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lunedì 12 settembre 2022

UN RELITTO CELTICO IN ROMANCIO: TRUTG 'SENTIERO, PASSAGGIO A PIEDI SUI MONTI'

In romancio esiste la parola trutg "sentiero alpino", con le varianti trotg, truoch, truoi. Questi sono altri esiti della parola di sostrato in altre lingue retoromanze (friulano, ladino) e galloitaliche (veneto):

Friuliano: troi "sentiero"
Ladino: tru "sentiero" 
Veneziano: tróso "sentiero" 

L'origine è chiaramente celtica. Questa è la protoforma ricostruibile:  

Proto-celtico: *trogijo- "sentiero", "cammino" 

Non sono rimaste attestazioni di discendenti diretti, tuttavia la radice è ben nota nel mondo celtico con una variazione apofonica e un suffisso in dentale: 

Proto-celtico: *traget- "piede"    
  Antico irlandese: traiġ "piede" < *tragess  (< -ts),
         gen. traiġeḋ < *tragetos
     Irlandese moderno: troigh "piede" (di umano; unità
         di misura; unità metrica)
     Gaelico di Scozia: troigh "piede"    
     Manx: trie "piede"   
  Medio gallese: troet "piede" < *tragess  (< -ts),
        traet "piedi" < *tragetes  
     Gallese moderno: troed "piede", traed "piedi"   
  Antico bretone: troat "piede", treit "piedi"
     Bretone: troat "piede"
  Antico cornico: truit "piede"
     Medio cornico: troys, tros "piede"
     Cornico: troes "piede"
  Gallico: *trageđ
    Neogallico (1): treide "piedi" < *tragete (duale),
        *tragetes (plurale)  

(1) Glossario di Vienne (VIII sec.): treide "pedes". 


Questo è un notevole derivato, che mostra la stessa vocale tonica -a- ma non ha il suffisso in dentale: 

Proto-celtico: *wer-trago- "cane da caccia" 
     < *uper-trago- 
   Gallico: *VERTRAGOS "cane da caccia"  
      => Latino: vertragus "cane da caccia" 
        Antico francese: veltre "cane da caccia" 
        => Italiano (obsoleto): veltro "cane da caccia" 

L'antico significato letterale doveva essere qualcosa come "super-corridore". La parola vertragus (variante: vertraha) è uno dei più notevoli prestiti dal gallico in latino. Il prefisso ver-, ben noto anche nell'onomastica gallica (es. Ver-cingeto-rīx "Supremo Re dei Guerrieri), è discendente dalla stessa radice indoeuropea che ha dato il latino super e il greco ὑπέρ (hypér) "sopra". 
La radice proto-celtica -trag- doveva avere il significato originale di "camminare, correre". La protoforma indoeuropea ricostruibile, che ha pochi discendenti in germanico e in slavo, è la seguente: 

Proto-indoeuropeo: *tregh- "camminare", "correre" 
    Gotico: þragjan "correre"
    Serbo-croato: trâg "traccia" 

Con ogni probabilità si tratta di una variante di un'altra simile radice proto-indoeuropea, *dhregh- "correre", "trascinare", "spingere", che è più produttiva: numerosi esiti si trovano in greco, armeno, celtico, germanico, baltico, slavo. L'origine ultima permane comunque sconosciuta.  

mercoledì 7 settembre 2022

UN RELITTO CELTICO IN ROMANCIO: MÈLLEN 'GIALLO' - E UN SUO PARENTE IN SARDO

In romancio esiste la parola mellen "giallo". L'accento è sulla prima sillaba: mèllen /'mellen/. In sardo abbiamo una parola molto simile: mélinu "giallo". La sua origine è chiaramente celtica.

Proto-celtico: *melinos "giallo"  
  Antico irlandese: -
  Gallese antico: melin "giallo"
   Medio gallese: melyn "giallo"
   Gallese moderno: melyn "giallo"
  Cornico: melyn "giallo"
  Bretone: melen "giallo"

Proto-celtico: *melissis "dolce"
  Antico irlandese: milis "dolce"  
    Gaelico d'Irlanda: milis "dolce"
    Gaelico di Scozia: milis "dolce"

Proto-celtico: *melissos "dolce"
  Gallico: Melissos "Il Dolce" (antroponimo)  



Il nome del colore giallo è un derivato del proto-celtico *meli- "miele", tramite un comune suffisso aggettivale -no-. La vocale mediana è breve. L'accento cade sulla prima sillaba. Ci è documentato in latino l'aggettivo melinus "giallastro", con la -i- breve nella seconda sillaba: è un evidente prestito dal celtico. 

Proto-celtico *meli- "miele" 
  Antico irlandese: mil "miele"
    Gaelico d'Irlanda: mil "miele"
    Gaelico di Scozia: mil "miele"
    Manx: mill "miele"
  Gallese: mêl "miele"
  Cornico: mel "miele"
  Bretone: mel "miele"  


La radice è di chiara origine indoeuropea: *melit "miele". Ecco un elenco di discendenti:  

Greco: μέλι (méli) "miele", gen. μέλιτος (mélitos
Albanese: mjaltë "miele" (< *melita
Armeno: mełr "miele"; mełu "ape" 
Gotico: miliþ"miele" 

La stessa radice è documentata anche nelle lingue anatoliche: 

Ittita: mallit- / millit- "dolce; miele"
Luvio: mallit- "miele"
Palaico: mallitanna- "dolcezza (del miele)" 


Il latino melinus non va confuso con il quasi omofono mēlinus "fatto di mele; fatto di cotogne", "del colore delle cotogne", derivato dal greco μῆλον (mêlon) "mela", che ha la prima sillaba con vocale lunga. Esiste anche un omografo, non realmente omofono: mēlīnus "relativo a martora o tasso", da mēlēs "martora", "tasso" (animale): il suffisso in questo caso ha la vocale lunga -ī- e porta l'accento: /me:'li:nus/.  

In latino mel "miele" presenta in modo sistematico una consonante doppia nel corso della flessione e nei derivati.

nominativo: mel
genitivo: mellis
dativo: mellī
accusativo: mel
ablativo: melle, mellī

Questa consonante doppia proviene dall'assimilazione di un più antico gruppo -ld-, abbastanza anomalo come derivato di un precedente -l-it-, tramite un'antichissima lenizione. Ecco le protoforme ricostruite: 

Proto-latino: *meld "miele" 
  nominativo/accusativo: *meld
  genitivo: *meldes / *meldos
  dativo: *meldei
  ablativo: *melded / *meldīd  

Si ritrova naturalmente la doppia -ll- nei derivati, per questo ovvio motivo, che a scuola viene insegnato come "da imparare così e basta". Ecco un elenco: 

mellārium "arnia, alveare"
mellārius "apicultore"; "relativo al miele"
mellātiō "raccolta del miele"
melleus "di miele", "simile al miele", "dolce come il miele"  
melliculum "dolcezza" (vezzeggiativo) 
mellifer "che produce miele"
mellificāns "che produce miele"
mellificium "raccolta del miele", "produzione di miele" 
mellificō "produco miele" 
mellificor "produco miele"
mellifluēns "dal dolce parlare fluente" 
mellifluus "che versa miele", "dolce come il miele" 
mellīgō "propoli", "resina delle api" 
mellilla "dolcezza" (vezzeggiativo) 
mellīna "dolcezza" (vezzeggiativo)
mellītula "dolcezza" (vezzeggiativo) 
mellītus "mielato", "dolce come il miele" 
Mellōna "Dea del miele e delle api" 
Mellōnia "Dea del miele e delle api"
mellōsus "del miele", "simile al miele"

Notiamo che melinus "giallastro" presenta per analogia la forma mellinus, ma ha in origine una consonante semplice, proprio perché deriva dal celtico.

In proto-celtico, la parola indoeuropea *melit è passata da un tema in -i-:

Proto-celtico: *meli "miele" 
  nominativo/accusativo: *meli
  genitivo: *melois
  dativo: *melei
  locativo: *melei
  strumentale: *melī

Un altro derivato presente in latino:

melina, mellina "idromele"
Nota: 
Sembra un sinonimo di medus, medu "idromele", anche se più probabilmente indica la bevanda non fermentata. 

Nelle lingue celtiche non abbiamo attestati discendenti di *melinā "idromele", ma dovette essere esistito, come dimostra la forma latina. Tradurrei questa protoforma come "idromele non fermentato". 

mercoledì 8 giugno 2022

UN OSTROGOTO IN IDAHO

Al banchetto nuziale della Principessa Amalaswintha, il nobile Hathureiks aveva bevuto troppo idromele e a causa della sua intemperanza si sentiva gonfio. Chiese così al Re Thiudareiks il permesso di alzarsi dal tavolo per andare a soddisfare i suoi bisogni corporali. Il Grande Re glielo concesse, e così Hathureiks si alzò ed uscì barcollante dalla sala. Dalle finestre entravano refoli di vento. L’aria di Ravenna era fresca, e presto sarebbe calato il tramonto. Mentre si avviava verso le latrine, il nobile inciampò e cadde a terra. Quando si risvegliò, con un gran mal di testa, si accorse con sorpresa di non trovarsi più nella dimora del Re degli Ostrogoti, Thiudareiks, bensì in un pagliaio. L’aria era cambiata, ora aveva una punta di freddo particolarmente fastidiosa. Hathureiks si mise a sedere e si guardò attorno. Tutto ciò che i suoi occhi incontravano gli pareva fuori luogo e stonato. La sua vista fu attirata da un paio di stivali verdognoli, fatti di un materiale che non aveva mai visto in tutta la sua vita. Mentre si domandava che razza di scarpe fossero e chi diamine potesse mai averle fabbricate, cercò di mettersi in piedi. All’improvviso si accorse che il suo gonfiore era sparito, e che anzi aveva una fame terribile, come se tutto il cibo e le bevande che aveva ingurgitato alla festa fossero state già smaltite da molto tempo. Cosa disdicevole per un arimanno, aveva perso la spada, la daga e la cintura. La sua splendida tunica era ora ridotta a brandelli, e anche delle brache non rimaneva granché. Si avviò verso l’ingresso, quando ecco che intravide la sagoma di un uomo.
Hathureiks lo fissò, incuriosito. Si vedeva che era un agricoltore, anche se gli abiti erano di una foggia mai vista prima. Somigliavano solo vagamente ai costumi di un uomo libero dei Goti, nel senso che comprendevano calzoni e una veste affine a una camicia - che non proseguiva oltre la cintola. Poteva star certo che il visitatore non fosse un romano, ma non riusciva a trovare alcun criterio per classificarlo.
- Dannazione! - esclamò l’agricoltore allibito - E tu chi diavolo sei? In vita mia non ho mai visto un uomo come te!
- Manna im Gutthiudos, gabaurans fram kunja Amale. Namo mein Hathureiks - fu la risposta dell’ostrogoto. Entrambi provarono la stranissima sensazione di capire qualcosa di ciò che l’altro aveva detto, pur non afferrando appieno il senso compiuto di ogni parola.
- Ha-thoo-reeks? Uno strano nome! Da dove vieni? - chiese il contadino. Dopo una breve pausa cercò di presentarsi: - Io sono Bernard Faine, di Glenns Ferry, Idaho.
- Ik qam hidre us thiudangardja Thiudareikis Mikilins - affermò Hathureiks cercando di articolare i suoni il meglio possibile, ma l’uomo dell’Idaho non capì affatto la sua risposta. Rimase pensoso per un attimo, mentre osservava l’aspetto di chi aveva di fronte. Era molto alto e magro, di una bellezza insolita per un abitante della Contea di Elmore. Aveva i capelli biondi sciolti che gli arrivavano fino alla cintola, una folta barba dello stesso colore e occhi cerulei. Se fosse stato lavato e agghindato nel modo giusto, le ragazze del paese se lo sarebbero conteso di certo.
La prima cosa che venne in mente a Bernard Faine sulla possibile identità di quel vagabondo fu che si trattasse di una specie di tedesco. Se non fosse stato per la sua strana lingua e i suoi vestiti decisamente inusuali, avrebbe potuto benissimo essere un cantante folk venuto dal Sud e colpito da amnesia.
L’avrebbe portato dai suoi vicini Amish perché gli chiarissero qualcosa, ma al momento era più urgente aiutarlo. Non sembrava essere nel pieno delle sue forze. A questo punto arrivarono il figlio e la figlia di Faine, fiorenti di robusta gioventù. Rimasero basiti nel vedere l’ospite, anche se a causa della loro giovane età non avevano ancora formato pregiudizi troppo solidi. Decisi a comunicare si presentarono, prima lui e poi lei, come Johnny e Kathrine Faine.
Per un istante gli occhi di Hathureiks si illuminarono come il cielo primaverile nel sentirli parlare con il loro accento piano, forse perché gli parve di capire almeno in parte cosa i due stavano dicendo. Qualche parola, qualche fonema frammentario che dimostrava una remota origine comune in quelle stringhe parlate mutuamente incomprensibili. A volte l’ostrogoto trasecolava nell’identificare qualcosa di familiare in mezzo a suoni che sembravano venire da un universo alieno, altre volte invece gli pareva di udire echi dell’ignota lingua latina.
Si presentò a sua volta ai due rampolli, ripetendo la stessa frase che aveva pronunciato per la prima volta davanti all’anziano capofamiglia. Più guardava i tre e più si convinceva che la loro stirpe fosse in qualche modo imparentata con quella dei Goti.
Bernard Faine chiamò sua moglie Ann, che propose a Hathureiks di lasciarsi accompagnare nella fattoria. Lì avrebbe avuto un bagno caldo e sarebbe stato rifocillato. Lui si lasciò docilmente guidare. Quando si fu lavato, gli furono donati abiti nuovi. Non fu facile trovarne della sua misura: alla fine fu rivestito con un elegante completo lasciato alla signora Faine dal suo primo marito all’epoca del divorzio. Non era certo perfetto, ma perlomeno non presentava difficoltà insormontabili all’atto di abbottonare la camicia e di tirare la cerniera dei pantaloni.
A tavola, di fronte a una ciotola piena di latte e di fiocchi di cereali, Hathureiks pronunciò una parola. - Miluks - disse. Bernard Faine ebbe un’illuminazione ed articolò il corrispondente termine inglese. Milk.
La pronuncia della sillaba era oscura, come ormai in tutti gli Stati Uniti, e suonava quasi mook, ma una traccia di articolazione liquida fu sufficiente all’ostrogoto per capire che si trattava di una parola molto simile a quella usata nella sua lingua nativa.
- Millooks - disse a sua volta il capofamiglia, cercando di imitare Hathureiks. - Millooks, latte - ripeté subito dopo, entusiasta.
Kathrine portò in tavola una brocca piena d’acqua. Hathureiks indicò subito il recipiente: - Wato! Thata ist wato!
- Acqua! Questa è acqua! - gli fece eco con gioia il sorridente Bernard Faine, sempre più convinto di aver risolto ogni problema di comunicazione. Water. This is water. La somiglianza era innegabile. Si fece il segno della croce e recitò la consueta preghiera di benedizione, come faceva ogni volta che si accingevano a mangiare. Mentalmente ringraziò il Signore per avergli mandato quell’ospite. Con grande sorpresa di tutti, anche Hathureiks si segnò e recitò quello che sicuramente doveva essere il Padre Nostro nella sua lingua.
- Atta unsar, thu in himinam, weihnai namo thein, qimai thiudinassus theins, wairthai wilja theins, swe in himina jah ana airthai. Hlaif unsarana thana sinteinan gif uns himma daga, jah aflet uns thatei skulans sijaima, swaswe jah weis afletam thaim skulam unsaraim, jah ni briggais uns in fraistubnjai, ak lausei uns af thamma ubilin; unte theina ist thiudangardi jah mahts jah wulthus in aiwins. Amen.
L’ingenua idea che Bernard Faine si stava facendo ne ricevette un po’ un colpo, in quanto la preghiera, pur riconoscibile, si mostrava molto diversa dal corrispondente inglese. Non solo, anche se somigliava di più a quella degli Amish che lui aveva sentito tante volte dai vicini, era comunque lontana. Se la base era di certo uguale a quella dell’inglese e del Pennsylvania Dutch, molte parole erano impenetrabili, e non vi si trovavano affatto termini familiari, che avrebbero dovuto essere simili in tutte le lingue di origine europea. Mentre il capofamiglia meditava su queste cose, l’ostrogoto stava mangiando a quattro palmenti, come se non avesse ingurgitato niente da molti giorni.
Non c’era altra soluzione: era necessario imparare il più possibile da Hathureiks. Nel frattempo disse al figlio di andare a chiamare Amos Guth, che di certo lo avrebbe aiutato a comprendere meglio la situazione. A volte la tecnofobia degli Amish lo angustiava, perché rendeva tutto dannatamente più complicato.
Ora che aveva calmato i morsi della fame, Hathureiks stava impiegando tutte le sue migliori risorse mentali per capire cosa diavolo gli fosse capitato. Una cosa era certa, al di là di ogni dubbio possibile: quello non era il Paradiso promesso dalla Chiesa Ariana, e neppure il Walhalla di cui parlavano i miti pagani della sua gente. Non poteva esserlo. Anche se si stava meglio e più in salute, non vedeva né Wodans né Thunrs sedere sui loro troni, né tantomeno le Orde dei Caduti banchettare. C’era invece gente dall’apparenza comune, che non aveva nessuna caratteristica soprannaturale e non era fatta di puro spirito come angeli e beati. Siccome la ragione doveva in qualche modo essere dei pagani o dei cristiani, si deduceva che quel paese - che contraddiceva ogni racconto - era un paese della Terra degli Umani, popolato da mortali proprio come il paese dei Franchi o quello dei Burgundi. Prova ne era, tra l’altro, il fatto che i nativi avevano bisogno di pregare per ringraziare Dio del cibo.
Doveva esserci stato un grande vento che lo aveva portato oltre le Grandi Montagne, le Alpi, per farlo volare lontano e precipitarlo in una nazione di cui non avrebbe neanche sospettato l’esistenza. Oppure aveva rivissuto l’esperienza dei Sette Savi Dormienti. Si raccontava quella storia persino nella Gutiskandja che aveva visto l’albore dei Goti. Sette cristiani, per sfuggire alle terribili persecuzioni dell’Imperatore Decio, si erano rifugiati in una terra impervia fino ad asserragliarsi in una caverna. Quindi un sonno profondo li avrebbe avvolti facendoli dormire per secoli. Una volta svegli, questi cristiani avrebbero avuto la sorpresa di trovarsi in un mondo che era andato avanti di diversi secoli, un mondo in cui la Fede di Cristo non era più perseguitata con ferocia.
Questa era l’ipotesi che Hathureiks riteneva più probabile. Di certo Bernard Faine non era il dio Wodans, altrimenti sarebbe stato monocolo e non si sarebbe di certo segnato. Ma restava un interrogativo. Se i Sette Savi erano stati fatti dormire da Dio che li voleva salvi dalla furia imperiale, che merito poteva avere lui, un nobile della Corte di Thiudareiks a Ravenna, per essere caduto in uno stato così prodigioso?
Mentre ruminava inconcludenti considerazioni, suonò un campanello. Hathureiks si mise in guardia, perché non aveva mai sentito un suono simile in vita sua. Poi capì che doveva essere l’equivalente del bussare sui battenti o del chiamare a gran voce, perché la porta fu subito aperta. Johnny entrò insieme a un uomo vestito di nero, che salutò e fu fatto accomodare. Bernard Faine lo presentò all’ospite come Amos Guth. Al sentire il suono di quel cognome, Hathureiks fu colto da una grande gioia, perché si pronunciava quasi come il nome del popolo dei Goti.
- Isu thu manna Gutthiudos? Istu razda thein razda Gutne? - gli chiese, pieno di trepidazione, aspettandosi una risposta nella stessa lingua, un appiglio alla realtà conosciuta.
Vedendo che l’uomo vestito di nero era basito e non proseguiva, si presentò brevemente: - Ik im Hathureiks Austragutne, sunus Walareikis Amale.
In realtà la sintassi era molto diversa da quella del Pennsylvanian Dutch, a prescindere da tutto, e l’Amish non la riconobbe; allo stesso modo non riuscì a distinguere i nomi propri di persona e di popolo dai nomi comuni.
- Che razza di tedesco è mai questo? - riuscì infine a dire, pur convinto al pari dell’anziano Faine che quell’idioma fosse in qualche modo connesso alla vasta famiglia delle parlate anglosassoni e germaniche. La giovane Kathrine chiese all’ostrogoto di recitare il Padre Nostro. Così si segnò e iniziò a pregare. Hathureiks, un po’ annoiato, fece altrettanto nella lingua dei Goti.
Come ebbe udito ciò, ad Amos Guth venne un sospetto. Si ricordava vagamente di aver sentito qualcosa di simile in televisione, molti anni prima. Solo che non ricordava il contesto. Si segnò e recitò la preghiera nella sua lingua avita.
- Unser Vadder im Himmel, dei Naame loss heilich sei, dei Reich loss komme. Dei Wille loss gedu sei, uff die Erd wie im Himmel. Unser deeglich Brot gebb uns heit, un vergebb unser Schulde, wie mir die vergewwe wu uns schuldich sinn. Un fiehr uns net in die Versuchung, awwer hald uns vum Iewile. Fer dei is es Reich, die Graft, un die Hallichkeit in Ewichkeit. Amen.
Però, ci siamo quasi, anche se continuo a non capire, pensò Bernard Faine. Amos Guth notò subito la sostanziale identità di diverse radici: unsar, in himinam, namo, thein, qimai, wilja, e via discorrendo, di cui gli balzava all’attenzione la somiglianza ad Unser, im Himmel, Naame, dei, komme, Wille.
Hathureiks dal canto suo si convinse che questo Guth, pur portando il nome delle genti della Gutiskandja, fosse in realtà della stirpe dei Franchi. Gli ricordava vagamente la parlata della prima moglie del suo Sovrano.
All’improvviso l’Amish si ricordò dove aveva sentito la preghiera recitata da Hathureiks. Una decina di anni prima, mentre si trovava proprio dai Faine, non aveva saputo resistere alla tentazione di seguire un programma alla televisione. Era un documentario in bianco e nero, che mostrava lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien in una singolare intervista. Prima di parlare al microfono, Tolkien si era segnato e aveva recitato proprio la stessa formula, anche se la pronuncia era un po’ diversa. Atta unsar... Conclusa la sua preghiera, intesa come esorcismo, l’autore del Signore degli Anelli aveva dichiarato senza mezzi termini che l’intero mondo tecnologico è Mordor, ossia l’Inferno. Questa posizione aveva trovato Guth perfettamente d’accordo. In seguito si era procurato i libri di Tolkien e li aveva letti con grande passione, ed aveva anche trovato traccia di quell’intervista. Aveva anche ritrovato i giornali della biblioteca che riportavano la notizia si diceva che l’esorcismo pronunciato contro i maligni poteri di un semplice microfono era il Padre Nostro in una lingua antica - anche se non ricordava più quale.
- Prendi subito il mio carretto e va’ da mia moglie! Dille che non sarò a casa per pranzo! - chiese a Johnny Faine. Quello che aveva scoperto era troppo importante.
Bernard capì all’istante, così portò in soggiorno un proiettore collegato ad un sofisticato lettore cd e al suo pc. Si mise alla testiera, pronto a registrare ogni output.
Dopo due ore tutti erano ancora lì, con gli occhi sgranati davanti allo schermo.
- Hunds! - disse Hathureiks indicando la figura di un cane. Tutti capirono che la parola dog gli era del tutto sconosciuta, ma riconobbero nel vocabolo da lui indicato il termine inglese hound, usato come lemma tecnico per indicare il segugio.
Quando tutti furono abbastanza pratici dell’altrui lessico di base, cominciarono a sorgere problemi. Amos Guth si rese conto che Hathureiks non poteva capire nessuna parola della lingua dotta, e i corrispondenti che forniva di fronte alle immagini proiettate erano del tutto dissimili. Quando comparve un altare, lui lo definì hunslastaths, mentre l’inglese altar gli suonava una parola aliena. Anziché un equivalente di sacrifice, usava la parola hunsl.
Tutta una serie di parole non gli evocavano assolutamente nulla, anche se qualche volta gli pareva di aver già sentito qualcosa che vi poteva somigliare. I suoi pensieri si arrestarono tutti di colpo quando udì il termine philosophy: non era forse quella Philosophia di cui il precettore Boethius aveva invocato così a lungo la consolazione? Ricordava sempre con affetto quell’uomo di immensa sapienza, così pensò bene di pronunciarne il nome, come per una sorta di associazione freudiana.
- Sebereinus Boethius! - disse. A Guth cadde il telecomando di mano. L’intera faccenda stava sfuggendogli di mano. Questo era decisamente troppo anche per lui.
- Ni kann ik hwat’ist filausaufja, ni thatohun hwat’ist, ak gaman ik thatei Boethius sinteino mathlida bi thizai waiht du alamannam, rodjands razda sildaleika.
Bernard Faine, che si era premunito di un registratore, riuscì a immortalare in un file mp3 quanto detto da Hathureiks. Presto la frase fu tradotta. Tramite la ricerca nella Rete, era stato trovato un dizionario i cui vocaboli collimavano con quelli raccolti. La lingua era etichettata come Gotico, ed era indicata come l’idioma usato da Wulfila per la sua famosa traduzione della Bibbia. L’ostrogoto aveva detto di non sapere cosa fosse la filosofia, di non averne la minima idea, ma di ricordare che Boethius ne parlava sempre a tutti, usando una lingua meravigliosa - e si suppone non comprensibile ai suoi ascoltatori.
Ma com’era possibile tutto questo? Non aveva il benché minimo senso, e su questo sia Faine che Guth concordavano. Non era possibile anche solo pensare che un uomo potesse essere prelevato dall’epoca dei Regni Barbarici e scaraventato nell’Idaho del XXI secolo. Il caso più simile sarebbe stato quello di John Titor, il crononauta che a quanto pare era venuto dal futuro di una linea temporale parallela. Se ne era parlato molto a lungo, senza mai poter arrivare a conclusioni certe. Eppure anche questa analogia sembrava forzata, dal momento che Hathureiks non era giunto dal futuro, bensì dal passato, e non era stato certo sbalzato dal suo cronotopo per mezzo di una qualche tecnologia.
Soltanto dopo una lunghissima discussione Bernard Faine riuscì ad averla vinta e a convincere Amos Guth della plausibilità della teoria del wormhole. Un cunicolo spontaneo si sarebbe formato come un ponte in grado di connettere due regioni molto distanti dello spaziotempo, e un evento estremamente improbabile era occorso: un essere umano ci era passato dentro senza averne alcun danno, riapparendo in un altro luogo e in un altro secolo. Sulla natura di questo cunicolo, regnava il buio concettuale più assoluto.
Una cosa era certa, quale che fosse l’origine di questo incidente cosmico: degli agricoltori di Glenns Ferry non potevano assolutamente gestirlo, pur con tutta la loro buona volontà e la loro istruzione autodidatta. Esisteva una sola alternativa: dovevano recarsi al più presto all’Università dell’Idaho, a Boise. Lì avrebbero potuto di certo sottoporre Hathureiks all’esame di ogni genere di luminari.
Bernard Faine telefonò a Julius Schulz, un suo cugino che lavorava al Dipartimento di Fisica, e gli descrisse in dettaglio la complessa situazione in cui si era venuto a trovare così all’improvviso. Decise che sarebbero partiti la mattina prima dell’alba con la sua macchina, in quanto un viaggio con il carretto di Guth non sarebbe stato auspicabile. Assieme a sua moglie Ann, preparò ogni cosa in fretta e furia. Un solo giorno non sarebbe bastato di certo, così prese con sé un po’ di soldi.
Quando arrivarono al campus, Julius Schulz era già lì ad attenderli, pieno di trepidazione per l’eccezionalità della scoperta che gli avevano comunicato.
- Salve Julius! - lo salutarono. Lui rispose al saluto e strinse loro la mano.
- Questo è Hathureiks l’Ostrogoto! - disse Amos Guth presentando il viaggiatore nel tempo. Era davvero imponente e di una virile bellezza che lo facevano spiccare tra molti uomini, e lo studioso dovette riconoscerlo. Per un attimo nella sua mente si agitò l’idea che Hathureiks rappresentasse un essere primordiale e incontaminato, e che dai suoi tempi l’intera umanità fosse molto degenerata. La consunzione genetica, pensò, per poi cacciare in un angolo del cervello questa locuzione.
- Hails! - disse con impeto Hathureiks. Strinse la mano di Schulz, anche se tra il suo popolo quello non era un saluto, bensì un modo di sancire un contratto. La rapidità con cui aveva imparato molte cose, tra cui l’uso delle forchette, era sorprendente. Pur capendo abbastanza bene l’inglese essenziale, aveva difficoltà ad articolarne i suoni sfuggenti e preferiva usare la lingua dei suoi Padri.
- Non avrei mai pensato di sentire pronunciare la lingua di Wulfila dalla viva voce di un suo parlante! - disse Julius Schulz. Quella singola parola, hails, gli faceva una strana impressione, come di sfasamento. Conosceva bene i Faine e i Guth, e sapeva che erano persone di onestà cristallina, così non gli era mai venuta neanche di striscio l’idea che la faccenda potesse essere un complicato imbroglio.
- Anche per noi è stata una sorpresa, di quelle che non possono che capitare una volta sola nel corso di una vita! - concordò l’Amish.
Bernard Faine propose di andare a mangiare qualcosa, e l’invito fu da tutti ben accolto. Julius Schulz li guidò alla mensa universitaria. Mentre mangiavano, discussero di innumerevoli dettagli. Ogni circostanza fu spiegata più volte con comodo davanti a una birra e a un hamburger, destando un’impressione sempre crescente nel membro del Dipartimento di Fisica. Pur avendo le idee ancora confuse, Bernard Faine fece vertere la conversazione sull’ipotesi del wormhole, chiedendo a suo cugino se un evento simile fosse possibile o se si trattasse di una mera farneticazione fantascientifica.
- In teoria un wormhole dovrebbe formarsi a causa del collasso di una stella supergigante - spiegò Schulz - Una stella con una massa talmente grande da impedire persino la formazione di un orizzonte degli eventi. Uhmm, mi aspetterei di trovarne uno in una regione dello spazio profondo, non certo qui sulla Terra.
Nonostante sempre più voci lo attaccassero nella comunità scientifica, il Principio della Censura Cosmica godeva ancora di un certo credito, e pochi fisici amavano discuterne in pubblico senza un intenso sentore di disagio. Per non parlare della teoria dei Molti Mondi, che era riprovata e tacciata di eresia dagli organi di controllo del pensiero accademico.
Eppure in un qualche modo questa anomalia, questo essere sconveniente, bisognerà pur spiegarlo, pensò il fisico depresso.
- Statemi a sentire - disse dopo una lunga pausa - Dobbiamo cominciare a sottoporre Hathureiks a tutta una serie di esami. Lo porteremo dai medici e dai biologi, che dovranno sottoporlo ad analisi del sangue, elettroencefalogramma e mappatura genetica approfondita. Posso far sì che al caso sia data la massima priorità.
Faine era ansioso di conoscere la verità. - Per noi non ci sono problemi - replicò - Spero che potremo restare al campus per tutto il tempo necessario.
- Certamente - lo rassicurò Julius Schulz - Siete miei ospiti. Dopo le analisi fisiologiche dovremo portarlo al dipartimento di Linguistica e poi a quello di Psicologia. Il soggetto sarà sottoposto a regressione ipnotica.
- Potremo consultare liberamente tutte le informazioni che saranno così ottenute, o sarà un segreto di Stato? - domandò Amos Guth. - Spero che non interverranno i Militari - aggiunse Bernard Faine, angosciato da una simile prospettiva. Più di una volta l’Esercito era intervenuto sottraendo ed occultando per sempre conoscenze che sarebbero state di diritto un patrimonio dell’umanità.
Lo studioso li rassicurò: - Vi posso garantire che avrete libero accesso a tutti i risultati delle analisi, e che l’Esercito non ne saprà nulla. Dopo aver fatto tutti questi studi, verrete da me insieme a Hathureiks al Dipartimento di Fisica. Farò venire anche un filosofo.
Fu così che il nobiluomo ostrogoto fu consegnato all’Università dell’Idaho per gli accertamenti. Ogni volta che finiva un esame e che i risultati venivano elaborati con la massima celerità, Faine e Guth ne venivano informati. Un universitario era stato incaricato da Julius Schulz di spiegare loro ogni cosa, pur senza scendere troppo in incomprensibili dettagli tecnici, in modo che non ci fosse nulla di nascosto.
Ogni test non fece altro che confermare l’origine di Hathureiks. Le tutte le sequenze del DNA mostravano compatibilità con quelle estratte dal materiale archeologico tramite le più moderne tecnologie. Non c’erano dubbi, quello era un membro della famiglia degli Amali, un consanguineo stretto di Thiudareiks, Teodorico il Grande. I marcatori genetici confermavano l’origine scandinava della dinastia. Il sistema immunologico dimostrava che non apparteneva agli ultimi secoli della Storia umana, e per impedire l’insorgere di malattie anche gravi a partire da banali incidenti gli furono iniettati molti sieri. Anche la tolleranza al fondo radioattivo era esigua: se non fossero intervenuti prontamente, sarebbe di certo morto di leucemia o di cancro nel giro di pochi mesi.
- Tu non sai il pericolo che stavi correndo, ragazzo biondo! - gli dicevano sempre i medici con simpatia. Ormai era un simbolo per l’Università, e tutti gli volevano bene. La sua incredibile mitezza contraddiceva tutti i luoghi comuni sui cosiddetti Barbari. Coloro che chiamavano vandali i devastatori e gli imbrattatori, si sarebbero di certo stupiti non poco nel sapere che un uomo così buono era un parente stretto proprio del popolo dei Vandali.
Quando Hathureiks passò al Dipartimento di Psicologia, divenne presto una miniera di informazioni. Tutto ciò che diceva in stato di ipnosi era accuratamente registrato su supporto digitale, trascritto e inviato a una moltitudine di studiosi. Ne emersero l’intera versione della Bibbia di Wulfila, una quindicina di poemi epici pagani del tutto sconosciuti, che parlavano delle origini dei Goti e delle mitiche imprese dei loro sovrani, più un centinaio di bellissime poesie. Alcune erano struggenti, come il Canto di Berigs, altre erano resoconti di battaglie e di antichi massacri.
Il tempo passò. Ci furono poche novità, a parte le telefonate furibonde di Ann Faine che reclamava suo marito, spalleggiata dalla famiglia Guth. Hathureiks in quei giorni era felice come mai era stato nella sua vita passata, e si divertiva a giocare a football americano nella squadra universitaria. Dicevano che sarebbe diventato un campione di importanza mondiale, in quanto senza bisogno di doparsi conseguiva ottimi risultati e ci metteva un immenso entusiasmo. A dispetto della sua fisionomia segaligna, aveva una grande forza, superiore alla media. Era un eccezionale compagno di banchetti per gli studenti. Quando scoprì il whiskey divenne subito un suo fervido estimatore, dichiarando che nemmeno la bevanda più fine servita alla Corte di Thiudareiks poteva competere con quel potente liquore nato dal fuoco. I suoi successi con le donne erano già leggendari dopo una settimana. Ogni notte andava a trovare due o tre ragazze diverse, una dopo l’altra. Si fece la reputazione di uno stallone instancabile, di un amante che tutte si sarebbero contese anche a costo di usare le unghie.
Quando Bernard Faine ed Amos Guth furono convocati nell’Aula Magna, vi trovarono una rappresentanza dell’intermo ambiente accademico di Boise. Professori insigni erano giunti dalla California salendo sul primo aereo.
- Ragazzi, voi diventerete famosi! - disse loro Julius Schulz - Hathureiks è giunto qui da un cronotopo del tutto diverso, e con il suo prezioso contributo ha fatto progredire incomparabilmente molte scienze.
- Immagino che per questo non potrete ridarcelo - azzardò Amos Guth.
- Dobbiamo mandarlo all’Università della California, e credo che vorranno fargli fare il giro del mondo - rispose il fisico - Se resterà tempo.
- Come sarebbe a dire se resterà tempo? - chiese Bernard Faine.
- Quando i Professori avranno finito il loro discorso, venite nel mio ufficio al Dipartimento di Fisica, così vi spiegherò in dettaglio cosa ho scoperto - disse suo cugino, con tono sibillino. I due ebbero uno strano presentimento, ma non dissero nulla. Il discorso, ampolloso e contorto, durò più di un’ora. La cerimonia terminò con abbracci e baci accademici. Sia a Bernard Faine che ad Amos Guth fu conferita una laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere.
Verso sera si recarono da Schulz. Questi li accolse con aria grave e li fece entrare. La sensazione che qualcosa non andasse si intensificò.
Si accomodarono, e il fisico chiese loro se volevano un bourbon. Consapevoli della gravità della situazione e prevedendo una seduta difficile, entrambi accettarono con piacere.
- Nessuno sembra averci pensato - esordì Julius Schulz - In qualsiasi modo Hathureiks sia giunto fin qui dal suo tempo di origine, ora è nel nostro Universo un elemento estraneo. I bilanci di massa-energia non tornano più per causa sua. Può sembrare una cosa insignificante la presenza di un uomo in più in un cosmo tanto vasto, ma qui si viene a toccare la quantistica.
- Temo di non avere nozioni sufficienti per capire argomenti tanto difficili - disse Faine - Figuriamoci poi il mio amico, che notoriamente condanna il mondo moderno, vivendo come nel XVIII secolo.
- Cercherò di spiegarmi in termini più semplici - lo tranquillizzò Schulz - Immagina che tutto l’Universo sia una nuvola composta da innumerevoli goccioline microscopiche. Queste goccioline formano strutture confuse che sono tutte governate però da leggi ferree che non ammettono eccezioni. Che non devono ammetterne.
- In altre parole - disse Amos Guth - Stai parlando di un Disegno Intelligente. Pensavo che voi scienziati negaste Dio.
- Mettiamola così - rispose lo studioso - Nell’ordine che governa il cosmo, tutto è stabilito dai numeri. Se pensi che sia Dio la causa di ciò, per me va benissimo, non è questo il problema. Il problema è che questi numeri, sono etichette che descrivono le goccioline di cui stiamo parlando. Ognuna ha determinati numeri che la distinguono. Il punto è che tutti questi numeri sono tra loro legati. Se ne cambia uno, devono cambiare anche tutti gli altri, all’istante. Cosa accade ora se anche una singola gocciolina che non appartiene all’Universo vi capita dentro per sbaglio? Se una regola che non ammette eccezioni viene difatto violata? Ci sono due soluzioni soltanto. O la gocciolina estranea si dissolve sparendo nel nulla, o viene intaccata e decade l’intera struttura dell’Universo!
Faine era perplesso. - Continuo a non capire - borbottò. In realtà un guizzo una specie di campanello di allarme stava suonando all’impazzata nel suo cranio.
Julius Schulz continuò la sua esposizione.
- Il filosofo Philip Kindred Stein mi ha dato la conferma di tutte le mie deduzioni, gli sembra tutto plausibile. Hathureiks è una chimera, un masso erratico caduto qui da un regno che per quanto ci riguarda dovrebbe appartenere alla non-esistenza, in quanto assolutamente separato dalla struttura olografica del nostro Continuum. Nel migliore dei casi, l’ostrogoto comincerà ad ammalarsi e si disgregherà fino a cadere in polvere e a svanire. Se questo non accadrà, tutto ciò che vediamo sarà condannato. Tutto. Noi, l’intero pianeta, il sistema solare, la nostra galassia, tutto ciò che esiste fin oltre gli oggetti quasi stellari più remoti. Non ci sarà scampo, l’opera che i religiosi pensano essere di Dio sarà corrotta e diverrà un tremolio nel Nulla per poi tacere in eterno.
- Questo Universo potrebbe non avere difese immunitarie sufficienti, potrebbe cadere in trappola - proseguì - Guai se la struttura di Hathureiks fosse stata incorporata nell’Ologramma. Quanto vengo a sapere è molto preoccupante. Mi risulta che abbia amato molte ragazze, e qualcuna di loro potrebbe portare il suo seme nel ventre.
Un terrore abissale si dipinse sui volti di Faine e del suo amico.
- Credo che adesso dovremmo andare da lui e stargli vicini - disse Amos Guth alzandosi dalla sedia. Mentre si avviava alla porta insieme a Bernard Faine, l’occhio gli cadde su un quadro appeso alla parete. Una riproduzione del Violinista di Chagall. Un pezzo di cornice era stato smangiato, come se dei grossi tarli lo avessero rosicchiato. Trasecolando, l’Amish si avvicinò al dipinto, notando la natura frattale di quello sfregio.

Marco "Antares666" Moretti

lunedì 6 giugno 2022

NUDO, SULLE RIVE DEL MARE DI AZOV

1.

La notte è pervasa da correnti gelide, e io sono nudo. Non ho con me alcun abito, e non capisco come sia potuto accadere. Non vedo nulla, tanto l’oscurità è impenetrabile. Pece che mi copre, inchiostro criogenico che avvolge ogni dettaglio di questo paesaggio invisibile. Sento dell’erba sotto i miei piedi. Forse sono un sonnambulo e non me ne sono mai accorto prima. Mi sembra di cogliere il lontano ululato di un lupo solitario, ma naturalmente questa non può essere che una mia impressione.
Uno strano contrasto lentamente invade i miei occhi, come se qualche fotone avesse cominciato a colpire i miei nervi, fuggito da una sorgente sconosciuta. Ancora qualche minuto ed ecco un debole chiarore all’orizzonte. Penso che stia sorgendo il sole, e cerco la strada di casa. Devo essermi allontanato non poco dalla città durante il mio peregrinare notturno in stato di incoscienza. Non distinguo alcun edificio tra le ombre. Ecco che finalmente la causa di quel lucore si rende manifesta: non è il sole come credevo, ma la luna. Una luna piena, grande, che inonda la terra con il suo benevolo mantello di argento vivo. Quasi faccio fatica a fissarne il volto. Quando guardo attorno a me, tremando per il freddo e per la paura, mi rendo conto che il territorio non ha nulla a che vedere con qualsiasi cosa mi sia nota. Davanti a me si estende un mare grigio, all’orizzonte del quale si possono vedere delle alte catene montuose come miraggi evanescenti. Un mare interno, chiuso. Questa rivelazione è troppo per me. Non riesco a farmene una ragione. Proprio ieri ero incolonnato nel traffico suburbano e ho consumato due ore in coda per giungere distrutto al mio loculo abitativo, dopo il calar del sole. Per miglia e miglia non esiste un solo giardinetto pubblico, solo qualche aiuola rinsecchita sprofondata in un oceano di cemento popolato da esseri più simili a ombre che a umani. Non è possibile che mi sia spinto fin qui con il solo aiuto delle mie gambe, affette da varici per la mia vita anaerobia in ufficio.
Se non trovo qualcosa da mettermi addosso finirò col morire assiderato. Questa consapevolezza mi desta come un pugno nello stomaco dalle mie meditazioni. Un minimo abbassamento della temperatura dell’aria ha innescato ancestrali meccanismi di sopravvivenza. Nulla. Intorno a me non c’è nulla che possa offrirmi riparo, soltanto distese erbose e alberi ritorti. Sento le mie forze mancare, perdersi nella morsa dei brividi. All’improvviso mi sembra di cogliere qualcosa, e la speranza torna a crescere in me. Forse sono i deboli raggi di una torcia quei guizzi di luce pallida che fendono il buio davanti a me…
Quando mi sveglio mi ritrovo a letto, e per qualche istante penso che sia stato soltanto un brutto, orrendo sogno. Mi accorgo però che quello non è il mio letto, quella non è la mia casa. L’ambiente è spoglio e senza ornamenti, il riscaldamento è garantito da una stufa rudimentale fatta di ghisa e alimentata a legna.
- Was istu, adelmanne? – mi chiede una giovane donna. Indossa una strana veste lunga, bianca e grigia, finemente decorata con svastiche, aquile stilizzate e soli i cui raggi interni sembrano fulmini. Ma quello che più mi stupisce è la lingua in cui si è rivolta a me. Sembra una specie di dialetto tedesco, forse tirolese o qualcosa di simile.
- Siltha! Du is manne gutz ja bertz, ik kan’tha! – continua stringendomi una mano e guardandomi con occhi dolci. C’è qualcosa che non va nel suo tedesco. Somiglia a quello che ho imparato a scuola, ma non riesco ad afferrarlo completamente. La pettinatura della ragazza è complicata e anacronistica. I suoi capelli biondi sono raccolti in crocchie e fissati dietro alla nuca con spilloni di rame. Un uomo entra nella camera. Sembra uno Schützen, a conferma della mia ipotesi. Poi ci penso. In Tirolo non esiste il mare. E anche se quella gente fosse tirolese, come ci sarei finito? Lo osservo. Avanza con una certa baldanza. Il naso è paonazzo e l’andatura malferma, è evidente che si è intossicato con qualche bevanda alcolica.
- Bi Wuden heligen, du is gedrunkens! – urla lei. Questa volta capisco alla perfezione la frase, e il senso di irrealtà torna ad aggredirmi. Collego l’accenno a Wotan agli strani disegni sulle vesti della donna e penso che forse sono stato rapito da nostalgici del III Reich.
L’uomo mastica le parole, ma riesce comunque a districarsi abbastanza bene in quella selva di consonanti.
- Ja, ik im gedrunkens, fuls mid mido gudem! – dice ridacchiando per l’ebbrezza, come se qualcosa di irresistibilmente comico avesse colpito la sua attenzione.
- Wem chlaftu den mido? Wis habem niwecht chlef for unsrem barnem du iten ja du wastes gild for mido! – lo aggredisce lei. Mi consolo pensando che dovunque io sia finito, le femmine sono uguali a quelle di qualsiasi altra parte del mondo.
- Ik habeda mild sum dath’ik chlaf fram Russikem – si difende l’ubriaco. La giovane sbianca come se di colpo avesse perso tutto il suo sangue da una ferita invisibile. Leggo il terrore assoluto sul suo volto, come se ne andasse della sopravvivenza di tutta la sua gente.
L’uomo diventa per un istante itterico, quindi inizia a vomitare copiosamente. Sta così male che sembra essere in fin di vita. La moglie cerca di sostenerlo mentre lui si libera di una gran massa di liquame bilioso. Arrivano i figli. Il più adulto dice qualcosa alla madre, riceve delle istruzioni ed esce dalla casa, mentre gli altri due iniziano a darsi da fare per pulire il pavimento. Passano pochi minuti ed ecco la suocera, armata di un grosso randello. È una donna alta e robusta, di aspetto somiglia molto a Ingrid Bergman.
- Arga! – urla all’uomo disteso, e inizia a prenderlo a calci. Gli dà una serie di bastonate, incurante dei suoi lamenti, quindi esplode in un violento attacco verbale: - Bi Wudenes blud! Du is ens fule chliftz! Jaf de Russikens ufkunnen’tha, de sandend hir ene hanse Merene du afslachen allens uns!
I bambini rimuovono il vomito con aria rassegnata, dandosi il cambio per riempire il secchio d’acqua, come se fossero abituati da tempo a scenate simili. Sembra che ce la mettano tutta per far scomparire le prove di un efferato delitto. A riprova di questo mio sospetto, vedo che l’ubriaco viene trascinato dalla matriarca e dalla moglie e condotto in un vano sotterraneo attraverso una botola. Fatto questo, le due donne riemergono nella stanza e posizionano sul passaggio segreto un tappeto.
Il tutto mi pare un po’ troppo per una semplice sbornia, non riesco in alcun modo a ridurre ad una spiegazione razionale il comportamento di quella gente. Forse sono di un puritanesimo estremo, ma tutto il loro terrore e il loro trafficare sembrano piuttosto nati dall’esigenza di nascondere quanto accaduto ad estranei ostili.
Più osservo le cose e collego i dettagli, più assurda mi appare l’ipotesi che si tratti di neonazisti di un isolato villaggio nato da qualche esperimento procreativo. Nessun ritratto di Hitler, nessuno che indossa l’Armband, e non vi è traccia del saluto con il braccio teso. A dire il vero, non vedo neppure un segno che possa indicare una qualche tecnologia da XX secolo. Niente telefono, niente televisione, niente elettricità.

2.

I giorni passano in modo abbastanza tranquillo e senza altri incidenti. Tra l’altro, una volta smaltita la sbronza, l’uomo è ritornato alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse, anche se si capisce che la suocera non gli ha perdonato del tutto la sua bravata. Approfitto del riposo che posso concedermi, e presto riesco a recuperare un po’ di forze. Quando sono abbastanza sano da potermi alzare, mi danno degli abiti tradizionali e mi fanno sedere alla loro tavola. Il vitto è costituito per lo più da latte e da una specie di porridge. Solo raramente viene servita una birra asprigna e leggera, in quantità del tutto insufficiente ad inebriare. Mi impegno al massimo per imparare la loro lingua il più in fretta possibile, facendo anche affidamento sulle mie reminiscenze di tedesco scolastico, e presto riesco seppure in modo stentato a comunicare e ad approfondire la mia conoscenza. Mi rendo conto che la lingua presenta molte caratteristiche del tedesco, ma è differente e non poche parole nulla hanno a che vedere con quelle che mi sono familiari. D’altronde con una maestra adorabile come la ragazza che mi ha curato, non posso che fare progressi strabilianti. Noto però che sta bene attenta a mostrarsi troppo gentile con me in presenza del marito e soprattutto dell’austera matriarca. Non conoscendo i costumi di quella gente in materia di relazioni sessuali, e intuendone anzi la natura puritana, mi astengo dal dar corda a quelli che a volte mi appaiono come velati tentativi di seduzione. Non vorrei trovarmi con la testa rotta dal randello di Ingrid Bergman o con un coltello dell’ubriacone, infilato nel ventre.
Pian piano riesco ad immedesimarsi in quel mondo angusto. L’uomo si chiama Ermenrix e sua moglie Amelswinde. La casa è retta dalla madre di lei, Ermengarde. I tre figli della coppia sono Theoderix, Kunegunde e Hanala. Mi sono presentato loro con il mio vero nome, Gian Marco Stanga, ma a parte una blanda curiosità sul suo strano suono e sulla sua origine esotica, non se la sono sentiti di indagare troppo a fondo sulla mia provenienza. Ho detto loro che vengo dall’Italia, ma il nome della mia terra d’origine non diceva loro nulla, non l’avevano mai sentita nominare. Tutta la loro conoscenza del mondo potrebbe stare nella prima pagina di un quotidiano. Soltanto quando ho detto loro che sono di Venezia, ho avuto un inatteso riscontro: a quanto pare una spedizione di mercanti della Serenissima aveva fatto visita al loro villaggio una ventina di anni prima. Indagando sulle loro pur esigue cognizioni storiche e geografiche, sono riuscito a formarmi un’idea. Non ho più dubbi a proposito di ciò che mi è capitato: per quanto incredibile possa sembrare, sono stato sbalzato dal mio cronotopo e sono finito in una linea temporale parallela. Tutto quello che ho scoperto conferma la mia spiegazione. Siamo in Crimea, nei pressi del Mare di Azov, e le genti che mi hanno dato ospitalità non sono tedeschi del Tirolo, bensì lontani discendenti dei Goti di Re Ermanarico. Sono così tante le cose che vorrei apprendere, ma mi scontro quasi sempre contro gravi limitazioni. Per esempio, quando cerco di capire in che anno siamo, mi accorgo che tale nozione non ha per i miei ospiti alcun senso: essendo rimasti pagani, il computo degli anni a partire dalla nascita di Cristo non è da loro neppure concepito.
Imparare è l’unico modo di non morire di noia: nonostante tutti i miei tentativi, non riesco a convincere nessuno a portarmi fuori di casa. È come se avessero terrore che qualcuno potesse fare la spia vedendo uno sconosciuto nel villaggio. Nel complesso non si può dire che la loro vita sociale sia movimentata. Molto raramente ricevono qualche visita, ma anche se si tratta di parenti stretti, mi costringono a non farmi vedere perché la mia inconsueta fisionomia non desti sospetto e non inciti alla delazione. Matura sempre più in me l’idea che quello non sia un paese libero, ma terra di conquista.
Quando acquisto un po’ più di familiarità con la bella Amelswinde, vengo a sapere cos’è successo la notte in cui ho ripreso i sensi. Ermenrix aveva rubato del miele ai Russi e l’aveva usato per farne un barile di idromele, scolandoselo tutto. Un simile furto sarebbe come minimo stato punito con la morte, se fosse stato scoperto. I miei sospetti trovano conferma. I Russi dominano la Crimea, opprimendo duramente le sue genti. Goti, Greci, Unni, Tartari Crimeani e Khazari sono assoggettati a un durissimo regime fiscale da parte della Repubblica Nichilista di Moscovia. I più temuti tra tutti i soldati Russi sono gli incursori Meren. Scopro che i Meren sono una popolazione che vive nelle regioni degli Urali. Hanno i capelli rossi e gli occhi con la plica mongolica, la pelle così chiara da sembrare anemica. Praticano sacrifici umani e cannibalismo, e sono talmente feroci da essere ritenuti demoni dagli stessi Tartari.

3.

È passato ormai quasi un mese, ma nessuno vuole saperne di lasciarmi andare. Lontano dal mio popolo, non saprei cosa fare, mi dicono. Alla fine, dopo lunghe discussioni, riesco a farmi promettere che mi faranno sapere come arrivare fino a Sebastopoli, dove dovrebbe essere facile trovare una nave diretta a Venezia.
Finalmente si prospetta l’occasione di curiosare un po’ fuori dalle mura domestiche. Ci sarà presto un matrimonio, e nessun membro della famiglia potrà mancare ai festeggiamenti, neppure i bambini. Avranno soltanto due scelte: o portarmi con loro spacciandomi per un improbabile lontano cugino oppure rinchiudermi in casa. Ma queste case non sono certo impenetrabili. Aspetto così che tutti si siano allontanati, quindi forzo la fragile serratura di una porta posteriore ed esco. La visione del villaggio mi colpisce come un pugno allo stomaco. Le poche case hanno il tetto coperto di torba. Ho la conferma dell’assenza dei manufatti tecnologici a cui sono abituato nel mio mondo d’origine. C’è un solo edificio in muratura, del tutto diverso dagli altri. Vi sventola una bandiera rossa con una falce e martello in nero, identica a quella del frontespizio del Libro Nero del Comunismo. Alcuni cavalli sono legati a un palo di ferro arrugginito. C’è anche un’automobile scoperta che si direbbe del primo XX secolo, atta al trasporto di militari. Vedo solo un uomo in uniforme grigia. È seduto vicino alla porta d’ingresso, addormentato con una bottiglia di vodka in mano. Il mio giro di ricognizione ha successo, e prima della fine dei bagordi riesco ad essere di nuovo in casa come se nulla fosse successo. Ciò che ho visto mi lascia perplesso. Ogni casa del villaggio evidentemente corrisponde ad un nucleo familiare più o meno esteso. Alcune stalle e gli attrezzi agricoli indicano quale sia il sostentamento. Un solo forno è usato da tutti per la cottura del pane. I fasti nuziali di questi contadini consistono in un po’ di formaggio, in un maiale arrostito e in qualche bottiglione di idromele, di certo spillati da una riserva tenuta sotto chiave per anni, ben lontana dalla bramosia del non certo astemio Ermenrix. In tutto ci saranno state venti persone al tavolo del banchetto. Non si può certo dire che i Goti di Crimea siano un popolo numeroso e in espansione.
Ormai le prime luci dell’alba stanno comparendo ad Oriente, e il cielo comincia a schiarirsi. Amelswinde, Ermengarde e i bambini rientrano rintronate per il troppo cibo ingerito durante il banchetto. Non vedo però Ermenrix, e quando lo faccio loro notare, si stupiscono e si allarmano. Parlano a lungo tra loro, incerte sul da farsi. A questo punto la porta si apre, e ne entra un giovane uomo alto e biondo, con gli occhi azzurrissimi e il volto pieno di efelidi. Con tutta probabilità è un parente stretto di Amelswinde, forse un suo primo cugino a giudicare dalla somiglianza.
- Dem nachte Ermenrix idda du Russikem bidentz for brinnwate! Hired is alle! – esclama trafelato il gigante ariano. È in allarme, sa per certo che qualcosa di orribile sta per succedere. Le due donne fanno per seguirlo, impugnando dei bastoni e facendo cenno ai bambini di non muoversi per nessun motivo. Capisco che l’ubriacone ha sfidato ogni buon senso ed è andato dai Russi a chiedere dell’acquavite per completare la sua colossale sbornia.
Prima che le donne possano muoversi e dirigersi verso l’ingresso, la porta si apre una seconda volta e ne entra proprio Ermenrix. Barcollante e insanguinato, sembra l’incarnazione di un incubo. Impugna un fucile ancora caldo.
- Enen Russiken kwaldik! – urla. Ha ucciso un russo! All’improvviso si sentono versi raggelanti. Prima che qualcuno possa fermarmi vado alla porta e vedo l’orrore. Una decina di Meren stanno percuotendo a morte dei cavalli con spranghe di ferro, urlando selvaggiamente e ridendo come pazzi. Rompono loro le costole, abbattono colpi spaventosi sul cranio. Vedo uno stallone che barcolla e perde un ruscello di sangue dal naso e dalla bocca. A questo punto uno dei Meren estrae un coltellaccio lungo e acuminato e lo affonda nel torace dell’animale. Appena questi si impenna, cercando di scalciare e di colpire gli aggressori, essi gli squarciano il ventre con le lance, facendone fuoriuscire masse di intestini. Una cavalla viene colpita al collo e stramazza a terra. Non contenti della loro opera, i Meren si accaniscono sui cavalli moribondi con inenarrabile ferocia. Li scorticano, strappano masse di carne dai loro fianchi, tagliano i tendini, fracassano le ossa. Più le vittime sono inermi, più la crudeltà aumenta in un infernale crescendo. È un incubo. Non appena riesco a vincere l’orrore e la paura, rientro in casa e chiudo la porta col chiavistello. Troppo tardi. Dopo pochi istanti dei colpi di fucile la fanno saltare, e due Meren fanno irruzione nella casa.
Visti da vicino sono ancora più terribili. Occhi a mandorla, di un grigio glaciale, che irradiano un odio demoniaco verso ogni vivente. I capelli sono di un color rosso che avevo finora visto solo in alcuni inglesi. Portano lunghi baffi, anch’essi rutili. Indossano al braccio destro un Armband del color del sangue con la falce e il martello in nero. Quella vista mi sembra irreale, ma presto ciò che si scatena mi desta dalla mia ipnosi. Uno dei due incursori spara a sangue freddo e uccide Ermengarde. Amelswinde cade subito dopo, accasciandosi sul pavimento con la gola recisa. Arrivano altri soldati della stessa orribile etnia. Mentre alcuni catturano i bambini e li portano via per sacrificarli ai loro demoni, altri spogliano Ermenrix, gli bucano l’addome con i coltelli, quindi si calano i pantaloni e lo violentano a turno usando quei fori come cavità sessuali. Il gigante biondo dal volto lentigginoso trema come un fuscello, terrorizzato fin nel midollo osseo. Paralizzato contro la parete, si augura solo di morire in fretta, spera che un colpo parta e lo raggiunga in fronte. Capisco dall’odore che ha rilasciato gli escrementi. In quella girandola di atrocità, nessuno sembra essersi accorto di me, mingherlino come sono. Approfitto dell’attimo favorevole per afferrare il fucile con cui il povero Ermenrix ha ucciso un russo e faccio partire un colpo, spappolando il cranio di un Meren.
Il tempo sembra essersi fermato. L’arma mi cade di mano. I carnefici si girano verso di me, fissandomi con un’intensità insopportabile. L’unica cosa che ricordo è quello sguardo assassino, assolutamente inumano.

Marco "Antares666" Moretti

domenica 30 gennaio 2022


UNA BREVE NOTA SUI MEROVINGI
E SULLA LORO LINGUA


Quando si formulano ipotesi infondate, come fa Dan Brown, si dovrebbe sempre aver ben presente il contesto dell'epoca in cui si ambientano le proprie fantasie.
A proposito dell'ormai annosa teoria del Sangreal, giova tener presente che i Franchi non erano Francesi nel senso moderno del termine. Erano un'unione di popoli germanici che parlavano dialetti appartenenti in parte all'area dell'Antico Alto Tedesco e in parte a quella dell'Antico Basso Tedesco. Non si esprimevano in idiomi romanzi come la Lingua d'Oïl, all'epoca neppure pienamente formata. Non potevano capirsi con i loro popolani. I Merovingi non si curavano di certo del problema. Carlo Magno, figlio del distruttore della dinastia di Meroveo, si cullava ancora nell'assurda illusione che i suoi sudditi si esprimessero nel Latino degli antichi Romani, integro e puro come quello di Cicerone, come quello di Giulio Cesare.


Questo sovrano, cresciuto analfabeta e rozzo, era tanto distante dalla cultura delle genti del suo regno da ignorare persino l'uso del formaggio. Furono dei monaci a fargli conoscere questo alimento, e all'inizio il chiomuto sovrano ne fu disgustato perché non sapeva come mangiarlo: addentò la rancida crosta come prima cosa e la sputò schifato, chiedendosi come mai potesse un essere umano godere un cibo tanto immondo. Solo come gli fu insegnato a mangiare la polpa, divenne un grande estimatore della produzione casearia. 
 
Fu Alcuino, monaco dottissimo, a mettere a Carlo la pulce nell'orecchio, e questi ordinò un'indagine accurata tra le genti sottoposte al suo potere per accertare quale lingua parlassero. I risultati mostrarono che senza alcun dubbio i popolani non erano capaci di comprendere i loro pastori. A questo punto in poi la politica franca cominciò a cambiare. 
 
Il Giuramento di Strasburgo, formulato in Antico Alto Tedesco e in una forma ancora grossolana di lingua neolatina sono una testimonianza della volontà di comunicazione di Carlo il Calvo (823 - 877) e di Ludovico il Germanico (804 ? - 876). Carlo giurò in tedesco antico e Ludovico in romanzo, per farsi capire dai rispettivi eserciti, ma è del tutto chiaro che entrambi i sovrani, che erano fratelli, si esprimevano nel loro ambiente usando la stessa lingua avita, di chiara origine germanica. 

Ludovico:
Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d'ist di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra salvar dift, in o quid il mi altresi fazet et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit.

Carlo: In Godes minna ind in thes christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi, fon thesemo dage frammordes, so fram so mir Got gewizci indi mahd furgibit, so haldih thesan minan bruodher, soso man mit rehtu sinan bruher scal, in thiu thaz er mig so sama duo, indi mit Ludheren in nohheiniu thing ne gegango, the minan willon, imo ce scadhen werdhen.

Esercito di Carlo: Si Lodhuvigs sagrament que san fradre Karlo jurat conservat et Karlus, meos sendra, de suo part non l'ostanit, si io returnar non l'int pois, ne io ne neuls cui eo returnar int pois, in nulla aiudha contra Lodhuwig nun li iu er.

Esercito di Ludovico: Oba Karl then eid then er sinemo bruodher Ludhuwige gesuor geleistit, indi Ludhuwig, min herro, then er imo gesuor forbrihchit, ob ih inan es irwenden ne mag, noh ih noh thero nohhein, then ih es irwenden mag, widhar Karle imo ce follusti ne wirdoohg.

Per rendere il tutto più chiaro ai lettori, fornisco alcuni scritti germanici dell'epoca, esempi rappresentativi dell'Alto Tedesco: diverse versioni del Padre Nostro, che i missionari cristiani sentirono di non poter comunicare direttamente nella forma latina.

Questa è la versione nella lingua degli Alemanni di San Gallo, risalente all'VIII secolo d.C.:

Fater unseer, thu pist in himile,
uuihi namun dinan,
qhueme rihhi diin,
uuerde uuillo diin,
so in himile sosa in erdu.
prooth unseer emezzihic kip uns hiutu,
oblaz uns sculdi unsero,
so uuir oblazem uns skuldikem,
enti ni unsih firleiti in khorunka,
uzzer losi unsih fona ubile.

Questa è la versione nella lingua dei Franchi della Renania Meridionale, databile al IX secolo d.C.:

Fater unsêr, thu in himilom bist,
giuuîhit sî namo thîn,
quaeme rîhhi thîn,
uuerdhe uuilleo thîn,
sama sô in himile endi in erthu.
Broot unseraz emezzîgaz gib uns hiutu,
endi farlâz uns sculdhi unsero,
sama sô uuir farlâzzêm scolôm unserêm,
endi ni gileidi unsih in costunga,
auh arlôsi unsih fona ubile.

Per ultima, riporto la versione nella lingua dei Franchi Orientali, sempre del IX secolo.

Fater unser, thū thār bist in himile,
sī geheilagōt thīn namo,
queme thīn rīhhi,
sī thīn uuillo,
sō her in himile ist, sō sī her in erdu,
unsar brōt tagalīhhaz gib uns hiutu,
inti furlāz uns unsara sculdi
sō uuir furlāzemēs unsarēn sculdīgōn,
inti ni gileitēst unsih in costunga,
ūzouh arlōsi unsih fon ubile.

Si paragonino ora questi testi con la preghiera in Gotico redatta dal vescovo ariano Wulfila nel IV secolo d.C.:

Atta unsar, þu in himinam,
weihnai namo þein,
qimai þiudinassus þeins,
wairþai wilja þeins,
swe in himina jah ana airþai.
Hlaif unsarana þana sinteinan gif uns himma daga,
jah aflet uns þatei skulans sijaima,
swaswe jah weis afletam þaim skulam unsaraim,
jah ni briggais uns in fraistubnjai,
ak lausei uns af þamma ubilin;
unte þeina ist þiudangardi
jah mahts jah wulþus in aiwins.
Amen


(þ = th come nell'inglese thin; ei = i lunga; ai = e lunga aperta; au = o lunga aperta; e = e lunga chiusa; o = o lunga chiusa; iu ha l'accento su i; gg = ng come nell'inglese sing; gk = nk)

La Conoscenza smaschera gli impostori.

mercoledì 15 settembre 2021

ETIMOLOGIA LONGOBARDA DI GUITTO E DELL'ANTROPONIMO GUITTONE

Negli anni della mia gioventù, ero convinto che la parola guitto fosse derivata dalla stessa radice germanica dell'inglese wit "detto sagace", "motto di spirito". Nonostante la sua grande bellezza, questa ipotesi si rivelò presto del tutto fallace. In estrema sintesi, i fatti sono questi:
 
1) Se ammettiamo l'etimo di cui sopra, la parola non può essere genuinamente longobarda, dato che manca della Seconda Rotazione Consonantica, che l'avrebbe resa *guizzo
2) Il termine "guitto" non aveva un tempo il suo significato attuale di "attorucolo": indicava piuttosto il vagabondo, inteso come "individuo inutile e sudicio". In toscano la parola è tuttora usata come aggettivo col significato di "meschino, misero, povero" e anche di "avaro, gretto", "squallido"
 
Vediamo ora di ingegnarci a chiarire l'origine della parola in esame, combattendo contro difficoltà di ogni genere pur di tirarla fuori dal pantano etimologico in cui sembra sprofondata. 
 
I guitti, cittadini di Guittalemme

Chi si ricorda di Erminio Macario? Certamente tra i Millennials, e ancor più tra la Z Generation, nessuno ha la benché minima idea dell'esistenza di questo personaggio, che iniziò la sua carriera come "comico grottesco". Ricordo che in un documentario, visto molti anni fa, si parlava della formazione giovanile di Macario a Guittalemme. Il toponimo Guittalemme stava a indicare una fantomatica città popolata dai guitti, forse addirittura il luogo d'origine di tutti i guitti. La formazione del toponimo immaginario è ben chiara: la radice è la parola guitto "attore vagabondo", mentre il suffissoide -lemme, interpretato popolarmente come "città", è stato estratto dai toponimi di origine ebraica Gerusalemme e Betlemme. Ovviamente si tratta di un procedimento abusivo e infondato, la cui causa è l'ignoranza della lingua ebraica. Infatti Gerusalemme è da יְרוּשָׁלַיִם Yerushalayim, tradizionalmente interpretato come "Fondazione di Pace", nonostante -ayim abbia l'aspetto di un suffisso duale fossilizzato; invece Betlemme è da בֵּית לֶחֶם Beth Lechem "Casa del Pane" (לֶחֶם lechem significa "pane"). Nel documentario su Macario si parlava delle "guittate", trovate da attorucoli privi di mezzi. Due esempi di guittate: salire sul palco con residui del trucco dello spettacolo precedente; simulare il passaggio dei soldati pestando ritmicamente dei manici di scopa sul pavimento dietro un tendone, da cui emergeva solo la paglia delle ramazze, che dovevano far venire in mente agli spettatori una fila di copricapi militari. Riporto a pubblica edificazione questi frammenti di memorie di un mondo perduto.
 
Alcune etimologie tradizionali 

Ipotesi catalana: 
Il Michaelis, citato nel Dizionario Etimologico Online, propone l'origine della parola guitto dall'aragonese e catalano guit, guito "cattivo, sfrenato, indocile", che a quanto pare sarebbe stato detto soprattutto dei muli - quegli equini caparbi, dotati di smisurato priapo e scorreggioni, che in preda a crisi convulsive tirano calci a destra e a manca. Così una mula guita significa "una mula recalcitrante". Il Diccionari de la llengua catalana glossa guit con "Que acostuma a tirar guitzes", ossia "che è solito tirare calci". In aragonese e in catanano, dalla stessa radice sarebbe derivato anche guiton "vagabondo, ozioso, mendico". Per quanto riguarda l'origine ultima, nel Dizionario Etimologico Online è indicato il basco gaitz "cattivo", cosa impossibile già soltanto per motivi di fonetica. Altre proposte etimologiche riportate in quella fonte sono ancora più stravaganti e implausibili (gallese gwid "vizio"; latino vietus "floscio, marcescente").   


Si nota che il catalano guit, guito, è pronunciato con un'occlusiva velare semplice e senza -u-, e tale era anche in epoca medievale, tanto che in italiano sarebbe stato adattato come *ghitto. In spagnolo esiste una variante güito "indocile" (detto di animale), pronunciato /'gwito/. Tuttavia proprio questa peculiarità fonetica della parola spagnola fa pensare che si tratti piuttosto di un prestito dall'italiano. Tutte le forme citate, aragonesi, spagnole e catalane, sono a parer mio prestiti dall'italiano guitto: il flusso è proprio l'inverso di quello descritto dai romanisti. 

Ipotesi olandese: 
Il Vocabolario Treccani sostiene l'origine della parola guitto dall'olandese guit "briccone, furfante". Com'è costume dei romanisti, nessuno sembra preoccuparsi minimamente di fornire una traccia etimologica in grado di spiegare la voce olandese.


Si deve ricorrere a fonti più aggiornate e decenti. Nel Wiktionary in inglese, si trova quanto segue: guit deriva dal medio olandese guyte, di origine incerta e probabilmente connesso con ghoiten "rimproverare" e con guiten, guten "prendere in giro, schernire". Possibili paralleli in altre lingue germaniche sono: norreno gauta "parlare molto" e antico alto tedesco gauzen "insultare con un nomignolo". Un problema di non poco conto è la pronuncia stessa della parola olandese, che ha un dittongo discendente /œy/, con l'accento sulla prima vocale: /γœyt/. Il dittongo era discendente anche in epoca medievale, per sua derivazione da un dittongo protogermanico. I romanisti hanno dato per scontato che la pronuncia fosse */gwit/, con un dittongo ascendente. In pratica, hanno ciccato! La parola del medio olandese non avrebbe mai potuto dare guitto in toscano. 


Per quanto riguarda la semantica, la somiglianza è abbastanza notevole, ma questo conta assai poco. Che una provenienza olandese della parola fosse abbastanza improbabile, è facile da capire.

L'antroponimo Guittone 
 
Nel XIII secolo esisteva in Toscana l'antroponimo Guittone, chiaramente derivato da guitto. Ci è ben noto Guittone d'Arezzo (Santa Firmina, 1230/1235 - Firenze, 1294). Aveva moglie e figli ed era libidinosissimo, poi ebbe una crisi religiosa e divenne un fratacchione... gaudente! Di lui si ricorderà certamente la poesia immortale "Stavasi un eremita in Poggibonsi"... 😀 Il nomen omen è una realtà!
 
La vera etimologia 
 
Si deve evitare il marasma, visto che in questo caso specifico esiste modo di farlo. Presento dunque la sorgente etimologica a cui bisogna fare riferimento. 
 
Proto-germanico:  *wiχtiz "essenza, essere; cosa, creatura" (genere: femminile). 

Singolare 

nominativo: *wiχtiz 
genitivo: *wiχtīz 
dativo: *wiχtī
accusativo: *wiχtin 
vocativo: *wiχti 
strumentale: *wiχtī
 
Plurale
 
nominativo: *wiχtīz
genitivo: *wiχtijōn
dativo: *wiχtimaz
accusativo: *wiχtinz 
vocativo: *wiχtīz
strumentale: *wiχtimiz

Discendenti (l'elenco non è esaustivo e non riporta tutte le varianti ortografiche): 

Gotico: waihts "cosa"
Norreno: véttr, vætr "creatura, specie di gnomo"
Antico inglese: wiht, uht "cosa" 
  Medio inglese: wight "creatura, cosa; persona; mostro; 
     piccola quantità" (pl. wightes
  Inglese moderno: wight "creatura, entità", whit "piccola 
    quantità" 
Antico olandese: wiht "creatura; bambino; ragazza"
  Medio olandese: wicht, wecht "creatura; bambino;
      ragazza"  
   Olandese moderno: wicht "creatura; bambino; ragazza"
Antico sassone: wiht (f.) "creatura, cosa; persona"
Antico alto tedesco: wiht "creatura; cosa"
  Medio alto tedesco: wicht "creatura; cosa" 
  Tedesco moderno: Wicht "piccola creatura; nano"
 
Esiste anche una variante i cui esiti non sono sempre facili da distinguere, specialmente nelle lingue moderne. Eccola: 
 
Proto-germanico *wiχtan "cosa; creatura" (genere: neutro).  

Singolare 

nominativo: *wiχtan
genitivo: *wiχtas, *wiχtis  
dativo: *wiχtai
accusativo: *wiχtan
vocativo: *wiχtan  
strumentale: *wiχtō
 
Plurale
 
nominativo: *wiχtō
genitivo: *wiχtōn
dativo: *wiχtamaz
accusativo: *wiχtō 
vocativo: *wiχtō
strumentale: *wiχtamiz
 
Discendenti (l'elenco non è esaustivo e non riporta tutte le varianti ortografiche): 
 
Gotico: ni waiht "nulla" 
Antico inglese: wiht "creatura, cosa";
     āwiht "qualcosa";
     nāwiht, nōwiht "niente"
  Medio inglese: wight "creatura, cosa, persona; mostro; 
     piccola quantità" (pl. wighten);  
     ought "qualcosa";
     naht, noht, noght, naght, naught "niente"
  Inglese moderno: wight "creatura, entità";
     nought
, naught "niente", not "non"
Antico olandese: wiht "creatura; bambino; ragazza"; 
      niewiht, nuwieht, niuweht "niente" 
  Medio olandese: wicht, wecht "creatura; bambino;
      ragazza"; 
      niwet, nit, niet "niente"  
   Olandese moderno: wicht "creatura; bambino; ragazza";
      niet "non", "no"
Antico sassone: wiht (n.) "creatura, cosa, persona"; 
     neowiht, niowiht, nieht "niente"  
   Medio basso tedesco: wicht, wucht (n.) "cosa"
Antico alto tedesco: wiht (m., n.) "creatura; cosa";
      niowiht "non"
  Medio alto tedesco: wicht "creatura; cosa"; 
     niuweht, nieweht, niht, nit "niente, nessuno; non"
  Tedesco moderno: Wicht "piccola creatura; nano";
      nicht "non"
 
A questo punto è chiarissima l'origine longobarda di guitto e di Guittone
 
Longobardo ricostruito: 
  GUICT "creatura, cosa"; "buono a nulla, vagabondo"; 
  NIGUECT, NEIGUECT, NAIGUECT "niente".
Il pronome indefinito ha lasciato importanti esiti in alcuni dialetti gallo-italici della Lombardia: milanese nigòtt "niente", brianzolo nigòtt, nagòtt "niente"; in bergamasco ho sentito vergòt, ergòt "qualcosa". 
 
Non ho dubbi sul fatto che il catalano guit provenga da una forma germanica, la stessa che troviamo nell'antico alto tedesco wiht. Si potrebbe pensare che l'origine sia nella lingua dei Franchi. Tuttavia si nota che non risulta un esito di questa radice passato al francese o al provenzale. Potrei sbagliarmi, ma se esistesse, i romanisti lo avrebbero già usato come fonte etimologica. Non credo che i Franchi avessero potere in Catalogna. Non può trattarsi di una parola del germanico orientale a causa del vocalismo. Resta un'unica soluzione: è provenuta dall'Italia. 
 
Conclusioni 
 
Con questo contributo ho fatto chiarezza su alcuni punti controversi. 
 
1) Ho dimostrato che l'italiano guitto non deriva dall'olandese guit
2) Ho dimostrato che l'italiano guitto non deriva dal catalano guit, essendo vero il contrario. 
3)  Ho enunciato l'origine longobarda dell'italiano guitto e dell'antroponimo Guittone.