lunedì 27 luglio 2015


LA TRENTUNESIMA ORA 

Sceneggiatura:
    Sandro Battisti
    Francesco Cortonesi
    Giovanni De Matteo
Basata su un soggetto di:    
    Sandro Battisti
    Giovanni De Matteo
    Marco Milani
Regia:
    Marco Cerilli
Interpreti:     
     Francesco Trani
     Giulia Tramentozzi
     Sandro Battisti
Durata: circa 30 min
Colore: colore 

Sinossi (da Hyperhouse):

Un matematico è prossimo alla morte, un cancro lo sta divorando così come un gusto per lo studio dei numeri primi sta divorando la sua creatività: egli è convinto che dietro ogni numero primo si celi un messaggio, un criptico esistere delle dottrine occulte che hanno attraversato le ere degli uomini. Feynman, il matematico, ha una storia con Ilaria, che è anche l’infermiera che segue i suoi frequenti soggiorni in ospedale; lei non sembra interessarsi ai numeri primi e non riesce a capire perché lui si ostini a rincorrere quelle bizzarre teorie, perdendoci il sonno e quel residuo di salute che gli è rimasta. Feynman è tormentato e fa fatica a discernere la realtà dai suoi pensieri, vede cose strane accadergli intorno che s’intrecciano, apparentemente, con i suoi deliri; tutto l’universo sembra parlargli e lui è ora certo di aver trovato la soluzione ai suoi supplizi cerebrali. Ma Feynman è davvero al sicuro quando ritiene la sua scoperta attinente soltanto al mondo sottile delle dottrine occulte e non, invece, passibile di applicazioni pratiche?

Recensioni:

Il primo cortometraggio connettivista (o mediometraggio, la definizione esatta appare un po' problematica). Un esperimento iniziato nel gennaio 2006, che ho seguito fin dall'inizio sul blog che descriveva ogni fase del suo sviluppo. I risultati si sono rivelati eccellenti, di estremo interesse. Segnalo la magistrale interpretazione di Sandro Battisti nel ruolo di Nephilim, l'agente alieno. Così scrivevo nel resoconto della Prima NextCon, svoltasi a Vimercate il 3 marzo 2007, sul blog splinderiano Supernova Express, purtroppo scomparso:

"Ho rivisto con estremo piacere La trentunesima ora, e mi sono immerso in complessi turbini di purissimi memi matematici. Intuizioni sui numeri primi mi hanno sfiorato come tentacoli, sfuggendomi sempre. Per un attimo mi è quasi parso di poter cogliere il segreto di Feynman, ma la musica delle quasar ancora una volta si è dissolta in me. Più consono alla mia natura, il personaggio di Nephilim rappresenta un'epifania dell'insondabile sempre viva in me."

Il blog di Paolo Marzola, oggi estinto, conteneva una notevole recensione del mediometraggio connettivista, ma purtroppo soltanto un breve frammento si è potuto salvare: il link al portale è attualmente soltanto una pagina piena zeppa di geroglifici informatici, e in tutto il Web non si trova null'altro. Riporto così quanto sono riuscito a recuperare dal mio vecchio blog Esilio a Mordor:

"La trentunesima ora è film di contenuti, poetico senza dubbio, con una storia che potrebbe vagamente ricordare Pi greco il teorema del delirio ma che in realtà cela al suo interno come scatole cinesi svariati argomenti, diciamo che può essere, come molte opere concettuali, analizzato e percepito secondo vari livelli di interpretazione. Personalmente, dopo averlo visto paio di volte per meglio coglierne tutti i riferimenti, sono riuscito ad apprezzare il lato indubbiamente nostalgico e onirico che circonda questa opera prima, l’andamento a spirale della storia che confonde finzione e realtà. I temi che la permeano sono importanti: il mistero della morte prima di tutto che si presenta in forma di visioni e allucinazioni da parte del protagonista, l’amore, il mistero dell’infinito, il dolore che ognuno di noi cela nei momenti di difficoltà o di malattia, per fluisce in un finale estremamente poetico e rivelatore."

Riporto anche la recensione trovata sul blog Neurone Proteso di Masque, a quanto pare ormai spento (l'ultimo post è del 2013):

"Il corto, mi ha ricordato un po’ PI di Darren Aronofsky (ma l’associazione, era abbastanza scontata, avendo entrambi dei matematici ossessionati e malati come protagonisti ;-) ).
Belle le inquadrature, ed anche i colori mi sono piaciuti molto, specie il contrasto fra i colori accesi delle scene nell’ostello ed il buio delle inquadrature esterne. Non so se l’effetto grana nelle inquadrature notturne fosse voluto, ad ogni modo, ci stava bene. :-)
È un film che, mentre lo guardi, al pari di PI, riesce a trasmetterti la paranoia e l’ossessione del protagonista. Capiterà di accorgersi di fare particolare attenzione ai numeri degli autobus che si vedono ed, in generale, a qualsiasi numero che appare sullo schermo. Verrà spontaneo cercare di trovare dei pattern nella grana delle inquadrature notturne. Gli eventi non seguono una cronologia lineare, quindi, è necessaria una seconda visione per cogliere certi particolari. Questo anche perché i dialoghi o, più comunemente, le didascalie (essendo un film quasi muto), sono molto ermetici. La trama sembra quasi funzionale all’atmosfera ed allo scopo dichiarato di coinvolgere lo spettatore nelle paranoie del protagonista."

Altre informazioni e link: 

Un tempo era possibile visualizzare il filmato in streaming, ed esiste tuttora una pagina di Fantascienza.com che ne reca testimonianza. Ho potuto constatare che tutte le pagine che lo permettevano sono sclerotizzate. In Youtube è presente il trailer: 



Per maggiori informazioni, per la storia del corto e per i dettagli sulla lavorazione si rimanda all'attuale blog di Sandro "Zoon" Battisti:


La sceneggiatura completa è consultabile seguendo questo link: 


Esiste tuttora una pagina con le informazioni necessarie per ordinare il cortometraggio. Non so se siano ancora valide, in ogni caso fornisco il link:   

venerdì 24 luglio 2015


MOEBIUS

Titolo originale: Moebius
Lingua originale: Spagnolo
Paese di produzione: Argentina
Anno: 1996
Durata: 88 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: Fantascienza, Thriller
Regia: Gustavo Mosquera
Sceneggiatura:
   Gustavo Mosquera,
   Pedro Cristiani,
   Gabriel Lifschitz,
   Arturo Oñatavia,
   Natalia Urruty,
   María Ángeles Mira
Soggetto: Armin Joseph Deutsch
Fotografia: Abel Peñalba
Montaggio:
   Alejandro Brodersohn,
   Pablo Georgelli
Musiche: Mariano Nuñez West
Scenografia: María Ángeles Mira
Interpreti e personaggi:
   Guillermo Angelelli: Daniel Pratt
   Roberto Carnaghi: Marcos Biasi
   Annabella Levy: Abril
   Jorge Petraglia: Mistein
   Miguel Ángel Paludi: Aguirre
   Fernando Llosa: Nazar
   Daniel Di Biase: Kenn
   Jean Pierre Reguerraz: Deckes
   Martín Adjemián: Canotti
   Felipe Méndez: Capo dei trasbordi
   Martín Pavlovsky: Conducente 101
   Fernando Cia: Figas
   Osvaldo Santoro: Vega
   Horacio Roca: Edmundo
   Nora Zinsly: Professoressa
   Sammy Lerner: Vecchietto dell'Archivio
   Rodolfo Franghi: Mussio
   Ricardo Merkin: Maloni
   Samuel Lankes: Guardia finale
   Aldo Niebur: Suonatore di bandoneon
   Alejandro Viola: Assistente di Biasi
   Javier García: Aiutante di Vega
   Jorge Noya: Chofer Unimog
   Luis Sturla: Impiegato Stazione Parque
   John Bolster: Ascensorista
   Jorge Vilela: Aiutante di Maloni
   Néstor Somma: Impiegato Stazione Bolivar
   Paolo Tamarasco: Alunno Città Universitaria
   Sergio Ríos: Passeggero Stazione Dock Sud
   Gabriel Maldonado: Passeggero Staz. Dock Sud

   Diego Ullua: Passeggero Stazione Dock Sud
   Ignacio Spiaggiari: Passeggero Stazione Dock Sud
   Julio López: Passeggero Stazione Dock Sud
   Fabi
an Kogan: Operaio Garage
   Héctor Fern
ández: Operaio Garage
   Gustavo Machado: Operaio Garage
   Alejandro Yasinski: Yuppie, passeggero dell'86
   Mabel Necol: Maestra, passeggero dell'86
   Adri
án Méndez: Ragazzino, passeggero dell'86
   Rodrigo Fern
ández: Marinaio, passeggero dell'86
   Viviana Necol: Ballerina, passeggero dell'86
   Alfredo Andino: Lettore, passeggero dell'86
   Cynthia Att: Donna incinta, passeggero dell'86
   Fernando Necol: Passeggero dell'86
   Silvia Italiano: Passeggero dell'86 
   Maria Teresa Abad: Impiegata, passeggero dell'86
   Paula del Real: Passeggero dell'86
   Edy Lerner: Passeggero dell'86
   Yamila Kar: Punk, passeggero dell'86
   Moisés Galacovsky: Passeggero dell'86
   Mirta Landini: Passeggero dell'86
   Pablo Messiez: Suicida   
   Natalia Nava: Segretaria
   Fabi
án Bril: Assassino
   Déborah Vidret: Prostituta
   Juan Carrasco: Yuppie col cellulare
   Paulina Montenegro: Scolara
   Manuel Kaselman: Cieco
   Claudio Pardini: Provinciale
   Sebastián Goñi: Ubriacone
   Guillermo El
ías: Operaio Autostrada
   Hector Bordoni: Operaio Autostrada
   Juan Jose Gatt: Operaio Autostrada
   Jose Luis Gratti: Operaio Autostrada
   Raul Colombo: Operaio Autostrada
   Cesar Carlino: Operaio Autostrada
   Claudia Brun: Impiegata Città Universitaria
   Pablo Farina: Voce nelle gallerie (voce)
   Karina Necol: Voce nelle piattaforme (voce)
Società di produzione: Universidad del Cine
Distribuzione: Fama Films
Budget:
250.000 $  
Premi:
   Festival de Cine de La Habana 1996
   Festival de Cine de Bangkok 1998
   Festival de Cine de Puerto Rico 1997
   Festival de Cine Latinoamericano de Huelva 1996
   Festival de Cine Hispano de Miami de 1997
   Viennale 1997

TRAMA:

Ambientato nella labirintica rete metropolitana di Buenos Aires, dove il convoglio UM-86 sparisce misteriosamente nel nulla, portando con sé una trentina di passeggeri. Siccome una simile dematerializzazione appare impossibile alle autorità, ecco che hanno inizio le ricerche per trovarne la vera causa. Daniel Pratt, un giovane topologo (ossia un matematico delle superfici) conduce le indagini partendo dai progetti dell'ultimo ampliamento della rete. Scopre così che il progettista era un suo professore dell'Università, Hugo Mistein, che cerca invano di contattare. Soltanto il fortuito aiuto di una ragazzina permette a Pratt di trovare i primi indizi proprio nella casa deserta del professore, dove saltano fuori una vecchia mappa e alcuni fogli di dati tecnici. La mappa della rete metropolitana si rivela intricatissima e più estesa del previsto, al punto che lo studioso giunge a formulare un'ipotesi surreale per spiegare la sparizione del treno: sarebbe stata proprio la complessità tipologica della rete a generare una discontinuità nella struttura stessa dello spaziotempo, in forma di nastro di Moebius. Il treno sarebbe quindi rimasto intrappolato in un'altra dimensione. Ovviamente le autorità non credono a questa teoria e la coprono di ridicolo, rimuovendo Pratt dal suo posto di investigatore. Guardando un otto volante nel Parque de la Ciudad, il topologo ha un'intuizione e decide di ritornare nel sottosuolo, sicuro che il convoglio scomparso riapparirà presto. Comincia così il suo vagabondaggio attraverso tunnel spettrali e passaggi usati per la manutenzione, quando a un certo punto un treno per poco non lo investe. Scampato all'incidente, prosegue per l'area di manutenzione fino ad arrivare in una stazione chiamata Borges, dove arriva proprio il tremo fantasma UM-86. Stupefatto, Pratt sale sul treno e vi trova i passeggeri in uno stato di trance catatonico, privi di reazioni e con gli occhi fissi nel vuoto. Quando raggiunge la cabina di guida, il matematico delle superfici scopre che al suo interno c'è il professor Mistein. I due si inoltrano in inquietanti discussioni filosofiche, che confermano la validità della teoria del nastro di Moebius. Il giorno seguente, il direttore della Metropolitana di Buenos Aires è convocato nella stazione: il convoglio scomparso è stato ritrovato, completamente vuoto. Nessuna traccia dei passeggeri, a parte il taccuino di Pratt in cui è descritta in dettaglio la sua teoria. Il direttore non fa in tempo a capacitarsi dell'accaduto, quando riceve una chiamata che gli comunica la scomparsa di un altro treno. 

RECENSIONE:

Visto nel 2011 al Cineforum Fantafilm, Moebius mi ha lasciato un profondo senso di inquietudine e di claustrofobia instillata a livello subliminale. La sua visione ha le caratteristiche di una vera e propria discesa agli Inferi, rende l'idea di come furono i viaggi nell'Oltretomba compiuti da Ulisse e da Zamolxis. Il film argentino è stato tratto dal racconto Una metropolitana chiamata Moebius (A Subway Named Möbius), di Armin Joseph Deutsch (1950) - che tuttavia è ambientato a Boston. Scegliendo di ambientare il film a Buenos Aires, Mosquera è stato mosso da un preciso intento politico, che apporta una trasformazione sostanziale alla storia. La sparizione del convoglio nella rete metropolitana della capitale sudamericana rappresenta l'orrido destino dei desaparecidos durante la dittatura. Migliaia di persone di cui non si sono più trovate le tracce: svanite nel nulla. Torturati in modi particolarmente aberranti, alcuni furono soffocati nello sterco, ad altri furono folgorati i genitali e gli orifizi con picanas elettriche. Perché nessuno ritrovasse i corpi, molti prigionieri venivano gettati in stato di stordimento nelle acque del Rio de la Plata o nell'Oceano, dove gli squali ingurgitavano i resti. Erano i famosi vuelos de la muerte. Quando queste cose avvenivano, nel mondo esterno nessuno ne aveva la benché minima idea. Il matematico Daniel Pratt, il cui nome è un chiaro riferimento a Hugo Pratt, è un personaggio atipico, che ricorda più l'investigatore di un noir che il protagonista di un film di fantascienza. Le sue indagini lo portano a un punto di non ritorno in una stazione non a caso intitolata a Jorge Luis Borges. Il fato a cui va incontro è terribile, come quello di Orfeo: una volta che si compie la Catabasi, si appartiene per sempre all'Ade.

Riporto i link a due file pdf di grande interesse su questo capolavoro: 
 
 
CURIOSITÀ:
 
I nomi delle stazioni della metropolitana sono stati cambiati in modo suggestivo. Questa tabella fornisce la corrispondenza tra le stazioni fantomatiche e quelle in cui sono state effettuate le riprese:

Nome nel film                   Location reale
Borges                              Catedral
Ciudad Universitaria        Independencia
Dock Sud                         San José vieja
Parque 1                           Independencia
Parque 2                           San José vieja
Parque 3                           San José
Sur                                   Avenida La Plata
 
INCIPIT:

"La metropolitana è senza dubbio un simbolo dei nostri tempi. Un labirinto dove in silenzio incrociamo i nostri simili senza sapere chi sono e dove vanno. Centinaia di banchine su cui approfittiamo per fare un bilancio, rivedere una situazione e cercare di raggiungere, più che un treno, un cambiamento di vita. È uno strano gioco, ci caliamo in tunnel interminabili, senza renderci conto che ad ogni cambio di treno stiamo cambiando definitivamente il nostro destino." 
 
CITAZIONI: 
 
Dialogo fra Daniel Pratt e il suo professore nella metropolitana che è entrata nel loop:

Dott. Mistein: "Le è costato raggiungermi, vero?"
Pratt: "Dottor Mistein!"
Dott. Mistein: "Calma, lo so! So che ha tante domande da pormi."
Pratt: "Viaggiamo a una velocità impossibile!"
Dott. Mistein: "Un semplice semplice scambio di binari. Il treno incrocia un nodo dopo una curva. La combinazione giusta al momento giusto per applicare le proprietà del nastro di Moebius."
Pratt: "Ha inventato una macchina perfetta..."
Dott. Mistein: "Non bestemmi, figliolo! L'uomo ha inventato un'infinità di macchine, ma dimentica che egli stesso è una macchina molto più complicata di tutte quelle che ha inventato.
Pratt: "Ora non ci saranno limiti..."
Dott. Mistein: "Non ci sono mai stati. L'uomo non conosce i suoi limiti, né le sue possibilità. Non sa nemmeno fino a che punto non si conosce... Ma certo! Siamo talmente occupati a cercare valori esteriori, che non ci rendiamo conto di ciò che realmente ha valore."
Pratt: "Ma questo è importante! Basterebbe dirlo perché tutto cambi!"
Dott. Mistein: "Però lei lo ha detto! Lo ha spiegato perfettamente! Oggi sono passato per la stazione Parque e ho potuto osservarla attentamente mentre era lì che tentava di spiegare la teoria di Moebius. Forse qualcuno le ha creduto!" 
Pratt: "No. Però a le crederebbero."
Dott. Mistein: "No. Io avrei usato le sue stesse parole. Avrei detto le stesse cose. Il fatto è che viviamo in un mondo dove nessuno più ascolta, mio caro Pratt."
Pratt: "Cosa pensa di fare?"
Dott. Mistein: "Niente."
Pratt: "Come niente?"
Dott. Mistein: "Non si preoccupi Pratt. Arriverà il momento."
Pratt: "E loro non capiscono cosa sta succedendo?"
Dott. Mistein: "Loro... non potranno mai svegliarsi prima di essersi resi conto che si sono addormentati..."  
Dott. Mistein: "Di cosa ha paura, Pratt?"
Pratt: "Le vertigini"
Dott. Mistein: "È normale. Nessuno può trovarsi di fronte all'infinito senza provare le vertigini. Nessuno può sperimentarlo senza sentirsi profondamente disorientato."
Dott. Mistein: "Se noi ci stiamo muovendo alla velocità del pensiero... Come si può essere affascinati da questa vita, privata di attrattive, di ingenuità e di spontaneità? Come non preferire di restare qui nell'oscurità, se là fuori un mare di sordità ci sta trascinando ad essere irrimediabilmente disgraziati?"
Pratt: "Tutto questo non deve andare perduto!"
Dott. Mistein: "Né gli uomini né il tempo spariscono senza lasciare traccia. Restano impressi nelle nostre anime." 

sabato 18 luglio 2015


BUBBA HO-TEP - IL RE È QUI

Titolo originale:  Bubba Ho-tep
Paese di produzione:  Stati Uniti
Anno:  2002
Durata:  92 min
Colore:  colore
Audio:  sonoro
Genere:  orrore, commedia
Regia:  Don Coscarelli
Soggetto:  Joe R. Lansdale (racconto)
Sceneggiatura:  Don Coscarelli
Produttore:  Dac Coscarelli, Don Coscarelli
Produttore esecutivo:  Dac Coscarelli
Casa di produzione:  MGM
Distribuzione (Italia):  Dall'Angelo Pictures
Fotografia:  Adam Janeiro
Montaggio:  Scott J. Gill, Donald Milne
Effetti speciali:
   Robert Kurtzman (make-up),
   David Hartman (effetti visivi)
Musiche:  Brian Tyler
Scenografia: Daniel Vecchione
Costumi:  Shelley Kay
Trucco:  Melanie A. Kay
Interpreti e personaggi:
   Bruce Campbell: Elvis Presley / Sebastian Haff
   Ossie Davis: John "Jack" Fitzgerald Kennedy
   Ella Joyce: l'infermiera masturbatrice
   Bob Ivy: Bubba Ho-Tep
   Heidi Marnhout: Callie, figlia di Bull
Doppiatori italiani:
   Sergio Di Stefano: Elvis Presley / Sebastian Haff
   Germano Longo: John "Jack" Fitzgerald Kennedy
   Alessandra Korompay: l'infermiera masturbatrice
Premi:
   Bram Stoker Awards
   Fant-Asia Film Festival
   U.S. Comedy Arts Festival

TRAMA E RECENSIONE:

Un vero e proprio capolavoro, visto nel 2010 al Cineforum Fantafilm del carissimo amico Andrea Jarok.

Elvis Presley non è morto: si trova in un gerontocomio in Texas, dove nessuno conosce la sua vera identità. Tutti credono che si chiami Sebastian Haff e che sia solo un finto Elvis. I retroscena sono questi: Sebastian Haff ed Elvis Presley si sono scambiati le vite con un patto, che avrebbero potuto rescindere in qualsiasi momento. Tuttavia non appena stipulato questo patto, Sebastian Haff è morto all'improvviso, dando origine alla notizia della morte di Elvis, che quindi è stato creduto un impersonatore. Il patto scritto è andato distrutto in un incendio. Elvis, stanco e malato, costretto su una carrozzina, trascorre le sue giornate nell'ospizio assieme a Jack, un afroamericano che si crede JFK scampato all'attentato e trasformato in un uomo di colore. Un'infermiera masturbatrice si prende cura dei genitali del Re in incognito: con la scusa di pulire la corona del glande dallo smegma, sfrega e accarezza il fallo fino a provocare l'erezione e a far tracimare lo sperma, che raccoglie in un fazzolettino. Ovviamente le sequenze del film mostrano solo il volto estasiato di Elvis-Sebastian, ma quanto accade è di un'evidenza sconcertante. All'improvviso qualcosa in questa vita monotona cambia: tutto ha inizio con un'invasione di ripugnanti scarabei stercorari. Quindi diversi anziani ospiti della struttura muoiono in circostanze misteriose. Sui muri delle latrine compaiono geroglifici egizi, che una volta tradotti si rivelano oscenità. In particolare una frase dice "CLEOPATRA FA LA PORCA". Da una serie di ricerce, Elvis e il suo amico nero vengono a scoprire che l'artefice di tutto questo è una mummia rediviva, Bubba Ho-tep, che trasportata in un museo americano si è risvegliata in seguito a un incidente stradale, vagando alla ricerca di anime da divorare. Traendo uno scarso nutrimento dalle anime deperite di poveri anziani, per continuare la sua terrificante condizione di pseudo-vita, il mostro è costretto ad uccidere in continuazione. La tensione cresce. A un certo punto, il Re in sedia a rotelle si accorge che l'infermiera masturbatrice lo vuole privare della volontà e farlo desistere dalla lotta, così quando lei gli si avvicina una volta di più per manipolarlo e fargli uscire lo sperma, lui con fermezza la respinge. Tutto procede verso l'epilogo. Segue un combattimento spettacolare quanto grottesco, con Elvis che riesce ad aver ragione di Bubba Ho-tep urlandogli: "SUCCHIA L'UCCELLO DI ANUBI!" 

Ricordo ancora alcune osservazioni di Andrea Jarok sul film, che è stato realizzato con una spesa di un milione di dollari e che non ha potuto usufruire di nessuna musica di Elvis Presley perché il pagamento dei diritti di autore sarebbe stato incompatibile con il magro budget. Ancor più interessante è stata la discussione sull'origine del nome Bubba Ho-tep: Andrea ci ha parlato del suffisso -hotep che ricorre nel nome di molti Faraoni e che è stato usato anche da Lovecraft per dare origine al nome Nyarlathotep. In realtà non si tratta di un vero e proprio suffisso, ma di una forma verbale ḥtp(.w) il cui significato è "egli è soddisfatto", "egli è in pace", che i Greci hanno adattato alla fonetica della loro lingua trascrivendola come -ophis: il gruppo consonantico -tp- dell'egiziano antico è stato reso con -ph- /ph/, e un'uscita sigmatica -is è stata aggiunta. 

Certo, stando ad alcuni buontemponi, gli argomenti da me trattati avrebbero il potere di far inflaccidire l'uccello persino a Rocco, ma una cosa è sicura: non hanno alcun effetto sull'uccello di Anubi, che è sempre e comunque durissimo - e auguro a tutti i miei detrattori di attaccarsi presto a tale turgida asta. 😀

MODERAZIONE DEI COMMENTI

Chiedo ai pochi utenti interessati agli argomenti di questo blog di portare la necessaria pazienza: d'ora in poi i commenti saranno moderati. Tutto ciò non comporterà che pochi istanti di disagio all'internauta serio che intenderà apporre in queste pagine un suo intervento, che poi risulterà visibile non appena l'avrò approvato. Il mio augurio è che questo piccolo ostacolo tecnico alla comunicazione non dissuada i lettori davvero interessati dall'intervenire, e soprattutto che non sia inteso come una forma di censura: non avrei mai preso una simile decisione se non vi fossi stato spinto dal corso degli eventi.   

Questi sono gli inconvenienti a cui espone il vegetare nella Blogosfera, spazio ormai sempre più marginale e simile alla Terra Desolata. Pubblicare propri contenuti è da tempo un affare in perdita, ma nonostante ciò non demordo. Oltre a reperire le informazioni è necessario vagliarle, assemblarle, formattarle e categorizzarle, e tutto per un ritorno pressoché nullo. Poi bisogna anche tenere in conto le necessarie operazioni di manutenzione straordinaria, proprio come il proprietario di un'auto si impegna a pulire il suo veicolo dopo che uno stormo di uccelli ha depositato sul parabrezza una pioggia di feci. Tutto ciò non mi scoraggia, e continuerò a farlo finché avrò respiro.

In quest'epoca di estrema decadenza dei diari online, alcuni blogger hanno scelto di diventare vassalli dei media mainstream, perdendo di fatto ogni loro autonomia. Non pochi tra questi infelici, gravati dal vincolo vassallatico contratto, si sono visti censurare i loro post. A una simile condizione di servitù è preferibile la vita dei lupi! Continuo dunque il mio vagabondaggio nelle tenebrose contrade di Mordor, non invidiando di certo la condizione servile di altri che si reputano più fortunati. 

martedì 14 luglio 2015

IL RIDICOLO FETICISMO DEGLI INDOVINELLI

I Poteri del Mondo utilizzano diversivi di ogni genere per distrarre le masse acefale dalla catastrofe incombente e dalla percezione dell'estrema decadenza che pervade ogni nazione del pianeta. Non molto tempo fa i quotidiani online hanno diffuso come di comune accordo un articolo che proponeva un ridicolo indovinello, che a loro detta sarebbe stato proposto a Singapore come test per gli studenti delle scuole superiori (14-16 anni). Ne riportiamo il testo (da Corriere.it):


Il compleanno di Cheryl

Albert e Bernard hanno appena conosciuto Cheryl, e vogliono sapere quando è il suo compleanno. Cheryl dà loro una lista di 10 possibili date:

15 maggio, 16 maggio, 19 maggio
17 giugno, 18 giugno
14 luglio, 16 luglio
14 agosto, 15 agosto, 17 agosto

A questo punto, Cheryl rivela ad Albert solo il mese e a Bernard solo il giorno del suo compleanno. Dopodiché i due parlano tra loro.

Albert: «Non so quando sia il compleanno di Cheryl. Ma so che non lo sa neanche Bernard».
Bernard: «All’inizio non sapevo quando fosse il compleanno di Cheryl. Ma adesso lo so».
Albert: «Ora so anch’io quando è il suo compleanno».

Dunque: quando è il compleanno di Cheryl?

Per trovare la soluzione, bisogna cominciare col comprendere che il problema non è sottodeterminato, ovvero che contiene tutti i dati necessari per arrivare alla soluzione. Ci sono dati che sono mascherati da frasi in apparenza banali, che hanno un potere pari a quello dei dati numerici.

1) Albert non sa quando è il compleanno di Cheryl. Sa però per certo che nemmeno Bernard lo sa.
Questo significa che il compleanno di Cheryl non può cadere né in maggio né in giugno.
Infatti se così fosse, Bernard, che conosce solo il giorno, avrebbe una probabilità di conoscere la data: se Cheryl gli avesse detto 18 o 19, il problema sarebbe risolto all'istante, e Albert non potrebbe affermare con certezza che Bernard non sa la data.

2) Bernard capisce che il compleanno di Cheryl non può essere né di maggio né di giugno. Può quindi cadere soltanto in luglio o in agosto.
Bernard ritiene le informazioni ottenute sufficienti a capire la data. Quindi non è possibile che sia il giorno 14 (ricorre sia in luglio che in agosto e il problema non sarebbe risolvibile).

3) Albert a questo punto afferma di sapere per certo quando è il compleanno di Cheryl. Non può essere di agosto, perché in quel mese ci sono due possibilità e Albert non potrebbe affermare di aver risolto l'indovinello. Così la data è sicuramente il 16 luglio.

Dati mascherati da frasettine in apparenza banali.
a) La frase "io non so" significa che ci sono più possibilità e che non si può decidere con i soli dati a disposizione.
b) La frase "io so" significa che esiste un solo numero possibile, che permette di decidere. 

Secondo non pochi intellettuali questi giochini sarebbero efficaci applicazioni della logica, in grado di educare la gente al suo uso. Così afferma ad esempio Odifreddi in un suo intervento: "Ci siamo disabituati alla logica, la scuola non insegna metodo".   

Notevoli anche le considerazioni dell'amico M. (si dice il peccato ma è bene rendere poco riconoscibile il nominativo del peccatore):

"Non si capisce dove sia lo scandalo di porre a dei sedicenni un banale quesito di logica, che pensandoci bene si risolve in due minuti. Lo scandalo secondo me sta nel pensare che questo tipo di ragionamento sia riservato ai cervelloni."

Adesso veniamo al dunque, senza fare sconti a nessuno.

Le parole del professor Odifreddi stupiscono davvero per la loro lontananza dalla realtà delle cose. Certo egli ha ragione da vendere nell'affermare che la scuola non insegna la logica e che per intere generazioni la logica è un libro chiuso. Tuttavia sbaglia in modo grossolano nell'usare la frase "ci siamo disabituati alla logica". Sarebbe infatti necessario postulare che un tempo eravamo abituati alla logica, e poi abbiamo perso dimestichezza. Tuttavia un simile tempo aureo di dimestichezza con la logica, in cui i bambinelli macinavano indovinelli, non è mai esistito - con buona pace di Odifreddi.
Se lasciamo per un attimo da parte la sicumera dei sentenziatori fanatici dei giochini e passiamo ai dati di fatto, ci accorgiamo anzi che le capacità di usare la logica agli inizi del XX secolo erano pressoché nulle per milioni di persone - proprio come adesso, anzi, in modo ancor più drammatico. In Ucraina e in Russia i contadini non sapevano risolvere un indovinello banale come questo:

"In Germania non ci sono cammelli. Non ce n'è neanche uno. Dresda si trova in Germania. Quanti cammelli ci sono a Dresda?"

Ridicola è anche la fede nel potere salvifico della scuola, che dovrebbe insegnare il metodo. Un pietoso condizionale per un'ingenua utopia. Odifreddi non ha ancora capito che la scuola è una fucina di demenza?

Il signor M. sembra confondere la logica con la Settimana Enigmistica. A quanto pare egli ha un culto del rompicapo, del giochino, della masturbazione mentale. Se vogliamo ben vedere, lo scienziato, il cosiddetto "cervellone" non è colui che risolve all'istante il famoso quesito con la Susi. Tutti questi gingilli sono studiati in modo accurato perché siano risolvibili, e si fondano sempre sugli stessi princìpi: dare l'impressione di avere meno dati di quelli che servono, mascherare i dati in forma di frasettine su cui si tende a sorvolare, essere enunciati appositamente in modo da provocare confusione.

Non mi stupirei di scoprire che la massima parte dei cultori degli indovinelli ha profonde carenze nella logica aristotelica elementare. Potrebbero benissimo non saper distinguere un sillogismo da un paralogismo ed essere persino incapaci di negare correttamente una proposizione semplice come "tutti i cavalli sono neri" - dato che fanno uso di una logica deviata e feticista, applicabile solo a casi estremamente particolari, simile a un bonsai che non può essere confrontato con una sequoia. Siamo sempre alle solite: quella che è in auge è la perversa degenerazione che consiste nell'apprendere procedimenti senza capirli. I cosiddetti bambini prodigio, di cui l'iniqua terra d'America è tanto sovrabbondante, non sono in realtà tanti piccoli Einstein: sono innaturali come i piedi rattrappiti delle donne della Cina imperiale. Chi di loro ha mai prodotto anche un solo pensiero di valore?   

La Scienza non è un settimanale di quiz e di rebus. Immaginiamo adesso di mettere gli enigmisti davanti a un problema enunciato in una forma del tutto nuova, senza che sappiano in partenza se ammette una soluzione. Immaginiamo di farli penare per giorni solo perché i più intelligenti tra loro arrivino a concludere che il problema è davvero sottodeterminato, che non può essere risolto. Immaginiamo di introdurli in un universo di atroce vastità, in cui non bastano tre o quattro procedimenti apprenditicci per arrivare a dimostrare qualcosa. Forse la loro prosopopea e la loro spocchia verrebbero meno all'istante.  

LA PRETESA ASSONANZA TRA SOCIUS E SOSIA IN PLAUTO: UN PROBLEMA INESISTENTE

Veniamo ora a un'autentica "chicca", la punta di diamante delle "argomentazioni" di coloro che in questa sonnolenta Italia si ostinano a ritenere che la pronuncia del latino in uso nelle scuole fosse quella di Cesare e di Cicerone - e che addirittura la proiettano nel passato più remoto, attribuendola persino a Romolo e Remo.

Essi partono dall'opera di Plauto, isolano un singolo brano e lo presentano come prova definitiva e inconfutabile delle loro inquiete quanto vane elucubrazioni. Se poi uno li contesta, ecco che lo accusano di essere "disonesto". Queste sono le citazioni dei nostri avversari: 

"C'è invece una testimonianza contraria alla restituta in Plauto e consiste in un gioco di parole, tra "socia" e "sosia" (Amphitruo 218), che sarebbe stato impossibile se davvero si fosse detto "sokia"."

"Errata Corrige post precedente
1) non Socia ma socium
Questo è il brano dell'Amphitrio:
italiano
MERCURIO: Dicevi di essere "Sosia", (servo) di Anfitrione.
SOSIA: Mi ero sbagliato: volevo dire di essere "socio" di Anfitrione.
Latino
MERC.: Amphitruonis te esse aiebas Sosiam.
SOS.: Peccaveram, nam Amphitruonis socium memet esse volui dicere"

Fatto questo, arrivano a ventilare l'ipotesi di un complotto. Così affermano che i fautori della pronuncia restituta del latino, da loro assimilati a una setta occultista, avrebbero usato la loro supposta influenza per tenere nascosti i fatidici versi di Plauto:

"Spero che tu sappia com'è la 'scienza' linguistica, che quel brano è stato proposto più volte per essere emendato, mi riferisco al famoso brano “scomodo” di Plauto, dove non era concepibile che 'Sosia' potesse essere confuso con 'socium', il 'soKium' della restituta, ma nessuna correzione, grazie al cielo, è stata ritenuta del tutto convincente nel 1800 (chiedimi i riferimenti che te li do) e si è preferito nel 1900 passare il brano sotto silenzio, sperando che tutti lo dimenticassero. Invece, stranamente, in silenzio, a differenza di tanti altri persi e corretti, il brano si è conservato."

Certo, certo, ci sono in ballo i terribili Rettiliani, i Rotschild e gli Illuminati. E c'è anche la marmotta che confeziona la cioccolata!  


Motivo di questo complotto: i fautori della restituta tremerebbero di terrore alla sola menzione del gioco di parole tra socium e Sosiam, presentato come evidenza della pronuncia ecclesiastica /'sočus/ vigente dalla notte dei tempi. Magari i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno potrebbero sottoporre il caso a Cacioppo e vedersi dedicare qualche minuto in Kazzenger.

Sgombriamo ora il campo da questi vaniloqui cospirazionisti.

Già il Lindsay liquidava questo ridicolo argomento in modo molto efficace. Riporto la traduzione in italiano delle sue considerazioni, affinché tutti gli eventuali lettori le comprendano (The Latin Language, 1894, § 94, pag. 87-88):

« Sul fatto che c e g rimanessero dure davanti ad e, i e consonante (quando non seguiva una vocale), fino al sesto e al settimo secolo d.C., abbiamo una sovrabbondanza di prove. Per il periodo precedente, possiamo notare il fatto che in umbro, dove c (k) davanti a una vocale stretta* divenne una sibilante ed esprimeva il suono con un segno particolare nell'alfabeto latino, la lettera latina c non fu usata per questo suono nelle iscrizioni (dal tempo dei Gracchi) scritte in caratteri latini, ma usava una s modificata, per la precisione una s con un segno simile a un accento grave su di essa, es. desˋen (Lat. decem), sˋesna (Lat. cena). Che Plauto (che tra l'altro era umbro) faccia un gioco di parole su Sosia e socius, non prova nulla (Amph. 383) :

ÁMPHITRUONIS TE ÉSSE AIEBAS SO/SIAM.- PECCÁUERAM :
NAM 'ÁMPHITRUONIS SÓCIUM' DUDUM ME ÉSSE VOLUI DICERE.
 

Egli fa un gioco su arcem ed arcam in Bacch. 943 :

ATQUE HIC EQUOS NON IN ARCEM VERUM IN ARCAM FACIET IMPETUM. » 

*In inglese sono chiamate "narrow vowels" le vocali anteriori.

Le parole arcem /'arkem/ e arcam /'arkam/ sono senza dubbio state ideate come assonanti, avendo radici omofone /ark-/ e desinenze entrambe nasalizzate, seppur con vocali diverse.

Sul fatto stesso che socium e Sosiam fossero stati ritenuti da Plauto come una reale assonanza, mi permetto invece di nutrire qualche dubbio. A prescindere dalla differenza di consonante (che sussisterebbe anche ammettendo una palatalizzazione), la finale -am non poteva somigliare molto a -um. Le vocali atone di arcem e arcam non mostrano la drammatica distanza di una -u- da una -a-, che si trovano ai capi opposti di uno spettro sonoro. Ciò che Plauto intendeva mettere in scena non era un'assonanza, ma un fraintendimento. Ha attribuito alla macchietta Sosia l'idea che Mercurio avesse i tappi di cerume nelle orecchie. 

Né si può ammettere il cosiddetto "argomento di Stalin", così chiamato dal fatto che il dittatore georgiano, parlando male il russo, tendeva a sorvolare sulle desinenze realizzandole in maniera inistinta. Il parlante latino doveva essere per necessità ben attento alle desinenze, specie in epoca antica, essendo esse determinanti nell'attribuire senso compiuto alle frasi, molto più di quanto non fosse la posizione delle parole nella frase. I moderni non sono abituati a tutto ciò e si lasciano spesso ingannare da una frase come "philosophum non facit barba".

Se anche socium e Sosiam fossero stati concepiti come assonanti nella radice, si potrebbe ammettere che Plauto abbia fatto uso a fini scenici di una pronuncia alterata, che presentava per l'appunto il suono /š/ davanti a vocale anteriore. Questo non dimostrerebbe nulla a proposito della pronuncia ecclesiastica, che è del tutto diversa e ha un'affricata /č/ che difficilmente potrebbe essere confusa con una s. Per la natura del suono, una parola con /č/ non sfuggirebbe a un orecchio anche poco attento. 

In altre parole, se anche Plauto avesse inteso usare tratti fonetici della sua nativa lingua umbra, riproducendo socius /'sokjus, 'sokius/ come /'sošjus/, la cosa non avrebbe alcun valore probante. L'intera questione non avrebbe niente a che fare con gli sviluppi del latino nelle lingue romanze. 

Le pronunce guittesche sono sempre state comuni: l'attore per necessità tende a deformare il linguaggio oltre ad ogni limite, creando addirittura propri dialetti che non sono necessariamente parlati da altri. In quest'epoca di oscenità e di degenerazione, i guitti del Circo Zelig e di Striscia la Notizia ci hanno abituati a ogni sorta di alterazione della pronuncia al fine di destare ilarità negli spettatori. C'era uno di questi comici che usava pronunciare la finale come , dando quasi l'impressione di esibirsi in incauti pseudo-francesismi - così se ne usciva sempre con l'esclamazione "un po' di umiltè". Una volta mi capitò di imbattermi in un altro comico, che cantava "la solitüdine" e favoleggiava di una fantomatica partita Seregno-Pitügno (Seregno è la mia città natale, mentre Pitugno è semplice parto di fantasia). Un altro ancora aveva tentato un esperimento bislacco, alterando l'italiano come se la velare -c- del latino non si fosse mai palatalizzata, e così diceva "i miei amiki". Tuttavia non era arrivato a fare altrettanto con -g- e diceva regolarmente "gente", etc. Ricordo anche uno sketch di Gigi e Andrea, in cui quest'ultimo, travestito da anziana signora, sostituiva a ogni /w/ una /v/, dicendo "una svora", "la svocera", e la memoria non m'inganna addirittura "Edvardo". Cosa dedurrebbero ipotetici studiosi di un lontano futuro analizzando simili documenti? Ammettendo che le testimonianze di questo nulla mediatico possano durare tanto, potrebbero essere portati a trarne, specie in mancanza di informazioni, deduzioni erronee.

Conclusioni

Il solo pensiero di espungere o di emendare un brano come quello dell'Amphitruo è un'assurdità. Bisogna partire dai dati di fatto e capire il perché di ciò che si osserva, non piegare la realtà dei fatti alle proprie idee preconcette, come fanno i nostri avversari. In questo post ho preso il dato di fatto e ne ho fornito una spiegazione in linea con quanto sappiamo della fonetica della lingua latina e dei suoi mutamenti nel corso dei secoli. Se poi altri non hanno fiducia nella linguistica e preferiscono votarsi alla pseudoscienza, non farò passare i loro sproloqui: sarò sempre uno strenuo combattente determinato a contrastarli.

venerdì 10 luglio 2015

PROVE ESTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: NEOGRECO SPITI 'CASA'

In greco moderno (neogreco) la parola per dire casa è σπίτι /'spiti/. Questo vocabolo differisce drammaticamente dal greco antico οἶκος /'oikos/, che è andato perduto nell'uso popolare. Qual è l'etimologia di questo singolare σπίτι? Semplice: è il latino hospitium "ospitalità; alloggio"

Come si può vedere, il vocabolo latino, che suonava /(h)o'spitju(m)/ in epoca classica (l'aspirazione iniziale doveva essere tenue e molti parlanti non la realizzavano), è passato in greco prima dell'inizio dell'assibilazione e ha conservato l'occlusiva dentale integra, che si ritrova ancora ai nostri giorni in /'spiti/.

Insistiamo sulla natura volgare del prestito, che non è stato preso da una forma letteraria, ma dalla viva voce. È del tutto evidente che se per assurdo la parola avesse avuto in epoca antica la pronuncia /o'spitsjum/ del latino ecclesiastico, questo suono /ts/ sarebbe stato conservato e trascritto in greco in un modo immediatamente riconoscibile, ad esempio con il digramma τζ: così avremmo avuto *σπίτζι, il che non è.

PROVE ESTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CAESAR IN GERMANICO COMUNE

Il cognomen Caesar passò direttamente nel germanico comune come *kaisaraz (-az è una semplice desinenza del nominativo singolare maschile dei nomi col tema in -a-), donde ne discende tra l'altro il tedesco moderno Kaiser "Imperatore". Possiamo ipotizzare con ottime basi che il prestito avvenne durante la vita dello stesso Caio Giulio Cesare, che attraversò il Reno e si inoltrò nella Germania. Le popolazioni che ebbero a che fare con lui ne furono molto impressionate e il suo nome conobbe grande fortuna, fino ad essere sulla bocca di tutti i Germani in breve tempo.

Attestazioni in lingue germaniche antiche di discendenti di *kaisar- "Imperatore":

Gotico di Wulfila: Kaisar (IV sec.)
Antico inglese: Cāsere (Beda, VIII sec.)
Antico alto tedesco: Keisar, Keisur, Cheisur, etc.
    
(IX sec.)
Antico sassone: Kēsar, Kēsur (IX sec.)
Norreno: Keisari (saghe islandesi, XIII sec.)

È evidente che queste forme continuano tutte in modo assolutamente regolare la radice del proto-germanico *kaisaraz, l'unica cosa singolare è il tema in nasale in norreno. L'aspetto fonetico del prestito mostra la struttura fonetica che il cognomen aveva in latino classico. Il mutamento di -ai- in -a:- in anglosassone è del tutto regolare (cfr. *stainaz > sta:n "pietra"), come il mutamento di -ai- in -ei- in antico alto tedesco e in norreno, come anche la monottongazione di -ai- in -e:- in antico sassone.

Peccano gravemente contro il metodo scientifico coloro che ritengono il tedesco Kaiser come una forma recente e quindi non comparabile con il nome di Cesare. Costoro hanno le seguenti colpe, che espongo al pubblico ludibrio:

1) Essi non soltanto ignorano le attestazioni delle lingue germaniche antiche, ma si rifiutano di studiare qualsiasi concetto abbia anche lontanamente a che fare con la filologia germanica;
2) Essi credono che il suono delle parole non possa subire mutamenti di sorta col passar dei secoli e negano l'esistenza di leggi fonetiche;
3) Quando fa loro comodo, essi dichiarano una parola tedesca "recente", senza ovviamente porsi il problema delle sue origini, come se fosse scaturita dal nulla;
4) Essi ignorano le fonti e non vogliono fare ricerche per appurare se qualcosa da loro asserito è o meno vero: l'opinione che è loro più utile diventa dogma; 
5) Essi traggono conclusioni generali da fatti particolari.

Questa è la procedura dialettica usata:

a) Postulato fallace: Kaiser è forma recente e non analizzabile (cosa non vera);
b) Primo passo dal postulato fallace: Kaiser non può essere utilizzato per fare deduzioni sul suono di Caesar in epoca classica;
c) Secondo passo dal postulato fallace: Caesar non poteva quindi suonare /'kaesar/ (errore logico denominato "non sequitur"). 

Sarebbe anche ora che tutti gli internauti adottassero una strategia semplicissima. Anziché uscirsene con affermazioni arbitrarie dettate dalla loro prosopopea, farebbero meglio a fare qualche semplice ed intelligente ricerca incrociata nel Web per controllare il valore delle proprie affermazioni - e se questo non basta cerchino su libri cartacei.

La scuola italiana è stata fondata su precisi investimenti ideologici. L'avversione per le indagini sulla vera pronuncia del latino classico nasce essenzialmente dal terrore che leggendo correttamente CAESAR si capisca che il suo suono è quasi quello di KAISER - essendo chiaramente i due nomi la stessa identica cosa.

giovedì 9 luglio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: SVILUPPI DI -G- INTERVOCALICA DAVANTI A -I- IN ITALIANO

Così scrive il Grandgent nel suo Introduzione allo studio del latino volgare:

259. G' verso il quarto secolo diventò prepalatale e si allargò in y, così nel latino popolare come nell'ecclesiastico: Gerapolis per Hierapolis, Per., 61, 3; "calcostegis non calcosteis", App. Pr.: CON.GI.GI = conjugi, S., 349; geinna = jejuna, Stolz, 275, Neumann, 5, Lat. Spr., 473; GENVARIVS, S., 239; GENARIVS, Pirson, 75; agebat = aiebat, Ienubam = Genavam, ingens = iniens, Bon. 173; agebat = aiebat, agere = aiere, Sepulcri, 205; Gepte, Tragani, Troge, Haag, 33; iesta, D'Arbois, 10. Ma prima che ciò avvenisse, frĭgĭdus nella maggior parte dell'impero era divenuto frįgdus (App. Pr., « frigida non fricda »), vĭgĭlat *vįglat e digitus in alcuni luoghi era divenuto dįctus (Franz. ∂, 1, 15-16): cfr. § 233.
Questo y, quando era intervocalico, si fuse, in quasi tutto l'impero, con e o i seguenti, se erano accentati: magĭster > *mayįster > maẹster; così *pa(g)é(n)sis, re(g)ína, vi(g)ínti, ecc.; così è forse da dire la proclitica ma(g)is. Cfr. Agrientum, βειεντι = vigínti, μαειστρο, ecc., Vok., II, 461 (cfr. maestati, Vok. II, 460); trienta, S., 349, Pirson, 97; quarranta = quadraginta, Pirsono, 97; aeliens, colliens, diriens, negliencia, Haag, 34; recolliendo, ecc. F. Diez, Grammaire des langues romanes, I, 250. Postonico e dopo consonante, l'y di regola rimase, tranne quando la sua scomparsa fu portata dall'analogia (come in colliens per *colliente, ecc.); légit, léges, plangit, argéntum. Ma talvolta si fuse nei parossitoni con un i seguente: roitus (= rógitus = rogátus), Vok., II, 461.
La Spagna, una parte del sud-ovest della Gallia, parte della Sardegna, della Sicilia e del sud-ovest d'Italiarimasero al grado y; altrove l'y proseguì il suo sviluppo nelle lingue romanze. Cfr. Lat. Srp., 473 (1)

(1) Un po' di luce sulla seriore pronuncia ecclesiastica ci è data dal ragguaglio contenuto in un frammento di trattato del decimo secolo sulla pronuncia latina, Thurot, 77,, secondo cui g ha il "proprio suono" (cioè quello dell'italiano g in gente) davanti ad e e i, ma è debole davanti ad altre vocali.

Già abbiamo trattato diversi casi di evoluzione della velare -g- intervocalica davanti a vocale anteriore: 


Passiamo ora ad altri casi non meno significativi, anche se non coinvolgono arretramenti dell'accento e cadute di vocali tra due consonanti.

Si vede come in diverse e importanti parole una occlusiva velare -g- intervocalica si è indebolita nella semiconsonante /j/ fino a scomparire se seguita da -e- e da -i-.

Il latino magis si è evoluto in /'majis/, dando origine all'italiano mai e ma.

Il latino magistru(m), accusativo di magister, si è evoluto in /ma'jistru/ e ha finito col dare in italiano maestro

Il latino sagitta si è evoluto in /sa'jitta/ e ha finito col dare in italiano saetta.

Se per assurdo la pronuncia di queste parole avesse avuto ab aeterno la consonante affricata /dʒ/ tipica del latino ecclesiastico, come pretendono i nostri avversari, questa non sarebbe scomparsa nel nulla, dato che non è nella natura di tale suono dileguarsi: avremmo *magi, *magestro e *sagetta

Si vede che la consonante /dʒ/ si è sviluppata a partire da /j/ dove questo non è scomparso: un simile mutamento si riscontra in numerosissime lingue. 

Ovviamente parole come magistrale e sagittario non provano nulla, visto che sono state reintrodotte come parole dotte direttamente dal latino ecclesiastico.  

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA NATURA COMPOSTA DI ETIAM

Nel latino ecclesiastico, densissimo di congiunzioni e di avverbi, spicca la parola etiam "anche", pronunciata /'etsjam/. Qual è l'origine di questa congiunzione? Semplice, deriva dalla giustapposizione di et "e" con iam "già". L'assibilazione che ha portato alla pronuncia /'etsjam/ ha agito in posizione sintattica, dato che i fonemi /-t/ e /j-/ dal cui scontro è sorta appartengono a parole diverse.

È ben chiaro e di per sé autoevidente che /'etjam/ senza assibilazione deve essere stata la forma di partenza, perché questo ci dice l'etimologia. Sostenere che debba essere stato /'etsjam/ da sempre è un palpabile controsenso.

Così accade che i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno debbano rinunciare all'etimologia della congiunzione in questione, scegliendo assurdamente di ritenerla una parola inanalizzabile pur di salvare il loro preconcetto dogmatico.

Casi di alterazione di consonanti in condizioni simili si davano nel latino tardo e volgare, perdurando ancora nelle lingue romanze. Ad esempio abbiamo il latino postea "poi, in seguito", alla lettera post ea "dopo queste cose", che si è evoluto nell'italiano poscia (ormai in disuso). Allo stesso modo ante id "davanti a ciò" si è evoluto nell'italiano anzi; confronta anche latino antea "una volta, in precedenza", per ante ea "prima di queste cose".  

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL DITTONGO SECONDARIO IN AES E L'AGGETTIVO AHENUS

Il vocabolo latino aes, gen. aeris "rame, bronzo", deriva da un precedente *aies-, che corrisponde al sanscrito ayas- "metallo; ferro". La pronuncia ecclesiastica di questo vocabolo mostra una vocale /e/. Non è possibile ciò che vanno affermando i nostri avversari, che questo vocabolo avesse una vocale /e/ ab aeterno. Notiamo innanzitutto il derivato aggettivale ahenus /a'e:nus/ "bronzeo" (variante aheneus /a'e:neus/) presente ad esempio nel cognomen Ahenobarbus, alla lettera "dalla barba del color del rame". Questo aggettivo deriva da un originario *aiesnos. Questi sono gli sviluppi occorsi:

1) *àies /'ajes/ > aes /aes/
2) *àiesnos /'ajesnos/ > *aèsnos /a'eznos/ > ahenus /a'e:nus/

Nel primo caso la semiconsonante mediana si è dileguata e si è formato un dittongo secondario.
Nel secondo caso l'accento si è spostato sulla seconda sillaba e si è creato un iato, marcato graficamente da una lettera h, a cui non corrisponde alcuna aspirazione (come del resto in altre occorrenze di -h- mediana già documentati dai grammatici). L'ipotesi più probabile è che gli antichi usassero il carattere h per marcare un'occlusiva glottidale che ricorreva per separare vocali non appartenenti alla stessa sillaba.

L'opposizione tra aes, aeris e ahenus prova che forme come /aes/, /'aeris/ hanno un loro fondamento etimologico inattaccabile e sono anteriori a forme monottongate come /ɛ:s/, /'ɛ:ris/ sviluppatesi in seguito.

mercoledì 1 luglio 2015

LINGUA LONGOBARDA E LINGUA CIMBRA: SECONDI O TERZI CUGINI - parte 5

Conclusioni

Il diverso trattamento dei dittonghi proto-germanici /ai/ e /au/ in sillaba tonica nella lingua dei Longobardi e in quella dei Cimbri è subito evidente dagli esempi da me riportati, basta solo avere un po' di pazienza. Trovo strano che la cosa sia sfuggita in modo sistematico a Schweizer, Bellotto e Bidese. Eppure è sufficiente confrontare una lista di radici estratte da antroponimi longobardi con i corrispondenti vocaboli cimbri per capirlo senza possibilità di errore. Ecco una sintesi: 

1) Dove l'antico alto tedesco ha il monottongo /o:/ dal proto-germanico /au/, il cimbro ha il dittongo [ɔɑ̯] (es. proat "pane").
2) Dove l'antico alto tedesco ha il dittongo /ou/ dal proto-germanico /au/, il cimbro ha il monottongo [o:], ben diverso dal suono [
ɔɑ̯] di cui sopra (es. pome "albero").

Da questi fatti si può dedurre una semplice prova empirica, che a partire da un qualsiasi dialetto tedesco odierno è in grado di smentire all'istante ogni tentativo di ritenerlo un discendente della lingua longobarda. Si prendano ad esempio le seguenti parole: "rosso" (tedesco standard rot), "pane" (tedesco standard Brot) e "morte" (tedesco standard Tod). Se qualcuno fosse in grado di trovare anche una sola varietà di tedesco in cui tali parole hanno lo stesso dittongo delle parole per dire "albero" (tedesco standard Baum), "polvere" (tedesco standard Staub) e "porro" (tedesco standard Lauch), allora si sarebbe trovato qualcosa di davvero eccezionale. Questo però non avviene. Ne consegue che le varietà della lingua cimbra non discendono dalla lingua dei Longobardi, che si è separata dal resto dell'antico alto tedesco molto tempo prima.

Qualcuno potrebbe obiettare che sto comparando due lingue sfasate di oltre mille anni, dato che i lemmi del longobardo ricostruito si basano su materiale del VII-VIII secolo e quelli del cimbro di Giazza su attestazioni e documenti del XIX-XX secolo. In altre parole, il longobardo avrebbe potuto subire cambiamenti fonetici anche notevoli se fosse sopravvissuto fino ad oggi. Questo è vero, e in effetti ci sono prove di mutamenti davvero bizzarri nella fase finale della lingua. Tuttavia non sarebbero stati gli stessi sviluppi occorsi in altre varietà dell'antico alto tedesco, a causa dell'isolamento delle popolazioni longobarde dopo la fine del Regno. 

Altri diranno che ho fornito in realtà una prova della quasi identità tra longobardo e cimbro, dato che sono numerosissime le coincidenze e le quasi coincidenze tra i vocaboli da me riportati. Si tratta tuttavia di un'osservazione abbastanza oziosa, visto che si tratta in ogni caso di lingue discendenti da un antenato comune che condividono numerose caratteristiche. Queste somiglianze non sono infatti di alcun aiuto al fine di dimostrare o di confutare l'ipotesi di una continuità tra longobardo e cimbro - mentre le divergenze nello sviluppo dei dittonghi hanno il potere di fornire la confutazione, per quanto possano sembrare dettagli insignificanti.

In entrambe le lingue esistono parole distinte grazie all'opposizione di fonemi con cui i parlanti lingue romanze hanno poca dimestichezza, e numerosi contesti fonetici sono sorprendentemente simili. Riporto pochi esempi.

Due coppie minime in longobardo:

graus [graʊ̯s] "orribile"  
graus [graʊ̯s̪] "grande" 

ring [riŋg] "anello"
rinc [riŋkh] "guerriero"

Una coppia minima in cimbro di Giazza: 

nauc [naʊ̯k] "nuovo"
nauk [naʊ̯kx] "schiaccia!"

Se tante sono le somiglianze, altrettante sono le differenze, anche nel lessico. Esistono moltissime parole longobarde che non hanno nessun corrispondente in cimbro. Il cimbro ignora ad esempio alcune comuni denominazioni del maiale, che invece si trovano in longobardo:

gris [gri:s] "maiale"
pair [paɪ̯r] "porco"

Esiste tutto un mondo concettuale che i Cimbri non hanno conservato, un patrimonio relativo a termini poetici, kenningar, vocaboli dotti e simili. I Longobardi mantenevano, come tutti i Germani antichi, questa eredità di tempi remoti, che è lontanissima dai concetti del mondo moderno. Anche i nomi di divinità pagane sono da tempo immemorabile sprofondati nell'oblio in tutta l'area cimbra, mentre in longobardo rimasero a lungo vitali. Data la grande disparità cronologica, non si può fare un raffronto sensato basandosi su queste realtà.

Non tutto il materiale lessicale del cimbro è arcaico: esistono moltissimi prestiti da varietà di romanzo, che in numerosi casi hanno subito mutamenti fonetici come la formazione di dittonghi da vocali lunghe. Questi sono alcuni esempi: 

bronzi~ [bron'tsi:n] "campanello delle vacche" 
cami~ [ka'mi:n] "camino" 
casu~ [ka'zu:n] "baita, malga" 
catzoul [ka'tsɔʊ̯l] "cazzuola" 
comau~ [ko'maʊ̯n] "comune" 
presau~ [pre'zaʊ̯n] "prigione" 
rami~ [ra'mi:n] "contenitore di rame" 
roncau~ [roŋ'kaʊ̯n] "roncola" 
 
I prestiti dal tardo latino e dal protoromanzo in longobardo erano con ogni probabilità abbastanza numerosi, ma mi sento di dire che erano di diverso genere rispetto a quelli che si trovano in cimbro. Solo per fare un esempio si deduce l'esistenza di castel ['kastel] "castello" e di castelman ['kastelman] "castellano", a partire dall'antroponimo Castelmannus.  

Si possono citare infine alcuni falsi amici, parole che suonano in modo identico o quasi in longobardo e in cimbro, pur avendo significato dissimile:

Longobardo maur [maʊ̯r] "terreno paludoso" (n.)
Cimbro
maur [maʊ̯r] "muro"

Longobardo paissan ['paɪ̯s̪s̪an] "frenare"
Cimbro paizan ['paɪ̯s̪s̪an] "mordere"

Longobardo parn [parn] "bambino"
Cimbro parn [parn] "greppia, presepe"

Longobardo raude ['raʊ̯de] "rossi"
Cimbro raude ['raʊ̯de] "rogna"

Longobardo rinc [riŋkh] "guerriero"
Cimbro rink [riŋkx] "anello" 

L'idea classica dell'origine dei Cimbri a partire da ondate di colonizzazione dalla Baviera rimane valida. Al massimo si può retrodatare l'inizio di tale popolamento al XI secolo, come alcuni suggeriscono con fondati argomenti (Panieri, 2008). Non sono riuscito a trovare vocaboli cimbri risalenti a un possibile sostrato longobardo: se anche i Bavaresi si fossero innestati su una precedente popolazione longobarda, ne avrebbero sostituito completamente la lingua.