domenica 30 giugno 2019

TEDESCO NACHEN 'PICCOLA BARCA' E NORRENO NǪKKVI 'BARCA, NAVE': UN RELITTO PREINDOEUROPEO

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

nǫkkvi (m.), barca; nave
   gen./dat./acc. nǫkkva 
   plurale: 
   nom. nǫkkvar, gen./acc. nǫkkva, dat. nǫkkvum 


Si tratta di un vocabolo poetico, che non ricorrereva nella lingua corrente. È anche attestato come nome proprio maschile di persona: Nǫkkvi. L'antroponimo era tipico dei Vichinghi e fu portato da un loro capitano, un Re del Mare.   

Il tedesco moderno ha una parola imparentata: Nachen (m.) "piccola imbarcazione". Si tratta di un diretto discendente del medio alto tedesco nache, a sua volta dall'antico alto tedesco nahho "barchetta, barca fluviale". In antico sassone si ha nako "barchetta", ovviamente senza rotazione consonantica.

Anche in antico inglese esiste una parola derivata dalla stessa radice: naca (m.) "barca; nave". Il suo uso era esclusivamente poetico. Purtroppo questa singolare voce è andata perduta abbastanza presto, a causa del tremendo trauma che ha portato nel lessico anglosassone ingenti quantità di materiale romanzo dall'antico francese, facendo diventare obsolete moltissime parole ereditate. 

In olandese abbiamo aak "piccola imbarcazione (per navigare nei canali)". Evidentemente l'assenza della nasale iniziale è dovuta a deglutizione. In altre parole, si dovrebbe avere *naak, ma la consonante n- è stata interpretata come parte dell'articolo indeterminativo: a un certo punto een *naak è diventato een aak. In medio olandese è attestata sia la forma con nasale integra, naecke, che quella con nasale deglutita, aecke. Questo fenomeno esiste anche in antico frisone, che ha âke, âk (aek, aak in frisone occidentale moderno). 

Non abbiamo attestazioni nella lingua dei Goti. Se il vocabolo fosse stato presente, sarebbe sicuramente *naqa, con la declinazione debole maschile: gen. *naqins, dat. *naqin, acc. *naqan; pl. nom./acc. *naqans, gen. *naqane, dat. *naqam. Troverei strana l'assenza di questa parola in gotico, dato che è stata ereditata da tutti gli altri rami del germanico.

Si ricostruisce agevolmente una forma protogermanica *nakwæ:n "barca; nave". Veniamo ora al punto. Qual è l'origine ultima di questa parola? I neogrammatici danno per scontato che si tratti di una forma indoeuropea e ricostruiscono così una radice *nagw- che in modo ridicolo proiettano nelle steppe dell'Asia. Ecco cosa riporta la Wikipedia in tedesco (2019): 

"Ein Nachen (althochdeutsch Nahho, germanisch Nakwa, indogermanisch Nagua) bezeichnet ursprünglich einen Einbaum, ein kompaktes, flaches Boot bzw. einen Kahn für die Binnenschifffahrt." 

Guardando la cronologia della pagina wikipediana, si scopre che a quanto pare queste oscenità sono in Rete dal 2013. Il protogermanico è chiamato "germanisch"; l'indoeuropeo è chiamato "indogermanisch", usando una denominazione obsoleta; le forme ricostruite non hanno asterisco alcuno. L'ortografia usata per la pretesa forma indoeuropea Nagua ha del grottesco, sembra quasi una voce amerindiana ispanizzata. Tutto ciò è talmente rozzo che potrebbe essere stato concepito dalla mente febbrile di un contadino paccianesco in qualche desolata campagna sassone. 

Vediamo che la radice *nagw- deve essere un resto di una lingua di sostrato, anteriore alla formazione del protogermanico. Quello che invece trovo interessante è una sua possibile relazione con l'indoeuropeo *na:w- "nave". Forse si tratta di un prestito remoto, in una direzione o nell'altra. Oppure entrambe le lingue avranno preso questo nome della nave da una terza lingua del tutto sconosciuta. A favore dell'idea che *na:w- sia un prestito in indoeuropeo sta il suo vocalismo peculiare. La /g/ presupposta dal protogermanico /k/ può ben corrispondere a una laringale ricostruibile per uno stadio particolarmente antico dell'indoeuropeo comune. Mentre in indoeuropeo l'antica laringale è scomparsa prolungando per compensazione la vocale precedente, nella lingua preindoeuropa del sostrato nordico si è conservata e indurita, diventando un'occlusiva.

venerdì 28 giugno 2019

IL RIBALDO E LA RIBALDERIA IN NORRENO: UN IMPORTANTE PRESTITO CULTURALE

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulle seguenti voci, estratte dal dizionario di Zoëga

ribbaldi (m.), ribaldo, selvaggio
   gen./dat./acc. ribalda; pl. ribbaldar "ribaldi"
ribbungr (m.), ribaldo
    gen. ribbungs "del ribaldo"; pl. ribbungar "ribaldi" 
ribbalda-skapr (m.), ribalderia 

Trovo notevole la forma ribbungr, il cui suffisso non ha facile spiegazione. L'origine di queste parole è l'antico francese ribautz, ribaltz (obl. ribaut, ribalt, ribaud, ribald) "ribaldo". Il prestito deve essere giunto in norreno nel XIII secolo, nell'epoca gloriosa delle Saghe dei Cavalieri (Riddarasǫgur). A quei tempi la Norvegia era un crocevia in cui l'antica eredità pagana si incontrava con il Cristianesimo ormai imperante e con la poesia cavalleresca della Francia, dando origine alle più bizzarre contaminazioni, del massimo interesse per un filologo.  

Tutti noi ci siamo imbattuti almeno una volta nelle parole ribaldo e ribalderia, ma cosa significano esattamente? Per usare un linguaggio tecnico, in epoca medievale si chiamava ribaldo un soldato di bassa condizione sociale, che viveva di rapine e di saccheggi. Questo riportano i dizionari. In genere il vocabolo è ormai considerato un sinonimo di malfattore e può ad esempio indicare un ladruncolo, un emarginato che vive di espedienti. Tutto ciò è riduttivo. Stando all'originale semantica, il ribaldo è sì un malfattore, un individuo violento e poco raccomandabile, ma in aggiunta è anche libidinoso. La parola dell'antico francese ha connotazioni inscindibili dalla libidine e indica anche un amante lascivo. Designa un uomo dominato da istinti primordiali, capace di sfoderare l'arma davanti a una fanciulla e di cercare il contatto, lo sfregamento, nei casi più gravi anche la penetrazione. La categoria è di per sé piuttosto eterogenea. Ai tempi non comprendeva soltanto i puttanieri e i vecchi sileni bavosi: anche quelli che attualmente chiamiamo pedofili, nel Medioevo erano chiamati ribaldi. Proverbiale era la ribalderia dei canonici!

Vediamo ora di chiarire da dove la lingua d'oïl ha preso la parola in analisi. Nell'antica lingua dei Franchi doveva esistere il verbo *rîban "essere lascivo", corrispondente alla perfezione all'omonimo vocabolo dell'antico alto tedesco, che però è ben attestato: rîban "essere in calore". L'antico francese aveva ereditato il verbo riber "essere licenzioso" proprio dal vocabolo franco. Tramite il suffisso peggiorativo -ald, di origine germanica, si è dunque formato il termine ribaut. La parola ha avuto fortuna e si è diffusa fino in Italia e altrove, giungendo fino in Scandinavia. La protoforma germanica del verbo usato dai Franchi e in Germania è ricostruita come *wri:banan e il suo originario significato è "sfregare" (da cui il medio alto tedesco rîben e il tedesco moderno reiben "sfregare"). Anche in inglese è derivata una parola da questa fonte: il verbo to rub, che significa "sfregare" ma anche "fare sesso". Sì, il ribaldo è colui che sfrega l'uccello addosso all'oggetto della sua libidine sfrenata, senza limiti. 

Tutto parrebbe chiaro. C'è però un problema non di poco conto. A quanto si legge in molti dizionari etimologici e nel Web, sarebbe esistita in antico alto tedesco la voce hrîba "prostituta", che sarebbe la base da cui ha tratto origine l'antico francese ribaut. Questa designazione della meretrice è incompatibile col protogermanico *wri:banan - dovendo risalire a una protoforma con *χr- iniziale. Siccome già nel medio alto tedesco il gruppo hr- si era semplificato in r-, ecco che avremmo un problema di confusione etimologica. Qual è la corretta origine del ribaldo e della ribalderia? Il punto è questo: è davvero esistita la parola hrîba in antico alto tedesco? La risposta sarebbe considerata desolante da molti studiosi: molto probabilmente il vocabolo in questione non è mai esistito. Si tratta di un frutto della mancata verifica delle fonti o addirittura della disonestà intellettuale dei romanisti, che contestano tanto la filologia germanica e i suoi cultori, per poi inventarsi vocaboli fantomatici a seconda delle loro necessità. Ignorano persino i rudimenti più elemenari delle lingue germaniche e della loro evoluzione storica: ad esempio le liste di elementi di adstrato germanico nelle lingue romanze diventano in mano loro qualcosa di incomprensibili e non analizzabile, come se provenissero da lingue preindoeuropee del Neolitico.

La realtà è che esiste soltanto un'occorrenza di *hrîba (mettiamoci questo benedetto asterisco) in tutta la letteratura in antico alto tedesco. Per giunta compare soltanto come glossa. Questo hapax legomenon è anche scritto diversamente. Si tratta di una forma accusativa: HRIPUN, glossata in latino come "prostitutam" in un commento di San Gerolamo al Vangelo di Matteo (il manoscritto si trova nella Biblioteca di Monaco, Clm 14747, f. 93b). Si tratterà di una cattiva trascrizione di *uurîba, che è un chiaro derivato del verbo *wri:banan. Trovo possibile il gruppo consonantico /wr-/ (in genere già semplificato in /r/ in antico alto tedesco), in qualche dialetto abbia dato una rotica diversa da quella consueta (es. un flap anziché un trillo), che il glossatore avrebbe trascritto come HR- per imperizia. Il medio alto tedesco ha il composto hoverîbe "prostituta di corte, cortigiana", che contiene lo stesso elemento. 

martedì 25 giugno 2019

UN INTERESSANTE PRESTITO GRECO IN NORRENO E LA SUA ORIGINE

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

paðreimr (m.), l'Ippodromo di Costantinopoli  

Forme declinate:
sing.

gen. paðreims
dat. paðreimi
acc. paðreim 

pl.
nom. paðreimar 
gen./acc. paðreima
dat. paðreimum


La forma plurale indica soprattutto le arene dell'antica Roma. 

Un sostantivo derivato, che indica le corse nell'Ippodromo: 
paðreimsleikr (m.) "gioco circense"

Riporto un interessante brano tratto dalla Saga di Sigurd il Crociato, di Eystein e di Olaf (Saga Sigurðar Jórsalafara, Eysteins ok Óláfs), detta anche Saga dei figli di Magnus (Magnússona Saga) e contenuta nella Heimskringla (capitolo 12): 

Þar dvalðisk Sugurðr konungr um hríð. Ok eitthvert sinn þá sendi Kirjalax konungr til Sigurðar konungs menn at spyrja hvárt hann vill þiggja af honum sex skippund af rauðu gulli eða vildi hann at keisari láti efna til leiks þess er hann var vanr at láta leika á paðreimi. Sigurðr konungr kaus leikinn. Þá sǫgðu sendimenn keisara Sigurði konungi at keisara kostaði eigi minna fé leikinn en þetta gullit. Þá lét keisari efna til leiks. Ok þá er leikrinn var veittu allir leikar keisara betr þat sinn en dróttningu, er átti hálfan leikinn ok keppir í ǫllum leikum en nú gengr keisara betr ok hans mǫnnum, ok segja Grikkir at þat ár er keisari vinnr fleiri leika á paðreimi en dróttning þá mun keisari vinna sigr í herferð.

Þat segja þeir menn er verit hafa í Miklagarði at paðreimr sé á þá leið gǫrr atveggr hár er settr um einn vǫll, at jafna til víðs túns kringlótts, ok gráður um-hverfis með steinveggnum, ok sitja menn þar á, en leikr er á vellinum. Eru þarskrifuð  margskonar  forn tíðendi,  Æsir  ok  Vǫlsungar  ok  Gjúkungar,  gǫrt  af kopar ok málmi með svá miklum hagleik at þat þykkir kvikt vera. Ok meðþessi umbúð þykkir mǫnnum, sem þeir sé í leiknum, ok er leikrinn settr meðmiklum brǫgðum ok vélum. Sýnisk sem menn ríði í lopti, ok við er ok skoteldr hafðr ok sumt af forneskju. Þar við eru hǫfð alls konar sǫngfœri, psalterium ok organ, hǫrpur, gígjur ok fiðlur ok alls konar strengleikr.

Traduzione (mi si perdoni se è un po' raffazzonata): 

Il Re Sigurd stette là per qualche tempo. Allora il Re Kirjalax inviò uomini da lui per vedere se desiderava accettare sei libbre d'oro di carico navale, o se piuttosto volesse che il Re facesse preparativi per i giochi che l'Imperatore era solito svolgere nell'Ippodromo. Il Re Sigurd scelse i giochi. I messaggeri dissero che i giochi sarebbero costati all'Imperatore non meno di quel quantitativo d'oro. Allora il Re fece i preparativi per i giochi, e i giochi si svolsero nel modo usuale, e tutti i giochi andarono nel modo migliore per il Re quella volta. Metà dei giochi sono della Regina, e i loro uomini hanno gareggiato in tutti i giochi; i Greci dicono che quando il Re vince più giochi della Regina nell'Ippodromo, allora il Re sarà vittorioso se andrà in una spedizione di guerra.  

Gli uomini che sono stati a Bisanzio affermano che un ippodromo è così organizzato che un alto muro è stato sistemato attorno a un grande piano rotondo, e su per il muro ci sono scale, dove le persone siedono mentre il gioco va in campo. Sono stati scolpiti molti eventi antichi, Asi e Volsunghi e Nibelunghi, fatti di rame e minerale, così abilmente che sembrano essere vivi. E con questi dispositivi, ci si sente parte del gioco e il gioco procede da solo con molti trucchi e arti. Sembra che gli uomini stiano cavalcando nell'aria, che ci siano incendi e ci siano esplosioni di fuoco greco, e alcune cose sono opere di magia. Queste includono tutti i tipi di strumenti, salteri e organi, arpe, concerti e violini e tutti i tipi di giochi d'archi.

Veniamo ora all'etimologia della parola in analisi. Si tratta chiaramente di un prestito dal greco ἱππόδρομος (hippodromos), ossia "luogo dove corrono i cavalli", formato a partire da ἵππος (hippos) "cavallo" e δρόμος (dromos) "corsa". L'etimologia è indubitabile. Gli sviluppi fonetici sono degni di nota, in particolare la presenza del dittongo -ei-, che non ci aspetteremmo affatto. Trovo poi strano il vocalismo della prima sillaba, dato che in greco bizantino la /o/ breve doveva avere una pronuncia chiusa. Ci saremmo piuttosto aspettati una forma *poðromr, che però non mi risulta esistere (se qualcuno è in grado di provare il contrario, lo invito a comunicarmelo). Forse la parte finale della parola è stata modificata per associazione paretimologica con hreimr (m.) "grida; urlo", come allusione al pubblico rumoroso e festante? Oppure l'associazione è in qualche modo con heimr (m.) "paese", anche se la semantica è fragile? Come ipotesi sono tirate per i capelli, al momento non saprei cos'altro proporre per spiegare questo benedetto dittongo. 

In medio alto tedesco è documentata la forma poderâm "ippodromo", che è molto più vicina all'originale rispetto al norreno paðreimr. Resta comunque abbastanza strana la vocale lunga /a:/ nell'ultima sillaba. Potrebbe la forma norrena essere un prestito dall'area tedesca? Forse si potrebbe spiegare il dittongo /ei/ come un tentativo di nativizzare qualcosa di incomprensibile? Per risolvere in modo definitivo la questione servirebbero altri dati.

Si noterà che lo stesso vocabolo greco δρόμος "corsa", che compare come secondo membro nel nome dell'Ippodromo, in epoca più tarda è stato preso a prestito nella lingua dei Rom e dei Sinti, dove ha dato drom "viaggio; strada" (pl. droma). Ben noto è il saluto tradizionale latcho drom "buon viaggio". Approfondiremo tutto ciò in altra sede.

sabato 22 giugno 2019

UN PRESTITO NORRENO IN INGLESE: DUSK 'CREPUSCOLO'

Meditando sullo strano aspetto fonetico della parola inglese dusk "crepuscolo", sono stato assillato a lungo dal problema della sua origine non nativa - ferma restando la sua derivazione ultima dalla radice indoeuropea *dhwes- / *dhus- "fumo". 


Questa è la traduzione di quanto riportato nel sito: 

"oscurità parziale, stato tra la luce e la tenebra, crepuscolo", Il vocabolo è attestato a partire dal 1620, da un precedente aggettivo dusk, a sua volta dal medio inglese dosc (circa 1200) "scuro, non lucente; tendente all'oscurità, ombroso". L'aggettivo aveva più a che fare col colore che non con la luce. L'origine è incerta: il vocabolo non si trova in antico inglese. Nel medio inglese esisteva anche un verbo, dusken "diventare scuro". Il nome derivato era dusknesse "tenebra" (tardo XV secolo). 

Secondo gli autori di Etymonline.com, il nostro dusk potrebbe essere da una variante dell'antico inglese dox "scuro di capelli; scuro per assenza di luce", attestata nella lingua della Northumbria. La consonante -x /ks/ è dovuta a trasposizione di -s- e -k-: /*dosk/ > /doks/ (scritto dox), avvenuta prima della palatalizzazione. Resta tuttavia il fatto innegabile che soltanto poche parole inglesi con il gruppo consonantico -sk sono native. Siccome dusk non è un discendente di dox, deve essere venuto da fuori. 

Siccome in svedese esiste duska "essere fosco", sono incline a pensare che il northumbriano dox (per *dosc con /-sk/ finale) sia giunto almeno in parte dell'antico inglese proprio dal norreno. Doveva esistere in norreno un aggettivo *doskr "fosco; nebbioso; scuro", anche se non ci è attestato. Evidentemente questo *doskr è scomparso in epoca anteriore ai primi documenti letterari. Sarebbe interessante sapere se il grandissimo sapiente d'Islanda, Snorri Sturluson (1179 - 1241), fosse a conoscenza di questa parola o se ai suoi tempi fosse già estinta nell'ambiente in cui egli è nato e cresciuto. Se anche l'ombra del grand'uomo, evocata tramite necromanzia, ci confermasse che non conosceva alcun vocabolo simile, resta il fatto che la lingua norrena non era uniforme in tutto il territorio in cui era parlata e in tutta la durata della sua esistenza. Questo *doskr avrebbe potuto benissimo durare in antico svedese anche quando altrove si era già spento da lungo tempo, visto che un verbo corradicale vive ancor oggi in Svezia. 

Abbiamo così: 

Norreno *doskr < protogerm. *duskaz "fosco"
Norreno *duska < protogerm. *dusko:nan "offuscare" 


Si ha formale identità con il latino fuscus "fosco, fuligginoso; marrone scuro", che mostra lo stesso suffisso con consonante velare. Altre forme corradicali nelle lingue germaniche sono le seguenti: 

Antico inglese dosan, dosen "marrone, castano" < *dusinaz
Antico alto tedesco dosan, tusin "giallo pallido" < *dusinaz


Nel tardo latino troviamo la parola dosinus "grigio cenere", che è un evidente prestito da una lingua germanica. Si noterà che l'antico alto tedesco tusin è glossato in tardo latino con gilvus, a sua volta prestito germanico, identico nell'origine all'inglese yellow e al tedesco moderno gelb "giallo".

UN PRESTITO NORRENO IN INGLESE: TUSK 'ZANNA'

Meditando sullo strano aspetto fonetico della parola inglese tusk "zanna", mi sono posto il problema della sua etimologia. Innanzitutto i miei ricordi di mitologia nordica mi hanno restituito immediatamente il nome del gigantesco scoiattolo Ratatoskr, che rosicchiava con i suoi acuminati incisivi il Frassino del Mondo, Yggdrasill, avvicinando vieppiù la Catastrofe Finale. Si tratta di un composto, il cui secondo membro può essere così enucleato:

-toskr (m.), zanna 

Non risultano altre attestazioni di questa parola: abbiamo soltanto questo nome del fantomatico roditore, tramandatoci dall'Edda in prosa di Snorri Sturluson e dall'Edda Poetica (XIII secolo). Il primo membro del composto, Rata-, è tradizionalmente associato a Rata (m., gen. di *Rati), nome del trapano usato da Odino per perforare una parete di roccia allo scopo di raggiungere l'Idromele della Poesia (Hávamál, 106, 1). La traduzione di Ratatoskr è riportata come "Dente a Trivella". Esiste però anche un'altra scuola di pensiero, che considera Rata- come un prestito dall'antico inglese ræt "ratto" (inglese moderno rat). Ratatoskr significherebbe quindi "Dente di Ratto". Se devo essere franco propendo per questa seconda ipotesi. Non è poi improbabile che lo stesso nome del trapano odinico fosse un prestito dalla parola anglosassone e avesse il senso originale di "Rosicchiatore". 

Torniamo ora a -toskr. Un termine simile si trova soltanto nell'antico inglese (tusċ, tux "zanna") e in antico frisone (tusk "zanna"). Si suppone che sia derivato da una protoforma *tunθskaz, connessa con il nome del dente, *tunθuz (da cui il gotico tunþus), *tanθu (da cui il norreno tǫnn) - di chiara origine indoeuropea (< *dṇt- / *dent- / *(e)dont-, da cui anche il latino dēns "dente", gen. dentis). Se fosse una forma regolare, dovrebbe avere una vocale lunga. In effetti in antico inglese è riportata anche una variante con vocale lunga, tūsċ, che non ha però continuatori moderni. A quanto pare si tratta di una forma marginale e non si spiega bene la prevalenza della vocale breve nel dominio in cui sono attestati discendenti di *tunθskaz

In ogni caso, l'inglese tusk "zanna" è di certo un prestito dal norreno e prova per via indiretta che l'elemento -toskr doveva essere un vocabolo vitale: nelle parole genuine il protogermanico /sk/ si palatalizza sempre in /ʃ/ già in antico inglese (scritto ) e questo esito è stato ereditato nell'inglese moderno (scritto sh). Infatti esiste una variante dialettale tush "zanna" (anche termine tecnico, col senso di "corta zanna dell'elefante femmina"), con la consonante palatale che ci attenderemmo come naturale evoluzione dall'anglosassone tusċ. La variante tux è frutto di una trasposizione dell'antico nesso /sk/ in /ks/, avvenuta prima della palatalizzazione di /sk/. Questo tipo di metatesi non è infrequente. A quanto mi risulta, tux non ha lasciato discendenti. Possiamo così riassumere la questione: nella lingua moderna alla forma nativa tush si affianca tusk, che è un prestito dal norreno. Simili doppioni non sono una novità nel lessico della lingua di Albione, si pensi per esempio a shirt "camicia" (termine nativo), che convive con skirt "gonna" (prestito dal norreno).

Menziono ora una cosa che reputo degna di nota: esiste nell'inglese moderno un fortuito omofono della forma dialettale tush "zanna": si tratta del termine gergale tush "culo, ano". Ovviamente non c'entra proprio nulla. L'etimologia è in ultima analisi ebraica. Derivato dall'abbreviazione dello yiddish תחת‎ (tokhes), il vocabolo scurrile in questione proviene dall'ebraico תַּחַת‎ (taḥaṯ "culo"). Ricordo la mia assidua frequentazione del sito pornografico www.tushylickers.com, che mostra le gesta di decine di leccatori (e leccatrici) di buchi del culo femminili. Rimasi incuriosito dal nome tushy, che non sapevo spiegarmi. Come ho indagato, ho appreso qualcosa di nuovo. Anche la pornografia più morbosa può avere un interesse etimologico notevole, non mi stancherò mai di ripeterlo.

mercoledì 19 giugno 2019

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE LA CASACCA: KǪSUNGR

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

kǫsungr (m.), giacca senza maniche 

Come di consueto, l'ortografia usata dall'autore è di tipo moderno e il lemma è scritto kösungr

Questi versi sono tratti dalla Haralds saga Sigurðarsonar (Saga di Harald figlio di Sigurd): 

Ferk í vánda verju;
verr nauð of mér snauðum,
kǫsungr fær víst í vási
vǫmm - en þat vas skǫmmu;
endr vas hitt, at hrunði
hringkofl of mik inga,
gǫgl bǫ́rut sik sára
svǫng - en þat vas lǫngu.


"Indosso una giacca grezza;
difende me, misero, contro il pericolo,
la camicia si è certo rovinata nella fatica, 
e ciò è stato di recente;
fu prima, che il cappuccio ad anello
del re cadde intorno a me,
le papere delle ferite* si mossero affamate;
ma ciò fu molto tempo fa."


*kenning per "corvi"

Salta subito agli occhi che si tratta di una voce entrata nell'antica lingua nordica da Oriente. Anche da noi in Italia si una voce del tutto simile: casacca.

La parola italiana casacca è ritenuta una semplice variante di cosacca, significando alla lettera "veste del cosacco" (vedi dizionario Treccani). In russo si avrebbe una forma analoga: казаки́н (kazakin) "veste del cosacco", da каза́к (kazák) "cosacco" (variante коза́к). L'origine ultima del nome dei Cosacchi è dal turco quzzak "nomade, avventuriero" (trascritto anche come kazak). Dalla stessa radice deriva l'etnonimo Kazakh, a sua volta origine del nome della relativa nazione, il Kazakhistan. Resta però un fatto: l'autorevole Treccani non fornisce alcuna chiara informazione sui percorsi culturali che hanno diffuso questa parola da Oriente a Occidente.

In inglese esiste cassock "tonaca", che indica la veste del monaco. A dispetto del singolare slittamento semantico, l'origine è sempre la stessa, dal turco. Con ogni probabilità il vocabolo è giunto alla Perfida Albione attraverso il francese medio casaque (XVI secolo).

Un'altra ipotesi sull'origine di queste famiglie di parole indicanti la tipica veste lunga è quella che le riconduce all'arabo kazagand "giacca soffice" (termine chiaramente non coranico), a sua volta importazione dal persiano kazhagand, analizzabile come un composto di kazh "seta grezza" e agand "ripieno (di stoppa)". Questa etimologia è consultabile su Etymonline.com.

Torniamo ora alla forma norrena e facciamo alcune considerazioni. Non mi pare che kǫsungr possa derivare direttamente dal medio francese casaque, che ha un aspetto fonetico molto diverso. La forma persiana kazhagand sembra a me la sorgente immediata più verosimile. Se la derivazione da me ipotizzata fosse confermata, dovremmo trarne due conclusioni: 

1) Il nome della casacca si deve a una paretimologia già in russo;
2) La parola norrena, di origine persiana, deve essere separata dai corrispondenti nelle lingue romanze, che vengono invece dal russo: è stata importata molto prima, visto che era già usata nel XIII secolo. 


Ormai è molto difficile, se non impossibile, ricostruire i dettagli di prestiti lessicali come quello discusso; in ogni caso si comprende che i portatori di parole orientali in Islanda e in Scandinavia dovettero essere proprio i Variaghi che militavano a Bisanzio come guardie dell'Imperatore.  

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE L'ORSO: MǪSMI, MǪSNI

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce

mǫsmi (m.), orso  

Variante:

mǫsni (m.), orso.

Si tratta evidentemente di una parola poetica, che non si trova nel lessico comune. L'orso nel linguaggio quotidiano era infatti denominato bjǫrn (gen. sing. bjarnar; nom. pl. birnir), dal protogermanico *bernuz. Il benemerito Zoëga non riporta queste forme nel suo dizionario: ha soltanto un omonimo mösmar (m., pl.), glossato con "treasures" e ritenuto identico a meiðmar. In realtà meiðmar "tesori", identico al gotico wulfiliano maiþms "dono", è di tutt'altra etimologia e non deve essere ritenuto una variante della forma poetica mösmar, uguale alla parola per indicare il plantigrado per una fortuita omofonia. Ce ne occuperemo in un'altra occasione. 

La protoforma germanica che possiamo facilmente ricostruire per mǫsmi "orso" è senz'altro *masumæ:n, dato che la variante terminante in -ni sembra mostrare i segni di un'antica dissimilazione (m- ... -m- > m- ... -n-). 

In apparenza tutto sembra perduto in modo irrimediabile. Non dobbiamo però lasciarci andare alla rassegnazione. Si potrebbe infatti tentare di trovare un parallelo nelle lingue celtiche. Sappiamo che uno dei nomi dell'orso in protoceltico era *matus. Ne deriva direttamente l'antico irlandese math (m.) "orso". Questa è la declinazione del sostantivo in analisi: 

sing.
nom. math "orso" (< *matus)

gen. matho "dell'orso" (< *matous)
dat. math (< *matou, *matō)
acc. math "orso" (< *matun
voc. math "orso" (< *matu)


pl.
nom. mathae, mathai, matha "orsi" (< *matowes)
gen. mathae "degli orsi" (< *matowon)
dat. mathaiḃ "agli orsi" (< *matubis)
acc./voc. mathu "orsi" (< *matūs)


Esiste poi il composto mathġaṁuin "orso", formato da math "orso" e da gaṁuin "vitello" (< *gjamonis, alla lettera "(vitello) di un inverno", cfr. gaṁ "inverno" < *gjamos, corradicale del latino hiems). La forma protoceltica ricostruibile è dunque *matu-gjamonis, che doveva significare "giovane orso". In irlandese moderno si ha mathghamhain, che continua la forma antica. Nel gaelico di Scozia oltre a mathghamhuin si hanno anche mathan e mathon (da *matagnos, *matugnos). Proprio da mathghamhain proviene il cognome del generale francese Patrice de Mac Mahon, alla lettera "Figlio dell'Orso": i suoi antenati erano irlandesi. 

Tra i Celtiberi è attestato l'antroponimo Matugenus, Matucenus "Figlio dell'Orso" (con terminazione adattata al latino, l'originale è *Matugenos), che corrisponde alla perfezione al materiale ibernico. Nella grande iscrizione bronzea di Botorrita (Spagna) abbiamo TIRIS MATUS TINATUZ, che si può ben interpretare come "tre orsi devono poppare" (Schmidt, 1976; Toporov, 1986). Anche in Britannia si ha attestazione dell'antroponimo Matugenus. Nelle Gallie abbiamo poi il notevole antroponimo Teutomatus "Orso della Tribù".

Si potrebbe credere che il protoceltico *matus "orso" sia una semplice variante di *matis "buono" (donde l'antico irlandese maith "buono"), quasi fosse un epiteto tabuistico. Non dimentichiamoci che l'orso era molto temuto nell'antichità. Si noti la differenza della vocale tematica, che è -u- nel sostantivo che indica il plantigrado, mentre è -i- nell'aggettivo. In gallico esiste attestato anche l'aggettivo col tema in -u-, ad esempio nel Calendario di Coligny, dove ogni mese è classificato come matus "buono" oppure anmatus "non buono". In tale contesto rituale la radice matu- sembra aver espresso il concetto di "fausto"; forse l'aggettivo era usato anche col senso di "completo" (cfr. latino mātūrus "maturo, adulto", ma anche "opportuno, tempestivo"). Tuttavia potrebbe anche darsi che l'epiteto dell'orso sia di origine preindoeuropea e che si tratti soltanto di coincidenze.  

A questo punto possiamo ipotizzare un composto protoceltico *matu-samonis, formato in modo del tutto analogo a *matu-gjamonis (dove -*samonis starebbe a indicare "(vitello) di un'estate", cfr. antico irlandese saṁ "estate" < *samos, corradicale dell'inglese summer). Questo derivato non sarebbe irrazionale e potrebbe spiegare la forma norrena. Se così fosse, la protoforma ricostruita *masumæ:n sarebbe in realtà da correggere in *massumæ:n e la potremmo considerare senz'altro derivata da un precedente *maθsumæ:n. Possiamo quindi dire che il vocabolo è con grande probabilità di origine celtica.

Conclusioni: 

Non sono in grado di determinare attraverso quale canale sia avvenuto il prestito. Quello che è certo è che si tratta di un'acquisizione molto antica, anteriore alla scomparsa della sibilante -s- e alla lenizione della nasale -m- in posizione intervocalica. Non mi pare che si possa considerare un prestito dall'antico irlandese, come pure è stato suggerito (Worsaae, 1875). 

domenica 16 giugno 2019

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE IL DIAVOLO: *KǪLSKI

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce in uso nell'attuale lingua islandese

kölski (m.), diavolo

Visto che non si tratta di un prestito recente, deve per necessità risalire alla lingua più antica, anche se non sono riuscito a trovarne attestazioni. Fidandomi della memoria, ero convinto che fosse presente nel dizionario di Zoëga. Ricontrollando quella fonte, ho visto che il lemma non si trovava. Nell'ortografia dell'antico nordico, la parola si scriverebbe nel seguente modo:

*kǫlski (m.), diavolo

La protoforma germanica che possiamo facilmente ricostruire è senz'altro *kaluskæ:n. Il punto è questo: da dove deriva? Subito ci salta all'occhio l'etrusco Calu, che è il nome di Ade. Vediamo che dal suo genitivo Calus deriva un aggettivo Calusna "degli Inferi", epiteto di Plutone (Tinia Calusna, ossia "Giove degli Inferi"), oltre al sostantivo plurale e collettivo Calusur "i Morti", ossia "coloro che appartengono agli Inferi". Il suffisso -na forma aggettivi, mentre -r è il tipico segno dei plurali animati.

Quello che salta subito all'occhio è la corrispondenza tra il norreno /k-/ e l'etrusco /k/, segno che il prestito deve essere avvenuto dopo l'esaurimento della legge di Grimm. Assieme alla radice /kalu-/ è stata adottata anche la morfologia etrusca: il genitivo in -s a cui è stato agglutinato il pronome /-ka/ "questo". In etrusco avremmo *Calusca "ciò che appartiene all'Ade", da Calu- + -s- (gen.) + -ca (pron. dim. nom.).  La corrispondente forma accusativa sarebbe stata *Caluscn, da Calu- + -s- (gen.) + -c-n (pron. dim. acc.). Abbiamo la prova dell'esistenza di formazioni simili, ad esempio nel testo del Liber Linteus, in cui compare celu-c-n, verosimilmente "alla terra", essendo cel "terra". 

Il protogermanico aveva già adottato dal tirrenico /kalu/ la forma *χaluz, *χallaz "pietra (tombale)" - con regolare applicazione della legge di Grimm, la cosiddetta prima rotazione consonantica comune a tutte le lingue germaniche - e da questa radice abbiamo il gotico wulfiliano halus "pietra", il norreno hallr "pietra", oltre al derivato *χaljo: "gli Inferi", da cui il gotico wulfiliano halja "inferno" e il norreno hel "inferno, morte" (f.). 

Una parola imparentata 

Esiste un lemma curioso già usato nell'antichità, che a parer mio appartiene alla stessa famiglia dell'islandese moderno kölski

kǫlsugr, impertinente 

La parola è riportata da Zoëga nel suo dizionario con la tipica ortografia modernizzante come kölsugr. La glossa inglese è "pert, saucy". Non è un caso difficile. In origine l'aggettivo doveva significare "diabolico, demoniaco", finendo col registrare un naturale slittamento semantico. Un po' come in italiano la parola bastardo, che fino a poco tempo fa era un insulto molto grave e che adesso può essere usata per esprimere un vago biasimo. Ricostruisco una protoforma *kalusuγaz, essendo -uγaz un suffisso aggettivale. Vale quanto detto in precedenza sull'origine tirrenica.

Conclusioni: 

A mio avviso la lingua protogermanica era in stretto contatto con una lingua tirrenica da cui ha preso prestiti di varia natura, in diverse epoche. Purtroppo i dettagli di questi complicati processi di interscambio linguistico sono andati perduti nel mare dell'entropia dilagante. La speranza, difficile a morire, è che in futuro possano emergere nuovi dati in grado di portare chiarezza nelle tenebre della preistoria.

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE UN TIPO DI FOCA: ORKN, ERKN, ØRKN

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

orkn (n.), tipo di foca 

Si trovano anche le seguenti varianti:  

erkn (n.),
ørkn (n.). 


Le corrispondenti forme ricostruite in protogermanico sono le seguenti: 

*urkanan
*urkinan 


La prima delle protoforme riportate spiega la variante orkn, mentre la seconda è senza dubbio all'origine delle due forme che mostrano l'Umlaut palatale, ørkn e erkn, essendo la forma con vocale /e/ una mera semplificazione fonetica di quella con vocale bemollizzata /ø/

Ci sono stati alcuni deboli tentativi etimologici per spiegare queste voci enigmatiche e antichissime, a parer mio tutti vani, grotteschi o insidiosi.

Alcuni reputano che l'origine sia l'antico inglese orc "demonio", che viene dal latino Orcus "Averno, Regno dei Morti; Dio degli Inferi" (e per metonimia "morte"), a sua volta prestito dal greco Ὅρκος (Horkos). Il teonimo ellenico indica il figlio di Eris, una divinità che si credeva punisse il falso e gli spergiuri. Si tratta di uno sviluppo semantico che si riscontra anche nell'italiano orco "gigante, mostro". La traduzione della parola greca ὅρκος, supposta origine del corrispondente teonimo, è "oggetto su cui si giura". L'etimologia ultima è a mio avviso sconosciuta; l'associazione al giuramento potrebbe anche essere dovuta a una paretimologia. 

Coloro che sostengono l'origine della parola norrena orkn "tipo di foca" dall'antico inglese orc "demonio", "Inferno", potrebbero addurre a giustificazione dello slittamento semantico il fatto che i pinnipedi erano di fatto ritenuti sinistri e funesti già in epoca pagana. Con l'arrivo del Cristianesimo, questa opinione si sarebbe addirittura rafforzata. Gianna Chiesa Isnardi accenna a fatti davvero singolari: i cavalieri del re cristiano Olaf Tryggvason uccidevano foche e trichechi ritenendoli manifestazioni del Demonio. Si gettavano contro i pingui animali infilzandoli con le lance e finendoli a colpi di mazza o di scure, per la gioia dei moderni animalisti. Lascio ai miei detrattori la fatica di sfogliare il seminale volume dell'autrice in questione, I miti nordici, per trovare la citazione esatta (non colorita come la mia descrizione, ma comunque evocativa di stragi e mattanze).

La prima cosa che può venire in mente a un lettore è la parola italianissima orca, che indica il ben noto cetaceo, chiamato in inglese killer whale, alla lettera "balena assassina". Certo, una foca non è un'orca, ma entrambi sono senza dubbio mammiferi acquatici. Hanno qualcosa in comune.  

In latino abbiamo il seguente interessante vocabolo:  

orca (f.)
1) orcio, barile, giara
2) bussolotto per i dadi
3) orca, cetaceo


Secondo i romanisti, il significato 3) proverrebbe dal significato 1) per metafora, come se l'orca fosse un grosso recipiente rigonfio, data la sua forma. Essi sostengono anche che alla base di questa parola ci fosse l'idea dell'Ade come di un immenso animale inghiottitore. Anche per l'amatissimo Popolo Eletto, l'Oltretomba, chiamato Sheol, è una specie di animale inghiottitore non dissimile da un mostro marino. Certo, tutto è molto tirato per i capelli - cosa che è la norma nel mondo concettuale degli accademici. 

Il latino orca nel senso di "barile" è una parola giunta a mio avviso dall'etrusco: si tratta in sostanza di una variante della seguente: 

urceus (m.)
1) orcio, brocca
2) boccale


Con l'aggiunta di un suffisso in nasale abbiamo questo derivato: 

urna (f.)
1) brocca, orcio
2) scrigno
3) urna elettorale
4) urna funebre
5) unità di misura per liquidi (circa 13 litri)


Ricostruiamo queste forme etrusche indicanti tipi di vasi:

*urce 
*urcna
, *urχna


Una forma urcna è attestata realmente in falisco, una lingua italica molto affine al latino. Si tratta di un chiaro prestito dall'etrusco. In greco antico troviamo poi anche ὔρχα e ὔρχη "giara", senz'altro della stessa identica origine. Nobili ingegni come il Trombetti già ai tempi del Duce ipotizzavano che questi vocaboli traessero la loro origine da una radice "mediterranea" che ritroviamo anche nel basco ur "acqua". L'orcio e l'urna dovevano essere in origine dei vasi potori, atti a contenere l'acqua.

Resta ora da capire quale sia la vera origine di orca nel senso di "cetaceo", che è il corrispondente più probabile e diretto del norreno orkn "tipo di foca". In greco esiste ὄρυξ (óryx) "grosso pesce", di origine pre-ellenica, che potrebbe avere qualche connessione. E se si trattasse di una "bestia acquatica", proprio come l'orcio e l'urna sono "vasi dell'acqua"? Sarebbe suggestivo. Forse un giorno recupereremo tutti i dati necessari a determinare una volta per tutte la genealogia di questa famiglia lessicale! 

Nel mondo anglosassone ci sono accademici, per tradizione poco attenti al vasto ginepraio dei sostrati preindoeuropei presenti in greco e in latino. Le idee che coltivano costoro sono molto più prosaiche delle mie: credono che il latino Orcus sia giunto dal latino fino all'antico irlandese, entrando poi direttamente in norreno all'epoca delle scorrerie vichinghe. Il punto è che in antico irlandese orc ha tutt'altro significato, che mi accingo a illustrare nel seguito.

La questione delle connessioni col mondo celtico insulare è in ogni caso particolarmente importante, perché già i Vichinghi avevano usato la parola orkn "tipo di foca" per fornire un'etimologia facilmente comprensibile e diretta del toponimo Orkn-eyjar "Orcadi", alla lettera "Isole delle Foche". Dobbiamo però notare che il toponimo era già noto nell'antichità classica come Orcades. Per l'appunto, le Orcadi.

In antico irlandese abbiamo le seguenti voci, di origine indoeuropea:

orc "maiale"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
   
(cfr. latino porcus)
orc "salmone"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
    (cfr. greco antico πέρκη "tipo di pesce di fiume, perca") 


La forma orc "salmone" ha un parallelo notevole anche in antico ligure nell'idronimo Porcobera "Polcevera", alla lettera "che porta trote".  La perdita della labiale *p- indoeuropea è un tipico carattere celtico, presente già nelle più antiche attestazioni delle lingue di quel tipo - e per contro assente in ligure.

Conclusioni: 

Capiremo qualcosa di più quando si potrà diradare la nebbia che ricopre il panorama delle lingue preindoeuropee che precedettero il latino, il greco, il celtico e il germanico. Spero ardentemente che quel giorno arriverà presto!

giovedì 13 giugno 2019

LA MORTE NON BARA

“Quindi lei mi sta dicendo che mia moglie è un agente del Mukhabarat?”
“Questo è quanto.”
L’uomo seduto di fronte a me si prese la testa fra le mani.
“Fossi in lei non ne farei una tragedia.”
“Eh già, dopo dieci anni di matrimonio scopro che mia moglie lavora per i servizi segreti iracheni e secondo lei non dovrei fare una piega!”
“La prenda con filosofia.”
“Non dica sciocchezze!”
“Senta, lei ha due opzioni: fingere di non sapere e continuare la vita di sempre. Oppure dire a sua moglie che sa… e poi prendere un bel respiro.”
“Cosa intende dire?”
“Qual è il suo record di immersione in apnea?”
“Non capisco.”
“Mezz’ora sott’acqua resiste?”
“Certo che no.”
“E allora le suggerisco la prima opzione. Grazie per il whisky.”
Vuotai il bicchiere, gli lasciai il conto da pagare e me ne andai. Passando per viuzze laterali poco frequentate, tornai in agenzia. Ne avevo rilevato la proprietà dal mio ex principale, ammalatosi di sclerosi laterale amiotrofica. Livia, la segretaria, era passata alle mie dipendenze.
“Ho provato a chiamarla ma suonava a vuoto.”
Mi ricordai in quell’istante di aver silenziato il cellulare.
“Ci sono novità?”, chiesi.
Livia sorrise in modo enigmatico e indicò il monitor del pc. Mi avvicinai alla scrivania e diedi un’occhiata.
Sulla home page del Corriere spiccava un titolo: “Ucciso il rettore dell’Università di Pavia”.
Mi ci vollero alcuni istanti per riprendermi dallo sbigottimento.
L’articolo conteneva dettagli sconcertanti: il professor Alessio Frugoli era stato ritrovato cadavere in riva al Ticino, in zona Canarazzo, a pochi km dalla città. Sul suo corpo, evidenti segni di torture.
Chiamai subito Lello.
“Hai saputo?”
“Ho saputo.”
“Quando possiamo vederci?”
“Alle 15 in Piazza della Scala.
“Ok”.
Lello si era trasferito a Milano da un anno, in un bilocale situato in Viale Zara, ereditato da suo zio. Quando mi aveva parlato del trasloco credevo scherzasse. Invece era serissimo.
Arrivai in relativo orario. Lello mi aspettava davanti all’ingresso delle Gallerie d’Italia.
“Andiamo in un posto che so io”.
Lo seguii per un discreto tratto di strada. Zoppicava, segno che la sua artrite era andata peggiorando.
Si infilò in un bar che non conoscevo, salutò il proprietario e ordinò una bottiglia di bianco. Ci sedemmo a un tavolo d’angolo.
 “Vedrai che casino verrà fuori… stavolta non potranno nascondere la polvere sotto il tappeto.”
 “Secondo te perché lo hanno scaricato al Canarazzo?”
“Perché è fuori mano ma non troppo.”
 “Ho parlato con un amico al Forlanin:  chi ha torturato Frugoli si è accanito.”
“Volevano punirlo.”
“Probabile.”
“Non è probabile, è certo. Se lo hanno torturato è perché volevano vendicarsi e lasciare un messaggio. Ti ho mai detto che l’avevo conosciuto di persona?”
 “Davvero?”
“Ti stupisce?”
“No, ma non sapevo…”
“Ora lo sai.”
“In che occasione?”
“A Zurigo.”
“E che ci andava a fare a Zurigo, Frugoli?”
“Lugano è troppo frequentata dagli italiani, avrebbe corso il rischio di essere riconosciuto da qualcuno.”
“Stiamo parlando di?”
“Stiamo parlando di Bdsm. E non solo: Frugoli pippava come un formichiere e questo lo so con assoluta certezza perché l’ho visto coi miei occhi. Saliva da Pavia con un terzetto di compari. Un pastore protestante che frequentava l’ambiente li aveva soprannominati “i porci di Gerasa”, pensa un po’ te.”
“E chi erano gli altri?”
“Lanfetta, il suo assistente e il titolare della Ecogreen Costruzioni Bio, il grassone.”
“Lanfetta? Il docente di lingue protosemitiche?”
“Proprio lui.”
“Ma è una ripugnante cariatide!”
“E un formidabile sporcaccione. A Pavia basta che gratti un poco la patina di vernice bianca e la merda schizza sino al cielo.”
Si fermò per alcuni istanti a riflettere.
“Dimmi di più sulle torture.”
“Bastonature sulle piante dei piedi, tracce di bruciature su tutto il corpo, una quantità incredibile di tagli superficiali, piccole mutilazioni…”
“Lo hanno castigato di brutto.”
Squillò il mio cellulare. Era Livia.
“Indovini un po’.”
“Sarebbe?”
“E’ morto il professor Bongiovanni!”
Ammutolii.
“Mi ha sentito?”
“Sì. Come e quando?”
“Strangolato nel suo appartamento alla Minerva.”
Riagganciai.
“Lello, hanno ucciso il gran maestro Bongiovanni.”
Lello picchiò un tale pugno sul tavolo  da far tintinnare i bicchieri.
“Bingo!”
Un bip annunciò l’arrivo di un messaggio Whatsapp sul mio cellulare. Livia, ancora. Lo lessi ad alta voce:
“Segni di torture sul cadavere di Bongiovanni.”
“Lello, poche ore dopo aver scaricato al Canarazzo il cadavere del magnifico, entrano in casa del gran maestro e fanno la festa anche a lui… cosa diavolo sta succedendo?”
“A Pavia vien giù tutto, ecco cosa sta succedendo. Dammi qualche ora, voglio informarmi un po’ in giro.”
Accompagnai Lello alla più vicina fermata della metro.
“A Pavia tra poco ci saranno più agenti della Digos che sampietrini. Stai in campana, Marco.”

Posteggiai vicino al Castello Visconteo. Già che c’ero, feci un giro per i giardini, stranamente semideserti.
Il cellulare mi avvertì dell’arrivo di una mail. Nell’Oggetto si leggeva: “E se guarderai nell’abisso, l’abisso guarderà in te”. Allegato alla mail, un file video. Di norma non apro gli allegati quando si tratta di messaggi provenienti da sconosciuti ma in questo caso dovevo fare un’eccezione. Per forza.
Il filmato mostrava un uomo nudo, polsi e caviglie legati, sdraiato a pancia in giù a gambe divaricate su una specie di panca da palestra. Una figura femminile con indosso una tuta in latex gli ravanava nel culo con tutta quanta una mano. La videocamera si spostò sino a mostrare il volto dell’uomo legato alla panca. Benché avesse una pallina infilata in bocca non faticai a riconoscerlo. Era il magnifico rettore Alessio Frugoli.
Inoltrai la mail a Lello.
Il telefono squillò dieci minuti dopo.
“Ho visto il filmato.”
“Mi chiedo perché me l’abbiano spedito.”
“Ti hanno messo un’arma in mano. Se divulghi quelle immagini, sputtani il defunto e i suoi sodali.”
“E perché dovrei farlo?”
“Infatti te lo sconsiglio vivamente.”
“E se a farlo fosse il mittente della mail?”
“Lo ha già fatto, inviandotela.”
“Sì ma non capisco il senso. Se non rendo pubblico il filmato, non ha ottenuto nulla!”
“E’ qui che sbagli. Riporre un’arma in un cassetto non significa distruggerla. L’arma è sempre lì, pronta per l’uso. Solo che se premi il grilletto, quella ti esplode in faccia.”

La donna che mi sedeva di fronte in agenzia portava bene i suoi 62 anni.
“Lei capisce che un genitore oggi come oggi ha il diritto di sapere a cosa sta andando incontro suo figlio… Un matrimonio è un passo impegnativo sia dal punto di vista affettivo che finanziario.”
“Certo. Meglio non fare scelte affrettate.”
“Appunto, ed è per questo che mi sono rivolta a lei. So che è una persona seria e discreta.”
“La discrezione è il fulcro della mia deontologia professionale, signora.”
 “Non vorrei essere equivocata: mio figlio è un uomo adulto ed è liberissimo di decidere della sua vita. Io intendo solo fare il possibile per evitare che commetta un’imprudenza.”
“Comprendo perfettamente. La contatterò non appena avrò informazioni sulla signorina.”
Quando la cliente fu uscita tornai ad immergermi nella lettura dei quotidiani. I delitti di Pavia campeggiavano su tutte le prime pagine. L’espressione “torture efferate” ricorreva ovunque come un mantra. A Bongiovanni avevano messo una mordacchia per poi sottoporlo, nella sua abitazione, a sevizie di ogni genere. In pieno giorno, senza che nessuno dei vicini si accorgesse di nulla. La sua morte non era stata meno crudele di quella del rettore. E le telecamere del palazzo? Manomesse, tutte quante.
Mentre riflettevo su queste circostanze, si spalancò la porta. Livia dalla soglia mi lanciò un’occhiata diabolica.
“E fanno tre!”.
La osservai incredulo.
“Hanno ammazzato l’avvocato Salteri! Me l’ha detto adesso un mio amico dalla questura di Milano.”
 “Come lo hanno ucciso?”
“Un cecchino. Salteri era nel suo studio a San Babila. Gli hanno sparato dal tetto di un palazzo di fronte.
In quel preciso istante squillò il mio cellulare. Era Lello.
“Hai saputo?”
“Un istante fa.”
 “Un colpo da maestro: gli hanno scoperchiato la calotta cranica da ottocento metri di distanza! E’ cominciata la mattanza e per una volta tocca ai pesci grossi.”
Salteri, oltre ad essere uno degli avvocati più noti di Milano, era affiliato a una loggia storica, la Lafcadio Ambrosini.
“Sbaglierò ma ho l’impressione che si tratti di una ritorsione.”
“Non sbagli. Qualcuno a Pavia deve aver pensato che bisognasse reagire subito.”
“In modo eclatante, direi.”
“Ora devo andare, ci aggiorniamo.”
Livia, immobile sulla soglia, mi squadrava impassibile.
“Hanno indetto un consiglio comunale straordinario, per stasera. Ci va?”
“Penso proprio di sì.”

Tre ore dopo, raggiunsi la sala consiliare, strapiena di gente come non si vedeva da decenni.
“E’ una ferita a tutta quanta la città… le istituzioni democratiche reagiranno… … questo è il momento di essere uniti… non ci faremo intimidire”.
Nel pronunciare queste parole la voce del sindaco vacillò. Segno che intimidito lo era eccome.
In sala, tra il pubblico, individuai parecchie facce note. Mi assalì un senso di nausea.
Nell’andarmene, incrociai all’uscita il brigadiere Marostica.
“Dove vai così di fretta Marco?”
“Dentro si respira aria pesante.”
“Anche fuori se è per quello.”
“Buonanotte brigadiere.”

L’indomani, al mio risveglio, la prima cosa che vidi fu un geco sulla parete accanto al letto. Poi un altro in bagno, proprio sopra lo sciacquone, e infine un terzo in cucina, accanto al frigo. Sulla strada per l’ufficio mi fermai a far colazione al bar del Turco, così chiamato per via della sua inveterata avversione per il fumo. Dentro c’erano solo due avventori, due vecchie conoscenze, gente che alle nove del mattino invece del caffelatte sorseggia vino bianco. “Marco! Vieni che ti faccio vedere una cosa”. Il Turco prese dal cassetto della cassa un mazzo di carte.
“Scegline una, guardala e mettila via.”
“Fatto.”
“Adesso pensa intensamente a quella carta.”
Chiuse gli occhi e si stropicciò le tempie.
“Pensa alla carta!”
“E’ quello che sto facendo.”
“Fante di fiori!”
Lo guardai basito: aveva indovinato.
“Come cazzo hai fatto?”
“Il bravo prestigiatore non svela mai i suoi segreti. Hai letto la Provincia di oggi?”
“Ho visto la locandina davanti all’edicola: il ministro dell’Interno sarà oggi a Pavia.”
“C’è il centro blindato!”
“E te credo.”
Evitai Strada Nuova e, facendo il giro largo, mi recai nei pressi del monumento a Garibaldi, in piazza Castello. Qui, seduto sulla panchina di fronte alla fontana, sedeva un individuo sulla sessantina, piuttosto male in arnese, che mi rivolse uno sguardo d’intesa. Era padre Adamo.
Lo conoscevo dai tempi di Genova, città in cui ho vissuto i primi trent’anni della mia vita. All’epoca il suo caso finì sui giornali: un sacerdote sospeso a divinis per atti di esibizionismo e voyeurismo! Qualche anno dopo aver traslocato a Pavia scoprii, non senza stupore, che anche lui ci si era trasferito. Non aveva perso, tuttavia, le vecchie inclinazioni. Assiduo frequentatore di locali notturni, possedeva una conoscenza enciclopedica in materia di attricette e webcam girl.
“Adamo, come va?”
“La facciamo andare.”
“Dia un po’ un’occhiata.”
Avevo salvato sul tablet le foto della signorina consegnatemi dalla cliente.
“Ma io questa la conosco!” esclamò Adamo “E’ la Simona!”.
“Sicuro?”
“Sicurissimo, ci ho fatto dei privé con questa qua, vuoi che non me la ricordi?”
Insomma venne fuori che la signorina aveva un passato di spogliarellista e intrattenitrice in locali milanesi e della bergamasca, fra cui il Vanexa, di cui conoscevo l’ex gestore. Lo avrei contattato nel pomeriggio: mi fidavo delle competenze dello spretato ma mi occorreva una conferma.
E la conferma venne.

I notiziari della sera diedero ampio risalto al discorso del ministro dell’Interno. Quanto basta per convincermi a spegnere il televisore. A mezzanotte in punto ricevetti una chiamata di Lello.
“Sai quando sono i funerali?”
“Domattina alle 10. Le bare saranno esposte nel cortile delle statue. Prorettore vicario in pole position per il discorso.”
“Misure di sicurezza al massimo.”
“Ovvio.”
“Ci andrai?”
“Non credo proprio.”
Riagganciai.
Uscii a fare due passi. In Piazza Petrarca il solito viavai di automobili. Mi diressi al Castello. A un tratto mi sentii chiamare per nome da un tale seduto sul sedile passeggero di una Audi Q7 posteggiata in Viale XI Febbraio.
Mi avvicinai. Era un tizio sulla cinquantina, ben vestito, mai visto prima. E non era solo a bordo.
Mi fece cenno di avvicinarmi.
“Sali.”
“Non ci penso proprio.”
“Calma”, disse lo sconosciuto, “vogliamo solo fare due chiacchiere”.
“Io no.”
Il tizio mi fulminò con lo sguardo.
“Hai preso informazioni su una brava ragazza.”
“Mi pagano per questo.”
“Te la devi scordare.”
“Gratis?”
Sorrise, mettendo in mostra un paio di denti d’oro, e disse a quello alla guida: “Che ti dicevo? E’ uno che sa stare al mondo”, quindi, rivolto a me:
“Quanto costa un’amnesia?”
 “Tremila euro.”
Con la massima disinvoltura, il tizio prese dal taschino della giacca una mazzetta di banconote da 500 euro.
Ne contò sei, lentamente.
“Alla signora che diciamo?”
“Che la ragazza è a posto. Non una macchia.”
“Bravo.”
Intascai i soldi. L’autista mise in moto. Rimasi ad osservare la vettura che si allontanava verso il rondò Vittorio Necchi. Quella notte non riuscii a prendere sonno.

“Il commando ha fatto irruzione nel locale e falciato a raffiche di mitra i partecipanti alla riunione.”
Ascoltai incredulo il notiziario televisivo. Non riuscivo a capacitarmi che fosse accaduto davvero. Una strage in una loggia massonica pavese!
A una settimana dall’assassinio di Salteri, tre uomini armati di fucili d’assalto irrompono in una delle più note sedi massoniche della provincia e sterminano i presenti. Un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica italiana!
Contai sino a dieci, squillò il cellulare. Era Lello.
 “Professionisti. Armi munite di silenziatori.”
“Aspettiamoci di tutto.”
“Golpe compreso.”

Una città in stato d’assedio avrebbe avuto un aspetto più rilassato. In Strada Nuova i passanti, studenti compresi, sgattaiolavano lungo i marciapiedi come animali braccati. Poliziotti ad ogni angolo, armi in pugno. Mi fiondai dal Turco.
“Marcone!”
“Whisky.”
“Lo sai che è morto il Giampiero?”
“Quando?”
“Ieri sera, è caduto dal Ponte coperto.”
“E come cazzo ha fatto?”
“Aveva bevuto più del solito”.
“Se n’è andata una delle più grandi spugne di Pavia. Brindiamo alla sua memoria.”
Tintinnarono i bicchieri. Fu un momento commovente.

Miranda. Che ci faceva Miranda sotto casa mia?
“Quanto tempo. Come mai da queste parti?”
“Hai un attimo da dedicarmi?”
“Non far caso al disordine che c’è in casa.”
“Come se fosse una novità.”
Salimmo.
“Dio mio Marco sei peggiorato”, disse appena entrata. “Pare un campo rom.”
“Se sei venuta per fare dello spirito puoi andartene anche subito.”
“Apprezzo la tua delicatezza.”
“Ho avuto un’ottima maestra. Facciamo in fretta.”
Si accomodò sul divano.
“Ti ricordi Roberto?”
“Quale dei due? Il primo o il secondo?”
“Il secondo.”
“Beh?”
“Mi dà il tormento”
“E quindi?”
“Vorrei che tu gli parlassi.”
“Perché non sei venuta in agenzia a discuterne?”
“Dobbiamo essere così formali? Credevo che in nome della nostra antica amicizia…”
“Hai dieci secondi per uscire. Nove…”
“Stronzo!”
“Otto…”
La udii imprecare lungo le scale.

“Quindi lei mi garantisce che…”
“Non sono emersi elementi tali da far ritenere con certezza che la signorina rappresenti un elemento poco raccomandabile.”
La cliente mi fissò dritto negli occhi.
“Non so perché ma la sua risposta non mi rassicura. Quanto le devo?” tagliò secca.
“Niente.”
“Niente?”
“A riprova della mia buona fede.”
“Beh, la ringrazio.”
Prese dal divanetto la sua borsa griffata e fece per andarsene. Si arrestò per un istante sulla soglia.
“Nel caso dovessero giungerle alle orecchie nuovi elementi, la pregherei di contattarmi.”
“Non mancherò, signora.”
Appena se ne fu andata andai in bagno a sciacquarmi la faccia.
Lo specchio mi restituì l’immagine di un vecchio farabutto.
Bussarono alla porta.
“Può uscire o se lo sta ancora scrollando?”
“Che c’è Livia?”
“Apra, per favore”
“Mi dia un attimo.”
“Finisca pure senza fretta, mi sto solo pisciando addosso.”

La giornata era trascorsa in modo del tutto improficuo. Non avevo concluso un accidente. Arrivato all’altezza di Via Innocenzo III, mi si materializzò davanti all’improvviso Marostica, in borghese.
“Marco!”
“Cazzo brigadiere, lei mi vuol far venire un infarto.”
“Ti spaventi per così poco? E’ da un po’ che tu ed io non facciamo due chiacchiere.”
“Sono a corto di argomenti.”
“Perché non ti credo?”
“Perché è prevenuto, ecco perché.”
“Vieni, ti offro un caffè.”
“Non a quest’ora. Poi finisce che non dormo.”
“E allora un bianchino, quel cazzo che ti pare, non farla lunga.”
Entrammo al bar di piazza Italia. Mi avvicinai al bancone.
“No, ci sediamo nella saletta. E’ più discreta.”
Per essere discreta lo era: non c’era un’anima.
Ordinai una vodka.
 “Dunque, dicevamo. Tu che hai orecchie dappertutto…”
“Insomma.”
“Non fare il modesto. Senti, veniamo al sodo: hai captato qualcosa?”
“Brigadiere, questa domanda va fatta alla polizia politica, non a un semplice investigatore privato.”
“Eppure tu sai sempre tutto.”
“Almeno fosse così.”
“Allora dimmi, in via del tutto confidenziale, quel poco che sai.”
“So quello che lei sa già molto bene: c’è una guerra in corso e in città il più pulito ha la rogna.”
 “Quindi non sai una minchia?”
“Perché, cosa credeva? Che avessi sottomano i nomi del commando?”
“No perché in tal caso staresti già dentro a una buca da qualche parte in Oltrepò.”
“E perché proprio in Oltrepò?”
“Per dire.”

La conversazione con Marostica mi aveva messo di malumore. Di tornare a casa non se ne parlava proprio, così mi misi a vagare come un’anima in pena. In Viale Matteotti vidi un tale raggomitolato per terra. Mi avvicinai e lo riconobbi. Era padre Adamo.
“Che è successo, don? Si sente male?”
“Mi hanno picchiato.”
“Chi è stato?”
“Non lo so, due energumeni…”
Lo aiutai a rimettersi in piedi. Aveva la faccia gonfia, un occhio mezzo chiuso.
Lo accompagnai sino a una panchina, quindi andai alla fontanella a bagnare un fazzoletto.
“Non avevo fatto niente di male…”
“Scusi, perché ha giù la braghetta?”
“Ma no, niente, me la sarò scordata aperta a casa.”
“Non mi prenda in giro, don.”
Premendosi il fazzoletto sul viso, Adamo si mise a raccontare.
“Non giudicarmi male, la natura umana è imperfetta. Ero ai giardini del castello…”
“Per puro caso.”
“A un certo punto vedo due ragazze.”
“E non ha potuto fare a meno di esibirsi.”
“Purtroppo no”, sospirò, “poi sono arrivati i fidanzati, e mi hanno rincorso. Correvano forte, mi hanno raggiunto e il resto lo vedi da te.”
“Don, lei deve darsi una calmata… Le prende le pastiglie?”
“Non sempre.”
“O quelle o i cazzotti: cosa preferisce?”
“Le pastiglie.”
“E allora le prenda. Vuole che le chiami un taxi? Ce la fa ad arrivare a casa?”
“No non c’è bisogno, ce la faccio”
Accompagnai lo spretato per un tratto.
“Che brutti tempi stiamo vivendo. Il gesto più innocente viene sistematicamente male interpretato.”
“Sa com’è, c’è gesto e gesto.”
“Vero. Questo è per te, a titolo di ringraziamento.”
Mi porse una pallina avvolta nel cellophane.
“Roba buona eh! Così fai serata con la tua segretaria, la Luciana.  Bella gnocca! Te li fa i pompini?”
Non risposi.
“E daglieli due colpetti ogni tanto!”
“Vada a dormire, che è meglio.”
“Per la polverina magica fanno di tutto quelle porcone! Se vuoi te ne presento una, sta al collegio Bellarmino.”
“Scusi don, ma se ci sono ‘ste porcone disposte a tutto per la bamba, come dice lei, perché se ne va in giro a mostrare l’uccello alle ragazze al parco?”
“Perché, come dice il mio consulente finanziario, bisogna diversificare gli investimenti.”
Lo vidi sparire, finalmente, nell’androne condominiale.
Mentre mi allontanavo, mi giunse di nuovo la sua voce.
“Marco!”
Affacciato alla finestra, lo spretato mi osservava con un’espressione stravolta.
“Che c’è ancora?”
“Non me la racconti giusta. Secondo me te la bombi eccome, quella bella maialona!”

La pallina non la buttai, poteva sempre tornare utile. Quella notte, stranamente, riuscii a dormire qualche ora.

“Hai sprecato i migliori anni della tua vita. Preparati ai peggiori.”
Una lettera anonima, scritta in stampatello, nella cassetta delle lettere. La busta non recava traccia di timbro postale, né l’indicazione del destinatario.  Mi sforzai di immaginare chi potesse avermela recapitata ma non mi venne in mente nessuno. La riposi in un cassetto.
Un minuto dopo squillò il cellulare.
“Marco, perché non fai un salto da me?”
Era Marostica.
“E' una cosa urgente?”
“Diciamo che è nel reciproco interesse.”
Mezz’ora dopo bussavo alla sua porta.

“Prego Marco, accomodati. Caffè?”
“Non si disturbi.”
“Immagino tu conosca il motivo di questo colloquio.”
“A dire il vero, no.”
“Fai le ore piccole, ti svegli sempre tardi e non sei aggiornato sulle novità. Dovresti saperlo che il mattino ha l'oro in bocca.”
“Mi ha convocato per dispensarmi consigli di vita?”
Marostica si fece serio.
“Stamattina Adamo Sarti è stato trovato impiccato alla ringhiera della scala nel suo condominio, con le mani legate dietro alla schiena. Vi conoscevate vero?”
“Lo conoscevate  meglio voi, visto che era un vostro informatore.”
“Quand'è l'ultima volta che l'hai visto?”
“Ieri notte, dopo le 11, steso sull'Allea di Viale Matteotti. Lo avevano gonfiato di botte.”
“Chi?”
“Dei giovanotti, così ha detto.”
“E poi?”
“L'ho aiutato ad alzarsi, l'ho accompagnato verso casa e me ne sono andato. Stop.”
“Secondo te chi l'ha ucciso?”
“Non ne ho la minima idea.”
“Non ti pare strano che quello incontra a te e poche ore dopo finisce appeso?”
“Diciamo meglio: quello incontra dei tizi che lo riempiono di botte e poi finisce appeso. Io non c’entro un cazzo.”
“E pensare che una volta Pavia era una noiosa città di provincia…”
“I bei tempi andati.”
“Tieni occhi e orecchie bene aperti, Marco.”
“Come sempre, brigadiere.”

Accanto all’ingresso dell’agenzia, un gatto rosso mangiava crocchette da una ciotola. Era un randagio che faceva spesso tappa da quelle parti. Entrai e non vidi Livia. Un istante dopo udii dei rumori provenire dal bagno, come se qualcuno stesse sferrando calci alla porta. Aprii e la vidi seduta a terra, imbavagliata, le mani legate dietro la schiena. La liberai dalla fascetta di plastica e dalla ball gag che le avevano ficcato in bocca. 
“Che è successo Livia? E’ ferita?”
“Due stronzi con il passamontagna sono entrati e mi hanno legata. Mi hanno chiesto dov’è la cassaforte, ho detto loro che la chiave ce l’ha solo lei, mi hanno messo la pallina in bocca e sono andati a rovistare nel suo ufficio.”
“Le hanno fatto del male?”
“Vuol sapere se mi hanno stuprata? No, non mi hanno violentata ma mi hanno sbatacchiato l’uccello in faccia, quelle merde. Ed è una cosa che non sopporto.”
“Hanno detto qualcosa di particolare?”
“A parte ‘Non urlare se no ti ammazziamo’, no.”
“Bastardi!”
“Millecento euro al mese non ripagano questo schifo.”
“Mi spiace, Livia, davvero.”
Andai in ufficio: avevano vuotato tutti i cassetti sul pavimento e il notebook era sparito.
“In che razza di casino si è cacciato?”
“Livia, le assicuro che non ho combinato nulla che possa giustificare tutto questo. Non riesco a immaginare cosa credessero di trovare.”
“Fossi in lei non ne parlerei a Marostica. Non servirebbe a niente. E poi non ho voglia di rispondere a domande sgradevoli.”
“Vero. Non servirebbe a niente.”
“Le do una mano a sistemare. Da solo non combinerebbe granché.”

I funerali delle dodici vittime della strage paralizzarono la città. Non avevo mai visto in vita mia tante facce fintamente contrite. Mi rifiutai di guardare un solo programma televisivo, di leggere un solo articolo di giornale sull’argomento.
Lello mi chiamò anche quella sera, dopo le 22.
“Non hai idea della quantità di stronzate che stanno dicendo in tele.”
“Immagino.”
“Senti, secondo me la visita all’agenzia era per farti capire che loro sanno che tu sai.”
“Cosa so, io? Niente! E non me ne importa nulla delle loro faide!”
“Magari è per via del filmato.”
“E che c’entro io col filmato? Me lo hanno inviato e da me si è fermato! Io mi faccio i fatti miei.”
“Probabilmente volevano incoraggiarti a continuare così.”
“Potevano trovare un altro modo, quei figli di puttana!”
“E’ gente che non va per il sottile, lo sai bene.”
“Comunque sia hanno passato il limite.”
“E quindi?”
“E quindi cosa?”
“Ti metti a fare il giustiziere della notte? E a chi spari, visto che manco sai chi sono?”
“Ma quale giustiziere della notte, a me basta solo che non mi rompano i coglioni!”
“Secondo me la cosa si chiude qui.”
“Voglio sperare.”
“E certo. Vivi e lascia vivere.”
“Lascia ammazzare, vorrai dire.”

Al brigadiere non dissi una parola dell’accaduto. Il giorno dopo, a mezzogiorno circa, ricevetti una chiamata in agenzia. Era una donna.
“Possiamo incontrarci?”
“La porta dell’agenzia è aperta, venga quando vuole.”
“Pensavo a qualcosa di più discreto.”
“Qui è discreto.”
“Non potrò essere lì prima delle 18”
“Nessun problema. Posso sapere il suo nome?”
“Simona.”
“A dopo.”
Cosa poteva volere da me quella donna? Lo avrei scoperto presto.
Dal giorno dell’intrusione tenevo sempre a portata di mano la Beretta APX (anagramma di Pax, ci avete fatto caso? Quelli di Gardone Val Trompia hanno un morboso senso dell’umorismo). Non che fossi convinto servisse a qualcosa ma averla accanto mi dava maggiore tranquillità.
In ogni caso, all’occorrenza non avrei esitato a usarla.
Livia se ne andò alle 17, come suo solito.
Alle 18 e 10 suonarono all’ingresso.
Andai ad aprire.
Dove avevo già visto quello sguardo? Quella chioma di capelli neri e lisci? E quel sorriso indecifrabile?
Le dissi di entrare.
Era il tipo di donna che non passa inosservata.
Ci sedemmo in ufficio, la scrivania a fare da linea di demarcazione.
Indossava una gonna a tubino in pelle e un top bianco.
“La ascolto.”
“Volevo ringraziarla.”
“Di cosa?”
“Lo sa benissimo.”
“La questione, per quanto mi riguarda, è risolta.”
“Tengo molto a Giulio.”
“Bene.”
“La gente giudica senza sapere di cosa parla.”
“Purtroppo.”
“Gente che, fra l’altro, farebbe meglio a guardare i propri peccati prima di scagliarsi contro quelli degli altri.”
“Vero. Nel suo caso però la faccenda può dirsi chiusa.”
“Ci sposiamo a settembre.”
“Meglio di così…”
“Grazie anche a lei.”
“Non c’è di che. Mi sono limitato a tradire la mia deontologia professionale e a vendere per denaro il mio silenzio.”
“E chi non si vende, a questo mondo? Siamo tutti in vendita, in un modo o nell’altro.”
“Già.”
“Si vede che la sua parola ha un valore, se bisogna pagare perché stia zitto.”
“Mettiamola così: ho un certo credito, in giro. Ora si tratta solo di capire se questo credito avrà un futuro oppure no. Gradisce qualcosa da bere?”
“No, grazie, anzi, è meglio che vada. Il mio fidanzato mi aspetta.”
“Non facciamolo aspettare, allora.”

Quella sera avrei cenato in trattoria ma lungo il tragitto mi fermai dal Turco.
“Marco, vieni che ti mostro una cosa.”
Da sotto il bancone tirò fuori un foglio, una volantino con il testo bilingue russo-inglese. Nel bel mezzo, la foto a colori di un lanciagranate RPG-7.
“Ti interessa?”
“Dico ma sei ammattito? Che me ne faccio di questo coso, ci ammazzo le mosche?”
“E’ una replica, mica è vero!”
“E vorrei anche vedere!”
“Dai, non ti arrabbiare, stasera la bevuta è gratis.”
Mi sedetti a un tavolino. La televisione era accesa col volume a zero. In un angolo, un avventore abituale fissava il vuoto.
Squillò il cellulare. Una voce femminile che non riconobbi pronunciò queste parole:
“Ore 21, chiesa del Carmine, navata destra, primo pilastro. La contatterò io.”
Chi diamine era, stavolta?

Avevo bevuto troppo. Arrivai in Carmine con una certa fatica, rasentando i muri. La chiesa era piena di anziani: una distesa di teste canute. La locandina all’ingresso annunciava la lettura di brani scelti dal ‘Diario di guerra di Edmondo Bazzelli’.
Presi posto su una sedia nel punto stabilito.
Il pubblico salutò con un applauso l’apparizione di un bellimbusto imbrillantinato che si piazzò al microfono e, dopo una prolissa introduzione, cominciò a leggere le pagine del Diario. Si atteggiava manco fosse Vittorio Gassman.
Improvvisamente mi giunse alle narici una ventata greve e nauseabonda di gas intestinali, sfiatati da chissà chi, forse dal fotografo obeso seduto alla mia destra. Un prete dall’espressione malvagia si materializzò all’improvviso da dietro il pilastro, saettando occhiate ostili sul pubblico.
Ebbi l’impressione di trovarmi in un obitorio, circondato da cadaveri ai primi stadi della decomposizione. La situazione era del tutto insostenibile.
Stavo per andarmene quando mi sentii toccare a una spalla.
Mi girai e vidi una donna sulla quarantina, con un abito a tubino nero. Una figura del tutto fuori posto in quella sede. Con un cenno del viso mi invitò a seguirla. 
Non esitai un istante. Sul sagrato della chiesa, ripresi finalmente fiato.
La sconosciuta discese i gradini con un’eleganza sapientemente coltivata.
Abito Ralph Lauren, acconciatura “di tendenza” con chignon basso, trucco non vistoso: bel tipo davvero.
“Beh? Dove andiamo?”
“Ho la macchina posteggiata qui vicino.”
La macchina era una Lexus LC 500.
Salii a bordo.
La signora in nero partì sgommando.
Dall’impianto stereo uscirono le note di una canzone che conoscevo bene: “My Weak Side” di Mr.Kitty.
“Non ha risposta alla mia domanda: dove siamo diretti?”
“A fare un giro.”
E facciamolo ‘sto giro, pensai.
“Posso sapere come ti chiami?”
“Florinda.”
“Come la Bolkan.”
“Ecco, bravo, proprio lei. Piaceva a mio padre.”
“Ho visto di recente un film di Fulci con la Bolkan, Non si sevizia un paperino. Pare sia un film di culto. A me non è piaciuto per niente, a parte una sequenza.”
“Quella della Bouchet che adesca il ragazzino?”
“Indovinato.”
“Siete così prevedibili, voi uomini. A me la Bolkan piace soprattutto in Metti una sera a cena.”
“Anche a me, se è per quello.”
Alla rotonda di Viale Indipendenza svoltò a sinistra e, di lì, in Viale Golgi. Imboccata la tangenziale Ovest, seguì le indicazioni per Bereguardo.
“Marco, posso darti del tu, vero?”
“Naturalmente.”
“Se adesso io mi fermassi in una piazzola e ti facessi un pompino, tu avresti qualcosa in contrario?”
“Non credo proprio.”
“Non mi fraintendere: la mia ero solo una curiosità di carattere, diciamo così, antropologico.”
“Antropologia a parte, dove siamo diretti?”
“Hai altri impegni?”
“Nessun impegno: vorrei solo capire.”
“Non c’è niente da capire. Ascolta qui.”
Un tocco al trackpad ed ecco uscire dalle casse ‘Go with the Flow’ dei Queens of the Stone Age.
Se non altro, sarebbe stata una notte diversa dalle altre.

Ci lasciammo alle spalle Bereguardo. Dopo alcuni km svoltammo in una strada sterrata che si inoltrava in un bosco. Procedemmo a lenta andatura per una decina di  minuti. Il bosco si infittiva in modo inquietante, avvolgendo la strada come in un bozzolo. Vidi apparire alla nostra sinistra un muro di cinta. Lo costeggiammo sino ad arrivare nei pressi dell’entrata, un cancello imponente oltre il quale si apriva una tenuta di campagna.
Il cancello si aprì: eravamo attesi.
Percorso un viale coperto di ghiaia illuminato da faretti, giungemmo dinanzi a una villa nobiliare, relativamente ben conservata.
Florinda spense il motore e scese dall’auto. La seguii senza fare domande.
Saliti i pochi gradini che conducevano all’ingresso, non dovemmo far altro che spingere il portone, oltre il quale si apriva un corridoio le cui finestre erano schermate da tende di velluto. Alle pareti, stampe che raffiguravano scene di caccia… all’uomo.
Al termine del salone si apriva un salone, arredato in modo bizzarro, dominato al centro da una specie di trono. Su di esso, sedeva un personaggio a dir poco singolare.
Non avevo mai visto in vita mia un uomo così piccolo. Sembrava tale e quale ad Harry Earles, il nanetto biondo del film di Tod Browning “Freaks”. Identico sia nell’aspetto che nell’abbigliamento, mi osservava con un sorriso indecifrabile.
Florinda, poco lontano, stava versando un drink.
“Non dirmi che non ti piace il Talisker”.
“Infatti non lo dico”, le risposi.
Mi passò il bicchiere.
L’omino alzò la mano sinistra.
“Viviamo tempi difficili, non crede?”
“Altroché.”
“Basta un nonnulla, e ci si ritrova su un tavolo settorio.”
“Già, a volte basta davvero poco.” 
“Una parola di troppo.”
“Anche.”
“Florinda cara, unisciti a noi.”
“Sono qui.”
“Ora le mostro una cosa.”
Schioccò le dita. Dal fondo del salone si fecero avanti due individui corpulenti, il volto celato da maschere,  spingendo una cabina munita di rotelle coperta da un telo colorato.
A un cenno del nano, fu tolto il telo.
La “cabina” altro non era che una gabbia. Al suo interno, un uomo sulla sessantina, nudo e in manette. Una gag ball gli impediva di proferire parola.
“Lo riconosce?”
Feci segno di no al padrone di casa.
“Eppure dovrebbe. Lo osservi bene.”
Non lo riconobbi.
“Come, lei non conosce l’illustre professor Corsati?”
Corsati? Il temutissimo ordinario di Diritto delle società offshore? E che ci faceva, rinchiuso in gabbia come un animale, in una villa sperduta nella Valle del Ticino?
“E’ uno sporcaccione, sa, il professore? Ma noi gli vogliamo bene lo stesso, vero Florinda?”
“Come no. Un bene dell’anima.”
Florinda si accostò alla gabbia del professore e gli strizzò crudelmente i testicoli.
“Accadono brutte cose. Cose di cui, onestamente, vorremmo non dover essere testimoni.”
“Posso socratizzarlo, zio?”
“Non ora, Florinda. Non vorrei turbare la sensibilità del nostro ospite. Ci occuperemo di lui in un secondo tempo. Marco, mi dica: ha mai seviziato qualcuno?”
“Sinceramente no.”
Lo zio mi fissò incredulo, come se avessi pronunciato la cosa più inverosimile al mondo.
“Se mettessimo un po’ di musica?” Florinda si diede ad armeggiare con un impianto stereo.

Ai quattro angoli del salone erano collocati diffusori acustici Enigma Veyron System.
Poco dopo, l’ambiente fu inondato dai bassi di “Bind, Torture, Kill”, album del 2006 dei Suicide Commando.
“Lei mi sorprende, Marco. Trovo bizzarro questo suo moralismo.”
“Non è moralismo. E’ solo che non mi attira l’idea.”
“Desidero offrirle un’opportunità unica.”
“La ascolto.”
“Le piacerebbe sottoporre a waterboarding il professore? Se vuole può farlo, adesso. I miei collaboratori saranno lieti di aiutarla.”
“Anch’io!”, esclamò Florinda
Non avrei potuto essere maggiormente consapevole del fatto di trovarmi in mezzo a dei pericolosissimi psicopatici. Soppesai con cura le parole.
“La ringrazio, davvero, ma non sono dell’umore giusto.”
Il nanetto non dissimulò il proprio disappunto.
“Non le va a genio proprio nulla, a quanto pare.”
“Qualcosa sì, zio. Penso proprio che mi si scoperebbe volentieri.”
Mi vidi rivolgere un’occhiata di disapprovazione – non so fino a che punto sincera.
“Davvero?”
“In questo momento gradirei un altro bicchiere di whisky.”
Lo zio scese dal trono servendosi di una scaletta in legno coi gradini imbottiti.
“Portatemi il professore!”
Florinda si sedette accanto a me sul divano.
“Sta’ a vedere Marco, ora lo zio ne combina una delle sue”.
“Sono finiti i giorni dei tuoi trionfi, miserabile!”
I due, aperta la gabbia, afferrarono e lo trascinarono di fronte allo zio.
“Tenetelo forte!”
Lo zio, fatti pochi passi, estrasse da un braciere un ferro da marchiatura per bovini e lo calcò sulla schiena dello sventurato.
Odore di carne bruciata si diffuse in tutto il locale insieme allo straziante muggito di dolore del professore.
“Summum ius, summa iniuria!” esclamò il nanetto.
“Che ti avevo detto? Lo zio è capriccioso.”
Il professore fu gettato nuovamente nella gabbia.
Lo zio sembrò acquietarsi. Tornatosi a sedere, mi rivolse lo sguardo più placido del mondo.
“Nel preciso istante in cui ha varcato la porta di questa villa lei è diventato nostro complice. Se ne rende conto, vero?”
Preferii non contraddirlo.
“Le cose cambiano. Equilibri che sembravano immodificabili si sgretolano nel volgere di poche ore. La città sul Ticino non sarà mai più la stessa. Molti dovranno perire.”
“Credevo che la mattanza fosse finita.”
“Finita? Ma se è appena cominciata! Non mi guardi così, la strage nella loggia non è opera mia. Io sono un umile artigiano… faccio la mia parte, do il mio piccolo contributo, nient’altro.”
Florinda mi si strinse addosso.
“Siamo formichine che lavorano a un più grande disegno, Marco.”
“Non riesco a seguirvi… Sinceramente.”
“Go with the flow, Marco, go with the flow”, mi sussurrò Florinda.
All’improvviso mi si annebbiò la vista. Cos’aveva messo nel whisky, la stronza? Piombai in un sonno di piombo.

Mi svegliai, intirizzito, sul sedile posteriore di un’automobile, con una gran voglia di pisciare e un discreto mal di testa.
Scesi dalla vettura. Mi trovavo nel cortile di un autodemolitore e non c’era nessuno in giro. Svuotai la vescica e tastai le tasche della giacca: non mi avevano sottratto nulla, a cominciare dal cellulare.
Lo accesi. Erano le 6 e un quarto del mattino e mi trovavo a pochi km da Milano. Per quale motivo mi avessero scaricato lì, lo sapeva soltanto il diavolo.
Squillò il telefono. Numero sconosciuto, voce maschile ignota.
“Il cancello è accostato, esci. Segui la strada, avanti duecento metri arrivi alla statale. Alla tua destra c’è la fermata dell’autobus.”
Mi attenni alle istruzioni ricevute.
Lungo il tragitto digitai il numero di Lello.
“Sei a casa?”
“Sì. Tutto bene?”
“Mica tanto. Ti va se passo da te entro un’oretta?”
“Certo.”

Quando mi aprì la porta, notai nel suo sguardo un attimo di sbigottimento.
“Marco, sei pallidissimo. Che è successo?”
“Ti spiace se mi siedo?”
“Stai scherzando, vieni, accomodati, ti preparo qualcosa di caldo.”
Mi sdraiai sul divano.
Dopo poco Lello tornò porgendomi una tazza di camomilla. Ne bevvi un sorso.
“Che ti è capitato?”, chiese sedendosi in poltrona.
Gli raccontai l’avventura della notte precedente.
“Marco, la situazione sta prendendo una brutta piega, vogliono metterti in mezzo a tutti i costi. Forse è meglio se vieni via da Pavia per un po’. Puoi venire a stare da me.”
“Non ci capisco più niente.”
“Immagino che Corsati non sia più nel novero dei vivi.”
“Non ne ho la minima idea, so solo che lo hanno marchiato a fuoco sotto i miei occhi.”
“Che ti ha detto il nano? ‘E’ appena cominciata’?”
“Esatto.”
“Scorrerà altro sangue allora.”
“Sicuro.”
“Potremmo fare delle ricerche in merito alla villa che mi hai descritto, ma qualcosa mi dice che è meglio lasciar perdere.”
“Infatti.”
“Senti, Marco, tu a Pavia per un po’ non devi mettere piede. Molla tutto.”
“E a Livia che dico?”
“Le dici che per un mesetto l’agenzia chiude, che le paghi comunque il salario e ti rifarai vivo al più presto”
“Cazzo.”
“Credimi, è la cosa migliore.”
“Non servirebbe a niente Lello. Se vogliono mi possono beccare benissimo anche qui.”
“Come vuoi, in ogni caso per te la porta è sempre aperta.”
“Se non ti dispiace me ne sto qui un’oretta, poi vado.”
“Stai quanto vuoi.”

Rientrai a Pavia in treno nel primo pomeriggio.
Durante il tragitto ricevetti un sms da un numero sconosciuto:
“Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, cripta di Severino Boezio, ore 18”.
Non esitai a rispondere.
“Avete rotto i coglioni!”
Due minuti dopo:
“Fai il bravo, Marco.”
Era quella puttana di Florinda, ne ero certo. Passai dall’agenzia, presi la pistola dal cassetto e alle 17 e 45 mi recai all’appuntamento.
In chiesa non c’era anima viva.
Raggiunsi l’ingresso della cripta.
Al suo interno, di fronte all’altare, vidi lei. Vestita esattamente come Clara Calamai nella scena finale di Profondo Rosso.
“Dove hai trovato questo impermeabile? Da un noleggio costumi?”.
“Lo zio ti manda i suoi saluti e un piccolo dono.”
Mi porse una scatola.
La aprii: conteneva una chiave.
“E quindi?”
“Apre la cassetta di sicurezza nella camera 26 dell’Hotel Alba. Tanti auguri, Marco. Esco prima io. Tu aspetta qualche minuto.”
La afferrai per un polso e le impedii di muoversi.
“No, adesso tu aspetti!”
“Mi fai male.”
“Per chi mi avete preso? Dopo lo scherzo di ieri notte, adesso dovrei partecipare a una caccia al tesoro?”
“Mi metto a strillare sai? Dico che hai cercato di violentarmi!”
“E chi vuoi che ti senta? La chiesa è deserta.”
Allentai la stretta.
“Sai che ti dico? Riprenditi la chiave, non so che farmene.”
“No, Marco: è tua.”
Mi si strinse contro e mi diede un bacio.
“Lasciami andare ora.”
“Usciamo insieme, tu avanti a me di un passo.”
“Come vuoi.”
Ci separammo una volta giunti in Viale Matteotti.

Conoscevo il portiere dell’Hotel Alba. Era un ex pugile, un tipo a posto. Quando mi vide arrivare, quella sera, non disse una sola parola. Si limitò a porgermi la chiave della camera 26.
Salii al piano. Il corridoio del secondo piano era deserto, la stanza era in perfetto ordine. Aprii la cassetta di sicurezza. Conteneva una chiavetta usb.
“Ma puttana di quella troia!”.
Scesi le scale imprecando. Quasi mi dimenticai di rendere la chiave della stanza al portiere.
Una volta a casa, accesi il portatile e inserii la chiavetta.
Conteneva un solo file, intitolato “Morituri”.
Era un elenco di nomi, parecchi dei quali a me noti.
Nomi di persone destinate a morire di morte violenta.
Spensi il notebook.
“Cazzo”.
Per ragioni che non riuscivo a capire, volevano che sapessi chi stavano per uccidere. Stavolta non avrei parlato a nessuno della cosa, neppure a Lello. Accadesse quel che doveva accadere.
Non chiusi occhio, quella notte. L’alba mi sorprese seduto in poltrona, in tinello, in compagnia di una bottiglia di whisky semivuota.
Erano decine di nomi, perdio. Una mattanza.
Andai in bagno a lavarmi la faccia, quindi indossai la giacca ed uscii.
In fondo, era un giorno come un altro. 

Pietro Ferrari, giugno 2019