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lunedì 20 luglio 2020

La demenza New Age
genera mostri
 
 
Vi sono vicende che si vorrebbe non dover narrare, ma la verità non può essere taciuta, poiché la conoscenza del vero, per quanto sconfortante esso sia, è in ogni caso preferibile al tepore malsano della menzogna, che sempre e comunque nuoce a chi l’abbraccia. 
 
La demenza, com’è noto, ha esteso il suo regno su tutti i continenti, ma in determinati luoghi della terra essa conosce un particolare rigoglio. Gli Stati Uniti d’America sono uno di quei luoghi. Le peggiori mostruosità, le più sconvolgenti nefandezze vi hanno libero corso e la cronaca si incarica pressoché quotidianamente di fornire prove in tal senso. I fatti che vado a riferire sono accaduti a Stamford, Connecticut, nel febbraio del 2009. 
 
Sandra Herold, una donna non più giovane, vive con uno scimpanzé di 90 kg. L’animale era stato adottato da cucciolo, nel 2001, dalla donna e dal marito di lei, Jerome. 
 
Ecco cos’ha dichiarato Sandra Herold in merito alla natura dei rapporti fra lei e il primate: 
 
  - Quando per la prima volta portaste Travis [così era stata chiamata la bestia, ndr] a casa a Stamford, disponeva di una camera da letto tutta sua? 
 
  - La nostra. 
 
  - Così lui stava nella stessa stanza con lei e suo marito? 
 
  - Abbiamo dormito nello stesso letto dal giorno in cui lo portammo a casa sino al giorno in cui morì. 
 
  - Sicché avrebbe dormito ogni notte in quel letto con lei… 
 
  - Ogni singola notte. 
 
  - …e suo marito? 
 
  - Si. 
 
  - E dopo la morte di suo marito ha dormito con lei sola? 
 
  - Si. 

 
Dopo il decesso di Jerome e la morte del figlio dei due in un incidente automobilistico, il rapporto tra Sandra Herold e lo scimmione assume a tutti gli effetti le caratteristiche di un rapporto di coppia: la donna dorme con il primate e fa il bagno con lui. 
 
Il 16 febbraio 2009, la tragedia: lo scimmione, impadronitosi delle chiavi dell’automobile della Herold, esce di casa. Sandra telefona all’amica Charla Nash chiedendole di aiutarla a far rientrare il primate. Quest’ultimo non era nuovo a simile bravate: nell’ottobre del 2003, fuggito di casa, aveva seminato scompiglio per le vie di Stamford. 
 
Charla non era sconosciuta all’animale, eppure, non appena arrivata presso l’abitazione della Herold viene aggredita senza alcuna ragione con inaudita ferocia dallo scimmione. Questi con morsi crudeli lacera e sbrana orribilmente il volto della sua vittima, strappandole labbra, naso, occhi, e disarticolandole la mandibola. Non paga di ciò la mutila di entrambe le mani, asportandole gran parte dell’avambraccio sinistro. Solo l’intervento della polizia impedisce allo scimpanzé di portare a termine la sua azione omicida, ma il calvario di Charla Nash è appena cominciato: cieca e orribilmente mutilata, dovrà subire oltre trenta interventi chirurgici, tra inenarrabili sofferenze. 
 
Ecco i frutti della demenza New Age e della zoolatria: per colpa della stupidità e della lussuria abominevole di una mentecatta, una donna è stata rovinata per sempre. In nessun paese civile sarebbe consentito a chicchessia di detenere scimmioni o altri animali pericolosi. Ciò accade invece nelle democrazie, ovvero in quei paesi in cui vige una concezione distorta e nociva della libertà individuale. Libertà che si trasforma fatalmente in arbitrio, producendo conseguenze funeste. 
 
Pietro Ferrari

sabato 18 luglio 2020

OCCHIO PER OCCHIO
 
Fummo avvertiti mediante cablogramma che il forte sarebbe stato cannoneggiato alle 8 del mattino del 19 maggio.
Il messaggio si concludeva come segue:
“Invieremo imbarcazione di recupero alle ore 14 del giorno 18 solo se avrete ultimato le procedure di cui al punto successivo”.
Attendemmo per un po’ di ricevere un cablo contenente il “punto successivo”. Invano: non giunse nulla.
Mi affrettai a segnalare la circostanza al Comando Supremo.
La risposta fu di questo tenore:
“Procedere senza indugio secondo le disposizioni impartitevi. Qualsiasi tentativo non autorizzato  di allontanamento dall’isola anzitempo sarà trattato alla stregua di un atto ostile.”
Inviai un altro cablo.
“Chiedo invio del testo delle procedure che dovremo eseguire.”
Di lì a poco giunse la risposta: era stilata in un codice di cui non possedevo il cifrario!
Segnalai immediatamente la cosa.
La replica non tardò ad arrivare:
“Impossibilitati inviare testo in chiaro per motivi di sicurezza.”
Ribadii che non possedevo il cifrario.
“Prendere visione del Manuale, capitolo 10, paragrafo 4”.
Il Manuale operativo constava sì di 10 capitoli, ma il decimo aveva solo tre paragrafi.
Notificai la cosa al Comando.
“Consultare XI edizione Manuale operativo”
A noi non era mai stata fornita: disponevamo della X.
Lo feci presente. Seguì un lungo silenzio.
Sei ore dopo, ricevemmo questo cablo:
“Procedere senza indugio secondo le disposizioni impartitevi”.
I miei collaboratori mi osservavano attoniti. I volti logori, gli sguardi spenti, facevano pensare a un’adunata di spettri.
Il più anziano prese la parola:
“Siamo spacciati.”
Aveva ragione. L’isola era munita di un bunker abbastanza capiente e robusto, ma quand’anche avesse resistito al bombardamento navale, che ne sarebbe stato di noi, in seguito?
Inviai un altro messaggio.
“Ribadisco impossibilità ad eseguire procedure di cui non siamo informati”.
“Consultare Capitolo 10, paragrafo 4, XI Edizione Manuale Operativo”.
“Detta edizione non è in nostro possesso. Si prega di inviare testo procedure in codice cifrato N6.”
Ricevemmo il testo, ma nel medesimo codice di prima.
“Non abbiamo il cifrario per il codice da voi utilizzato.”
“Prendere visione del Manuale, capitolo 10, paragrafo 4”.
Gli uomini della piccola guarnigione se ne andarono sconsolati.
Rimasi solo, a rileggere quell’increscioso scambio di messaggi.
Trascorsi le ore successive a inviare cablo, ricevendo le medesime risposte grottesche.
Deciso a tutto, alle prime ore del mattino del giorno 18 scrissi:
“Procedure ultimate secondo istruzioni impartiteci. Attendiamo arrivo imbarcazione di recupero”.
Gli stronzi risposero come segue:
“Arrivo imbarcazione posticipato ore 16. Disporsi in attesa sul molo.”
Lasciai l’ufficio e convocai gli uomini della guarnigione.
“Vengono a prenderci. Vi voglio armati e pronti a far fuoco. Di qui ce ne andiamo in qualsiasi caso, con o contro la loro volontà.”
Ci schierammo sul molo. Attendemmo due, tre ore. Niente da fare.
Giunse un cablo.
 “Prelievo posticipato ore 20”.
Arrivarono le 20 e poi le 21. Facevo la spola tra il molo e l’ufficio come un’anima in pena.
Alle 21 e 30 ricevemmo questo messaggio:
“Attività ostili del nemico impediscono invio missione di recupero”.
Replicai immediatamente:
“Chiedo annullamento operazione prevista per domattina”
Alle 22 e 30 giunse un cablo cifrato. Non era in codice N6.
“Codice non in nostro possesso”
“Consultare Capitolo 10, paragrafo 4, XI Edizione Manuale Operativo”.
Tornai sul molo. Non potevo mentire, non a loro.
“Ci vogliono morti.”
“Facciamogliela pagare”, disse il più giovane.
“Mi sembra giusto. Se sopravvivremo al bombardamento, apriremo il fuoco su coloro che sbarcheranno sull’isola. Chiunque essi siano.”
 “Occhio per occhio!”
Ci separavano poche ore dall’Apocalisse. Scendemmo nel bunker animati da propositi di vendetta. 
 
Pietro Ferrari, luglio 2020 

lunedì 30 marzo 2020

PULIZIE DI PRIMAVERA  

Saranno stati una decina. Tutti con la mascherina chirurgica e armati di spranghe. Sbucarono da Via Luciano Luberti e si avventarono contro il gruppo di anziani radunati davanti all’ufficio postale di Via Tasso. Fu un’azione fulminea, di una brutalità inaudita. Li vidi scagliarsi sui vecchi menando violentissimi colpi di spranga alla testa. Dal mio balcone, situato al quarto piano, potevo udire il suono prodotto dalle sbarre di ferro sulle scatole craniche dei pensionati. Nel giro di pochi minuti, sul marciapiede e sulla sede stradale giacevano una ventina di anziani con il cranio fracassato. Gli assalitori se ne andarono con la stessa velocità con cui erano venuti. Quando riuscii a mettermi in contatto con gli uffici della Questura, la strage si era già consumata. Scesi per strada e mi avvicinai al luogo della carneficina: lo spettacolo era terribile: sangue ovunque, materia cerebrale. Un vecchio rantolava in modo atroce, una schiuma rossastra gli usciva gorgogliando dalla bocca. Grida femminili assordanti rimbombavano dai palazzi limitrofi. Furono ben presto soverchiate dall’ululato delle sirene delle ambulanze e delle volanti che stavano sopraggiungendo a tutta velocità. Mi allontanai in tutta fretta, rifugiandomi sotto il portone, appena prima che l’area si saturasse di poliziotti e di infermieri. Appena varcata la soglia del palazzo, mi sentii chiamare per nome. Era l’inquilino dell’appartamento al pianoterra, un bevitore incallito:
“Ci ammazzano tutti! Lo ha detto la radio!”
“Detto cosa?”
“Che stanno ammazzando vecchi in tutta Italia!”.
Me ne tornai di sopra e accesi la televisione. Un’edizione speciale di Studio Aperto stava dando notizia di massacri di anziani in varie località del paese. Quindi si trattava di un piano preordinato, non di un’azione isolata.
Squillò il telefono. Era un funzionario della Questura.
“E’ lei che ha chiamato poco fa? Scenda, per cortesia, siamo sotto al suo palazzo. Porti con sé un documento di identità.”
Scesi maledicendo la sorte.
Davanti all’ingresso c’erano un paio di uomini in borghese.
“Ridolfi?”
“Sì, sono io.”
“Favorisca un documento.”
Il questurino esaminò la mia carta d’identità e la passò al collega.
“Adesso lei ci racconta tutto per filo e per segno. Dove si trovava quando si è svolto il fatto?”
“Sul balcone, stavo mettendo i rifiuti nel bidoncino che tengo lì.”
“Lei vive solo?”
“Sì.”
“E cosa ha visto, esattamente?”
“Ho dato un’occhiata giù e c’erano tutti ‘sti vecchietti davanti all’ufficio. Di solito succede quando pagano le pensioni.”
“E poi?”
“E poi ho visto una banda di tizi con le spranghe uscire di corsa da Via Luberti.”
“Me li descriva.”
“Avevano tutti le mascherine in faccia, quelle azzurre, dovevano essere giovani, data l’agilità e il colore dei capelli. Chiome grigie o bianche non ne ho viste.”
“Colore della pelle?”
“Con la pelle scura non ne ho visti.”
“Ne è sicuro?”
“Si è svolto tutto talmente in fretta che non posso dirlo con assoluta certezza ma credo proprio di sì.”
“Sono usciti da Via Luberti quindi”
“Sì, e si sono lanciati sui pensionati. Quelli sono venuti per uccidere.”
“E lei come fa a saperlo?”
“Cazzo, menavano sprangate tremende alla testa!”
“Eviti questo linguaggio e si attenga ai fatti.”
“I fatti sono davanti ai vostri occhi, distesi sul marciapiede davanti alle Poste, immobili.”
“E mentre questo avveniva lei cos’ha fatto?”
“Ho chiamato voi.”
“Non ha cercato di fermarli?”
“E come, con la fionda?”
“La diffido dal continuare su questo tono.”
“Scusi ma secondo lei cosa dovevo fare, gettarmi come Batman su quella banda di forsennati e sgominarli a mani nude?”
“Intendevo dire: non li ha invitati a desistere?”
Esterrefatto, guardai il questurino dritto negli occhi.
“Abito al quarto piano, e anche se mi fossi messo a urlare a squarciagola non mi avrebbero sentito: le grida dei pensionati presi a sprangate avrebbero coperto le mie. Ho ritenuto più utile chiamare la polizia, cioè voi.”
“Quanto è durata l’azione?”
“Cinque minuti, una cosa allucinante.”
“Perché allucinante?”
“Perché sono stati velocissimi, un’incursione micidiale.”
“E alla fine di questa ‘incursione’, come la chiama lei, cos’hanno fatto?”
“Si sono dileguati in Via Luberti. Dal mio balcone vedo solo la riga dello stop, quindi non so, poi, dove siano andati.”
“Lei è stato notato nei pressi dell’ufficio.”
“Sì, dopo che se ne sono andati sono sceso.”
“Per quale motivo?”
“Per vedere se ci fossero sopravvissuti.”
“Lei è forse un medico?”
“No.”
“E come contava di ‘vedere’, tastando il polso alle vittime?”
“No, semplicemente osservando coi miei occhi la situazione, da vicino.”
“Ha toccato qualcuno dei corpi?”
“No, nessuno.”
“Si è limitato a ‘osservare’, dunque.”
“Sì, ho osservato che c’erano corpi con la testa rotta e le cervella di fuori, e un poveraccio che rantolava. Per poco: poi ha smesso e gli occhi gli si sono rovesciati all’indietro. Quando ho sentito le sirene delle ambulanze, sono rientrato nel palazzo dove abito per evitare di creare intralcio ai soccorritori.”
“Può andare. La convocheremo per stilare la deposizione.”
Sacramentando in silenzio risalii al mio appartamento. “Mannaggia a me, potevo farmi i cazzi miei!”.
Quel giorno non combinai nulla di utile. Le immagini e i suoni della strage mi tornavano di continuo alla mente. L’edizione delle 13 di Rai News 24 esordì così: “Pogrom di anziani in tutta Italia: migliaia le vittime. Cordoglio unanime da tutte le più alte istituzioni. Ferma condanna da parte del Presidente della Repubblica: ‘Non consentiremo a una minoranza di violenti di trascinare il paese nella barbarie’.”
Si parlava di almeno trentamila morti. L’amara verità cominciava a farsi strada tra le nebbie dell’edulcorazione: i millennial stavano giustiziando gli odiatissimi veci. Su Internet circolavano le voci più disparate: i linciaggi e le esecuzioni sommarie non si contavano più. Mi imbattei in un proclama agghiacciante che così recitava:
“Voi ci avete fottuto il futuro e adesso noi fottiamo voi, vecchiacci di merda. Ci avete tolto la possibilità di avere un lavoro fisso e dignitosamente retribuito. Siete andati in pensione con quindici anni di anzianità. Avete drenato le risorse della nazione e ancora rompete il cazzo, vi lamentate e ci date dei fannulloni. Avete avuto tutto ciò che a noi viene negato: un lavoro fisso, un sistema di welfare. Vi restituiremo pan per focaccia. Quello di oggi è soltanto l’inizio, l’inizio delle pulizie di primavera!”.

Pietro Ferrari, marzo 2020

sabato 28 marzo 2020

LA NUBE 
 
All’alba del 30 settembre 2020 fui svegliato da un fortissimo tanfo di feci. La prima cosa che mi venne in mente fu che fosse esploso il cesso. Andai a controllare: era tutto in ordine. Non restava che una spiegazione: uno spandimento massiccio di fanghi nei campi. Doveva trattarsi di qualcosa di proporzioni inaudite, vista l’intensità dell’odore.
Accesi la televisione: l’edizione delle 6 e 45 del Tg5 si aprì con questo annuncio: “La comunità scientifica avverte: una nube di gas proveniente dallo spazio ha raggiunto il nostro pianeta. Il gas – prosegue il comunicato dell’Agenzia spaziale – benché maleodorante non rappresenta un pericolo per la salute.”

Una nube di gas cosmici puzzolenti. Ci mancava solo quello.

E mi toccava pure andava al lavoro. Appena messo piede in cortile, fui investito da un zaffata di fetore escrementizio che superava tutto ciò  che avevo sperimentato nei decenni di vita trascorsi in quella zona densa di porcilaie. Durante il viaggio verso Pavia l’assedio olfattivo aumentò ulteriormente. In ufficio l’aria era pressoché irrespirabile: la sensazione nettissima era di essere immersi in una vasca piena di stronzi fumanti. Una collega diede di stomaco in corridoio.
 
Su Internet circolavano notizie raggelanti: la nube maleodorante non se ne sarebbe andata in fretta. 
Alle 17:00, un messaggio a reti unificate del presidente del Consiglio sancì  il lockdown generale. 
Ci muravano vivi un’altra volta! Mi domandai quale potesse essere l’efficacia del provvedimento: l’odore di merda entrava dappertutto, abitazioni private incluse! 
Quel giorno non riuscii a pranzare: qualsiasi cosa ingerissi, avevo l’impressione di mangiare merda. 
Il tragitto a piedi dall’ufficio alla macchina fu un calvario: avanzavo a fatica in una spessa bolla fecale. Sul marciapiede di Viale Lungo Ticino Visconti vidi accasciarsi una passante, una donna procace, sulla quarantina. 
Tentai di soccorrerla ma si mise a strillare: “Aiuto, mi sta palpando!”. 
“Signora, non dica scemenze!” 
La adagiai su una panchina.
“In altre circostanze le direi di prendere un bel respiro ma oggi non mi sembra il caso.”

Per un istante parve riacquistare una certa lucidità.

“Mi scusi, non so cosa mi ha preso, dev’essere questo fetore, mi stordisce.”

“Ce la fa ad andare a casa?”

“Mi sta socratizzando!”

Me ne andai immediatamente. Ci mancava solo una matta!

L’abitacolo dell’automobile puzzava tale e quale alla latrina intasata di una stazione ferroviaria. Non c’era scampo, la nube fecale era penetrata ovunque.

Accesi la radio. Risuonò la voce tristemente nota di padre Fabrizio: “Il dodicesimo segreto recita a chiare lettere: se non vi convertirete vi manderò un segno che l’umanità intera non potrà ignorare. Quel segno è arrivato!”.

Come facesse quel prete delirante a scorgere in una nube di merda un segno divino era cosa che andava oltre le mie possibilità di comprensione.

Cambiai canale: Radio JD trasmetteva un’intervista a un “esperto”, tale Aurelio Fubini Trulli, autore del libro: “Le piramidi, la Maddalena e il segreto del Graal”. Questo Trulli era certissimo di avere la spiegazione in tasca: “Si tratta di un’arma chimica. Il cloud seeding è sfuggito loro di mano. Sono gli effetti collaterali dei programmi di controllo meteorologico e geoingegneria climatica. I governi ne sono ben informati ma tacciono”.

Misi in moto e partii. Incredibilmente, la strada era deserta. Dove erano finiti tutti quanti? All’altezza di Porta Damiani dovetti frenare di colpo: la donna di prima era nel bel mezzo della carreggiata e si sbracciava gridando a squarciagola.

“Aiuto! E’ violenza di gruppo! Mi faccia salire!”

“Si sposti per favore.”

“Non può abbandonarmi in queste condizioni! Lei è un mostro!”

“La prego, si faccia da parte.”

“Guardi, non le piacciono le mie autoreggenti?”

“Si tolga dalla strada!”

“Mi faccia salire altrimenti chiamo aiuto!”

“Ma se non sta facendo altro da venti minuti!”

“E allora mi faccia salire!”

“Per andare dove? Mi lasci in pace!”

“Aiuto!”

“Salga, perdiana, salga!”

“Che odore c’è su questa macchina?”

“Lo stesso che c’è fuori, porca puttana!”

“Mi sta dando della porca e della puttana! Lei è un bruto!”

“La smetta con questa storia o la scaravento giù dalla macchina!”

“Non può: ho già messo la cintura.”

“Dove la devo portare, dove abita?”

“Via Lutezio”

“Mai sentita nominare!”

“Liutprando.”

“Dio santo, non si ricorda nemmeno dove vive?”

“Luftanzio, mi pare.”

“Non esiste nessuna via Luftanzio.”

“E invece sì.”

Accostai.

“Adesso le dimostro che non esiste.”

Impostai il navigatore.

“Vede? Non c’è nessuna via Luftanzio.”

“Non ha aggiornato lo stradario.”

“Mi dia un punto di riferimento.”

“Piazza Giovanni Aquarone.”

“E dove cazzo sarebbe?”

“A Torre Beretti.”

“Torre Beretti? Ma scusi lei non è di Pavia?”

“No.”

“E non poteva dirmelo prima?”

“Lei non me l’ha chiesto.”

“Senta, io la porto in stazione e la faccenda si chiude qui.”

“Le piacciono le mie autoreggenti?”

“La faccia finita, per carità!”

“Lei non lo dice ma lo pensa. Ho visto il modo in cui mi guardava prima: come una bestia!”

“Sono stato una bestia a farla salire!”

Nel piazzale della stazione si era radunata una folla di pendolari con le mascherine chirurgiche. Posteggiai vicino alla pensilina dell’autobus.

In quel mentre una donna anziana veniva issata sulle braccia da un gruppo di energumeni, come si usava fare con le statue del Cristo, nei paesi di provincia, durante le processioni del Venerdì santo.

“Qui stanno dando tutti di matto.”

“Vado a vedere se c’è il treno, lei però rimanga qui per favore. Se è tutto ok le faccio segno dall’ingresso.”

“Perché dovrei?”

“Per favore.”

Non chiedetemi il motivo ma le diedi retta e rimasi ad aspettare. La vidi scomparire tra la folla. Riapparve dopo un quarto d’ora: quando aprì la portiera fui raggiunto da una zaffata di tanfo escrementizio che avrebbe abbattuto un facocero.

“Hanno soppresso le corse!”

“E’ sicura? Ha controllato bene?”

“Tutto soppresso, non parte nulla! Ci sono i treni fermi sui binari.”
“Non è possibile.”
“Le giuro che sto dicendo il vero. Quest’odore di merda è insopportabile, non ce la faccio più. Partiamo, la supplico.”

“E dove vuole che vada?”

“Via Simeone Salos.”

“Non esiste! Sicuramente non a Torre Beretti!”

“E’ una traversa di Viale Maria Egiziaca.”

“Lei non sta bene.”

“Controlli lo stradario.”

Pur di levarmela dai piedi ero pronto a tutto. Controllai lo stradario: a Torre Beretti risultava un viale intitolata a Maria Egiziaca!

“Strano, non l’avrei mai detto.”

“Mi accompagnerebbe a casa? Sia buono con me e io sarò buona con lei. Le piacciono le mie autoreggenti?”

“Basta con queste autoreggenti! Senta, la accompagno a casa e non parliamone più.”

“Lei è una persona dolce, anche se dall’aspetto animalesco.”

“Grazie, davvero molto gentile!”

Partii e dopo neanche cento metri mi fermai di nuovo: c’era un uomo disteso sull’asfalto in Viale Vittorio Emanuele II.

“Dobbiamo spostarlo.”

“Non può passargli sopra?”

“E’ impazzita? Scenda piuttosto, e mi aiuti a spostarlo.”

Scendemmo dalla macchina e quando fui accanto al corpo riconobbi Fernando, uno degli ubriaconi più noti di tutta Pavia.

“Lo prenda per i polsi, stringa forte e sollevi.”

Rimuovemmo il cadavere e lo posammo vicino a un portone. L’odore di merda era indescrivibile.

Risalimmo in macchina e la donna cominciò a ridere in modo convulso.

“Cosa le prende adesso?”

“Non ci siamo neanche presentati. Io mi chiamo Domitilla.”

“Piacere, Erminio.”

“Davvero? Mio nonno si chiamava così. Forse.”

“Come forse?”

“Credo di essermi pisciata addosso.”

“Sta scherzando?”

“No no, dico sul serio.”

Mi aveva pisciato per davvero sul sedile. Non reagii, non dissi nulla. L’odore di merda era talmente intenso da esercitare una sorta di effetto narcotizzante.

In Viale della Libertà ardeva una vettura della polizia municipale: i corpi degli agenti giacevano sul ciglio della strada, circondati da pozze di sangue. Le cose stavano prendendo una bruttissima piega.

“Via Simeone Salos.” 

“Ho capito.”

“Torre Beretti.”

“Siamo diretti lì.”

“Potrebbe fermarsi al Mood Moda? Mi servono delle scarpe invernali.”

“No, non posso.”

“Vorrei sedermi dietro, il sedile bagnato mi dà fastidio.

“Se solo avesse avuto la bontà di non pisciarmi in macchina!”

“La prego.”

Accostai. Una volta scesa, si tolse gonna e mutande come nulla fosse e posò gli indumenti sul tappetino del sedile passeggero.

“Non ha una coperta in macchina?”
 
“E’ nel bagagliaio, la prenda.”
“Non si apre.”

“Sì che si apre, prema il pulsante!”

“Ok”

Prese la coperta, se l’avvolse intorno ai fianchi e si sedette sul sedile posteriore.

“Se le scappa di nuovo per favore mi avverta!”

“Certamente.”

“Voglio sperare!”

Sul rettilineo in uscita da Pavia, all’altezza della rotonda degli Ottagoni, giaceva un groviglio di vetture accartocciate le une sulle altre. Svoltai a sinistra ed entrai in San Martino: in paese non incontrai ostacoli. Non si vedeva in giro un’anima.

“Mood Moda, voglio i tronchetti.”

“E’ chiuso.”

“Fa orario continuato.”

“La smetta.”

“Con le micro borchie.”

“Sarà per un’altra volta.”

“Mi faccia telefonare al punto vendita.”

La ignorai. Armeggiò a lungo con lo smartphone.

“Non risponde nessuno.”

“Che strano eh?”

“Se crede di ferirmi con il suo sarcasmo, si sbaglia.”

Nei pressi del Bennet dovetti rallentare e fermarmi di nuovo: un gregge di pecore occupava entrambe le corsie. Non se ne vedeva la fine.

“Perché ci siamo fermati?”

“Secondo lei?”

Prima che potessi aggiungere una sola parola, Domitilla scese dall’auto e si mise a gridare: “Pastore, pastore!”.

Poi, rivolta verso di me:

“Deve esserci per forza un pastore. Dove c’è un gregge, c’è anche un pastore.”

E riprese a gridare. D’un tratto, dal gregge emerse una figura umana: era un uomo piccolissimo, arrivava al garrese delle pecore, sarà stata alto al massimo 90 cm. Per questo non l’avevamo visto.

“Ha bisogno signora?”

“Ci fa passare? Dobbiamo andare a Torre Beretti.”

“A Torre Beretti? Ma non lo ha visto il fumo?”

“Che fumo?”

“Di là, guardi bene.”

Scesi dall’auto e solo in quel momento mi resi conto che, in direzione Sannazzaro, si ergeva un’enorme colonna di fumo nero.

“Che è successo?”

“Hanno bombardato la Raffineria.”

“E chi l’avrebbe bombardata?”, domandai al pastore-nano.

“Non ne ho idea. So solo che ho visto sfrecciare degli aerei e poi, dopo un po’, ho sentito i boati.”

Tornai in macchina. Domitilla tornò a sedersi sul sedile posteriore, con un’espressione affranta.

“Senta”, dissi, “non so cosa stia succedendo, ho l’impressione che tutto stia andando alla malora. Per stanotte, se vuole, può dormire da me. La casa è grande, per quanto fatiscente. Sempre che si riesca a passare. A questo punto, non so cosa ci aspetta dopo Santa Croce.”

“E’ la fine, la fine.”

Sentii bussare alla portiera.

Era il pastore-nano che mi porgeva una bottiglia di grappa.

“La tenga pure, ne ho altre, le ho prese al supermercato, è tutto gratis.”

“Come gratis?”

“Non c’è nessuno alla casse, a parte i morti.”

Domitilla mi strappò la bottiglia di mano e bevve una lunga sorsata a garganella.


Pietro Ferrari, marzo 2020

lunedì 2 dicembre 2019

 
TOP SENSATION 

Titolo originale: Top sensation
AKA: The Seducers
Anno: 1969
Paese: Italia
Lingua: Italiano
Colore: Colore
Rapporto: 1,33 : 1
Genere: Drammatico, erotico 
Regia: Ottavio Alessi
Soggetto: Lorenzo Ricciardi
Sceneggiatura: Lorenzo Ricciardi, Nelda Minucci, Ottavio
     Alessi
Produttore: Franco Cancellieri
Casa di produzione: Aica Film
Distribuzione in italiano: Cineriz
Fotografia: Sandro D'Eva
Montaggio: Luciano Anconetani
Musiche: Sante Maria Romitelli
Costumi: Giuliana Serano
Trucco: Anchise Pieralli
Fonici: Ivo Benedetti, Adriano Taloni 
Assistente di camera: Oddone Bernardini
Fotografo di scena: Mario Sigmund
Interpreti e personaggi:
    Maud de Belleroche: Mudy, la cougar sadiana
    Maurizio Bonuglia: Aldo, il fotografo
    Edwige Fenech: Ulla, la prostituta 
    Rosalba Neri: Paula, la moglie bisex di Aldo
    Ruggero Miti: Tony, il figlio demente di Mudy
    Eva Thulin: Beba, la pastorella neolitica
    Salvatore Puntillo: Andro, il pastore neolitico
Doppiatori italiani:
    Giacomo Piperno: Aldo, il fotografo
    Angiolina Quinterno: Ulla, la prostituta 
Altri titoli:
     Swinging Young Seductresses
     USA: Sensations
     Germania Occidentale: Sklavin ihrer Triebe
     Turchia: Aşırı Duygular
 
 
Colonna sonora: 
1.  Tema di sensation (titoli di testa) (2:43)
2.  Tema di Beba (3:49)
3.  Aldo e Ulla (2:22)
4.  Paola e Mudy (2:24)
5.  Beat del panfilo (1:46)
6.  Incontro con Beba (4:06)
7.  Sul ponte dello yacht (1:51)
8.  Tony e Mudy (3:29)
 
Trama: 
Uscito il 29 marzo del 1969, il film di Ottavio Alessi racconta la storia di un terzetto di nichilisti - Mudy, una virago ricca e bisessuale (Maud de Belleroche) e la sua coppia di amanti: Aldo (Maurizio Bonuglia) e la moglie di lui, Paula (Rosalba Neri) - in crociera su uno yacht.
Mudy ha un figlio demente, Tony (Ruggero Miti), reduce da un ricovero psichiatrico in Svizzera per aver dato fuoco alla casa della madre. Nel vano tentativo di farlo rinsavire, costei – su consiglio di Aldo, il quale spera che la megera gli intesti una concessione petrolifera - imbarca una prostituta sullo yacht: Ulla (Edwige Fenech, in una delle peggiori interpretazioni della sua carriera).
Tony però non mostra alcun interesse per le grazie di Ulla (e di Paula), preferendo incendiare riviste e giocare con le macchinine nella sua cabina.
A non essere indifferente alle moine di Ulla è Aldo, il quale si distrae dalla guida dell'imbarcazione, facendola incagliare in una secca nei pressi di un'isola.
Tony ne approfitta per fuggire a terra su un barchino. E una volta sull’isola che fa? Si rotola tra i rovi e il pietrame, come un perfetto imbecille.
Beba (Eva Thulin), un’improbabile pastorella, scorge l’idiota coperto di lividi e va in suo soccorso.
Nelle intenzioni dello sceneggiatore, Beba dovrebbe rappresentare il ritratto dell’innocenza, l’opposto antropologico del tipo borghese dissoluto e senza scrupoli personificato dalla perfida Paula.
Accortisi dell'assenza di Tony, i tre nichilisti e Ulla scendono a terra per cercarlo. O meglio, si dedicano ad altri passatempi: Paula, armata di fucile, prende a sparare per divertimento a delle povere caprette, Aldo scatta foto sexy (o pretese tali) a Ulla. Gironzolando, infine, scorge Tony a colloquio con la pastorella nei pressi di una cascina fatiscente. Dunque una donna  capace di far uscire il folle dalla catatonia esiste! Aldo non ci pensa due volte a convincere la ragazza a seguirli a bordo dello yacht.
Beba però ha un marito, Andro (Salvatore Puntillo), un individuo rozzo e primitivo dall’aspetto bestiale. Questi dopo aver dato in escandescenze per l’uccisione delle caprette si placa allorché Mudy gli promette un risarcimento di 300 dollari.
Una volta a bordo, Beba riesce non si sa come, dopo essersi calata in mare, a disincagliare lo yacht. Con la scusa di darle abiti asciutti, Paula e Ulla intraprendono un tentativo di seduzione ai danni dell’innocente pastorella, interrotto dall’irruzione in cabina della vecchia Kapò.
Questa, su suggerimento di Aldo, intende servirsi di Beba come esca sessuale per il figlio pazzo.
Andro raggiunge lo yacht e sale a bordo. Per “distrarlo” Paula, consenziente il marito, gli si concede. Mudy, Aldo e la ebete assistono alla scena.
Nel frattempo, il demente in cabina strangola la povera Beba.
Quando i tre nichilisti se ne accorgono è troppo tardi.
Che fare?
Paula ha un’idea: accoppare Andro. Cosa che provvede a fare subito con una fucilata in pieno petto.
Liquidato l’energumeno, non resta che sbarazzarsi dei cadaveri.
Mentre, inspiegabilmente, i due coniugi e la ebete si attardano ad ascoltare canzonette sul ponte, Tony, non visto, strangola la madre e prende il comando dello yacht.
Il film si chiude così, lasciando lo spettatore attonito. 

(Pietro Ferrari) 
 
 
Recensione:
Tra le tante perle degli anni '60 e '70, mi è sfuggita anche questa. Quando ho potuto conoscere e visionare Top Sensation, avevo ormai passato i 50 anni. Le atmosfere che irradiano da questa pellicola mi trasmettono qualcosa di vago e indefinito, rievocano un'epoca che non ho potuto vivere nella piena consapevolezza, essendo allora soltanto un moccioso, un umano allo stadio larvale. In me persiste l'impressione che i colori fossero diversi, che nel cielo brillasse un sole diverso da quello di oggi. Le fisionomie delle persone erano inusuali. Tutto era strano e molto sfocato. Mi pare quasi che fossero un po' diverse le stesse leggi della fisica, che gli stessi legami chimici avessero proprietà un po' diverse, come se l'Universo mutasse nel tempo per piccoli passi impercettibili e noi non riuscissimo ad accorgercene, se non attraverso registrazioni di come era in precedenza.
 
Riporto alcuni pensieri del Fratello Pietro:

Il film di Ottavio Alessi, uscito nel 1969, è una commedia nera nichilista, anticipatrice di temi che si ritroveranno, a distanza di decenni, nei romanzi di Michel Houellebecq.
I protagonisti sono, indistintamente, degli scellerati - con la sola eccezione della pastorella Beba, un personaggio peraltro del tutto implausibile.
Ottime le interpretazioni di Maud De Belleroche, la virago bisessuale proprietaria dello yacht, di Rosalba Neri, nel miglior ruolo della sua carriera d'attrice, e di Maurizio Bonuglia (che diede il peggio di sé, cinque anni dopo, nel film Il profumo della signora in nero).
Pessima Edwige Fenech, inespressiva oltre il tollerabile.
(Pietro Ferrari) 
 
Considerazioni sparse 

Tecnicamente parlando, è la cronaca di un genocidio. Certo, il popolo sterminato era costituito da due persone soltanto, ma non fa differenza. Noto una piccola incoerenza: gli isolani si esprimono in perfetto italiano, mentre mi sarei aspettato un dialetto incomprensibile, strettissimo. Il divario tra loro e le genti dell'imbarcazione da diporto è stridente, paragonabile a quello che separava i Guanche delle Canarie dagli Spagnoli. 


Come spesso accade, siamo di fronte a un film che è un residuo di un'epoca finita. Stando ai moderni canoni, non sarebbe più possibile nemmeno pensarlo. Sarebbe ucciso sul nascere dal politically correct. Prendiamo per esempio il figlio demente della virago Maude. Pensate che sarebbe ancora possibile presentarlo così? No di certo. L'idea che un autistico possa essere un sadico assassino, capace di uccidere a sangue freddo, non è semplicemente ammissibile. 
 
Il pastore neolitico smegmatoso e la sua consorte dalla chioma rossiccia rappresentano il vecchio mondo, la società contadina e cattolica, estintasi a causa di un'improvvisa discontinuità antropologica. Un nuovo tipo umano, rappresentato da un'alta borghesia edonistica e predatoria, ha fatto la sua comparsa e si è imposto ovunque. Si può scorgere un parallelismo con lo sviluppo e con la diffusione dei dinosauri durante il Triassico. Possibilità di comunicazione tra questi tiranni e i rimasugli del mondo precedente: ZERO. 

Il vecchio tipo umano, l'archeantropo, diventa una cosa, un oggetto. Viene completamente reificato. Come una cavia in un laboratorio di vivisezione o come una lucertola in balia degli artigli di un gatto animato dal sadismo.  
 
 
Ulla e la capretta 
 
Parlerò ora dell'ennesimo relitto di un mondo anteriore all'imporsi del sentire oggi prevalente, in cui si potevano pensare e rappresentare cose che in questo inizio del XXI secolo provocherebbero le ire di intere comunità. La prostituta impersonata dalla Fenech, Ulla, si fa leccare da una capretta, prima sul seno e poi tra le gambe. Se una scena simile fosse girata oggi in un film anche di nicchia, insorgerebbero folle di animalisti furiosi. Urlerebbero che l'attrice ha stuprato l'animale e pretenderebbero di linciarla per vendicare l'offesa al loro culto zoolatrico. Eppure la povera bestiola ha soltanto messo la lingua su un po' di sale collocato sul pube dell'attrice, come l'avrebbe leccato se fosse stato messo su una pietra.   
 
Gordiano Lupi mette addirittura in dubbio l'esistenza di queste sequenze di bestialità erotica. Arriva a dire, non senza irrisione, di essere costretto a crederci perché alcuni importanti critici confermano la cosa, anche se dentro di sé sembra permanere incredulo. In realtà gli è capitato di vedere una versione tagliata e in buona sostanza non crede possibile che ne esista una con più fotogrammi. Come dire che se una cosa non l'ho vista, non la può aver vista nessuno. Ebbene, ho visto coi miei occhi la Fenech farsi leccare proprio sul cunnus dalla capretta - e possa Thor fulminarmi se proferisco il falso! Detto questo, riporto senz'altro il link all'articolo scettico di Lupi, comparso sul sito Lib(e)roLibro (www.liberolibro.it): 
 

Che altro dire? Tanto clamore per Ulla e la capretta. Poi nel Web c'è un intero universo di porno animal e nessuno dice nulla. 


Avida leccatrice e spietata carnefice 

Aldo non esita a far prostituire la moglie. La posta in gioco non è cosa di poco conto: una concessione petrolifera. Pur avendo un carattere fierissimo e indomito, la splendida Paula si presta a servire sessualmente l'avvizzita cougar Mudy, umiliandosi, inginocchiandosi nuda davanti a lei, baciandole e leccandole i piedi. Anche se osservando le sequenze del suo rapporto con la virago è difficile crederlo, Paula è capace di diventare un'efferata assassina a sangue freddo non appena le circostanze lo richiedono. È sorprendente la facilità con cui abbatte a fucilate il pastore neolitico per impedire che venga a scoprire la morte della moglie e scateni un putiferio. Il cervello della bellissima e sensuale Paula non è umano in senso proprio: sembra costituito dal solo encefalo rettiliano, come se fosse privo del sistema limbico e della neocorteccia, quindi incapace di elaborare le emozioni. Siamo di fronte a un vero e proprio mostro. L'aspetto esteriore non deve trarre in inganno. Come ricorda Cioran, non esiste nulla di più falso dell'affermazione di Origene secondo cui ogni anima ha il corpo che si merita. 

Nemesi 

Nonostante i suoi deliri di onnipotenza e la sua convinzione di essere una divinità in terra, la tirannica Mudy fa una ben misera fine. Mentre è al timone dello yacht, accade qualcosa di inatteso: il figlio demente le si avventa addosso, animato dall'impulso di consumare con lei un amplesso incestuoso. Lei sembra cedere a tale furia copulatoria. Sembra che le faccia piacere essere posseduta dal figlio. L'eccitazione fa accendere una scintilla omicida nel cranio dell'autistico, che non esita a strangolare la madre. Il film si chiude in modo inatteso con una citazione scritturale, mentre lo yacht procede verso la distruzione.

Non ti mettere in compagnia dei peccatori e ricordati che l'ira non tarderà
(Ecclesiaste 7-16) 
 
Tutto ciò è semplicemente geniale. Non credo che la Settima Arte potrebbe riservarci ancora sorprese simili.  
 
L'incomprensibile operato dei censori 
 
Cosa strana e difficile a interpretarsi, non mi risulta che Top sensation sia stato colpito dalle ire della censura come Interrabang, uscito nove mesi dopo, il 31 dicembre 1969. Ho letto che è stato persino trasmesso in prima serata su una rete berlusconiana, seppur in una versione tagliata da cui sono state epurate le leccate bestiali della capretta e altre scene erotiche. In ogni caso non c'è stato alcun sequestro ad opera di un magistrato. Eppure i contenuti di Top sensation sono ben più forti ed eversivi di quelli di Interrabang. Due pesi due misure? Come si può spiegare la cosa? Mi viene il sospetto che ciascun magistrato agisse in modo del tutto scollegato dagli altri, senza nessuna linea d'azione comune. In pratica ognuno era come il signore di un feudo. I provvedimenti erano erratici: sembra che l'azione repressiva scattasse soltanto per un puro arbitrio, forse in seguito a qualche segnalazione o in ogni caso per via di circostanze particolari. Così Interrabang ha destato l'attenzione spropositata del giudice che ha applicato misure draconiane ordinandone il sequestro, mentre Top Sensation è passato praticamente inosservato. Non è facile trovare nel Web dettagli sull'argomento. Se c'è qualcuno che può darmi lumi, lo ascolto ben volentieri. 
 
Ricerche correlate a "Top Sensation"
 
Google, sempre più prodigo di informazioni futili, ogni tanto fornisce comunque qualcosa di interessante. Quando si digita la stringa "Top Sensation" nella finestra di ricerca, proprio sotto compaiono in caratteri blu le principali query degli utenti. Eccole:
 
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eva thulin 

Quella capretta non vuol proprio saperne di cadere nell'Oblio! 😃
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 
 
Alcuni commenti interessanti sono apparsi sul sito Il Davinotti: 
 

"Puro cinema volto a soddisfare certi pruriti visto che la pornografia, allora così rara e per pochi, non riusciva ad arrivare a tutti."
(Markus) 

"Ben inferiore al coevo Interrabang, col quale condivide ambientazione e aspetti esteriori del racconto, perdipiù molto meno coinvolgentemente schizofrenico rispetto alla prima regia di Alessi."
(Giùan) 

"Resta un film spensierato e frizzante, a suo modo simbolo di un'epoca ormai estinta (in parte è bene, in parte è male) che oggi nessuno mai si azzarderebbe a mettere più in campo, se non spingendo l'azione verso lidi estremi (ovverosia hardcore)."
(Undying) 
 
 
Su Allmovie si trova una sinossi in inglese, che vale la pena riportare in questa sede, contenendo alcuni elementi utili:  
 

This preposterous sex melodrama stars pretty Edwige Fenech as a prostitute hired by the overbearing mother (Maud de Belleroche) of a shy, mentally-retarded 20-year old named Tony. Fenech is meant to claim Tony's virginity on a sea cruise, also attended by sexy Paula (Rosalba Neri) and her slimy husband Aldo, who incessantly try to curry the wealthy mother's favor. Ewa Aulin (Candy) shows up as an island girl who dies when the dull-witted Tony accidentally strangles her, leading her husband to board the ship, where he is quickly dispatched by the rifle-toting Neri. Bodies are exploded with dynamite, Neri models a leather bikini, and there is much sexual byplay, both straight and lesbian. Cult buffs will appreciate seeing two of the most famous sex symbols in Italian genre film, Fenech and Neri, sharing the screen in revealing costumes, but anyone looking for high drama would be best served elsewhere. Exploitation master Jerry Gross released the film in America.
(Robert Firsching) 

Con mia grande sorpresa vengo a scoprire che Beba, la pastorella neolitica, è stata rinominata Candy dagli anglosassoni. Il dettaglio sulla diffusione della pellicola in America è interessante. Infatti è risaputo che le genti della Terra dei Coraggiosi sono sconvolti dalla bestialità erotica a tal punto da equipararla alla pedofilia o da ritenerla anche più grave. Le radici di questo atteggiamento sono senza dubbio bibliche. Ne deduco che la scena della Fenech leccata dalla capretta debba per necessità mancare nella versione americana!

giovedì 28 novembre 2019

IMPREVISTI
 
Avrà avuto ventotto anni al massimo. Una bella ragazza maghrebina, di corporatura minuta. Mi osservava sorridendo. Ero al terzo cocktail, quindi non propriamente lucido. Viviana, seduta al mio fianco, se ne uscì dicendo:
“Che dici, la chiamiamo?”
“Chiamiamola.”
Com’era sua abitudine, cambiò idea quasi subito.
“Aspetta, chiedo a Q.”
“Chiedi.”
La vidi avvicinare il gestore del locale, un egiziano. Chiacchierarono a lungo.
La giovane maghrebina non smetteva di fissarmi.
Vuotai il bicchiere e mi alzai, dirigendomi verso i due dialoganti.
“Dice Q. che tra un paio d’ore ne dovrebbe arrivare da Milano un’altra più bella.”
“L’ho presentata a una coppia, marito e moglie, mi hanno detto che è stata fantastica”, puntualizzò il gestore, “Li ha fatti impazzire di piacere”.
Viviana mi fece segno di seguirla all’esterno del locale.
Appena fuori si accese una sigaretta e disse:
“Bisogna portarla in un motel, Q. non affitta più le stanze.”
Dal tono intesi che la situazione non suscitava più il suo interesse.
Colsi la palla al balzo.
“Senti, è l’una e mezzo, non mi va di aspettare due ore una che manco so chi sia.”
“Ma sì, infatti.”
Pagai il conto e ce ne andammo.
Per essere dicembre, non faceva neanche tanto freddo. Niente brina sul parabrezza.
Misi in moto.
Fatte poche centinaia di metri, l’utilitaria che viaggiava davanti alla mia rallentò e accostò a destra. Intravidi un agente dei carabinieri con la paletta in mano. Se avessero fermato me, addio patente.
Per tutto il tragitto Viviana non fece altro che parlare dell’unico argomento che le stesse realmente a cuore: se stessa. Un ininterrotto flusso autoreferenziale, un monologo vacuo, desolante. 
La lasciai a casa e tornai al bar, seguendo un itinerario alternativo per evitare la pattuglia dei caramba. La ragazza era là dove l’avevo lasciata. Mi presentai.
“Piacere, mi chiamo Marco”.
“Sofia. Sapevo che saresti tornato.”
Accarezzai, più che stringere, la sua mano morbida e ben curata.
“Che ne diresti se ci facessimo un giro?”
“Dove?”
“Al Diamante. Un quarto d’ora e siamo lì.”
“Fanno 4 Vu.”
“D’accordo.”
Salimmo in macchina.
Dieci minuti più tardi, parcheggiai nel posteggio interno del motel. Non era certo popolato: cinque vetture compresa la mia.
Al banco della reception, il deserto.
Sofia sedette su una poltrona e prese a sfogliare una rivista.
Un urlo spaventoso, proveniente dal piano superiore, risuonò nella hall. Sofia scattò in piedi come una molla.
“Andiamo via subito!”
Ci fiondammo all’esterno. Neanche il tempo di mettermi alla guida e dall’ingresso del motel vidi uscire un uomo corpulento con una camicia bianca imbrattata di sangue. Aveva un’espressione folle stampata in volto.
“Parti, cazzo, parti!”
Innestai la prima e lasciai il posteggio a tutta birra.
Nello specchietto retrovisore, intravidi il tizio che correva a perdifiato, inseguendoci.
“Quello è un pazzo fottuto!”
Sofia era terrorizzata, si calmò solo quando entrammo in Pavia.
“Ti riporto al bar?”
“Sì sì per favore. Ti spiace se ci vediamo un’altra volta?”
“Non c’è problema.”
Quando arrivammo, il bar era chiuso.
“E adesso come faccio?”
“Non ti preoccupare. Ti do un passaggio a casa. Dove abiti?”
“Milano, via Chiesa Rossa. Sai dov’è il Takeout?”
“Sì.”
“Grazie, sei un tesoro.”
“Secondo me quello ha ammazzato qualcuno.”
“Non sono fatti nostri.”
“Ci sono telecamere a circuito chiuso in quei posti.”
“E con ciò? Mica abbiamo fatto niente di male. Siamo entrati e siamo usciti.”
“Articolo 593 codice penale.”
“Cos’è? Non sono un avvocato.”
“Omissione di soccorso.”
“Cosa conti di fare, chiamare gli sbirri?”
Eravamo all’altezza del mobilificio di Corso Partigiani, appena prima di entrare a Certosa. Si scorgevano distintamente i lampeggianti di due ambulanze nei pressi del semaforo, in mezzo al paese.
“Tutte stanotte capitano?”
Rallentai l’andatura. Il transito sulla statale dei Giovi era bloccato: oltre alle ambulanze, altre vetture erano ferme in mezzo alla strada, alcune messe di traverso. Si vedevano vetri rotti e, quel che è peggio, corpi umani riversi sull’asfalto.
Accostai e feci inversione.
“Dove sono gli infermieri?”
“Non ne ho idea. Passiamo da Pontelungo.”
“Prendi per il Cantone Tre Miglia”
“No Sofia, è una strada stretta: se troviamo un ostacolo siamo fottuti. Preferisco allungare il tragitto e non correre rischi.”
Lungo il rettilineo dopo Ponte Carate non incrociai una macchina che fosse una.
Sofia smanettava al cellulare.
“Ho provato a chiamare le mie amiche. Non mi risponde nessuna!”
A duecento metri dalla rotonda di Zeccone, vidi il lampeggiante blu di un’auto della polizia. Un agente, in piedi in mezzo alla strada, stava puntando la pistola in direzione di un gruppo di persone nei pressi delle case. Si udirono colpi di arma da fuoco.
Invertii nuovamente direzione.
“Ma si può sapere che succede stanotte? Senti Sofia, vieni a dormire a casa mia e domattina ti porto a casa.”
“Sempre se ci arriviamo.”
Non replicai, sapevo che aveva ragione.
Accesi l’autoradio.
Un cronista di Radio Popolare stava parlando di violenti scontri in corso a Milano.
Sofia si mise a pregare in arabo. 
 
Pietro  Ferrari, novembre 2019

lunedì 25 novembre 2019

TRANSAZIONI

Al mio ingresso nel locale fui colpito  da una ventata di odore acre e nauseabondo: una mescolanza di sudore ascellare e inguinale, maschile e femminile, fumo di narghilè, profumi  dozzinali. Un vero e proprio uppercut olfattivo. Vacillai per un istante. Sabrina, la donna con cui avevo deciso di trascorrere la serata, mi precedeva. Pagai alla cassa per entrambi, affidai il cappotto alla guardarobiera sudamericana e mi immersi nella calca. La mia compagna pareva perfettamente a proprio agio in mezzo a quegli afrori animaleschi. La sala era affollata di energumeni tatuati dall’aspetto patibolare e donne abbigliate come battone. Gli altoparlanti trasmettevano a volume altissimo motivi musicali in lingua spagnola. “Prendiamo qualcosa da bere?”, domandò Sabrina. Mi diressi al bar e ordinai due cocktail. Il barista, un tipo con l’aria da galeotto, mi servì due cocktail a base di vodka di infima qualità. Sabrina aveva già fatto amicizia con una perfetta sconosciuta, un troione di provenienza balcanica. Le passai il bicchiere.
“Vado a sedermi.”
Non c’era traccia di divanetti liberi. Guardandomi intorno riconobbi con stupore un tale conosciuto molti anni prima, appollaiato tutto solo su una seggiola in un angolo del locale. Era un insegnante di religione, un personaggio ambiguo. Mi avvicinai.
“Salve, si ricorda di me?”
“Certo, l’ho riconosciuta appena l’ho vista entrare. Come sta?”
“Bene. Lei?”
“Carina la sua fidanzata.”
“Non è la mia fidanzata. E’ una tipa con cui esco.”
“Capisco. Lei mi è sempre parso una persona seria, affidabile. Potrei chiederle un favore?”
“Sentiamo.”
“Dovrei sbrigare una faccenda ma non posso procedere personalmente. Le interessano mille euro?”
“Dipende dalla faccenda.”
“Ho un pacco in cantina e vorrei liberarmene.”
“Quanto pesa questo pacco?”
“78 kg”
“Voluminoso, direi. Ed è stabile?”
“No, si muove, questo è il punto. Gradirei stabilizzarlo, capisce?”
“E non può provvedere da sé?”
“Non ci riesco, per questo mi serve un aiuto.”
“Mille euro non compensano il rischio.”
“Facciamo duemila?”
“Sta scherzando? Diecimila o non se ne parla.”
“No no, è troppo… Cinquemila al massimo.”
“Per cinquemila le stabilizzo il pacco ma allo smaltimento ci pensa lei.”
“Va bene.”
“Mi dia il suo numero.”
Registrai il numero tra i contatti del cellulare e mi allontanai. Sabrina stava ballando in pista con il troione balcanico.
Le feci segno di avvicinarsi.
“Questo posto puzza e la musica fa schifo. Io non ci resto un solo minuto di più.”
“A me piace.”
“Come preferisci. Fatti riaccompagnare a casa dalla signora, allora. Hasta la vista.”
Le voltai le spalle senza prestare la minima attenzione alle sue recriminazioni, ritirai il cappotto al guardaroba e mi levai di torno.
L’indomani inviai un messaggio al prof con un burner phone pagato venti euro.
“Mi dia il suo indirizzo.”
La risposta arrivò all’istante.
Due ore dopo, bussavo alla sua porta. L’abitazione dell’insegnante pareva uscita dalle pagine di Edgar Allan Poe: una villetta a due piani, fatiscente, in preda al disfacimento. Lo specchio di una psiche devastata, prossima al crollo.
Prima di farmi entrare sbirciò furtivamente tutto intorno, come se temesse di essere spiato.
“Si accomodi.”
“Prima di accettare l’incarico, voglio vedere il pacco.”
“Va bene. E’ armato?”
“Lo sono sempre.”
 “Le faccio strada.”
“Un attimo.” Indossai una maschera da giocatore di hockey.
Scendemmo in cantina.
Era un locale angusto, l’aria sapeva di muffa. Il prof accese la luce.
Una figura umana incatenata a una colonna, giaceva a terra, distesa su un sacco a pelo.
Era un uomo sui sessant’anni, imbavagliato e dall’aria terrorizzata.
“Vede?”
Risalimmo.
“Allora, accetta?”
“Prima voglio sapere chi devo uccidere.”
“E’ un preside. Non le occorre sapere altro.”
“Lo decido io cosa mi occorre o no. Perché lo vuole morto?”
“Perché è uno stronzo, mi ha reso la vita impossibile.”
“Ok.”
“Allora è d’accordo?”
“Prima i soldi.”
“Non li ho qui con me.”
“Non si faccia sentire sino a quando non li avrà disponibili, tutti e sull’unghia, in banconote da 50. E si ricordi che allo smaltimento dovrà provvedere di persona. Sacchi neri della spazzatura ne ha? Un vecchio impermeabile?”
“Sì sì.”
“Serviranno anche un secchio e parecchi stracci.”
“La prossima volta mi faccia trovare i soldi. E niente stronzate, intesi?”
“Intesi.”
Stavo per salire in macchina quando squillò il cellulare. Era Sabrina.
“Cazzo vuole sta puttana di merda?”. Rifiutai la chiamata.
Appena a casa controllai il funzionamento della motosega. Era a posto. Tirai fuori dalla sgabuzzino gli stivali di gomma. Avrei utilizzato la visiera protettiva che impiegavo solitamente con il decespugliatore, per evitare gli schizzi di sangue in faccia durante il depezzamento della salma.
L’indomani mattina ricevetti una chiamata dal prof.
“Quando può venire?”.
“C’è il fluido?”
“Tutto quanto.”
“Alle 21. Mi faccia trovare il cancello aperto.”
Trovai il cancello aperto e il prof seduto in veranda.
Prelevai il materiale da lavoro dal bagagliaio.
“Non perdiamo tempo.”
Appena dentro casa, poggiai il borsone in corridoio.
“I soldi.”
Il prof prese una busta dal ripiano di un mobile.
Era gonfia di pezzi da cinquanta. Li contai: c’erano tutti.
Suddivisi il malloppo e lo riposi nelle tasche capienti del giubbotto, chiudendo le cerniere.
“Secchio, stracci e sacchi neri sono già in cantina?”
“Sì.”
“Disponga gli stracci sul pavimento, tutto intorno al suo ospite temporaneo. Appena ha terminato, risalga. Ha con sé le chiavi del lucchetto?”
Mi osservò come inebetito.
“Allora?”
“Ce le ho.”
“Si muova.”
Mi tolsi le scarpe e calzai gli stivali di gomma, indossai i guanti in pelle e l’impermeabile di plastica.
Avvitai il soppressore di suono alla Glock 17 e rimasi in attesa.
Il prof tornò dopo poco.
“Metta l’impermeabile. Guanti da lavoro ne ha?”
Il prof assentì.
Indossai cuffia e visiera protettiva e sollevai il borsone: “Diamoci da fare.”
Scendemmo in cantina.
Appena entrati, mirai alla testa del sequestrato e gli piantai due proiettili nel cranio, nel giro di un secondo.
Il prof rimase scioccato dalla fulmineità dell’azione.
“Sciolga le catene al preside, forza.”
Il cadavere si afflosciò sugli stracci.
“Prenda il secchio e sollevi il morto.”
“Ma pesa.”
“Non rompere il cazzo. Sollevalo quel tanto che basta per far pendere la testa sul secchio.”
Presi dal borsone il coltello da sub e tagliai la gola al preside.
Il sangue sprizzò copioso nel secchio.
“Facciamo scendere il grosso.”
“Pesa troppo.”
Lo aiutai a tenere sollevato il cadavere.
“Può bastare.”
Adagiammo la salma e la svestimmo.
“Adesso viene la parte brutta.”
Tirai fuori dal borsone la motosega.
“Sollevagli la gamba sinistra e tienila stretta per il piede. Hai capito?”
Il prof, bianco come un cencio, fece segno di sì.
Avviai la motosega, tagliai gambe e braccia e decapitai il cadavere.
“Prendi quel cazzo di sacchi neri e sistema un pezzo per sacco. Il torso è un problema. Dovrò sventrarlo e svuotarlo.”
Il prof fu colto dai conati di vomito.
“Se mi rigetti addosso ti sparo. Non scherzo.”
Gli passò subito la voglia.
Al termine dell’operazione, eravamo imbrattati di sangue e altri fluidi innominabili, come due macellai.
Sul pavimento della cantina giacevano nove sacchi neri, due dei quali contenenti stracci imbrattati di sangue e abiti.
“Il preside aveva con sé portafoglio e documenti quando lo hai sequestrato, suppongo.”
“Sì.”
“Falli sparire, distruggili questa notte stessa.”
Con uno straccio, ripulii, per quanto possibile, la motosega.
“Non fare la stronzata di abbandonare i sacchi neri tutti nello stesso posto, capito? Sparpagliali in giro. E fa’ attenzione alle telecamere vicino ai cassonetti. Anche il tuo impermeabile e le scarpe devono sparire. Prendimi un sacco nero. Vuoto.”
Risalimmo al pianterreno.
Mi tolsi  visiera, stivali, impermeabile di gomma e li riposi nel sacco.
“Di questi mi occupo io. Tu pensi al resto, e senza perdere tempo. Vatti a fare una doccia prima di uscire, che hai i capelli unti di sangue rappreso.”
Accostai il più possibile l’auto all’ingresso col bagaglio aperto. Caricai la mia roba.
“Entro 12 ore devi far sparire tutto quello che c’è in cantina. Svuota il secchio nel cesso. Quando hai finito, avvertimi. Se ti dimentichi di farlo, verrò a cercarti e non sarò di buon umore.”.
Misi in moto e me ne andai.
Sbirciando nello specchietto retrovisore, vidi il prof chiudere il cancello e rientrare in casa.
Ventiquattro ore dopo, ricevetti un messaggio laconico: “Sistemato”.
Distrussi il cellulare.
La questione poteva dirsi chiusa. 
 
Pietro Ferrari, novembre 2019