l'abbondante vino da loro elargitogli. Non si può dire, proprio perché non serve dirlo. A che scopo condensare un intero racconto in una lunghissima e inutile catena verbale? Lasciamo questi esercizi a Pdor figlio di Kmer! 

Prendiamo adesso le stringate frasi tratte dall'Antico Testamento, in tutta la loro essenziale chiarezza, e confrontiamole con alcuni brani del filosofo Peter Sloterdijk, ricchissimi di strutture ipotattiche, al punto da non risultare ben comprensibili. Ecco un estratto da Il quinto Vangelo di Nietzsche (2015): 

La famosa frase «l'uomo è l'auto-sperimentazione di se stessi» che tanto spaventa i sapienti moderni come quel noto cardinale di Milano che si è giocato di recente l’ultimo conclave, non è semplicista negazione di ogni contatto con Dio in nome dell’autosperimentazione umana fine a se stessa, altrimenti non si capirebbe nulla di cristianesimo così come degli almeno milleseicento anni post Christum che generarono la più robusta riforma dell’uomo dai padri della Chiesa fino agli albori dei tempi moderni. E lo stesso machiavellismo che Nietzsche esalta come il fenomeno decisivo del Rinascimento, non dovrebbe essere liquidato senza notare che tali entità nietzscheane furono date per l’elevazione dell’uomo dal fondo abrasivo, putrido, melmoso e ipocrita che aveva toccato e che lo fagocitava con forme di schiavitù e di male sempre più pervasive che furono effettivamente considerate ne II Capitale di Marx (altro famoso discepolo se non di Cristo almeno dell’intero arco che va da Cristo alla nascita della borghesia), il cui libro, che già aveva anticipato le idee di questa opera fondamentale per il socialismo politico e non purtroppo per il socialismo etico, Per la Critica dell’economia politica, apparve simultaneamente all’opera principale di Darwin. Tale è la genealogia di Nietzsche, che da qui in poi possiamo legittimamente definire “il quinto evangelista”.

Secondo voi questo è vero progresso? Quando sono arrivato a "il quinto evangelista" del finale, già avevo del tutto dimenticato l'inizio con "La famosa frase" e tutto quanto sta in mezzo, sentendomi un minus habens, quasi una moderna sottospecie di Homo erectus o di Australopithecus afarensis sprovvisto dell'area di Broca! Sono forse un ingenuo adamita? No, è in Sloterdijk, magnifico rettore mefistofelico, che c'è qualcosa che non va. Intanto confermiamo la natura pseudoscientifica della grammatica generativa chomskiana.

domenica 20 gennaio 2019

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE LINGUE IMPOSSIBILI: IL CASO DELL'ITALIANO

Noam Chomsky, ritenuto uno dei massimi intellettuali viventi, è il fondatore della teoria della grammatica generativa. Egli opera secondo la convinzione indefettibile dell'esistenza di uno schema platonico immanente nel cervello umano, che plasma le strutture del linguaggio - al punto che, secondo tale dottrina plotiniana, tutte le lingue del mondo possono essere ritenute emanazioni di un singolo archetipo emanante dall'Uno: la Lingua Umana. In altre parole, se il latino è così diverso dal cinese, se il tedesco è così diverso dal turco, è soltanto perché i diversi parlanti usano etichette di aspetto dissimile per descrivere le stesse identiche cose. La discrepanza tra gli idiomi viene così ad essere classificata come un mero accidente, una bazzecola, una bagatella. Un punto nero dovuto alla pervicace e colpevole lontananza di Homo sapiens dall'Uno, sorgente di ogni perfezione. Secondo lo studioso ashkenazita, idolatrato dai radical chic e dai democratici del mondo intero, un pilastro della grammatica generativa, assolutamente irrinunciabile, è la natura ricorsiva della Lingua Umana, e di conseguenza di tutte le sue manifestazioni concrete nel corso della Storia. Vediamo di spiegare meglio questo cruciale concetto.  

Questo è riportato su Wikipedia in italiano alla pagina Ricorsività (linguistica)

La ricorsività in linguistica è il fenomeno per cui una regola linguistica può essere applicata al risultato di una sua stessa precedente applicazione. La semiotica distingue tra codici ricorsivi e non. Così, i codici animali (ad esempio, la danza delle api) non possono essere ricorsivi, mentre le lingue naturali (e i codici matematici) sì.

Questa proprietà di alcune regole è in linguistica legata ad esempio all'uso delle proposizioni relative. Così, nella frase

    Marco accarezza il cane.

i nomi "Marco" o "cane" possono essere sostituiti da una porzione di enunciato composta da uno dei due nomi e da una relativa: 

    Marco, che ben conosci, accarezza il cane.

E poi ancora:

    Marco, che ben conosci, accarezza il cane, che scodinzola davanti al portone. 

Infine:

    Marco, che ben conosci, accarezza il cane, che scodinzola davanti al portone, che è chiuso.

Come si vede, le subordinate possono agganciarsi a segmenti che sono essi stessi subordinati alla reggente "Marco accarezza il cane". Tale processo potrebbe continuare all'infinito.

Il linguista italiano Andrea Moro approfondisce il concetto a prima vista paradossale di "lingua impossibile", da lui concepita come lingua non ricorsiva. Infatti ha scritto due volumi sull'argomento, in verità non eccessivamente ponderosi: I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili (2015) e Le lingue impossibili (2017).
Va da sé che quando uno studioso fa propria la dottrina plotiniana di Chomsky e diviene un alfiere dell'Assoluto costituito dalla Lingua Umana, è tenuto a propugnare l'inesistenza di qualsiasi risultato di un'osservazione che possa portare ad inficiare la teologia dell'Uno riverberante nell'Universo. Questa è la deduzione di Moro: se la Lingua Umana è ricorsiva, ne consegue che tutte le lingue umane sono per necessità ricorsive, dunque le lingue impossibili sono tutte e sole le lingue che non possiedono la ricorsività. 


Mi spiace togliere Cristo dalla croce al neoplatonico Noam Chomsky e al suo gonfaloniere Andrea Moro, ma il concetto di ricorsività linguistica presenta non poche difficoltà intrinseche. Innanzitutto non è assolutamente vero che è possibile applicare la ricorsività ad libitum, come un'operazione reiterabile un numero infinito di volte. Certo, i grammatici generativi sono i primi a sostenere che la ricorsività presenta limiti pratici, ma de facto questa loro precisazione rimane lettera morta: essi non ne tengono conto in concreto, sostenendo a spada tratta il principio romantico della mente umana infinita, illimitata e senza vincoli di sorta. Lo studio dei casi concreti ci racconta una storia diversa. Moro et alteri citano come un significativo esempio di ricorsività il testo della famosa canzone di Angelo Branduardi, Alla Fiera dell'Est, che si ispira alla tradizione ebraica: 

E infine il Signore, sull'Angelo della Morte, sul macellaio, che uccise il toro, che bevve l'acqua, che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò. 

L'originale è un canto pasquale noto come Chad Gadya, ossia "Un Capretto", redatto in una lingua singolare che sembra un misto di ebraico e aramaico. Appartiene al tipo delle canzoni cumulative, in cui una struttura metrica semplice viene modificata tramite aggiunte successive, cosicché ogni verso è più lungo del precedente. Si tratta senza dubbio di una costruzione artificiosa (alcuni direbbero che è una pippologia - cosa senza dubbio un po' irrispettosa - o un gioco escogitato da qualche bell'ingegno per stupire i commmensali). Sfido chiunque a usare simili concatenazioni verbali nel linguaggio di tutti i giorni. Esiste un limite invalicabile all'uso di meccanismi ricorsivi in grado di incassare proposizioni in altre proposizioni o anche soltanto di accostare tra loro diversi segmenti. Dopo un certo numero di iterazioni, un ascoltatore si sente un Neanderthal e perde il filo del discorso, immancabilmente: gli elementi incorporati o saldati in altro modo contribuiscono a formare architetture contorte in modo diabolico, oltre che prive di qualsiasi utilità concettuale.

Non possiamo definire "processo innocuo" l'incassamento o incorporazione di segmenti, come ad esempio frasi subordinate (ipotassi), o la giustapposizione di frasi coordinate (paratassi). Questo modo di enunciare il pensiero umano presenta anzi numerose complicazioni anche interpretative. Spesso sorge il dubbio che la ricorsività spinta sia stata favorita artificialmente dal mondo scolastico e che non sia poi qualcosa di così innato e naturale come i chomskiani vorrebbero. Grammatica universale dell'unica Lingua Umana? Ma anche no. Prova ne sia un fatto scomodo: non poche persone inciampano nel meccanismo ricorsivo e producono frasi senza senso. La sorgente del linguaggio di Homo sapiens sarà anche pura e cristallina, ma la sua estrinsecazione reale non somiglia affatto a un abisso senza fondo, in cui possono essere travasati interi oceani a proprio piacimento; somiglia piuttosto all'uretra di un uomo venereo affetto da gonorrea, che diviene angusta e piena di cavernule - o a un intestino colpito dal morbo di Crohn, in cui abbondano occlusioni e diverticoli, con tratti in necrosi e altre similari amenità.  

Non è necessario incassare frasi oltremodo elaborate per generare assurdità marchiane: bastano anche elementi meno complessi. Può essere ambigua la ricorsività aggettivale (quella di segmenti come "una bella, grande e accogliente dimora"). Altrettanto ambigua può rivelarsi la ricorsività possessiva (quella di segmenti come "il pelo del cavallo della figlia del barone"). Del resto i chomskiani considerano una manifestazione di ricorsività linguistica già la semplice applicazione dell'operatore logico denominato merge, ossia in pratica la stessa giustapposizione di due parole in una frase semplice del tipo soggetto + verbo (es. "i cadaveri puzzano"). Fanno questo per togliersi dalle ovvie difficoltà del caso, potendo esistere combinazioni di ricorsività di diversi tipi, che generano problemi senza fine e che non sono universali nel complesso panorama delle lingue umane.

Fornisco alcuni semplici esempi di ambiguità meritevoli di essere commentati, tratti dalla lingua italiana. Il primo proviene dal linguaggio disarticolato dei giornalisti: 

L'uomo era stato arrestato per aver compiuto la truffa su ordine della magistratura di Siracusa. 

Con tutto il rispetto, a leggere il titolo sembra che sia stata la magistratura di Siracusa ad aver ordinato all'uomo di compiere la truffa! Questo non è un modo corretto di fare informazione.

Il giornalista strutturava così la frase: 

<L'uomo era stato arrestato> [per aver compiuto la truffa] <su ordine della magistratura di Siracusa>. 

Credeva che fosse evidente riferire il segmento <su ordine della magistratura di Siracusa> alla proposizione principale <l'uomo era stato arrestato>. Cosa ho invece inteso io quando ho sentito l'annuncio? Questo: 

<L'uomo era stato arrestato> [per aver compiuto la truffa su ordine della magistratura di Siracusa]. 

In questo caso, su ordine della magistratura di Siracusa si riferisce alla truffa! Nel mio cervello si è mosso all'istante il comando dell'esilarazione: mi sono messo a ridere per una buona mezz'ora.

L'ambiguità si risolve facilmente riformulando la frase in questo modo:

L'uomo era stato arrestato su ordine della magistratura di Siracusa per aver compiuto la truffa.  

Certo, in questo caso c'è un po' troppa distanza tra il verbo era stato arrestato e il segmento per aver compiuto la truffa, che descrive la causa dell'azione.  

Passiamo a un secondo esempio, anch'esso proveniente dal linguaggio destrutturato dei giornalisti: 

Il cadavere è stato trovato nell'appartamento in avanzato stato di decomposizione.  

Il giornalista avrebbe potuto evitare di farmi esplodere in un accesso di riso convulso, semplicemente annunciando: 

Il cadavere in avanzato stato di decomposizione è stato trovato nell'appartamento. 

Naturalmente, ogni individuo con capacità mentali nella norma sa che a decomporsi sono i cadaveri, non gli appartamenti. Possiamo anche formulare: 

Il cadavere è stato trovato in avanzato stato di decomposizione nell'appartamento. 

Però così facendo rimane un'ambiguità residua, dato che si potrebbe pensare di raggruppare in avanzato stato (di decomposizione nell'appartamento) anziché (in avanzato stato di decomposizione) nell'appartamento. In questo caso, il cadavere avrebbe potuto essere anche trovato in un parco pubblico, a patto che fosse giunto a un avanzato stato di decomposizione mentre si trovava in un appartamento. Ancora una volta, soltanto il buon senso riesce a risolvere il problema. 

Il tema della decomposizione dei cadaveri ha prodotto frasi giornalistiche anche più ambigue. Questa, per esempio:

Una donna di 48 anni con patologie psichiatriche gravi è rimasta chiusa in casa con il cadavere del padre morto da un circa mese in totale stato di decomposizione. 

Il padre della donna è morto in totale stato di decomposizione? Oppure è il mese ad essere in tali poco augurabili condizioni? 

Le cose si fanno ancor più grottesche quando entrano in gioco le mirabili proprietà degli aggettivi. Anche un semplice aggettivo può infatti essere problematico, visto che i giornalisti hanno la brutta tendenza di farlo migrare a proprio piacimento all'interno della frase. Prendiamo questo esempio: 

Il marito cornuto della contessa le ha ucciso l'amante. 

Naturalmente non si può dire:

Il marito della contessa cornuto le ha ucciso l'amante. 

Ci sono diverse soluzioni. La prima è usare una diversa intonazione (in cui sia amante che cornuto hanno il pieno accento sulle loro sillabe toniche), marcata nella grafia dall'uso della virgola: 

Il marito della contessa, cornuto, le ha ucciso l'amante. 

Altrimenti, se contessa cornuto fosse un tutt'uno fonetico in cui l'accento principale cade su cornuto, saremmo costretti a interpretare così: 

Il marito della contessa Cornuto le ha ucciso l'amante.

In tal caso, Cornuto sarebbe proprio il cognome della contessa fedifraga. 

In ultimo, un giornalista abbastanza creativo potrebbe pensare di migrare lo scomodo aggettivo cornuto alla fine della proposizione. In tal caso avremmo: 

Il marito della contessa le ha ucciso l'amante cornuto. 

Ciò non avrebbe il benché minimo senso, perché da che mondo è mondo sono i mariti a essere resi cornuti dalle mogli che si fanno l'amante, non gli amanti ad essere resi cornuti dal sesso fatto dalle mogli coi propri mariti, ritenuto legittimo dalle religioni e dalle leggi del mondo. E se la contessa avesse avuto un secondo amante? Beh, in tal caso l'amante ucciso avrebbe avuto le corna a causa del rivale. Tuttavia non si capisce perché il consorte della nobildonna ninfomane non abbia ucciso entrambi gli amanti, accanendosi anzi sul più sfortunato.  

Letto sul Corriere della Sera

Erdoğan porta in spalla la bara di un suo amico ucciso durante i funerali delle vittime del golpe. 

Che significa? Che l'amico è stato ucciso durante i funerali? Il giornalista voleva dire che Erdoğan ha portato in spalla la bara dell'amico durante i funerali in questione. Il termine "ucciso", riferito alle circostanze della morte dell'amico di Erdoğan, genera tuttavia una grave ambiguità. Infatti è possibile interpretare così:

<Erdoğan porta in spalla la bara di un suo amico> [ucciso durante i funerali delle vittime del golpe].

Vediamo che si comprende qualcosa di errato, ossia si è indotti a pensare che l'uccisione dell'amico di Erdoğan sia avvenuta durante i funerali delle vittime del golpe, e che lo statista turco possa aver portato in spalla la bara dell'amico in una diversa occasione. Ad esempio durante una conferenza stampa.

Anche le etichette più semplici, se male usate, provocano paradossi. Basti pensare a queste frasi:

Trovata cura per tumore al seno non metastatico.
In aumento i casi di tumore al pancreas metastatico.


Certo, è chiaro che "metastatico" e "non metastatico" sono etichette riferite alla neoplasia, non alla parte del corpo colpita. Eppure il cervello tenta di fare l'associazione a prima vista più improbabile, analizzando le frasi in questo modo:

<Trovata cura per tumore> [al seno non metastatico].
<In aumento i casi di tumore> [al pancreas metastatico].


Avremmo dunque a che fare con un "seno non metastatico" e con un "pancreas metastatico", il che è del tutto fuorviante, anche se logicamente ben fondato. Ancora una volta possiamo porci una domanda: era poi così difficile enunciare il concetto con frasi non ambigue? Eccole:

Trovata cura per tumore non metastatico al seno.
In aumento i casi di tumore metastatico al pancreas.  


Se uno indagasse a fondo, si perderebbe in un universo grottesco. Una volta mi sono imbattuto in una casetta per uccelli antincendio. Ospita stormi di colibrì che trasportano in minuscoli ditali l'acqua per spegnere gli incendi, seguono i corsi di educazione civica e ripetono all'infinito: "Faccio la mia parte! Ognuno deve fare la sua!"
Ci sono problemi persino con la famosa focaccia di Recco al formaggio. Questo è un breve dialogo tratto da Invasori dallo Spazio di Acciaio, un mio romanzo di fantascienza erotico-satirica, che non è mai stato pubblicato:


- L’uomo assisté all’uccisione del figlio impotente – commentò il Topo, come se stesse leggendo i messaggi che un suggeritore nascosto gli mostrava su uno schermo piatto.
- E come mai il figlio impotente è stato ucciso? – iniziò a cavillare il Cinque Cervelli. Il Topo non rispose utilizzando la logica, ma pronunciò un nuovo paradosso in stile giornalistico. Era prigioniero, non si rendeva conto dell’inconsistenza.
- Ho mangiato una focaccia di Recco al formaggio – disse.
Il Cinque Cervelli obiettò subito: - Quindi sei stato in un luogo che si chiama “Recco al Formaggio” per mangiare una focaccia?
- No, credo che fosse una focaccia condita con formaggio di Recco – specificò il Topo.
- Diamine – esclamò il Cinque Cervelli – Ma potrebbe essere stata anche una focaccia di Recco condita con un formaggio generico, magari non di Recco. Magari gorgonzola.
- Quindi una focaccia al gorgonzola di Recco – concluse il Topo.
- Non si è mai prodotto gorgonzola a Recco – affermò ironico il Cinque Cervelli.


Le conclusioni che possiamo trarre sono a dir poco deprimenti. E pensare che l'italiano è facilitato dalla presenza di uscite aggettivali spesso distinte per genere, che evitano molte ambiguità. Provate a pensare a cosa accadrebbe se si facesse un uso disinvolto di una lingua che non distingue il genere degli aggettivi e che non ha una sintassi rigidissima! Altra conclusione è questa: Moro dovrebbe concludere che l'italiano corrente non è una lingua pienamente ricorsiva, perché produce frasi secondo regole che i parlanti non riescono più a comprendere bene. Certo, potrebbe sempre sostenere, come spesso fanno i chomskiani, che noi siamo programmati per comprendere enunciati ricorsivi, e che non è colpa di nessuno se poi ne produciamo di gravemente difettosi e se il nostro potere di ricorsione linguistica non è infinito. Allora come può sostenere, di fronte a una concreta fallibilità, l'esistenza di un archetipo eterno che nessuno ha mai potuto misurare? Sarebbe come fantasticare di un'isola perfetta fatta di cristallo, descrivendone le coste con grande dettaglio, senza che nessuno possa mai fornire nemmeno la più esile prova della sua esistenza. Se Karl Popper fosse qui, direbbe che i discorsi di Moro e del suo mentore, l'ashkenazita americano, non possono essere falsificati. In realtà potrebbero essere falsificati benissimo, come ho dimostrato. l punto è che non serve a nulla, è come la lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento. Questo perché nel loro idealismo, i grammatici generativi rifiutano di considerare come tale ogni falsificazione delle loro teorie.

Quando Alessandro Manzoni codificò la lingua italiana perché divenisse la lingua del Regno d'Italia, fu sfiorato dal presentimento di sviluppi aberranti? Probabilmente no. Non ebbe neppure un vaghissimo sentore del fatto che le cose sarebbero finite in modo tanto squallido.  La sua lingua, che aveva con tanta cura risciacquato nell'Arno, è stata ridotta a una pseudolingua giornalistica! E cosa direbbe Dante Alighieri se sapesse che secoli dopo la Commedia si sta qui a borbottare di seni non metastatici e di magistrature che ordinano di compiere truffe?

Già quanto ho finora esposto è ricco di indizi assai solidi del fatto che la grammatica generativa di Noam Chomsky non è una teoria dotata di credibile fondamento scientifico; può invece essere ascritta al vasto reame della Pseudoscienza.