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sabato 24 giugno 2023


GEMISTO PLETONE E IL NEOPAGANESIMO
RINASCIMENTALE

Il filosofo bizantino Giorgio Gemisto, detto Pletone, in greco Γεώργιος Γεμιστός Πλήθων, Geṓrgios Gemistós Plḗthōn (Costantinopoli, 1355 - Mistra, 1452), fu la causa prima del Rinascimento Italiano ed ebbe un'influenza immensa sulla cultura della sua epoca. Quanti ne hanno sentito parlare? Immagino che siano ben pochi. Io per primo non l'ho mai sentito nominare quando frequentavo la scuola. In genere i docenti parlano del neopaganesimo rinascimentale come di un fatto puramente artistico, privo di una vera causa e di qualsiasi reale valenza religiosa e filosofica. Intendo qui dimostrare in estrema sintesi che quest'idea, diffusa dal sistema scolastico italiano e dal mondo accademico, è erronea,  parziale, semplicistica, ideologica. 
Innanzitutto, fu proprio Gemisto Pletone a riportare in Occidente la conoscenza e lo studio approfondito della lingua greca, che era stata da lungo tempo quasi dimenticata e ridotta a rudimenti. Del resto, gli studiosi del Trecento che si erano occupati della materia, come ad esempio Petrarca e Boccaccio, non avevano ottenuto risultati strabilianti. Cosa d'importanza capitale, il filosofo bizantino permise la conoscenza diretta dei testi in lingua originale di Platone, Plotino e altri neoplatonici. Negli anni 1438-1439 partecipò al Concilio di Ferrara e Firenze, occasione di importanza capitale che gli permise di plasmare l'Umanesimo, diffondendo la sua visione del mondo. Fu determinante la sua influenza su Cosimo de' Medici (Firenze, 1389 - Careggi, 1464), che nel 1462 portò alla fondazione dell'Accademia neoplatonica fiorentina. La rinascita del pensiero neoplatonico in Italia fu un movimento che si oppose al monopolio del pensiero aristotelico e della filosofia scolastica, che avevano da secoli il sostegno dalle autorità ecclesiastiche. 
Senza sapere dell'esistenza e dell'opera di Gemisto Pletone, ci sarebbe impossibile comprendere personalità come Leon Battista Alberti (Genova, 1404 - Roma, 1472), Marsilio Ficino (Figline Valdarno, 1433 - Careggi, 1499), Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola, 1463 - Firenze, 1494) e numerosissimi altri. Si arriva infatti a Leonardo da Vinci (Anchiano, 1452 - Amboise, 1519), sommo ingegno che fu descritto dal Vasari come "pitagorico e neoplatonico al punto di non essere cristiano"
Ciriaco Pizzecolli (o de' Pizzicolli), noto anche come Ciriaco d'Ancona (Ancona, 1391 - Cremona, 1452), esploratore e padre dell'archeologia, nutriva un vero e proprio culto per il filosofo bizantino. Così scrisse: 

"Lì (1) trovammo Costantino Dragaš (2), della stirpe reale dei Paleologi, l'illustre despota regnante. E presso di lui facemmo visita a quell’uomo per cui eravamo venuti, insigne, senza dubbio il più dotto tra i Greci nel nostro tempo e anche, direi, per vita, costumi e insegnamenti un filosofo platonico illustre e importantissimo."

(1) A Mistra, nei pressi di Sparta. 
(2) Signore semi-indipendente del Regno di Serbia, satellite frammentario dell'Impero Romano d'Oriente.  

Proprio a Mistra (Mistrà, Mizithra), in una terra in cui fiorì una delle più austere civiltà comparse sul pianeta nei millenni, Gemisto Pletone aveva fondato la sua scuola, da cui si irradiava la sua sapienza ancestrale. Protetto dall'Imperatore Manuele II Paleologo, di cui era personale amico, fu sempre al riparo dalla persecuzione della Chiesa Ortodossa, e in particolare del fanatico Gennadio II Scolario, che non riuscì nel suo intento di farlo imprigionare e processare per eresia. 

Etimologia dello pseudonimo 

Il soprannome del filosofo, Pletone (Πλήθων, Plḗthōn) deriva dal greco πληθύς (plēthýs) "folla", "maggioranza", che è semanticamente affine a γεμιστός (gemistós) "pieno". Si tratta quindi di un dotto gioco di parole, la cui origine è da ricercarsi anche dall'assonanza col nome di Platone (Πλάτων, Plátōn). 


Imitatio Iuliani 

L'intera vita di Gemisto Pletone fu plasmata sull'esempio dell'Imperatore Giuliano il Filosofo, che i Cristiani hanno soprannominato Giuliano l'Apostata. Si riconosce subito nelle idee professate dal dotto di Bisanzio l'impronta del fondatore dell'Ellenismo, che cercò di riformare le tradizioni religiose del mondo antico per contrastare l'irruzione del Cristianesimo. Mi chiedo questo: com'è potuto nascere e svilupparsi un personaggio tanto innovativo e al contempo tanto legato a qualcosa che si pensava morto da molti secoli? Gemisto Pletone nacque a Costantinopoli, con ogni probabilità da una famiglia nobile. Non si conosce il motivo che lo costrinse a trasferirsi, ancora molto giovane, dapprima ad Adrianopoli e in seguito a Mistra. Non si hanno notizie certe, anche se sembra che proprio ad Adrianopoli abbia iniziato i suoi studi esoterici, dedicandosi tra le altre cose alla Cabala. Come si formò e divenne compiuta la sua peculiare visione dell'Universo, considerato il contesto cristiano in cui era immerso? Ha ricevuto le sue idee leggendo qualche testo, elaborando quanto aveva appreso, oppure ha ricevuto un'iniziazione da qualcuno che continuava in linea diretta le idee ellenistiche di Giuliano? La seconda alternativa sembrerebbe piuttosto improbabile, tuttavia non credo di poterla escludere. In fondo sappiamo così poco! 

Il Trattato delle Leggi

Questo è il testo dell'Inno al Sole, contenuto nel Trattato delle Leggi (
Νόμων συγγραφή, Nómōn syngraphḗ), opera di Gemisto Pletone che purtroppo ci è nota soltanto per frammenti: 

Ἄναξ Ἄπολλον, φύσεως τῆς ταὐτοῦ ἑκάστης 
Προστάτα ἠδ' ἡγῆτορ, ὃς ἄλλα τὲ ἀλλήλοισιν 
Εἰς ἓν ἄγεις, καὶ δὴ τὸ πὰν αὐτὸ, τὸ πουλυµερές περ
Πουλύκρεκόν τε ἐὸν. μιῇ ἁρμονίη ὑποτάσσεις 
ύ τοι εκ γ' ὁμονοίης καὶ ψυχῖσι φρόνησιν· 
Ἠδὲ διχην παρέχεις, τα τε δὴ κάλλιστα ἐάων, 
Σὺ δὴ καὶ ἵμερον θείων καλλῶν δίδου αἰὲν,
Ἄναξ, ἡμετέρησι φυχαῖς: ὠὴ παιάν.  

Traslitterazione: 

Ánax Ápollon, phýseōs tẽs tautoũ hekástēs 
Prostáta ēd' h
ēgẽtor, hòs álla tè allḗloisin 
Eis hèn ágeis, kaì dḕ tò pàn autò, to poulymerés per 
Poulýkrekón te eòn, miẽ harmoníē hypotásseis
; 
Sý toi ék g' homonoíēs kaì psykhẽsi phrónēsin 
Ēdè díkhēn parékheis, tá te dḕ kállista eáōn,
Kaì rh' hygíean sṓmasi, kallos t' àr kaì toĩsin;
Sỳ dḕ kaì hímeron theiōn kallõn dídou aièn,
Ánax, hēméterēsi psykhaĩs; ōḕ paián.

Traduzione: 

Apollo Re,
tu che regoli e governi l'identità in tutte le cose,
che stabilisci l'unità tra tutti gli esseri,
che sottoponi alle leggi dell'armonia questo vasto Universo, così vario, così molteplice,
sei anche tu che stabilisci l'accordo tra le anime e generi saggezza e giustizia, i beni più preziosi; 
sei tu che dai salute e grazia ai corpi. 
Perciò ispira sempre le nostre anime con l'amore per le bellezze divine; salve, o Peana.

Purtroppo il testo completo del Trattato delle Leggi è stato fatto distruggere dall'acerrimo nemico del filosofo, Gennadio II Scolario, che nel 1454 divenne Patriarca di Costantinopoli. Ormai nella grande città comandavano i Musulmani, ma il potere che l'ecclesiastico conservava gli permetteva ancora di fare gravi danni. Quanto ci resta del Trattato delle Leggi è consultabile nell'Archivio del Web e liberamente scaricabile: 



Sunto dottrinale

Gemisto Pletone era un convinto sostenitore della necessità di unificare tutte le religioni del mondo in una sola, che era quella Ellenistica. Egli faceva risalire le filosofie di Platone e di Pitagora alla dottrina del persiano Zoroastro, ritenuta il fondamento della Conoscenza Primigenia. Da questa sarebbero discesi in linea diretta, nel corso dei secoli, gli insegnamenti di tutti gli antichi saggi, tra cui si possono enumerare Minosse, Licurgo, Numa Pompilio, i Sacerdoti di Dodona, i Sette Sapienti, Parmenide, Timeo, Plutarco, Porfirio, Giamblico, i Magi e i Brahmani (ΒραχμᾶνεςBrakhmãnes) della remota India. Importante il riferimento agli Oracoli Caldaici (
Χαλδαικὰ λόγια, Khaldaiká lógia), importante opera misterica risalente con ogni probabilità alla fine del II secolo d.C., attribuita a Giuliano il Teurgo e giunta a noi in forma frammentaria.   

L'antico politeismo era concepito nello spirito platonico, con Zeus come dio supremo. Gemisto Pletone ideò una liturgia dettagliata allo scopo di rendere l'Ellenismo una religione praticabile. Egli presumeva che gli Dei mantenessero una completa armonia tra loro, evitando così conflitti come quelli descritti da Omero e organizzandosi volontariamente in un sistema gerarchico capace di servire da modello per gli esseri umani. Filosoficamente, ciascuno degli Dei era visto come rappresentante del principio a loro associato, come ad esempio l'unità rappresentata da Zeus e la molteplicità rappresentata da Era. L'Universo era considerato senza inizio e imperituro, in nettissimo contrasto con il Cristianesimo: le stesse parole "creare", "creazione" erano interpretate in senso letterario e metaforico, non come realtà fisiche. 
Riguardo all'anima, il filosofo sosteneva la dottrina platonica della trasmigrazione o metempsicosi. Tuttavia, non concepiva l'esistenza dell'anima nel mondo materiale come punizione o sventura, ma la affermava come necessaria, significativa e immutabile. Pertanto, non dava per scontata alcuna vita ultraterrena accessibile all'anima, nessuna prospettiva di redenzione. Tra le tesi anticristiane da lui fortemente sostenute c'era la dottrina del diritto etico al suicidio. Si sospetta che egli stesso sia morto volontariamente, all'età di quasi cento anni. 

Critica all'aristotelismo 

Nel 1439, Gemisto Pletone scrisse a Firenze il trattato Περὶ ὧν 'Αριστοτέλης πρὸς Πλάτωνα διαϕέρεται (Perì hõn Aritostotélēs pròs Plátōna diaphéretai, in latino De Platonicae atque Aristotelicae philosophiae differentiis) "Sulla differenza tra la filosofia platonica e quella aristotelica". In questa polemica, difese gli insegnamenti di Platone dalle critiche di Aristotele. Scrisse l'opera in fretta e furia mentre era malato, con citazioni fatte a memoria e non esenti da errori. Il suo merito più grande, tuttavia, fu quello di aver attirato l'attenzione sulle differenze fondamentali tra la filosofia aristotelica e quella platonica. Queste differenze ricevettero troppo poca attenzione all'epoca a causa delle tendenze armonizzatrici di molti umanisti. Gemisto Pletone criticò anche i commentatori arabi, in particolare Abū 'l-Walīd Muḥammad ibn Aḥmad ibn Muḥammad ibn Rushd, più noto come Averroè (Cordova, 1126 - Marrakech, 1198), accusato di aver falsificato gli insegnamenti originali. La tesi sostenuta dal filosofo bizantino era questa: il mondo antico antepose sempre Platone ad Aristotele; fu solo grazie alla disastrosa influenza di Averroè che la gente iniziò a preferire Aristotele. Questo era un punto particolarmente controverso degli insegnamenti di Gemisto Pletone, che gli attirò particolare ostilità: basti pensare l'importanza che il pensiero aristotelico aveva come cardine della filosofia sostenuta dalla Chiesa Romana.   

Gemisto Pletone e la politica 

La vita del filosofo fu plasmata dalla fase finale del declino di Bisanzio. Come consigliere di imperatori e despoti, partecipò attivamente a questi sviluppi. Tuttavia, considerò il crollo dell'Impero bizantino e la vittoria dei Turchi in modo diverso rispetto ai suoi concittadini ortodossi, poiché, a differenza di loro, non era radicato nella fede cristiana, ma nel Platonismo. Credeva che lo Stato cristiano, allo stesso modo di quello islamico, fosse un'aberrazione storica destinata al crollo, e che il futuro appartenesse a un nuovo Stato greco, non più cristiano, ma radicato nell'antichità classica. Questo Stato futuro sarebbe stato guidato dai principi platonici, pitagorici e zoroastriani.
Gli elementi centrali del programma politico pletoniano sono i seguenti: 

- Sostituzione del Cristianesimo con l'Ellenismo come religione di Stato. 
- Un sistema monarchico in cui il sovrano dovrebbe ascoltare i consiglieri filosofici. 
Questi consiglieri non dovrebbero essere particolarmente ricchi, poiché altrimenti seguirebbero la loro avidità, ma nemmeno poveri, poiché altrimenti sarebbero suscettibili alla corruzione.
- Divisione del popolo in tre classi (contadini, commercianti e funzionari pubblici/capi di stato).
- Nessun servizio militare per i contribuenti ed esenzione fiscale per i soldati; un esercito puramente professionale, rifiuto del servizio mercenario.
- Aliquota fiscale fissa: un terzo del raccolto agricolo. Nessun altro onere per gli agricoltori attraverso tasse e obblighi di servizio.
- Abolizione di ogni sostegno del monachesimo con il denaro delle tasse, in quanto è un'attività criticata come parassitaria.
- Abolizione delle pene di mutilazione, perché impediscono ai puniti di svolgere attività utili.
Enfasi sulla risocializzazione nel diritto penale, ma – similmente alle Leggi di Platone – ampio uso della pena di morte.
- Impegno sociale per la proprietà terriera, che dovrebbe essere collegata all'obbligo di utilizzarla per l'agricoltura, perché la terra è proprietà comune di tutti gli abitanti.
Se un proprietario terriero trascura questo dovere, chiunque può coltivare qualcosa lì; il raccolto, al netto delle tasse, appartiene quindi a chi lo ha prodotto. Con questa richiesta, il filosofo prese di mira i vasti terreni ecclesiastici, in parte incolti. 


Il lascito e il sarcofago

Questo scrisse il Cardinale Bessarione (Trebisonda, 1403 - Ravenna, 1472) ai figli del filosofo defunto, Demetrio e Andronico, per onorarne la memoria: 

"Ho saputo che il nostro comune padre e maestro ha lasciato ogni spoglia terrena ed è salito in cielo... per unirsi agli dèi dell'Olimpo nel mistico coro di Iacco. Ed io mi rallegro di essere stato discepolo di un tale uomo, il più saggio generato dalla Grecia dopo Platone. Cosicché, se si dovessero accettare le dottrine di Pitagora e Platone sulla metempsicosi, non si potrebbe evitare di aggiungere che l'anima di Platone, dovendo sottostare agli inevitabili decreti del Fato e compiere quindi il necessario ritorno, è scesa sulla terra per assumere le sembianze e la vita di Gemisto. Personalmente, dunque, come ho già detto, mi rallegro all'idea che la sua gloria si rifletta anche su di me; ma se voi non esultate per essere stati generati da un padre simile, voi non vi comporterete come si conviene, perché non si deve piangere un tale uomo. Egli è diventato motivo di grande gloria per l'intera Grecia; e ne sarà l'orgoglio dei tempi a venire. La sua reputazione non perirà, ma il suo nome e la sua fama saranno perennemente tramandati a futura memoria." 

Si resta basiti considerando che queste parole commoventi sono state pronunciate da un ecclesiastico, sostenitore dell'unione tra la Chiesa Ortodossa e la Chiesa Romana; si deve però ricordare che egli fu sempre impegnato nello studio e nella conservazione della cultura greca classica, oltre ad essere il discepolo prediletto dello stesso filosofo - da lui considerato il Secondo Platone e persino la sua reincarnazione!

Nel 1453, un anno dopo la morte di Gemisto Pletone, Costantinopoli fu conquistata dai Turchi e anche Mistra si arrese nel 1460. Pochi anni dopo, il valoroso condottiero Sigismondo Malatesta, al servizio di Venezia, giunse a Mistra con una spedizione militare, riuscì a recuperare le spoglie del filosofo dalla tomba e le portò a Rimini nel 1466. Da allora il sarcofago di Gemisto Pletone è stato collocato su una parete esterna del Tempio Malatestiano, dove è tuttora ben visibile.

Ricordi di scuola

Un professore del liceo, Alberto C., che insegnava storia dell'arte, a volte riportava qualche dato interessante nelle sue lezioni. Ad esempio affermava che durante il Rinascimento i miti greci erano noti persino alle persone di bassa condizione sociali. Non comprendeva però la ragione di questo pervasivo fenomeno culturale. Era un cattolico fanatico e in un'occasione fece alla classe un discorso su Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520) e su un singolare mito fiorito intorno alla sua persona. Ci disse che molti contemporanei dell'artista lo consideravano la reincarnazione di Gesù, per via della sua bellezza eterea e della morte che lo aveva ghermito quando aveva 33 anni. Poi precisò che "la reincarnazione non esiste", come se fosse depositario della conoscenza di tutte le cose inconoscibili. Ribadì più volte la sua posizione, facendo sfoggio di un atteggiamento di scherno. Quindi affermò che le credenze nella metempsicosi erano tipiche della moda dell'epoca: a suo dire erano cose futili sorte dal pettegolezzo, del tutto prive di sostanza. Non poteva capire che invece si trattava di un esito del Neoplatonismo importato in Italia da Gemisto Pletone! 

I deprecabili bias dei professori

Gemisto Pletone non è menzionato a scuola soprattutto per un motivo: la maggior parte del corpo docente (pur con debite eccezioni) nega in modo reciso l'esistenza di tutto ciò che non è nel programma ministeriale. Sono fin troppi a pretendere che la propria conoscenza parziale sia metro e misura dell'intero Universo! La cosa più scandalosa è che nessuno parli di questo personaggio importantissimo nelle lezioni di filosofia. Almeno un cenno in quel contesto lo meriterebbe.

Prove del successo dell'opera di Gemisto Pletone

È stato scoperto che una famiglia di commercianti di Lucca sacrificava agli Dei un bue ogni anno per propiziarsi gli affari, tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII. Sono stati trovati resti di una di quelle offerte: 
un teschio di bovino, studiato, che è stato studiato nell'ambito dei reperti del Museo Archeologico Palazzo Poggi. I reperti, provenienti da uno scavo archeologico nella città di Lucca, sono stati sottoposti ad analisi archeozoologiche per comprendere il loro significato storico e culturale, rivelando un passato finora poco conosciuto della città: riti pagani nel Cinquecento! Non ho dubbi sul fatto che questo emergere di pratiche pagane, in un contesto in cui non sarebbero dovute esistere, è connesso agli insegnamenti diffusi da Pletone in Italia nel XV secolo. Deve esserne una naturale conseguenza. Lo stesso Imperatore Giuliano era un gran sacrificatore: i maligni dicevano che se fosse tornato vittorioso dalla campagna militare in Persia, i bovini si sarebbero immancabilmente estinti. 


Nel fondamentale testo di Prudence Jones e Nigel Pennick, A History of Pagan Europe (1995), è menzionato un fatto sorprendente: nel 1522, in pieno XVI secolo e 30 anni dopo la scoperta dell'America, a Roma fu sacrificato un toro a Giove, nel Colosseo, nella speranza di riuscire a fermare un'epidemia di peste che stava infuriando. Lo storico Francis Young riporta ulteriori dettagli. Il Papa e i porporati avevano abbandonato l'Urbe per sfuggire al contagio. Aveva fatto la sua comparsa un greco di nome Demetrio, che aveva proposto al popolino il rito pagano. I magistrati avevano dato la loro autorizzazione. Tuttavia, visto che la pestilenza non accennava a regredire, il volgo aveva ripreso a fare processioni in onore dei Santi e della Vergine, biascicando preghiere, sgranando rosari. 
Cosa possiamo dedurre da questi fatti portentosi? Esistevano ancora Ellenisti agguerriti nella Grecia del XVI secolo e avevano abbastanza audacia da giungere a Roma come missionari!  

Differenze tra Gemisto Pletone
e Vilgardo di Ravenna
 

Il neopagano medievale Vilgardo di Ravenna non aveva mezzi. Non possedeva nulla oltre alla sua erudizione, in ogni caso mediata dalla Chiesa Romana. Le sue conoscenze erano rudimentali. Non aveva alcun testo oltre a quelli dei poeti romani. Il greco gli era completamente sconosciuto. Non aveva il sostegno di un Imperatore e non era riuscito ad ascendere nella scala sociale fino a diventare un consigliere di corte. Inoltre, fatto non meno importante, gli mancava la componente esoterica. 

Conclusioni 

Un grave limite del pensiero di Pletone è l'incapacità di comprendere la natura del Male, concetto da lui rifiutato in modo radicale. Detto questo, la sua opera merita la massima attenzione. Il fatto stesso che sia stata rimossa, prova al di là di ogni dubbio che il Sistema ne ha tuttora un immenso terrore. 

giovedì 8 giugno 2023

IGIENE ANALE NELL'ANTICA ROMA: IL TERSORIUM O XYLOSPONGIUM

Come si pulivano il culo i Romani antichi dopo aver smerdato? Usavano uno strumento denominato tersōrium (da tergere, tergēre "pulire") oppure, con vocabolo di origine greca, xylospongium (da ξυλοσπόγγιον, xylospóngion, alla lettera: "legno e spugna", da ξύλον, xýlon "legno" e σπόγγος, spóngos "spugna"). 


Era una spugna marina fissata su un'asta di legno, che serviva in modo promiscuo nelle latrine pubbliche per le sacrosante necessità igieniche dello sfintere anale! Dopo l'uso, che era promiscuo, si sciacquava lo strumento in un canaletto, quindi si procedeva alla sua "sanificazione", immergendo la spugna in una soluzione acquosa di aceto e sale, che fungeva da "disinfettante". Si può essere a dir poco scettici sull'efficacia di tali misure igieniche, ma a quei tempi non esisteva di meglio. Le malattie più disparate si trasmettevano nelle latrine. Ovunque pullulavano patogeni fecali come Escherichia coli. Le epatiti erano rampanti, come le infestazioni di vermi e via discorrendo. Se andava storta, si moriva male. Non erano tempi molto felici per gli amanti dell'anilungus


La fine di un'annosa controversia

Come sempre, è necessario combattere contro coloro che sostengono insensatezze e tentano con ogni mezzo di "decostruire" le cose più ovvie. Così c'è chi porta avanti l'idea che lo xylospongium fosse in realtà una specie di scopino usato per pulire le latrine, analogamente a quelli in uso ancora oggi per la tazza del WC. Tra questi ci sono molti genialoidi attivi sui social, ma anche uno studioso, Gilbert Wiplinger (2009, 2012). Usando la potenza della logica, è possibile confutare con facilità questa idea inconsistente. 


La struttura stessa delle latrine romane dimostra che lo xylospongium poteva servire unicamente all'igiene anale. Ci si sedeva su una cavità che si apriva su un flusso d'acqua alimentato dalle terme. Non era una tazza come quelle su cui noi ci sediamo ai nostri giorni, che hanno un'uscita stretta e la necessità di uno scarico per rimuovere i prodotti dell'intestino. Le nostre latrine necessitano di pulizia tramite uno scopino proprio perché possono rimanere residui fecali aderenti alla struttura. Ma nell'antica Roma non esisteva niente di tutto ciò. Riporto in questa sede alcune immagini che provano al di là di ogni dubbio quanto sostengo, così chiunque può ben vedere dove si posavano beati i culi romani, dai nobili agli schiavi! Il peccato di Wiplinger e dei suoi seguaci è il cosiddetto "presentismo storico": dando per scontata la struttura delle odierne latrine, costoro l'hanno automaticamente proiettata nel passato romano. Sbagliando, com'è ovvio. 


Una testimonianza di Seneca 

Nell'opera del grande filosofo stoico del I secoo d.C. Lucio Anneo Seneca (Epistulae morales ad Lucilium, Libro LXX, 20-21) leggiamo quanto segue (il grassetto è mio):

20. Nuper in ludo bestiariorum unus e Germanis, cum ad matutina spectacula pararetur, secessit ad exonerandum corpus, nullum aliud illi dabatur sine custode secretum; ibi lignum id quod ad emundanda obscena adhaerente spongia positum est totum in gulam farsit et interclusis faucibus spiritum elisit. Hoc fuit morti contumeliam facere. Ita prorsus, parum munde et parum decenter: quid est stultius quam fastidiose mori? 
21. O virum fortem, o dignum cui fati daretur electio! Quam fortiter ille gladio usus esset, quam animose in profundam se altitudinem maris aut abscisae rupis immisisset! Undique destitutus invenit quemadmodum et mortem sibi deberet et telum, ut scias ad moriendum nihil aliud in mora esse quam velle. Existimetur de facto hominis acerrimi ut cuique visum erit, dum hoc constet, praeferendam esse spurcissimam mortem servituti mundissimae. 

Traduzione: 

20. Recentemente, nei giochi tra gladiatori e bestie feroci, uno dei Germani, mentre si stava preparando allo spettacolo mattutino, si appartò per andare di corpo, essendo l'unico momento in cui potesse rimanere da solo senza sorveglianza; lì prese un bastone, con una spugna attaccata usata per pulire gli escrementi, e se lo infilò in gola e morì soffocato. Così fece un oltraggio alla morte. Proprio così, in modo immondo e indecente: chi è più stupido di chi muore in maniera fastidiosa?
21. O uomo forte, degno di scegliere il proprio fato! Quanto fermamente avrebbe potuto usare la spada, quanto coraggiosamente avrebbe potuto gettarsi nel mare profondo o in un burrone. Nonostante fosse privo di ogni mezzo, eppure riuscì a trovare il modo di darsi la morte e l'arma, sapendo che l'unico ostacolo alla morte è l'assenza di volontà: egli ce lo dimostra. Ognuno pensi come vuole l'atto di quest'uomo, ma si constati che, piuttosto di una schiavitù pulitissima, deve essere preferita la morte sporchissima.

Considerazioni lessicali:
La parola obscēna (neutro plurale) può essere tradotta con "escrementi", ma anche con "organi genitali" e "sfintere anale". Questa denominazione era derivata da antichissimi tabù. Il fatto stesso che lo xylospongium avesse il manico indica la precisa volontà di evitare il più possibile qualsiasi contatto tra le mani (con cui tra l'altro si mangiava) e il deretano. Questo spiega lo straordinario successo dello strumento, che ha sostituito i precedenti sistemi di pulizia anale. 


Una testimonianza di Marziale

Nell'opera del grande poeta ed epigrammista del I secolo d.C. Marco Valerio Marziale (Libro XII, 48) leggiamo quanto segue (il grassetto è mio): 

Boletos et aprum si tamquam vilia ponis 
   et non esse putas haec mea vota, volo: 
si fortunatum fieri me credis et haeres 
  vis scribi propter quinque Lucrina, vale.
lauta tamen cena est: fateor, lautissima, sed cras 
  nil erit, immo hodie, protinus immo nihil,
quod sciat infelix damnatae spongia virgae
  vel quicumque canis iunctaque testa viae: 
mullorum leporumque et sumini exitus hic est,
  sulphureusque color carneficesque pedes. 
non Albana mihi sit commissatio tanti 
  nec Capitolinae pontificumque dapes; 
imputet ipse deus nectar mihi, fiet acetum 
  et Vaticani perfida vappa cadi. 
convivas alios cenarum quaere magister 
  quos capiant mensae regna superba tuae: 
me meus ad subitas invitet amicus ofellas: 
  haec mihi quam possum reddere cena placet.

Traduzione: 

Se mi metti davanti funghi e cinghiale come se fossero cose da nulla (1)
e ritieni che non siano ciò che desidero, allora li voglio:
ma se credi che possa far fortuna e vuoi che ti nomini
mio erede per cinque ostriche del lago Lucrino, ti saluto. 
La cena tuttavia è sontuosa: lo riconosco, molto sontuosa,
ma domani non sarà nulla, anzi neanche oggi, senz'altro 
proprio nulla, che conosca la funesta spugna 
della maledetta asta o qualunque cane o il coccio sul lato della strada: questo è il risultato delle triglie, delle lepri 
e della tetta di porco, colorito sulfureo e piedi gottosi 
che torturano. 
Le gozzoviglie di Albano non valgano la pena,
né i banchetti capitolini dei pontefici (2)
lo stesso dio mi rinfacci il nettare, che divenga aceto 
e insano vino svaporato del barile vaticano
Cercati altri convitati, o datore di banchetti, 
che possano catturare i regni superbi della tua tavola,
quanto a me, l'amico m'inviti alle focacce improvvisate: 
mi piace la cena che posso ricambiare. 

Note: 
(1) I Romani non disprezzavano affatto la carne di cinghiale, con buona pace dei fumetti di Asterix.
(2) Si vede come i fasti della Chiesa di Roma hanno chiare origini pagane, traendo origine dalla religione imperiale, come lo stesso termine Pontefice.

   
La testimonianza delle terme dei Sette Sapienti 

Questo è il testo che compare su un affresco del II secolo d.C., nelle terme dei Sette Sapienti a Ostia Antica: 

verbose tibi / nemo / dicit dum Priscianus / [u]taris xylospongium nos / [a?]quas

Traduzione: 

"nessuno dice così tante parole come noi a te, Prisciano: usa la spugna sul bastone, [mentre] noi [usiamo] l'acqua" 

Evidentemente la persona a cui era rivolto l'invito, questo Prisciano, era uno zozzone che non si puliva l'ano e smerdava le vesti, rimediando figuracce barbine. Con tutta probabilità in un'occasione ha avuto la diarrea e i suoi compagni l'hanno aiutato a lavare gli abiti insudiciati. Simili scritte oscene sono un costume inveterato che è sopravvissuto a lungo nell'Urbe. 

La testimonianza di Claudio Terenziano 

In una sua lettera al padre Claudio Tiberiano (Claudius Tiberianus), un certo Claudio Terenziano (Claudius Terentianus), vissuto nel II secolo d.C., scriveva quanto segue:

Non magis quravit me pro xylospongium sed su(u)m negotium et circa res suas 

Traduzione: 

"Non gli importava di me più di una spugna da culo, ma piuttosto dei suoi affari e delle sue faccende." 

Questo prova che il nome dello strumento igienico era usato come metafora di "persona che non conta nulla" o simili. 


Un prezioso mosaico

Esiste almeno una raffigurazione artistica dell'uso concreto dello xylospongium. Si tratta di un mosaico rinvenuto nel 2018 ad Antiochia ad Cragum, in Anatolia, in una latrina risalente al II secolo d.C. realizzato con la tecnica dell'opus vermiculatum. Dato che un'immagine vale più di mille parole, la riporto in modo che tutti possano vederla coi propri occhi. Non può esserci il benché minimo dubbio! Vediamo un uomo dall'espressione languida, con un naso spropositato, quasi come a un Pinocchio ante litteram, che procede a passarsi la spugna sul deretano maneggiando abilmente il manico di legno. Il nome dell'uomo è scritto proprio sopra, in caratteri greci: ΝΑΡΚΙΣΣΟΣ (Narkissos), cioè Narciso
Da questa raffigurazione sappiamo per certo che l'operazione  di pulizia veniva effettuata da seduti. Questo concorda con quanto era già stato ipotizzato. In un dotto articolo sulla storia delle latrine, pubblicato nel 2011 sulla Stuttgarter Zeitung, Robin Szuttor ha descritto in modo dettagliato come lo xylospongium veniva inserito tra le gambe per pulire l'ano e poi spremuto in un secchio pieno d'acqua. 


Un'altra immagine, proprio a fianco di quella di Narciso, rappresenta invece Ganimede rapito da un grosso airone che è in realtà Zeus (nel mito originale compare però di un'aquila). Si riconosce all'istante il nome scritto in caratteri greci: ΓΑΝΥΜΗΔΗΣ (Ganymēdēs). Ebbene, il giovane effeminato tiene in mano proprio uno xylospongium: è stato ghermito mentre stava defecando! A quanto pare, gli scopritori del mosaico non hanno ben compreso la natura di queste immagini, ad esempio interpretando il manico dello xylospongium usato da Narciso come il suo pene. Se quella fosse la raffigurazione di un fallo eretto, sarebbe grossolana oltre ogni limite concepibile! 


Le origini problematiche dello strumento 

Data l'origine greca del termine xylospongium, si potrebbe pensare che Roma abbia conosciuto questa miglioria igienica dalla Grecia, che ha esportato tante altre costumanze raffinate. Tuttavia, le evidenze storiche dimostrano il contrario. I Greci, prima di entrare in contatto con Roma, utilizzavano mezzi grossolani e rudimentali per pulirsi il deretano: le pietre (πεσσοί, pessoi) o i cocci di ceramica (ὄστρακα, ostraka). Le emorroidi imperversavano, anche perché il materiale non sempre era liscio. Spesso la pietra usata era piccola e doveva essere un gioco di destrezza evitare di rimanere con le mani sporche di merda. Un detto popolare affermava che per pulirsi "di pietre ne bastano tre". Ne emerge un'assenza di tabù verso il contatto con le feci e con l'ano, vista anche la grande diffusione della pederastia, che era aborrita soltanto a Sparta. Mi sono imbattuto nel Web nell'ipotesi di un'origine egizia dello xylospongium, il cui uso si sarebbe diffuso in seguito ai primi contatti tra il mondo ellenico con la Terra del Nilo. Analizzando la questione, non è tuttavia possibile trovare prove convincenti dell'uso di spugne, fissate o meno su aste, per la detersione degli ani faraonici! Il costume attestato è quella dell'uso assiduo dell'acqua e del natron (carbonato di sodio idrato), oltre che di essenze profumate per rintuzzare ogni emergere di cattivi odori. In Grecia si ha invece un'interessante testimonianza dell'uso di una semplice spugna per finalità igieniche (non propriamente di uno xylospongium) in Aristofane (V secolo a.C.), anteriore al Regno Tolemaico in Egitto. Nella commedia Le rane (Βάτραχοι, Bátrakhoi, 460-490), accade che Dioniso ha un incoercibile attacco di diarrea e non riesce a trattenersi: chiede dunque una spugna per pulirsi. Probabilmente, in caso di diarrea, tra gli Elleni si usava la spugna perché pietre e cocci di ceramica non erano di grande utilità in una situazione così critica. Ci si può chiedere se sia stata questa l'ispirazione che ha portato i Romani ad inventare lo xylospongium. Il nome greco deve essere stato attribuito per far sembrare il geniale strumento un prodotto della civiltà tanto ammirata, che le classi alte esibivano con snobismo. Si tratterebbe quindi di un falso atticismo.

Una soluzione al problema dello smegma

I numerosi resti di tessuto rinvenuti in una fossa biologica a Ercolano non erano serviti a detergere l'ano, con buona pace dell'archeologo ambientale Mark Robinson (2007) e di quanti hanno rilanciato la sua idea nei social. Avevano, se possibile, uno scopo ancor più vile: erano utilizzati per rimuovere lo smegma dai genitali! Sì, è quella roba, peggiore della merda, che i popolani chiamano "formaggio". Sono convinto che ulteriori e più approfondite analisi confermeranno quanto dico, trovando tracce lasciate sul tessuto dall'odiosa sostanza biancastra. 

La Sacra Spugna

A questo punto, finalmente avete tutti i mezzi per capire cos'era la spugna imbevuta di aceto con cui fu dato da bere a Cristo mentre agonizzava sulla croce: uno xylospongium! In pratica gli è stata somministrata dell'immondissima acqua di latrina, mista alle feci. Dopo aver ricevuto questo messaggio dalle guardie che lo schernivano dopo aver detto di avere sete, urlò e morì. Non pochi missionari evangelici che predicano per le strade, se sapessero ciò, forse commenterebbero: "Ora sai quanto ti ama"

martedì 30 maggio 2023

ETIMOLOGIA DELL'ANTROPONIMO NORMANNO BOEMONDO

Boemondo d'Altavilla, detto anche Boemondo di Taranto (tra il 1051 e il 1058 - 1111), figlio di Roberto il Guiscardo, Principe di Taranto (1015 - 1085), fu uno dei più cospicui comandanti della Prima Crociata. Conquistò Antiochia e ne divenne Principe. I manuali storici si occupano di riportare le sue vittorie e le sue sconfitte. Quello che a me interessa è l'etimologia del suo bizzarro antroponimo. Da dove potrà mai derivare Boemondo

A quanto sembra, questo nome non è attestato in norreno, come invece ci si aspetterebbe. Ne ho invano cercato tracce, senza trovare nulla. Non fa parte del ricchissimo patrimonio onomastico degli antichi Scandinavi. Potrebbe invece trovarsi nelle saghe norvegesi del XIV secolo, che erano traduzioni o adattamenti di testi in lingua francese antica, di argomento cavalleresco. In tal caso sarebbe passato dalla lingua d'oïl all'antico norvegese. Si converrà che non è affatto facile ricercare una data informazione, visto che il materiale spesso non è consultabile. Va già bene se si trovano dei file .pdf senza la possibilità di fare ricerche nel testo. 

Questo è tutto ciò che si riesce a recuperare nel Web: 

Forme attestate: Boiamund, BoamundBiamund,
     Baamund, Baamont 
Forme latinizzate: BohemundusBoemundus
     BuamundusBoamundus 
Greco (Anna Comnena): Βαϊμοῦντος (Baïmuntos
Italiano: Boemondo
     Buiamonte (Toscana, citato da Dante) 
     Baiamonte (Toscana, Sicilia) 
     Bajamonte (Veneto) 
     
Boimonte (Campania, Calabria) 
     Biamonte (Liguria) 

Forme moderne: 
  Italiano: Boemondo 
  Siciliano: Buimunnu  
  Francese: Bohémond
  Tedesco: Bohemund 
  Inglese: Bohemond 

Le forme attestate come Boiamund e simili dovrebbero trovarsi in documenti in latino e in opere in francese antico. Alcuni autori le enumerano tra le attestazioni di antroponimi dell'area dell'antico alto tedesco (Förstemann, 1856). 

La seconda parte del composto non presenta problemi: deriva in modo diretto dal protogermanico *-munduz "protettore", che si trova negli antroponimi maschili e ha la stessa radice di *mundō "protezione", "mano" (genere: femminile). L'esito norreno di *-munduz è -mundr (genitivo -mundar). 
Nelle lingue germaniche antiche si trovano moltissimi nomi propri di persona maschili formati con questo elemento.

Possibili etimologie germaniche: 

1) "Protettore dei ragazzi" 
Possibile primo membro del composto: norreno bófi /'bo:vi/ "ragazzo" (genitivo bófa); in islandese moderno è passato a significare "bandito". Il termine è derivato dalla stessa radice protogermanica *bō- che con diverse estensioni ha dato l'inglese boy e il tedesco Bube "ragazzo". Alfonso Burgio riporta quanto segue nel suo Dizionario dei nomi propri di persona (1992): "dal germanico Boemunt composto dalla radice munt, mund, difesa, protezione. Il primo elemento da bob, ragazzo. Il nome significa protettore dei ragazzi." Mi pare un'ipotesi abbastanza implausibile, anche perché non si trovano antroponimi composti formati a partire da questa radice. 
2) "Protettore dei Boi"  
Possibile primo elemento del composto: il nome della popolazione celtica dei Boi (gallico Boio-, attestato in antroponimi). Salvatore Carmelo Trovato, in Studi linguistici in memoria di Giovanni Tropea (Edizioni dell'Orso, 2009), riporta: "Bojen 'Boi' + *munda- 'protezione, difesa' = 'protettore dei Boi'." Mi pare un'ipotesi abbastanza implausibile. La popolazione celtica dei Boi è indicata da Trovato con la sua attuale denominazione tedesca, Bojen, segno che non è un esperto di lingue celtiche antiche.  

Etimologie marchianamente false: 
 
i) Boatus Mundi "Clamore del Mondo" 
Questa è una tipica etimologia popolare, che ignora ogni rudimento di grammatica e si basa unicamente sull'assonanza, spesso rozza. Non ha fondamento alcuno. 
ii) "Uomo forte" 
Questa "traduzione" è riportata nel lavoro di Carlo Ermanno Ferrari, Vocabolario de' nomi proprj sustantivi (1830). Non ha fondamento alcuno. 
iii) "Arciere" 
Questa "traduzione" è riportata nel sito Santi, beati e testimoni (www.santiebeati.it), che menziona un San Boemondo morto nel 1140 (solo una trentina di anni dopo la morte di Boemondo di Taranto), senza dettagli biografici né agiografia. Non ha fondamento alcuno.

Un'etimologia popolare biblica: 

Tutto inizia dall'oscura allusione a un gigante denominato Buamundus, protagonista di un racconto popolare andato perduto. Roberto il Guiscardo fece battezzare il figlio con il nome Marco (non certo tipico dei Normanni), per poi soprannominarlo Buamundus per via della massiccia corporatura che aveva già da bambino. La fonte di queste informazioni, a parer mio di attendibilità assai dubbia, è il monaco e storico inglese Orderico Vitale (1075 - 1142). Questo è il brano: "Marcus quippe in baptismate nominatus est; sed a patre suo, audita in convivio ioculari fabula de Buamundo gigante, puero iocunde impositum est", ossia "Marco è stato effettivamente battezzato così; ma da suo padre, che aveva ascoltato in una festa la favola del gigante Buamundus, (quel nome) è stato imposto allegramente al bambino". Il nome Buamundus altro non sarebbe che una deformazione popolare di Behemoth, nome ebraico della bestia di proporzioni immani descritta nella Bibbia (Libro di Giobbe) e raffigurata con le sembianze di un mostruoso ippopotamo. Se questo fosse vero, l'antroponimo Boemondo sarebbe un semplice soprannome pseudo-germanico. La sua somiglianza con i nomi germanici in -mund sarebbe dovuta a un'etimologia popolare. Un nome biblico sarebbe stato adattato dal volgo assumendo così l'aspetto di un nome germanico genuino. Una vicenda simile è quella dei rubicondi irlandesi che credevano Maria Maddalena una loro compaesana: sarebbero stati pronti a giurare e a spergiurare che il suo vero nome fosse Mary McDillon.   

Conclusioni:  

Che nome è Boemondo? È un nome norreno? È un nome franco, ascrivibile all'antico alto tedesco? Oppure è davvero un nome biblico passato attraverso l'usura fonetica del popolino? Perché non sembra essere esistito prima del figlio di Roberto il Guiscardo? Se fosse stato solo un soprannome, come mai avrebbe acquistato lo status di nome di battesimo tra i discendenti di Boemondo di Taranto? A cosa si deve la grande variabilità delle sue attestazioni, perdurate spesso fino ad oggi come cognomi? Per giungere a una conclusione ragionevole servono ulteriori studi e dati (forse perduti per sempre). Ricordo un professore che era solito dire: "Ci sono aspetti del Medioevo che non ci saranno mai noti, non li potremo mai conoscere." Ecco, mi pare che l'etimologia di Boemondo sia tra questi misteri. Quello che mi pare incredibile, è la totale assenza di interesse da parte del mondo accademico. 

mercoledì 24 maggio 2023

CRIPTOZOOLOGIA IN MADAGASCAR: L'EPIORNITE E IL ROC

I miti sono costruiti attorno a un nucleo di verità ormai resa oscura dalle stratificazioni di secoli, dal rumore di fondo e dalla potenza dell'Oblio. Esistono tuttavia alcuni casi in cui è possibile scrostare la maschera che ricopre questa antica essenza, riuscendo infine a farla rifulgere. Sono più rari di quanto vorremmo, è vero, ma non dobbiamo disperare. Quando la logica permette di arrivare a una conclusione sensata, ogni cosa converge: paleontologia, zoologia, folklore, storia, linguistica. 


L'epiornite o uccello elefante
 

In Madagascar è esistita fino ad epoca abbastanza recente una specie di uccello colossale, l'epiornite (Aepyornis maximus), appartenente alla famiglia degli uccelli elefante. La sua estinzione dovrebbe essere avvenuta nel XVI secolo, forse nel XVII, tanto che se ne conservano resti di esemplari allo stato subfossile. 
Alti fino a 3 metri, questi uccelli inadatti al volo potevano arrivare a pesare mezza tonnellata. Le loro uova potevano avere una circonferenza di oltre 1 metro e un'altezza di oltre 30 centimetri: il volume, pari a circa 8 litri, equivaleva a quello di 160 uova di gallina. Le loro ossa erano prive di midollo. Gli epiorniti potrebbero essere gli uccelli più grandi mai esistiti. 
Esistevano anche alcune specie appartenenti allo stesso genere. ma di dimensioni minori (Aepyornis hildebrandti, Aepyornis gracilis, Aepyornis medius). Si deve però notare che la classificazione esatta è tuttora controversa. Secondo alcuni studiosi, potrebbe trattarsi di sottospecie da ricondursi all'unica specie Aepyornis maximus. Un altro uccello elefante era il Mullerornis modestus, che poteva raggiungere un peso di soli 80 kg. 
Il nome scientifico Aepyornis deriva dal greco αἰπύς (aipys) "alto", "a picco", "scosceso" e ὄρνις (ornis) "uccello". La parola αἰπύς non ha origini indoeuropee ed è un elemento del sostrato pre-greco. La parola ὄρνις "uccello" è invece di chiara origine indoeuropea e ha paralleli in germanico, in celtico, in balto-slavo, in armeno, in albanese e nelle lingue anatoliche.  


Il resoconto di Étienne de Flacourt

L'Ammiraglio Étienne de Flacourt (1607 - 1660), Governatore Francese del Madagascar, nel 1658 pubblicò un'opera importante, intitolata Histoire de la Grande Isle de Madagascar, in cui descrisse in modo sorprendentemente accurato diverse specie di animali dell'isola, di cui tre sono subfossili. Tra questi ultimi spicca il vorompatra, il cui nome significa "uccello degli Ampatri", ossia "uccello delle paludi". Queste sono le parole dell'Ammiraglio:  

"Vouronpatra, un grand oiseau qui hante les Ampatres et pond des œufs comme l'autruche ; afin que les habitants de ces lieux ne le prennent pas, il recherche les endroits les plus solitaires." 

Traduzione: 

"Vouronpatra, un grande uccello che infesta gli Ampatri e depone le uova come lo struzzo; affinché gli abitanti di quei luoghi non lo prendano, cerca i posti più solitari." 

Come si può capire a colpo occhio, il nome vorompatra è un composto. Il primo membro è la parola malgascia vorona, che significa "uccello". Il secondo membro è il toponimo Ampatra (francesizzato in "Ampatres"), che significa "luoghi paludosi" e si riferisce a una regione dell'Androy, un distretto situato nell'estremo meridione del Madagascar. 

Protoforma ricostruibile: *vorona-ampatra 
Esito storico: vorompatra 
Varianti ortografiche: vouronpatra, voroupatra
Sinonimi: vorombe, vorombazoho  

La robustezza delle tradizioni orali dei Malgasci relative a questi uccelli giganti, documentata dallo studioso francese, è comprovata anche dalle sopravvivenze lessicali. Se anche ammettessimo che nessun esemplare di epiornite fosse sopravvissuto all'epoca del resoconto, sarebbe oltremodo interessante questa occasione di studiare gli effetti di un'estinzione recente: le genti del luogo non si sarebbero rese conto della scomparsa di un animale di notevoli dimensioni, continuando a mantenerlo in vita nell'immaginario collettivo. In ogni caso, il perdurare di testimonianze nei secoli successivi non può essere trascurato. 

Testimonianze più recenti

Anche se il resoconto di Flacourt non fu creduto, le voci sulla presenza di uccelli giganteschi persistettero fino alla metà del XIX secolo. Nel frattempo, le foreste paludose e le zone umide del Madagascar si erano gravemente impoverite. 
John Joliffe, chirurgo a bordo della HMS Gesyer, scrisse un diario in cui è riporta una conversazione risalente al 1848 con un commerciante francese di nome Dumarele, il quale sosteneva che i commercianti malgasci di Port Leven conservassero il rum in enormi uova, che a loro dire si trovavano talvolta nelle foreste e nei canneti, deposte da un uccello gigantesco che si vedeva molto raramente nelle foreste più fitte.
Ferdinand von Hochstetter (1829 - 1884) registrò indipendentemente la stessa affermazione, sebbene nel suo resoconto i commercianti avessero visitato l'isola olandese di Mauritius. Alfred Grandidier (1836 - 1921) scoprì in seguito che i Tandroy di Androy riconoscevano ancora il termine vorompatra, anche se il suo informatore, il capo Tsifanihy di Capo St. Mary, non aveva mai visto in vita sua uno di questi uccelli, pur ritenendoli "ben noti ai suoi antenati". Tsifanihy riuscì a condurre Grandidier in una palude vicina dove scoprì resti subfossili di un uccello elefante.
Roy P. Mackal scrisse nel 1980 che alcuni informatori locali insistevano sul fatto che una specie più piccola di uccello elefante (identificabile con Mullerornis) sopravvivesse ancora in foreste molto remote, dove il suo habitat paludoso e boscoso si era ridotto, ma non era scomparso. Diverse voci più recenti spinsero l'ufficiale inglese per la conservazione Barry Ingram a tentare una ricerca di uccelli elefante addirittura nel 1997 o nel 1998. Anche Ivan Mackerle condusse una ricerca più o meno nello stesso periodo. Le premesse sono buone: mi auguro che presto si potrà fotografare un autentico epiornite vivente! 


Marco Polo e l'uccello grifone 

Marco Polo (1254 - 1324) ha parlato di un uccello portentoso e immenso, chiamato ruc, che sarebbe vissuto proprio in Madagascar. Riporto un estratto della sua opera (Milione, Capitolo 186, Dell'isola di Madegascar): 

"
Ancora sappiate che quelle isole che sono cotanto verso il mezzodí, le navi non vi vanno voluntieri per l’acqua che corre cosí forte. Dicomi certi mercatanti che vi sono iti, che v’à uccelli grifoni, e questi uccelli apaiono certa parte dell’anno, ma non sono cosí fatti come si dice di qua, cioè mezzo uccello e mezzo lione, ma sono fatti come aguglie, e sono grandi com’io vi dirò. Egli pigliano l’alifante e pòrtallo su in aire, e poscia il lasciano cadere, e quelli si disfa tutto, poscia si pasce sopra lui. Ancora dicono quelli che l’ànno veduti, che l’alie sue sono sí grandi che cuoprono 20 passi, e le penne sono lunghe 12 passi, e sono grosse come si conviene a quella lunghezza. Quello ch’io n’ò veduto di questi uccelli, io il vi dirò in altro luogo.

E ancora: 

"Lo Grande Kane vi mandò messaggi per sapere di que]le cose di quell’isola, e preserne uno, sicché vi rimandò ancora messaggi per fare lasciare quello. Questi messaggi recarono al Grande Kane uno dente di porco salvatico che pesòe 14 libbre. 
Elli ànno sí divisate bestie e uccelli ch’è una maraviglia. Quelli di quella isola sí chiamano quello uccello ruc, ma per la grandezza sua noi crediamo che sia grifone."

Certo che no, gli abitanti del Madagascar non chiamavano ruc l'uccello gigante, con buona pace del Veneziano. Il nome dovette essere un articolo d'importazione; allo stesso modo fu importato in Occidente, dove prevalse la forma roc. La fonte non è sconosciuta. Questa misteriosa creatura compare due volte nella celebre raccolta di racconti orientali Le mille e una notte (arabo: ألف ليلة وليلة‎?, ʾAlf layla wa layla; persiano: هزار و یک شب‎, Hezār-o yek šab), realizzata nel X secolo, di varia ambientazione storico-geografica e composta da differenti autori. 


Madagascar e Mogadiscio:
pretese difficoltà di identificazione

A noi lettori moderni, a volte sembra proprio che Marco Polo avesse le idee piuttosto confuse. Già avevo notato che descriveva il Madagascar come un paese di religione maomettana, quando ci si sarebbe aspettati che dicesse dei Malgasci "È sono idoli" (ossia "Essi sono idolatri"), essendo politeisti fino a tempi recenti. Il Cristianesimo è penetrato nell'isola abbastanza tardi: ancora nel corso del XIX secolo aveva notevoli difficoltà, essendo perseguitato aspramente nel corso del regno della Regina Ranavalona I, che durò dal 1828 al 1861. Va detto che in Madagascar è esistita nel corso dei secoli un'antica e radicata presenza musulmana, rappresentata soprattutto da mercanti e da loro discendenti (gli Antemoro e gli Antanosy), eppure il Veneziano non si sarebbe sbagliato in modo così grossolano trascurando le diffuse pratiche idolatriche. Dunque è sorto in alcuni studiosi il dubbio che con il toponimo Madagascar, l'autore del Milione intendesse in realtà Mogadiscio, che è ed era già all'epoca un paese di religione maomettana. Questa obiezione è comunque del tutto implausibile, proprio perché nel Capitolo 186 del Milione, il Madagascar è descritto al di là di ogni dubbio come un'isola di proporzioni eccezionali! 

"Mandegascar si è una isola verso mezzodí, di lungi da Scara intorno da 1.000 miglia. Questi sono saracini ch’adorano Malcometo; questi ànno 4 vescovi - cio(è) 4 vecchi uomini -, ch’ànno la signoria di tutta l’isola. E sapiate che questa è la migliore isola e la magiore di tutto il mondo, ché si dice ch’ella gira 4.000 miglia. È vivono di mercatantia e d’arti. Qui nasce piú leofanti che in parte del mondo; e per tutto l’altro mondo non si vende né compera tanti denti di leofanti quanto in questa isola ed in quella di Zaghibar. E sapiate che in questa isola non si mangia altra carne che di camelli, e mangiavisene tanti che non si potrebbe credere; e dicono che questa carne di camelli è la piú sana carne e la migliore che sia al mondo." 

Come si può vedere, abbiamo a che fare con un miscuglio incredibile di cose vere (il Madagascar è un'isola immensa) e di cose false (il Madagascar è pieno zeppo di elefanti e di cammelli, è governato da quattro anziani saraceni, etc.).

Una soluzione dell'enigma

L'epiornite probabilmente fu avvistato da qualche viaggiatore e creduto essere il pulcino di un uccello volante e rapace ben più grande, il roc per l'appunto. Le foglie della pianta Raphia scambiate per piume di roc, unitamente alle alette atrofiche dell'uccello elefante, dovettero rafforzare questa credenza allucinatoria. Tutto dovette nascere per via di un uccello rapace effettivamente esistito ed estinto nel XVI secolo: l'aquila coronata malgascia (Stephanoaetus mahery), di proporzioni leggermente maggiori rispetto a quelle dell'aquila coronata africana (Stephanoaetus coronatus). Nulla di paragonabile all'epiornite, ovviamente: si parla di un rapace del peso massimo stimato di circa 7 kg. In certe condizioni la fantasia umana può galoppare, così qualcuno è arrivato a concepire l'idea di un animale volante titanico, fisicamente impossibile. 


Etimologia di Roc 

La parola roc (variante ruc) deriva dal persiano رخ rokh (trascritto anche rukh o ruk), che designa un uccello immane dal piumaggio bianco, di tali dimensioni da permettergli di uccidere gli elefanti per cibarsi della loro carne. Il termine persiano non deve essere confuso con l'omofono رُخ rokh (rukh), che significa "carro" e che entrò nelle lingue europee nel contesto degli scacchi (antico francese roc, italiano arrocco, inglese rook). 

L'ipotesi più probabile è che rokh derivi dal nome del mitico uccello سیمرغ Sīmurgh (trascritto anche Simorgh, Simorg, Simurg, Simoorg, Simorq, Simourv), dal medio persiano Sēnmurw (trascritto anche Senmurv), a sua volta da un più antico Sēnmuruγ. Nei testi in scrittura Pazend si ha Sīna-mrū. In avestico era noto come mərəγō Saēnō, ossia "Uccello Saēna". Il nome in origine indicava un'aquila, un rapace: in sanscrito si ha la parola imparentata श्येन śyenaḥ significa "aquila", "falco", "rapace, uccello predatore". Dal medio persiano, il nome Sēnmuruγ è passato come prestito in armeno, dando սիրամարգ siramarg "pavone". 
La trafila che ha portato da Sēnmuruγ a rokh è ipotizzabile in questi termini: 

sēnmuruγ => *senəmruk => *mruk => ruk 

Dal persiano la parola rokh è poi passata in arabo come لرُخّ ar-ruḫḫ