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lunedì 23 gennaio 2023

Viaggio in Eschaton 

Sono solo in una navicella progettata per resistere a qualsiasi aggressione astrale. Lo scafo è stato plasmato in una lega biometallica di un vivo color carminio. I motivatori e i motori non sono composti da parti distinte e funzionano seguendo principi fisici sconosciuti a qualsiasi civiltà umana. Attraverso un oblò osservo rapito l'orrore esterno. Gli Alberi di Gonostra fioriscono di bruchi. Gemmano nella tenebra, rischiarandola con i loro colori sgargianti. Seguendo funzioni di accrescimento frattale, le larve germogliano voraci espandendosi come cancri dai tronchi. Crescendo divorano le spore che galleggiano nell'etere nero, e producono altre larve dal loro dorso. Si generano strutture simili a mostruose chiome di gorgoni, che arrivano ad essere grandi come galassie. Giunti al limite estremo, questi esseri si spaccano, si scindono spargendo i loro piccolissimi semi per milioni di anni luce, iniziando nuovi cicli di colonizzazione. 

Marco "Antares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 21 ottobre 2006)  

sabato 21 gennaio 2023

Occhi di falena 
  
Il robot ibrido si muove con lentezza esasperante, destando non poco nervosismo nei torvi scienziati giapponesi accalcati nel laboratorio... 
Un sottile velo di ormoni femminei fa all'improvviso palpitare le antenne biologiche dell'organismo cibernetico, connesse tramite fibre ottiche a un microchip che codifica l'impulso sessuale. Il processore si mette in moto... Le membra meccaniche insettoidi si muovono con crescente prontezza, e inizia l'inseguimento della preda. Il Signor Okahata ammicca soddisfatto ai suoi collaboratori. Rabbrividisco. La mia mente si volge ancora una volta agli Abissi di Abyabp, matrice di Pseudovita... 

Marco "Anares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 22 luglio 2006) 

martedì 17 gennaio 2023

La Caverna delle Scimmie 

È un luogo abominevole in cui ogni speranza in una umana utopia svanisce, scardinata dalla brutale evidenza della vera origine della Vita. L'archeologo incespica, incapace di reggersi in piedi per lo spettacolo raccapricciante che appare alla sua vista non appena illumina quei diabolici recessi con la sua torcia. Un immenso cimitero di primati... Montagne di scimmie morte in vari stadi di decomposizione si innalzano dovunque come macabre stalagmiti. Tutto è mescolato alla rinfusa, dallo scheletro al cadavere di pochi giorni. Le specie rappresentate sono molteplici: scimpanzé, gorilla, babbuini, ma anche varietà sconosciute, che nessun tassonomo ha mai studiato. È un incubo ad occhi aperti. Dalle masse di carne marcescente si levano lezzi infernali e nuvole di mosche, e i reflui colano confluendo in veri e propri ruscelli di putredine scura. Il fetore è tale da impedire l'esplorazione degli antri più interni. Procedendo tra cagnotti e carcasse, lo studioso arriva fino al centro di quel sacrario maledetto. Lì si estende un lago nero. Sulla riva uno scimpanzé si muove seguendo ritmi ipnotici davanti a una colossale locusta di pietra, e dai suoi gesti sembra che sia in adorazione della mostruosa statua. La debole luce proiettata dalla torcia permette di distinguere la sua sagoma come in un teatrino cinese degli orrori. Attende la morte pregando il Demiurgo del Morbo, colpito da una forma di inesplicabile furore mistico... 

Marco "Antares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 30 settembre 2006)

domenica 15 gennaio 2023

Un luogo orribile

Chiamato Nodaaums. Mi ci trovo senza sapere perché, come se vi fossi stato trasportato in una notte illune, rapito attraverso una porta dimensionale. Il cielo sembra fatto di inchiostro. La sola luce si diffonde da alcune fioche lampade al neon, ed è aggredita dalla tenebra. Sono nudo e confuso, su un molo spettrale. A poco a poco i miei occhi si abituano a quell'oscurità, quel tanto che basta per vedere il mare: una distesa di un liquido nero e denso che sembra petrolio. Sono colto da tremende vertigini nell'osservare le onde imponenti e pesanti che agitano la superficie di veleno. Un forte vento si alza, gelido. Sono del tutto indifeso. Percepisco qualcosa di malvagio in quell'improvviso fortunale. Cerco inutilmente un riparo e mi dirigo verso la terraferma. Scorgo le rovine di un edificio cubico fatto di grandi blocchi di marmo. Dal suo interno emana ORRORE. Rotaie arrugginite mi fanno pensare che un tempo potesse essere una stazione. Il vento aumenta ancora e trascina via cumuli di rifiuti. Le mie capacità empatiche mi fanno precipitare nel panico, come se miliardi di vite umane stroncate dal ferro urlassero simultaneamente in me. 

Marco "Antares666" Moretti
(blog connettivista Cybergoth, 25 settembre 2006)

venerdì 13 gennaio 2023

Il lato oscuro della Luna 

Impenetrabile e duro nero punteggiato di stelle, che come piccoli pugnali trafiggono le retine... I tre astronauti procedono con grande cautela in avanscoperta di quel desolato e sconosciuto scenario. Potenti fari fendono la tenebra del mondo morto e senz'atmosfera. All'improvviso vicino al cratere si rivela al campo visivo un dettaglio inaspettato. Gli astronauti compiono grandi balzi, favoriti dalla gravità lunare, ma ben presto si accasciano a terra, soverchiati da un indicibile campo d'orrore... È come se da quelle rocce irradiasse tutto l'abominio dell'universo... Una sensazione di atroce desolazione li divora, li getta nel panico senza che ci sia una spiegazione plausibile... Fattisi coraggio, i tre riescono alla fine a vincere quel soprannaturale senso di oppressione e raggiungono il punto che ha attratto la loro attenzione. Con incredibile stupore scorgono qualcosa di IMPOSSIBILE: i raggi dei loro fari illuminano la spettrale sagoma del relitto di un caccia bombardiere tedesco della II Guerra Mondiale... 

Marco "Antares666" Moretti 
(blog connettivista Cybergoth, 17 dicembre 2005)

mercoledì 11 gennaio 2023

Due scimmie decapitate 

Giacciono sul tavolo operatorio. Lo scienziato getta nell'inceneritore la testa di una e il corpo acefalo dell'altra. Poi immerge le due parti rimaste in una soluzione vitale che impedisce ai tessuti di decomporsi, mantenendoli vivi a livello cellulare, pur essendo ogni loro sinapsi inattiva. Nessun impulso elettrico attraversa le ramificazioni dendritiche. La testa di scimmia e la scimmia acefala prescelte per l'Esperimento sono a detta di tutti morte. Nessuna autorità religiosa osa sostenere il contrario, e un notaio attesta legalmente la cosa con un sigillo di ceralacca. Ecco che dopo un anno lo scienziato ritorna su questo insano progetto, determinato a distruggere una volta per tutte la Teoria Tomistica della Sostanza... così monta la testa mozzata sul busto dell'altro animale, saldando con pazienza ogni singola terminazione nervosa e rigenerando le cicatrici neurali con flussi dosati di nanorobot. Poi inietta il sangue artificiale nelle arterie, nelle vene, e con un elettrostimolatore dà la scocca fatale al cuore... Pochi istanti dopo la scimmia ibrida APRE GLI OCCHI, e il suo sguardo abissale è animato da aliene scintille di ODIO... 

Marco "Antares666" Moretti
(blog connettivista Cybergoth, 15 dicembre 2005) 

lunedì 9 gennaio 2023

CHIOME IN FIAMME 

La Cometa d’Orrore è in massimo avvicinamento. Emana bagliori di morte azzurrognola dal suo cuore che come un secondo sole bianco acceca le genti, facendo impallidire ogni altra luminaria celeste. Le folle sono in fermento, e ognuno ode nel profondo della sua anima un sinistro stridore di dannazione. La coda di quel messaggero di devastazione è triplice e la sua lunghezza occupa metà della volta celeste, seminando veleno. L’aria tremola, una fatamorgana che impedisce di focalizzare bene i dettagli del mondo visibile. Palazzi fatui vibrano in quella densa atmosfera alterata dal mortifero portento cosmico. Il cuore dei coraggiosi e dei temerari diviene all’improvviso vile. Il cuore dei vili scompare, ed essi supplicano di ricongiungersi ai vermi nel terriccio. Tutte le donne incinte abortiscono. Tutti i sacerdoti si suicidano dopo aver urlato la vanità della loro fede, capendo di colpo chi è il vero Signore dell’Universo. Tutti i potenti battono i denti in preda al terrore, e baratterebbero un’eternità di cancro pur di sfuggire al presente. Dzadara viene! Dzadara è adirato! Il Regno del Caos avvolge tutto con i suoi tentacoli, portando la dissoluzione di ogni struttura sociale nel fango della Cosmonemesi. Nulla potrà sottrarsi alla Morte Cometaria, all’estremo strale sidereo! Il chiarore innaturale dissolve le nubi come effimera neve estiva, riducendole a cernecchi sfilacciati in una lettiera di carboni ardenti. Un rombo lontano echeggia nel labirinto e nei cunicoli uditivi delle masse come un urlo arcano, un tremendo clamore che preme su milioni di timpani, simile a un martello assassino su un’incudine dolorante.  Non sono suoni, ma fluttuazioni che si propagano dalla ferita nel tessuto stesso dell’universo, dal Continuum oscenamente lacerato. Fili di flogisto indaco si dipartono da ogni cosa, richiamando esili saette screziate, finché a tutti è chiaro cosa sta accadendo. I capelli della gente cominciano a prendere fuoco! Lingue di un rosso mai visto prima a memoria d’uomo lambiscono ogni testa nello sfrigolio di una frusta neuronica permanente! I peli bruciano incapaci di consumarsi in quell’infernale etere, parassiti di plasma che agiscono su ogni centro del dolore amplificandone la follia fino al parossismo prigoginico. Come vermi incorruttibili su una stufa al calor bianco, le membra delle genti si contorcono in quell’apoteosi di aberrazione, in quella dilatazione del flusso temporale in una fornace sempiterna. Le urla salgono al cielo, salgono fino al cuore della Cometa come fulmini che danzano su un oceano di crani! Mani ritorte e contratte in crampi cercano in tutti i modi di strapparsi la pelle, di liberarsi di quel supplizio, senza riuscire a trovare la presa. Artigli che scavano invano nelle carni, volti contratti in abominevoli maschere orrorifiche. Fiori incandescenti si muovono al ritmo di tempeste di raggi X durissimi, corpuscoli trascinati nell’Orizzonte degli Eventi di un buco nero che divora miliardi di galassie moribonde. Si possono distinguere tutte le sfumature di un caleidoscopio cromatico alieno in un’orgia sinestetica di disperazione che filtra in ogni singolo quanto di materia. Poltiglia quarkionica vibrante nello stato di massima entropia. Gli esseri umani sono nudi, tuffati nelle profondità solari senza poter morire! Cosa resterà quando il Principe della Cometa sarà passato? Una distesa di cenere inerte? Il brodo primordiale scomposto nei suoi costituenti prebiotici? Un mare senza confini di basalto fuso? Oppure gli stessi elementi senza vita rimarranno intrappolati per sempre in quell’atrocità escatologica, in quella metànoia satanica, in quello straziante Cantico dell’Assurdo? 

Sulla cima dell’arido e pietroso monte Aramonth, l’Eremita osserva la Consumazione dei Secoli, lo scatenarsi delle Forze di Maspigand, distinguendo ogni dettaglio del mondo come se fosse fornito di una vista telescopica. Lui che è stato rifiutato dalla società degli umani, ora gode di un privilegio inatteso, ora gongola nello spettacolo capace di dare senso a un’intera esistenza di privazioni e di umiliazione. Avvolto da un’aureola di fuoco, l’Uomo di Dio si lascia trasportare da un’ebbrezza infinita che trasforma il dolore della combustione in gioia selvaggia. Ogni istante della sua gioventù nella Città dell’Edonismo gli ritorna alla memoria, e sente i risolini di scherno delle giovani donne copulanti. Sente l’egoista felicità delle coppie che ostentavano le loro effusioni nei bistrot e sulle camminate lungo i navigli adorni di fiori variopinti e di afrodisiache fragranze. Percepisce nella sua empatia espansa ogni attimo del piacere di quei petali e di quei pistilli in umido congiungimento, mentre a lui tutto è stato sempre negato. Portatore di un’antica lebbra, erede di una cultura perseguitata, non gli era rimasta altra alternativa che cercare rifugio nelle caverne per sfuggire all’eccessivo dolore. Ora sa finalmente di aver seguito la via giusta, quella che così a lungo gli era parsa soltanto un percorso di dannazione su accidentati dirupi. I suoi piedi nudi si erano tante volte lacerati su quegli spuntoni rocciosi del Deserto senz’Acqua! Ora tocca all’Acqua bruciare! Quelle puttane, quei corrotti che le insozzano, adesso si consumano insieme nel tormento! Invidioso, così lo hanno chiamato innumerevoli volte mentre lo vedevano vagare avvolto in abiti laceri. Inetto, perdente, questo gli dicevano, scientemente crudeli. Lo definivano uno sconfitto nella lotta della biologia, nell’agone spermatico per propagare questa corrotta prigionia nel lurido carapace carnale. Così è sempre stato definito da uomini di affari e politici. Quei boia non facevano questo in quanto spinti da profonde convinzioni filosofiche, ma soltanto perché pareva loro di sentirsi vivi, soltanto avendo qualcuno da disprezzare e da tagliuzzare con oscuro sarcasmo. Mostravano denti e contraevano i diaframmi, ratti glabri e immondi che si sollazzano nella fogna della vita gaudente. Così l’Eremita intona la sua canzone della rivincita contro il genoma brulicante: “Finalmente la loro base è sradicata, il loro seme cancellato! La loro arroganza è un guscio vuoto sotto il calcagno del Giusto! Dzadara avvolge i miei antichi aguzzini nel suo abbraccio crematorio! Questo istante non è solo il più felice della mia intera esistenza terrena, ma di milioni e milioni di vite passate migrando da un involucro corporale all’altro, umano o animale! Questo è il punto terminale della mia Caduta dai Cieli! Questo è il Giorno del Ritorno! Nessuno potrà più farmi pentire di esistere sfoggiando le sue immonde vesti di muscoli, di ossa e di sangue”. Quasi in risposta alle sue turbolente correnti dell’anima, il Buco nel Cielo si apre. Ha l’aspetto di un uomo di ferro, talmente nero che gli stessi fotoni vi affondano senza speranza di poterne uscire. Sembra calare su ogni cosa, anche se i contorni nitidissimi sono immobili. Gelido, inumano, duro nel suo manto metallico di nero stellare, è l’uscio ipergeometrico che dà su un piano di esistenza di una vastità atroce e non euclidea. Quella sfida alla luce è la sua meta, il nero astro che spezzerà ogni suo limite, ogni suo vincolo termodinamico. Fiducioso, l’anacoreta esiliato vi ascende fiammeggiante e in esaltazione, lasciandosi ogni cosa alle spalle senza rimorsi né rimpianti. Anche il grido delle città dannate gli è giunto a noia, perché ha cose più importanti da fare. Sotto la sua ombra fluttuante le chiome sono torce inesauribili e i grattacieli miraggi, ma lui non se ne cura affatto, perché quello è il Momento Perfetto: dopo aver vissuto il respiro degli Eoni sta per tornare a casa. 

Marco "Antares666" Moretti 

sabato 7 gennaio 2023

L’ARTIGLIO DEL NULLIFICO 

Discendo da una casata nobiliare che ha sempre sostenuto la religione dei Ferengal. A causa delle frequenti unioni tra consanguinei che si sono succedute nel corso dei secoli, ho ereditato un carattere ipereccitabile, lunatico e incline alla paranoia. Dato l’obbligo di nascondere la propria professione religiosa alle potenze del mondo, la mia stirpe è sempre vissuta in uno stato di costante angoscia. In passato il Re perseguitava i Ferengal e i loro credenti con tale acrimonia da condannarli ad essere bruciati vivi a fuoco lento; per fortuna da secoli questo non è più il costume, ma sanzioni pesanti sono ancora in vigore. La più grave delle condanne è l’Intoccabilità. Se filtrasse qualcosa al di fuori delle mura domestiche, tutto sarebbe perduto. Lo stato feudale, le nostre ricchezze, la nostra rispettabilità sociale. Mia madre, mio padre, i miei zii, mia sorella, i miei primi cugini, tutti diventerebbero degli Agoth, evitati e disprezzati persino dai servi. Per quanto mi riguarda, la maledizione non potrebbe arrecarmi un così grave pregiudizio, essendo io già sepolto in questa tomba segreta e traendo il poco fiato a me necessario da una cannuccia fatta passare in un’intercapedine invisibile dall’esterno. 
Dovrei andare con ordine nel narrare le mie disgrazie a beneficio dei soli spiriti dell’Etere: nessun essere vivente di figura anche vagamente umana potrebbe ora raccogliere la mia eredità. Ma esiste sempre la speranza che il rantolo della mia agonia possa trasmigrare in un altro universo, ripetuto dalle voci delle larve dei morti per essere finalmente captato da un apparecchio elettromagnetico, trascritto e consegnato ai posteri. 

Ricordo il laboratorio del dottor Ansinaskar, in cui avvenivano quei pericolosi esperimenti mesmerici che mi hanno condannato. Quel luogo sinistro era da anni il funto focale di tutta una comunità di cosiddetti Spiriti Liberi, gente che riteneva ogni forma di religione una cariatide della preistoria e che si adoperava per la sua sostituzione con un panteismo indifferenziato. Dal canto mio, cercavo nelle sedute ipnotiche del dottor Ansinaskar la soluzione di un arduo enigma intellettuale: anche se non potevo farne esplicita menzione, intendevo trovare prove che confermassero o smentissero la dottrina della reincarnazione tipica della Fede dei miei Padri. 
Avrei dovuto ascoltare gli ammaestramenti dei miei e tenermi alla larga da un simile covo di empietà, ma all’epoca ero spinto dagli ardori di una gioventù scapestrata e ribelle, cosicché ogni volta che mi si ammoniva io ero spinto a far tutto l’opposto. 
Durante una seduta particolarmente drammatica, fui sottoposto al fluido mesmerico e qualcosa entrò in me. Vidi un’ombra scorrere vicino alle imponenti lampade di peltro che emanavano la loro lugubre luce nella grande sala. Seguendo i movimenti di quell’entità spettrale, ebbi l’impressione di assistere a una caccia. Un predatore stava balzando sulla preda. Quando il concetto fu chiaro nella mia mente, compresi che la preda ero proprio io: quella cosa entrò dentro di me. Cominciai a parlare… 
Rammento ancora ogni dettaglio di quella cruciale esperienza, con una precisione sconosciuta ai ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza. Avevo cessato di essere nel mondo che aveva visto la mia nascita. La mia identità era diversa. Pensavo e parlavo con la massima naturalezza in una lingua sconosciuta, le cui bizzarre parole sono riuscito a trattenere nella mia mente. Il mio nome era Edgar Allan Poe. 
All’improvviso fui certo di avere un corpo fisico, potei toccare il mio volto con mani che non riconoscevo come mie. Una nebbia impenetrabile rendeva invisibile ogni cosa intorno a me. Camminavo senza meta, barcollando in preda a un orrendo delirio. Mi sembrava di aver bevuto fin quasi a morirne un qualche liquore intossicante che a tratti mi ritornava in bocca con aspri rigurgiti. Le articolazioni mi dolevano, come se qualcuno mi avesse colpito a randellate e fossi a malapena riuscito a sfuggire a gravi fratture. Non ne potevo più del sordo dolore che gravava sulle mie membra martoriate. Le forze mi stavano venendo meno. Mentre pensavo qualcosa, accadde un fatto che mi lasciò sconvolto. Un vento gelido soffiò via la nebbia, mostrando un cielo alieno, atroce, con una luminaria bianca che brillava nel manto nero della notte come un teschio ghignante. 
Ritornai in me urlando come un ossesso. E forse ero proprio questo: un posseduto dai demoni. Un dolore simile a quello di una pugnalata mi squarciò il cranio, solo a fatica riuscii a riconoscere le persone che mi stavano intorno. Dissero che avevo a lungo delirato in una lingua composta prevalentemente da parole brevi e impastate, una favella incomprensibile mai udita da orecchio umano. 
Quando ci si desta da un sogno, ogni dettaglio tende a sfocarsi e alla fine svanisce nel nulla. Solo eccezionalmente si riesce ad imprimere qualche vicenda onirica nella memoria. Ancor più raro è che parole udite tra le brume oniriche possano conservarsi per più di qualche istante alla luce della coscienza vigile. Invece a me accadeva di poter parlare, sapevo come identificare correttamente ogni oggetto servendomi di quell’idioma astruso. Di più, cominciai a farmi portare fogli di carta e ad esercitarmi a scrivere. Che assurdità: quella lingua non si scriveva come la nostra, tramite alcune centinaia di geroglifici, ma servendosi soltanto di ventisei semplici caratteri, più o meno corrispondenti ai suoni emessi dalla glottide. Una cosa davvero stravagante. Cercai di parlarne con mio cugino Khlarn, che mi derise sonoramente. Temendo di esser preso per folle, non feci più menzione ad alcuno di quello che rimase il mio segreto. Dipinsi con inchiostro nero i caratteri che formavano il mio nome arcano. Non senza fatica tracciai su un foglio color crema tre parole: “Edgar Allan Poe”. 
Avevo vissuto i peggiori istanti della vita terrena di un uomo che ora si confondeva con il mio essere. “Ne sono certo”, pensai, “Esistono innumerevoli mondi abitati da umani, come il nostro”. Qualche dettaglio emerse dall’oscurità. Mi vedevo intento a scrivere un racconto intitolato “The Black Cat”, ossia “Il gatto nero”. Era una storia terribile che parlava di un uomo che in preda all’ebbrezza finiva con l’uccidere sua moglie a colpi d’ascia per poi murarla insieme a un gatto nero in una cripta. 
Cercai di trascrivere il racconto, ma fui colto dalla confusione ed accantonai ben presto il progetto. La mia fronte bruciava di febbre. Non stavo affatto bene, così decisi di mettermi a letto. Fu quello l’inizio di una lunga malattia. Il medico di famiglia disse che era una febbre maligna e che molto difficilmente l’avrei superata. Per quanto il mio corpo sudasse e ribollisse, non per questo la mia mente smetteva di funzionare. Anzi, nella compressione e nell’infiammazione dell’encefalo, raggiungevo una saggezza mai vista prima tra le genti. Ogni tanto, quando le forze me lo permettevano, mi mettevo a sedere sul letto e trascrivevo alcune delle mie illuminazioni. 
Questo ad esempio scrissi nel giorno 257 dell’anno 1758 dalla Grande Unificazione: “Il nostro oscuro mondo, che i miei simili stoltamente reputano essere il solo esistente, non possiede luminarie celesti visibili come il mondo di origine di Edgar Allan Poe. Di giorno, un vago chiarore rischiara le eterne coltri di nubi, di notte regna incontrastato l’Abisso. Un anno si definisce come il tempo che intercorre tra il Giorno del Drago, il più lungo del ciclo e il Giorno del Lupo, in cui quasi non c’è luce. Il motivo di questi cicli era però finora un mistero imperscrutabile. Ora so quello che tutti i sapienti ignorano: c’è una grande lampada oltre quelle nubi grigie a volte calme e a volte vorticose che intristiscono e consumano gli umori dell’umanità.” 
Quando i miei venivano a trovarmi, nascondevo con cura i miei scritti sotto il cuscino. Ma tanto a loro non interessavano i miei vaneggiamenti. Mia zia mi disse che pregava il Vero Dio, Balagon, affinché confondesse i demoni che mi stavano divorando. Per i Ferengal tutto l’universo fisico è opera del Demonio, Beylghilflar, e il Vero Dio non ha alcun potere sugli elementi terreni; si dice però che in alcune circostanze possa proteggere gli Spiriti caduti nella prigionia della materia. 
Sempre avvolta nel suo nero abito da Perfetta, mia zia usciva molto raramente dalla sua cella, e sentiva che presto avrebbe abbandonato la vita terrena astenendosi da ogni cibo. Mi salutò, dicendomi che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta in cui qualcuno l’avrebbe vista viva. Rimasi molto scosso dalle sue parole. 
Contro ogni previsione, accadde che proprio nel Giorno del Lupo di quell’anno di sciagure, cominciassi a stare meglio. Il nuovo ciclo del tempo coincise con la mia convalescenza. Diminuirono febbri e sudori, e nel giro di dodici giorni fui in grado di riprendere le mie attività. 
Con più folle audacia che buon senno, ripresi a frequentare il laboratorio del dottor Ansinaskar. Non volevo ammettere con me stesso che stavo giocando con il fuoco, che stavo sfidando quegli stessi demoni che molto a malincuore avevano mollato la presa dei loro artigli, lasciandomi indebitamente libero. Non seppi essere grato al Vero Dio della recuperata salute, anzi, sfidai lo Spirito immischiandomi con gente sacrilega e materialista. Fu in una delle prime sedute di quell’anno 1759 che conobbi una bellissima fanciulla. Mi colpì tanto la sua eterea bellezza che decisi di farne la mia sposa. Si chiamava Vlensild, ed era la figlia del Duca di Kutughar. Fui subito attratto dalle sue chiome bionde, lunghissime e lisce, dai suoi occhi cerulei, dalle sue membra delicate ed esili, dal candore marmoreo della sua pelle tanto sottile da lasciar intravedere l’azzurro delle vene. 
Cominciai a corteggiare la nobildonna. Bruciavo d’amore per lei, tanto che ogni giorno senza di lei mi sembrava un supplizio. Contavo di chiederla presto in sposa, anche se non sapevo come far mandare giù questo amaro boccone alla mia famiglia. Tutti erano infatti concordi nel definire il matrimonio meretricio, lupanare infetto e opera di Beylghilflar. L’unione carnale era possibile solo all’interno della stirpe e al solo scopo di trasmettere la Fede dei Ferengal fino alla Fine dei Tempi. Stando a questa logica, avrei dovuto unirmi a una mia cugina o meglio ancora a mia sorella. Era inammissibile un matrimonio d’amore, perché proprio l’amore era riconosciuto come Male Assoluto. Inoltre il padre di Vlensild, il Duca Hasturk, odiava mortalmente i Ferengal, e i suoi antenati ne avevano bruciati vivi molti. La religione dell’eterea Vlensild era quella del Regno Unificato, la ripugnante Om Bohokhrift, ossia un culto idolatra dei demoni e dei vampiri. 
Se avessi continuato nella mia insana passione per una donna della stirpe di Kutughar, discendente proprio dai più feroci carnefici dei miei correligionari, mi sarei macchiato di una tale infamia che sarei stato rinnegato ed escluso dal Sacramento del Fuoco. Persino mia madre mi avrebbe maledetto, e stando ai dogmi dei Ferengal sarei stato dannato in eterno. Come fare? 
Preso in una morsa, scisso e conteso tra le mie necessità e quelle della mia famiglia, non osai prendere la decisione di far morire la cosa sul nascere, come avrei invece dovuto fare. Continuai a blandire la mia adorata, e presto arrivai ad avere da lei il permesso di poterle baciare le mani. Accostare le mie labbra a quella pelle mi faceva quasi svenire dall’emozione: non avevo mai potuto toccare una donna una sola volta in vita mia prima di allora. 
I miei sospettavano che le mie continue uscite notturne nascondessero qualcosa di turpe. Quasi prevedendo un futuro nefasto, mio padre mi ammonì, dicendo che avrebbe ricevuto con minor pena la notizia della mia morte, piuttosto che quella di una mia azione disonesta. Mi disse altresì che se proprio non potevo fare a meno di peccare, meglio sarebbe stato giacersi con una donna prezzolata che con una prostituta legittima: nel primo caso il male non sarebbe durato oltre l’avventura. 
Non diedi ascolto a nessuno di questi saggi consigli e insistei con il mio amore proibito per la figlia del Duca Hasturk. Era una cosa grossa, se appena ci avessi pensato avrei capito che non aveva il minimo senso bramare di unirmi nella carne a lei: sarebbe stato come copulare con l’assassina dei miei cari. 
Il profumo della pelle di Vlensild mi inebriava e mi faceva perdere ogni cognizione. Così accadde che una notte, appena usciti dalla riunione nel laboratorio di Ansinaskar, lei mi prese da parte e mi baciò in bocca. Sentii la sua lingua e la assaporai. Tutto accadde come per automatismo. Lei si spogliò, mostrandomi qualcosa che non avevo mai visto. Non potei resistere. Mi guidò all’atto con mille impudicizie, così fornicai con lei e finii con l’emettere il mio seme nel suo ventre. 
Stavo tornando a casa in carrozza, quando un dolore insopportabile mi annientò. Era come se mi avessero conficcato una lama all’interno della scatola cranica per poi scoperchiarmi e mettere a nudo il cervello. Ebbi la sensazione che un corvo si fosse posato sulla mia fronte per immergere il becco nella materia grigia sanguinolenta. Vedendo in che stato ero, il cocchiere mi sorresse, non senza fatica, e mi trascinò fino al castello. Quello che sarebbe seguito non potevo far altro che accettarlo. 
Sapevo di non poter evitare la riunione di famiglia. Con il mio comportamento stravagante avevo troppo spesso minacciato di valicare i limiti ultimi dei tabù che gravavano sulla mia stirpe. Le mie frequentazioni non erano passate inosservate, così mia madre aveva riunito il parentado al completo per tenermi una predica. Forse mentre ero privo di sensi avevo rivelato qualcosa di cruciale, perché quando entrai nella grande sala, vidi che le espressioni di tutti erano funeree come non le avevo mai viste. Mio zio Gasthn, che era l’Anziano dei Perfetti, mi fissò a lungo. Non leggevo commiserazione nei suoi occhi, ma qualcosa di molto più tremendo. Se fossi morto, in fondo sarebbero stati felici per me: avrei abbandonato l’involucro corporale e avrei potuto conseguire una migliore rinascita. No, quello non era il mio funerale. Mi guardavano come se avessi subìto la Condanna Eterna. 
Mia madre prese la parola. Mi disse, col tono più grave, che quanto avevo fatto era tanto perverso ed infame che nulla poteva purificarmi. Il mio commercio carnale con la figlia di un persecutore comportava una colpa tremenda e rivelava in pieno la mia natura diabolica. Non ero un Figlio della Luce, ma un Figlio di Beylghilflar. Non avrei potuto perciò abitare più nella dimora avita, non avrei più potuto turbare la santità di quei luoghi che avevano dato ai Ferengal tanti Perfetti. Fu così che fui allontanato, ma con tutte le garanzie che il mio rango terreno comportava davanti agli occhi dei principi di questo mondo. Non avrei avuto di che lamentarmi. Mi fu concesso di abitare nel castello di Altoghand e mi fu assegnata una notevole rendita, purché conducessi la mia esistenza lontano dagli altri membri della famiglia. 
Altoghand si trovava oltre un territorio desolato. Era un luogo impervio e isolato, in cui sorgeva un’imponente dimora turrita costituita da enormi blocchi di basalto nero. In passato l’avamposto era servito ai Ferengal come rifugio dalle persecuzioni. La strada per raggiungere la fortezza si prestava a trappole micidiali e poteva essere interrotta in più punti, tagliando fuori ogni tentativo di invasione. Io sapevo i sentieri segreti che mi avrebbero permesso un viaggio relativamente sicuro, evitando le morene e i punti più franosi. In attesa di ultimare i preparativi per il trasloco, andai ad abitare in una locanda che si trovava non lontano dal laboratorio del dottor Ansinaskar. Passò qualche mese senza che potessi rivedere la mia amata Vlensild. Mi fu detto che non stava bene e che il suo augusto genitore le aveva revocato il permesso di uscire come aveva saputo che frequentava il Circolo dei Mesmeristi. 
Sentivo che prima o poi mi sarei imbattuto in un ostacolo insormontabile. Quando finalmente lei si fece viva, una notte in cui il gracchiare dei corvi sembrava rivelare sintomi di natura turbata, per poco non persi i sensi dalla gioia. Mi disse che era fuggita eludendo la sorveglianza delle guardie ducali e che di certo i suoi l’avrebbero presto cercata. Quello che aggiunse mi diede un tremito ancora maggiore. La fornicazione che c’era stata tra noi l’aveva resa gravida. Se l’avessi presa con me, si sarebbe concessa in matrimonio e saremmo vissuti insieme per il resto delle nostre vite. Con il cuore che mi palpitava in gola accettai. 
Andammo in un tempio della religione Om Bohokhrift e giurammo fedeltà reciproca davanti a uno dei suoi stregoni. Una cerimonia riservata che si svolse in gran fretta e col favore della notte per paura che i sicari del Duca potessero rintracciarci. Quando il sacerdote benedisse la nostra unione aspergendoci di sangue sacrificale, potei finalmente baciare la sposa. Sollevai il suo velo nero e accostai le mie labbra alle sue. Ora che la mia Vlensild era incinta avevo un’immane responsabilità. Le credenze ereditate dai miei stabilivano infatti che una donna morta in quello stato sarebbe stata destinata ad ardere in eterno nel fuoco nero degli Inferi. Anche se contemplando i suoi bellissimi occhi e il suo radioso sorriso non potevo credere che quanto asserivano i Ferengal fosse vero, non sapevo trovare un solo argomento razionale per escluderne a priori la possibilità. Pensai che troppe volte le cose più incredibili accadono. Chi l’avrebbe mai detto che le diavolerie faalu del dottor Ansinaskar mi avrebbero reso incerto persino della mia identità? Eppure era accaduto. Non potevo correre rischi. 
Il grigio lucore del giorno iniziava appena a filtrare dalla coltre di nubi chiamata cielo, quando partimmo in carrozza per Altoghand. Non c’era più il cocchiere della mia famiglia, e anche il veicolo non era lo stesso. Mio cugino Khlarn non aveva esitato ad accaparrarsi dei beni tanto importanti, così avevo comperato una carrozza nuova, più modesta ma funzionale, e avevo affittato un conducente tramite il gestore della locanda in cui alloggiavo. 
Il viaggio proseguì per tre giorni e tre notti, con soste limitate al minimo indispensabile per cambiare i cavalli. Raggiunti i confini della pietraia, ci toccò proseguire a piedi. La strada non era abbastanza larga perché un veicolo potesse percorrerla. Mia moglie propose di assoldare una guida, ma io sapevo di non poter rivelare la strada che intendevo percorrere. Se lo avessi fatto, sarei stato costretto ad uccidere la guida una volta arrivati. La cosa mi ripugnava al punto che opposi alla richiesta di Vlensild un netto rifiuto. Le dissi che sarei bastato io per difenderla da ogni insidia, e cha avrebbe dovuto togliersi quel ridicolo abito nuziale che ancora indossava. Lei si limitò a sistemarsi la veste in modo che non desse troppo fastidio e ribatté che avrei dovuto condurla nel castello così addobbata, come da tradizione Om Bohokhrift. Mio malgrado fui costretto a cedere. Nonostante la mia baldanza, dovetti riconoscere che la strada fu lunga e difficile. In certi punti vidi distintamente ombre guizzanti che si agitavano. Mi parve anche di sentire dei versi strazianti che lì per lì non fui capace di interpretare. In ogni caso erano inquietanti e mi fecero venire la pelle d’oca. Non erano lupi, sembravano più felini. 
Mentre procedevamo, meditai amaramente sulla mia breve esistenza. Avremmo dovuto restarcene tagliati fuori dal mondo per molto tempo, e non era garantita la nostra sopravvivenza. A quanto ne sapevo restava nella dimora di Altoghand un solo custode assai in là con gli anni. Non era possibile avere alcuna assistenza medica. Ogni malattia poteva condurci alla morte. Quello che non volevo ammettere era che non avevamo alcuna scelta. Esplorai il mondo alternativo da cui tanto avevo imparato, per vedere se le conoscenze di Edgar Allan Poe avrebbero potuto essermi d’aiuto. Niente da fare. L’Edgar Allan Poe che ero diventato mi evocava una gran quantità di vicende turbinose e confuse. Per quanto potessi capire, il mondo dalle grandi luminarie celesti era più complesso del nostro, ma nella sostanza non troppo diverso. “La stessa gretta miserabile umanità dovunque”, sogghignai sardonico. 
Quando giungemmo al castello di Altoghand sospirai di sollievo. Dopo tanta sofferenza avevamo il nostro nido d’amore a portata di mano. Ci ero stato soltanto una volta, quando ero ancora un infante. Adesso le mura del maniero mi sembravano ancor più scure e minacciose, forse perché la decadenza era nel frattempo proseguita apportando nuove corrosioni. Un muschio grigio nerastro si insinuava dovunque, intaccando i blocchi di roccia, che pure avrebbero dovuto essere incorruttibili. Dovunque volgessi gli occhi notavo asperità lebbrose e rivoli di umidità. 
Percorsi il ponte sul fossato dall’acqua zeppa di fetide alghe. Mi feci coraggio e sollevai il pesante batacchio che serviva ad avvisare della presenza di visitatori. Lo mollai, facendolo cozzare contro una spessa lastra di bronzo che ornava il portone. Il suono rimbombò a lungo, diffondendosi in echi spettrali. Dopo pochi minuti di attesa, il custode venne ad aprire e ci accolse degnamente. 
Presi Vlensild e la sollevai, piegandomi alle costumanze della sua religione. La sua corporatura era tanto esigua che non mi fu difficile farle attraversare la soglia senza toccare terra. Ci rinfrescammo e ci rifocillammo, ma lei non volle sentire ragioni: pretendeva di indossare quell’osceno sudario pagano durante l’accoppiamento. Avrei dovuto spiegarle che tanto, visto che avevano commesso peccato e che lei portava in grembo un demonio, il matrimonio poteva dirsi già più che consumato. Invece assecondai la sua immonda lascivia. Dopo che si fu lavata, si denudò completamente e si rimise l’abito nuziale. Io non vedevo l’ora di possederla. Siccome si trovava in stato di gravidanza, mi pregò di prenderla da dietro, per non urtare troppo i miei preconcetti sulla procreazione. Solo l’idea mi produsse una violenta eccitazione. In cambio la presi di nuovo tra le braccia e la sollevai. Le avrei fatto varcare la stanza nuziale senza il minimo contatto col pavimento. Il custode prese una torcia da una parete e ci fece strada. 
Vlensild non si aspettava che la stanza fosse in realtà una cripta. Era naturale che fosse così: essendo ogni forma di sesso detestata dai Ferengal, doveva essere consumato nel sottosuolo, dove Balagon non avrebbe mai potuto assistere alle sconcezze dei suoi figli caduti dal Cielo. La luce tremolante della torcia illuminava le pareti di quell’inferno ctonio, mettendo in evidenza ogni tanto delle strutture ad arco fatte di mattoni e di calce. Non potevo dire alla mia sposa che lì dentro erano state murate vive delle persone. Quando ero un bambino, mia zia mi raccontava sempre che spesso ad Altoghand si sentivano i lamenti dei morti, anime dannate rinchiuse in recessi angusti per le loro innominabili colpe. Sarà stata la suggestione, ma proprio mentre ci pensavo udii un verso raccapricciante. Adesso lo riconobbi: era l’urlo di un felino rabbioso. 
Chiesi a Vlensild e al custode se avessero sentito nulla, ma loro negarono. 
La camera da letto sembrava in tutto e per tutto un sepolcro. Il grande letto era tutto nero e coperto da un baldacchino dello stesso colore. Ai quattro angoli della stanza c’erano altrettanti sarcofagi in marmo massiccio, ornati da sculture di scheletri grotteschi. Le macabre figure sembravano modellate nel burro, tanta era la maestria con cui erano state intagliate. Dalle orbite dei teschi l’oscurità sembrava irradiare, il nero del marmo era come una lampada che divorasse la luce. Alzai gli occhi al soffitto. Sembrava di essere in un ossario: tutto era stata ricoperto da resti umani ripuliti. Persino i lampadari erano formati da spine dorsali e da decine di teschi deformi. 
Una torcia ardeva ad ogni angolo della camera, assicurando una fioca illuminazione. Non perdemmo tempo. Mia moglie si mise sul letto sulle ginocchia e sui gomiti dopo aver alzato la nera veste nuziale. Mi parve di vedere un’ombra guizzare, ma non ci feci caso. Ero pieno di libidine, così misi allo scoperto la mia virilità e iniziai a possederla come lei desiderava. Ancora quel dannato, indescrivibile verso! Era evidente che l’anziano servitore aveva permesso a qualche gatto di vivere nel castello. Adesso gli infelici animali erano in calore e si dilaniavano. Nonostante la paura e il disagio che quelle bestie mi mettevano, il mio ardore non diminuiva. Vlensild gemeva di piacere. L’indomani avrei dato disposizioni perché quelle bestie immonde fossero cacciate via o uccise. Meglio uccise, conclusi. 
Un rumore nuovo mi vece balzare sul chi vive. Questa volta sembrava che un grande vaso fosse caduto e si fosse rotto in mille pezzi. Ancora i gatti. Accidenti a loro, così non potevo andare avanti. Mi tirai fuori dalla mia adorata e mi incamminai verso l’ingresso. Presi una torcia e mi affacciai al corridoio. Uscii per vedere cosa stava succedendo. Proprio in quel momento accadde la sciagura. Un sibilo intensissimo, come una freccia di acciaio che fendesse l’aria. Poi l’urlo agghiacciante di Vlensild. Fortissimo, senza fine. Entrai e quando vidi ciò che stava accadendo i capelli mi si rizzarono come gli aculei di un istrice. Un piccolo gatto nero come la notte era balzato sul volto di mia moglie, dilaniandolo crudelmente con i suoi artigli affilati come rasoi! Aveva la testa piccolissima, con le orbite scavate al cui interno non si vedevano gli occhi, quasi fossero nere ferite nel bitume. Il corpo inarcato mostrava il pelo eretto, gli artigli scavavano negli occhi e nel volto di Vlensild, che ormai era del tutto cieca. Non riuscivo a reagire, ero paralizzato dal terrore, i muscoli mi erano diventati talmente rigidi che mi sembrava di essermi trasformato in un blocco basaltico. Il felino demoniaco era solido, ma al contempo sembrava che la sua sostanza fosse ombra condensata. Non era un essere naturale! Quando potei assumere di nuovo il controllo sul mio corpo, la mia Vlensild amatissima era stata uccisa. Ciò che seguì, avvenne in una frazione di secondo. Il gatto dell’Inferno girò il muso verso di me, preparandosi a balzare. Non avevo tempo di pensare, scattai e fuggii a precipizio per il corridoio, stando bene attento a non mollare la torcia. Corsi ed urlai fino ad esaurire il fiato nei polmoni. Mi accorsi che il custode non c’era: aveva pensato bene di dileguarsi, o forse Beylghilflar se lo era preso prima di esigere mia moglie in tributo. Le ombre balzavano dietro di me, i versi dei felini crebbero in intensità e in numero. Mi girai per un attimo indietro, solo per vedere la piccola figura di uno di quel mostri catapultarsi a mo’ di proiettile. Aprii un portone e lo chiusi, mentre i miei persecutori si accanivano contro l’inatteso ostacolo. Mi fermai a riposare un po’. 
Proprio quando sembrava tutto finito, con orrore mi resi conto che c’era un altro felino che saliva da una rampa di scale. Mi precipitai in un corridoio laterale, fino a giungere a un vasto salone dove si trovavano le catacombe. Nelle pareti erano scavati molti loculi in cui potei distinguere di sfuggita resti di ossa e di marciume. Il tanfo dei secoli mi avvolse e mi saturò. Come se la mia mano fosse guidata da una potenza soprannaturale, puntai la torcia verso il centro della stanza, scoprendo una botola che conduceva nel sottosuolo. Mi infilai dentro e mossi la pesante lastra quadrata di marmo per occludere il passaggio. Ero in una tomba. Dovetti sdraiarmi, perché non c’era molto spazio. La fiamma morente illuminò i corpi consunti di alcuni uomini rinsecchiti, di cui si erano conservate alla perfezione le barbe canute. Cercai in tasca e trovai qualcosa di molto utile: la cannuccia che mi serviva per inalare i vapori delle erbe aromatiche. Vidi una crepa nei pressi della lastra marmorea e vi infilai la cannuccia, quindi estinsi in tutta fretta il fuoco. Ecco, avevo trovato la mia ultima dimora. Fuori centinaia di felini impazziti cozzavano contro la botola nel tentativo di entrare: non potevano smettere, semplicemente non potevano. 

Così concludo questa narrazione, sapendo che viaggerà a lungo nell’Ade prima di giungere a destinazione. Per quello che mi riguarda, è solo questione di tempo e avrò la Cattiva Fine che mi sono meritato. Nel terrore assoluto, fino all’ultimo. 

Marco "Antares666" Moretti,
pubblicato nell'antologia del concorso letterario Una Penna per Poe (2010), indetto dal blog edgarallanpoe.it e dal sito La Tela Nera. 
L'ebook, non più disponibile, era scaricabile gratuitamente a questa pagina: 

domenica 1 gennaio 2023

STORMI IN PICCHIATA 

Inghilterra. La costiera del luogo un tempo conosciuto come Diacono di Sale. Saltdean. Davanti a me, circospetto e pieno di paure, una villa romana.
I pavimenti della grande sala erano a scacchiera, un motivo davvero insolito. Lo spazio era delimitato da un colonnato arioso. Sentivo su di me l’aria gelida: gli antichi Romani non conoscevano le finestre di vetro: ogni spazio di quell’antica dimora era aperto. Gruppi di statue ornavano i vari aditi. Riconobbi motivi che neanche la mente umana più delirante aveva osato ritrarre prima. Il Cesare Caligola, scolpito nel marmo, sembrava vivo. Alcune sculture lo mostravano nell’atto di ingerire le scorie delle sue molte amanti, mentre in un pezzo davvero unico era impegnato a discorrere con un mostro marino.
Ogni passo mi sembrava una mossa cruciale su una scacchiera ontologica; se avessi indugiato oltre, sarei rimasto paralizzato come l’asino di Buridano. Panni violacei ornavano un grande letto disfatto, la cui fattura era indubbiamente moderna. Non capivo il significato di quel luogo, che non avevo mai visto in vita mia. Forse era il prodotto allucinatorio di qualche mio dimenticato furore bacchico, il residuo di un cattivo viaggio che non voleva saperne di estinguersi, riverberando all’infinito sul pelo della mia autocoscienza martoriata.
Mi sembrava che il tempo fosse congelato. Stavo vivendo, anzi vegetando tra le quinte del Tempo. Non potendone più, uscii da quell’ambiente malsano, tornando sulla via del lungomare che pareva abbracciare l’Infinito, tra massi erratici eiettati da un vulcano in epoca preistorica.
Alzai gli occhi verso la volta celeste. Un ammasso di nubi impenetrabili la rendeva assolutamente grigia, una massa di cervella infette estratte dal cranio del gigante Ymir, viranti al nero in uno scenario di decadenza apocalittica. Strali sulfurei si coglievano all’orizzonte, proprio dove il mare plumbeo moriva, risucchiato dal denso orizzonte degli eventi di un buco nero.
Camminando lungo il viottolo, contemplai per qualche ora i cavalloni del mare ruggente. Masse di acqua grigia come palta, mostruosità eruttanti che parevano sfidare lo stesso principio della mia creazione. Più il cielo si contaminava nel nero petrolifero delle sue sfumature, più le masse bianche di calcare si stagliavano nitide. Il vento spirava talmente forte da darmi fastidio. Sibilava contro i miei timpani, portando cristalli di ghiaccio meteorico sul mio volto antico e petrigno.
Mi rapì un’improvvisa ondata di stanchezza. Bagliori remoti iniziavano ad accendere le nuvole. Fuochi fatui infiammavano le chiome del Dio della Tempesta, ne coglievo l’ultimo balenare giallastro proprio dove la tenebra diurna tendeva ad accumularsi. Tale era il muro d’ombra davanti a me, che decisi di tornare sui miei passi.
Giunto di nuovo nei pressi della villa romana, tutto mi sembrava differente. Non riuscivo a raccapezzarmi: ogni muro, ogni colonna dava al contempo impressione di familiarità e di stranezza. Voltando lo sguardo verso la grande sala dove ero già stato, rimasi abbacinato dal riflesso spettrale di una ragazza bionda che guardava intenta un lungo abito bianco appeso alla parete, ritorto in molteplici pieghe come spire di serpente. Potevo guardare attraverso quella sagoma, tanto era trasparente. In breve tempo la figura scomparve, disperdendosi nel Nulla da cui si era chissà come generata.
All’improvviso mi scosse un rumore assordante proveniente dall’etere cupissimo. Alzai di colpo lo sguardo chiedendomi cosa stesse mai accadendo. Quando compresi, rimasi paralizzato dall’orrore.
Una massa di uccelli gravava su ogni cosa, facendo brulicare di ali l’alto dei cieli. Turbini rimescolavano quella marea compatta di piume brune, e io ebbi l’impressione di trovarmi sull’orlo di un ciclone di proporzioni immani. I versi disperati che provenivano da milioni di gole mi facevano gelare il sangue nelle vene. Stava accadendo qualcosa di mostruoso, portento della Natura turbata, segno della Fine dei Tempi, annientamento di ogni utopia e di ogni umano ideale. Non ebbi nemmeno il tempo di muovermi, di fuggire via, di cercare riparo nella villa romana. Le prime formazioni di uccelli impazziti cominciarono a gettarsi giù a picco. Stridendo in modo atroce, si immersero nelle acque grigie e lutulente del mare.
Una volta inghiottiti dalle onde furenti, non cercavano in alcun modo di ribellarsi, non sbattevano le ali come l’istinto di conservazione avrebbe loro imposto. Simili a missili, conservavano la loro rigidità sprofondando fin nell’abisso.
Mi colpì un mortifero vento di empatia, e sentivo dentro di me, nel midollo, le sensazioni provate da quegli infiniti suicidi. Gli animali non facevano nulla per evitare il loro fato. Accoglievano il soffocamento, facendo entrare l’acqua caustica nei polmoni e negli stomaci, fino a morire in una lenta agonia. Alcuni arrivavano ancora moribondi sul fondo, cercando follemente di scavare col becco, fino a spirare in quella liquida oscurità inospitale.
Non era finita. Avevo gli occhi fissi sulla nemesi dei volatili, cristallizzati nella contemplazione dell’epifania tanatogena. Nuove moltitudini si mossero, un nugolo dopo l’altro, imitando i loro antesignani nella brama di annichilirsi. La catastrofe sembrava ripetersi infinite volte.
Ero sicuro che sarei presto bruciato nel delirio, tanto era la mia partecipazione viscerale a quello sconfinato massacro di esseri consegnati all’asfissia. La Natura doveva essere adirata, nella sua inumana potenza, per spingere a comportamenti così perversi. Ogni morte formava un microscopico tassello di un mosaico nero che si andava componendo nel mio cranio, un tassello rovente che si conficcava nella mia materia grigia, facendo sfrigolare la rete sinaptica. Emisi un urlo che, in quell’istante ne ero certo, nessun essere umano aveva mai emesso in tutta la storia di questo infelice pianeta, mentre le ultime orde alate sciamavano verso la distruzione del respiro nell’inferno subacqueo. 

Marco "Antares666" Moretti,
pubblicato sul sito connettivista Next-Station.org (2010). 

sabato 3 settembre 2022

La seconda morte di Lazzaro

Voi non avete idea di quel che significhi, non lo immaginate neppure lontanamente.
Ero morto stecchito, giacevo immobile nel sepolcro, al riparo dagli oltraggi della sorte.
Mi aveva ucciso un'infezione massiva da ascaridi.
Quei maledetti nematodi, che avevo inconsapevolmente ingerito mangiando verdura contaminata da uova embrionate, mi colonizzarono l'intestino e da lì si irradiarono sino agli alveoli polmonari.
Una morte che non auguro a nessuno.
Ritenevo, morendo, che nulla potesse più nuocermi.
Quand'ecco che, trascorsi quattro giorni dal mio decesso, accadde l'impensabile: l'Uomo di Nazareth si presentò dinanzi al mio sepolcro e mi riportò in vita.
Non chiedetemi come e perché.
Ero morto da quattro giorni, capite?, ed esalavo già cattivo odore, come mi fu riferito in seguito dalle mie sorelle, Marta e Maria.
Non vi dico l'angoscia che mi assalì quando mi risvegliai nella tomba, avvolto dalle bende funebri!
La lastra che chiudeva l'ingresso del sepolcro era stata rimossa.
Incerto nei movimenti, guadagnai l'uscita. All'esterno vidi radunata una piccola folla di persone: fra loro, Colui che poco prima mi aveva invitato ad alzarmi.
Marta e Maria mi si precipitarono incontro, mi abbracciarono e mi accompagnarono a casa, a Betania. Tale era il mio turbamento che non riuscii a spiccicare parola per ore ed ore.
Il peggio, tuttavia, doveva ancora venire.
Trascorse un paio di settimane, mi ammalai nuovamente. Gli stramaledetti ossiuri erano stati resuscitati anch'essi! Di nuovo, mi causarono una occlusione del lume intestinale, e una pancreatite acuta mi stroncò nel giro di due giorni.
Mentre agonizzavo per la seconda volta, disteso sul mio misero giaciglio, intravidi con la coda dell'occhio le mie sorelle intente a confabulare in un angolo della casa. Con le poche forze che mi erano rimaste, esclamai: "Non vi venga in mente di mandare a chiamare ancora il Nazareno!".
Credo che la mia preghiera sia stata esaudita: non mi sono ridestato all'interno di un sepolcro, non possiedo più un corpo fisico e i parassiti intestinali sono un brutto ricordo che va pian piano sbiadendo. 

Pietro Ferrari 

giovedì 30 giugno 2022

L’inizio della fine

Se c’è vita dopo la morte, prima della vita che c’è?

Dove se ne sta l’anima prima del concepimento? Preesiste forse alla fusione tra gamete maschile e gamete femminile? Oppure è un prodotto di tale unione?

Entrambe le ipotesi spalancano scenari vertiginosi. 

Nel primo caso, dovremmo supporre l’esistenza di un magazzino astrale in cui siano custodite le anime da assegnare agli zigoti. 

Assegnate da chi? Dal Magazziniere celeste, preposto alla gestione della catena della distribuzione. 

Nel secondo caso, l’anima sarebbe un prodotto collaterale del coito fecondo. Resta da chiarire come possano le cellule sessuali, prodotte dalle gonadi, creare un principio immateriale qual è l’anima. 

In preda a questi interrogativi varcai la soglia del centro convegni Philipp Mainländer, un edificio in pietra dall’aspetto opprimente, situato a poca distanza dal cimitero monumentale. 

Vi erano convenuti esperti e figure di rilievo istituzionale per discutere il caso dell’anno, anzi, del secolo. 

Il mio compito era quello di stilare il verbale della riunione, che ho deciso di rendere pubblico. Eccolo: 

Luca Sandri, Professore associato di patologia generale all’Università “Clara Immerwahr”:
Il fenomeno che stiamo affrontando non ha precedenti nella storia del genere umano. Ciò non significa che noi si sia del tutto impreparati ad affrontarlo. Sin dagli anni Settanta sono stati elaborati protocolli dettagliati, proprio in previsione di una simile eventualità. A questo si aggiunga che, nella cultura popolare, la figura del resuscitato è fortemente radicata da decenni, sia pure con connotazioni negative e terrorizzanti.
Quella cui stiamo assistendo, per fortuna, non è l’apocalisse zombi narrata nei film e nei videogiochi. Per comprendere ciò che sta accadendo, dobbiamo stabilire in via preliminare un punto fermo: i resuscitati non sono ostili. Non è stato registrato in tutto il mondo un solo caso di aggressione da parte dei resuscitati ai danni dei vivi. Non uno.
Si tratta, come potete comprendere, di una premessa essenziale: non siamo di fronte agli zombi cannibali cui ci ha abituati il cinema.
Detto questo, vediamo di chiarire cos’è un ritornante.
I primi casi di resurrezione si sono verificati presso le camere mortuarie degli ospedali. Soggetti di cui era stata constatata la morte, a distanza di alcune ore dal decesso hanno ripreso vita. Per essere precisi, il fenomeno si è verificato allorché l’algor mortis era già avviato ma prima che subentrassero il livor e il rigor mortis.
Ciò che mi preme sottolineare è che il resuscitato non è un cadavere. Nel suo corpo i fenomeni cadaverici si sono interrotti nel preciso istante in cui il cuore ha ripreso a battere e il sangue a circolare. Le funzioni cerebrali risultano però compromesse. La coscienza dei ritornanti è offuscata, i loro movimenti appaiono incerti.
Tuttavia, essi sono vivi e, come chiunque di noi, hanno necessità di alimentarsi e di bere. Privato d’acqua e di cibo, il ritornante apparentemente muore. Dico apparentemente perché in realtà il ciclo poc’anzi descritto si ripete di nuovo.
Lo sconcerto che colgo nei vostri volti è del tutto naturale. Vi starete domandando: “Ma allora non si muore più?”.
Al momento la scienza non è in grado di fornire una risposta certa a tale quesito.
Possiamo solo constatare come il decadimento cellulare paia subire una interruzione. Se essa sia permanente o meno ci sarà dato sapere solo seguendo l’evolversi del fenomeno.
Veniamo ora a un argomento cruciale.
Appurato che i ritornanti non aggrediscono i vivi, di cosa essi si nutrono? Mediante osservazioni condotte in laboratorio, abbiamo potuto appurare che i ritornanti riconoscono il cibo mediante la vista e l’olfatto.
L’epitelio e il bulbo olfattivo nonché la corteccia visiva primaria non riportano, nelle ore immediatamente successive alla morte, danni irreparabili.
Posti di fronte a un carrello su cui erano stati collocati recipienti contenenti purea di patate e carne di suino tritata, i ritornanti coinvolti nell’esperimento si sono messi ad attingere il cibo con le mani, dando la priorità alla carne, lo hanno portato alla bocca e lo hanno ingerito.
Si sono inoltre chinati sul carrello per bere da una bacinella colma d’acqua.
Pur comprendendo la natura socialmente traumatizzante del fenomeno in corso, è nostro dovere rassicurare l’opinione pubblica circa la non-pericolosità dei ritornanti e contrastare la diffusione, da parte di complottisti e squilibrati vari, di notizie false e allarmistiche sulle piattaforme social.
Grazie a tutti voi per l’attenzione. 

Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri Gustavo Sette:
Sono un militare, e il mio compito è far sì che l’ordine pubblico non precipiti. Le spiegazioni del professore sono parzialmente confortanti. I cosiddetti ritornanti non sono ostili, e questa è sicuramente una buona notizia. Non possiamo però sottovalutare gli effetti che questo fenomeno sta producendo nella nostra società. I ritornanti non riconoscono i parenti. È come se i loro cervelli fossero stati resettati.
L.S.:
Non del tutto, generale, non del tutto.
G.S.:
Va bene, ciò non toglie però che i morti viventi – mi permetta di definirli tali – non sembrino riconoscere figli, fratelli, sorelle, nipoti. A questo si aggiunga che, se riportati nelle proprie case, tendano ad allontanarsene per mettersi a girovagare senza meta, con andatura barcollante. La qual cosa crea problemi alla circolazione. Farò un esempio banalissimo: i morti viventi ignorano il funzionamento dei semafori. Sapete cosa significa tutto questo? Incidenti stradali, interruzioni continue del traffico. A questo si aggiunga un fatto che non posso tacere, benché sia assai sgradevole. Quelli che lei chiama “resuscitati” defecano e orinano sulla pubblica via, di fronte a tutti. Capirete che ciò non è tollerabile, per ragioni di igiene pubblica e di decoro. Più di una voce si è espressa a favore del concentramento dei morti viventi in apposite strutture protette, per garantire la loro e la nostra sicurezza.
L.S.:
Sta forse proponendo la creazione di campi di concentramento per i ritornanti?
G.S.:
Molte famiglie vedrebbero con favore questa soluzione. Non tutti possono farsi carico dei morti tornati in vita. E noi non possiamo permettere che gli equilibri sociali crollino a causa di un simile evento. Ho qui con me il testo di una petizione sottoscritta da alcune migliaia di cittadini. Vorrei leggervela:
Siamo onesti lavoratori e lavoratrici con figli a carico, abbiamo assistito i nostri anziani a prezzo di grandi sacrifici. Li abbiamo vegliati sul letto di morte. Abbiamo pianto per il loro decesso. Molti di noi hanno affrontato spese cospicue presso le agenzie di pompe funebri, solo per vedere poi ritornare in vita i nostri cari estinti. Non fraintendeteci: non intendiamo certo dire che ci dispiaccia rivederli. Allo stesso tempo, però, ci troviamo in una situazione difficilissima: le agenzie di pompe funebri non rifondono le spese già sostenute. Per le bare non è previsto il reso. Quanto ai nostri vecchi, come possiamo riaccoglierli in casa nello stato in cui sono?
Vi chiediamo pertanto di voler assumere dei provvedimenti volti, da un lato, a consentire il rimborso delle spese funerarie da noi sostenute, e dall’altro alla gestione degli ex-defunti. Non è pensabile che l’onere di affrontare una crisi sociale di questa portata sia demandato alle singole famiglie! Questi non sono anziani qualunque che possano essere affidati alle cure di una badante dell’Est: sono morti viventi!
Le istituzioni si attivino: ne va del futuro dei nostri figli!

Edgardo “Jerry” Rapisarda, Ministro della Salute:
Mi sia consentito… Mi sia consentito precisare che, da parte di alcuni esperti, è stato suggerito per motivi umanitari di applicare misure di eutanasia ai ritornanti.
L.S.:
Quindi, dopo averli rinchiusi in campi di concentramento, dovremmo pure sterminarli? E come, di grazia?
E.J.R.:
Beh, spetterà agli esperti definirà le modalità più adeguate. L.S.:
Con l’acido prussico?
E.J.R.:
Non spetta a me deciderlo, ma agli scienziati.
L.S.:
Si rende conto della gravità di quanto va proponendo?
G.S.:
Professore, mi permetta: il ministro non ha tutti i torti. Di questo passo saremo costretti ad assumere misure draconiane. Dove li mettiamo tutti questi resuscitati? Che facciamo, se non muore più nessuno?
L.S.:
Se il vostro intento è quello di sterminarli, dovrete assumervi la piena responsabilità di questa decisione. Per liquidare decine di migliaia di ritornanti servirà personale appositamente addestrato, strutture adeguate, forni crematori in cui smaltire i resti… E mentre voi – o meglio: mentre coloro che incaricherete di questo ingrato compito distruggeranno i resuscitati, altrove, nel frattempo, gli esseri umani continueranno a morire… e a tornare. Lo capite questo? Sarete comunque sopraffatti. Sapete quante persone muoiono ogni giorno nel mondo? Centocinquantamila. Al giorno!
E.J.R.:
In tal caso si potrebbe prevedere di decapitare i cadaveri non appena accertato il decesso.
L.S.:
E chi dovrebbe eseguire questo compito? Il personale sanitario? I parenti?
G.S.:
Qualcosa bisognerà pur fare, o dovremmo stare a guardare mentre la società collassa? Forse lei non sa che in alcune località si stanno costituendo delle ronde. I cittadini, esasperati, si mobilitano per contrastare il vagabondaggio dei morti viventi.
L.S.:
Ma quali ronde, quali cittadini esasperati, si tratta di gang di teppisti!
E.J.R.:
Questa è la sua opinione, che non condivido.
G.S.:
Nemmeno io.
L.S.:
E lei, eminenza, che ne pensa? 

Cardinale Bartolomeo Fulci:
La gravità del momento impone a tutti noi di ponderare con estrema attenzione le nostre parole. Siamo in presenza di un prodigio, un evento inaudito che interpella le nostre coscienze: i nostri cari defunti ritornano in vita! Come si può anche lontanamente pensare di destinarli alle camere a gas?
E.J.R.: Proprio perché abbiamo a cuore l’interesse generale siamo tenuti a valutare, sia pur con rammarico, l’ipotesi di ricorrere a soluzioni estreme. 

La riunione si chiuse con un nulla di fatto. Ciò non impedì tuttavia che venisse diramato alle agenzie di stampa un comunicato dal titolo:
“Piena intesa tra le autorità politiche, militari e religiose”.
Personalmente, non mi sono mai fatto illusioni. A differenza di altri sapevo che non sarebbe durata a lungo. “Non sono ostili”, dicevano, ed era vero, o quantomeno lo è stato, per un po’. Sino a quando, esasperati dalle violenze subite, i resuscitati non hanno cominciato a reagire. Sapete benissimo a cosa mi riferisco. I resuscitati venivano sistematicamente presi di mira da bande di giovinastri e di energumeni. Aggrediti per strada senza alcun motivo, per semplice “divertimento”. Nessuno si è preso la briga di arginare questa ondata di assalti. Sono stato testimone di uno di essi. Stavo tornando a casa, sul marciapiede pochi metri avanti a me avanzavano con passo incerto due resuscitati. Una vettura cabrio rallentò, si accostò al marciapiede e un tale, seduto al posto del passeggero, si sporse e colpì a tutta forza con una mazza da baseball la nuca di un resuscitato facendolo crollare a terra. Episodi simili si sono verificati in tutto il Paese. Sui giornali ci fu persino chi provò a giustificare queste violenze sostenendo che i resuscitati, sommariamente definiti “zombi”, non possiedono alcuno status, alcun diritto civile, essendo stati dichiarati clinicamente morti.
A questi opinionisti si è obiettato che il vilipendio di cadavere è un reato punito dalla legge. Non è servito a nulla. Ed ora siamo nella merda nera.
"È fondamentale cercare di evitare il più possibile il contatto diretto con i resuscitati. Se si venisse morsi o graffiati da uno di essi, non si potrebbe escludere il contagio"
I virologi furono i primi a lanciare l’allarme, ma era ormai troppo tardi. Il contagio aveva già preso piede. Come se avessero ricevuto lo stesso ordine nel medesimo istante, alla fine del mese di giugno i resuscitati cominciarono ad assalire i vivi, mordendoli e graffiandoli. Le vittime di queste aggressioni, trasportate in ospedale, manifestavano i sintomi di una gravissima infezione virale, resistente ai farmaci, capace di colpire il sistema nervoso centrale e provocare la morte nel giro di poche ore. Quel che è peggio, a breve distanza dall’avvenuto decesso gli infettati tornavano in vita e assalivano a loro volta il personale medico-infermieristico, mossi da un incoercibile impulso a lacerare le carni dei vivi per nutrirsene.
L’esercito fu mobilitato, in ritardo. Le autorità politiche, paralizzate dalla paura, stentarono ad assumere provvedimenti efficaci. E l’epidemia dilagò. Fu così che ebbe inizio la fine.

Pietro Ferrari

sabato 4 giugno 2022

IL FATO DI XAD

1. Prologo

Intendo raccontarvi una storia mirabile e sinistra, ambientata in un tetro mondo che conosce soltanto la luce di un piccolo sole grigio che ottunde i viventi con i suoi raggi nocivi, come un messaggero di prossima sventura, istante per istante. Il vento alza la polvere. Il vento stesso sembra polvere. Nelle piazze si radunano uomini in armi, marciando e intonando strani inni di guerra. Battaglie. Sirene che urlano. Vetri rotti. Esplosioni di bombe. Una guerra endemica, uno stato di rivolta perenne che non porta a nulla. Canzoni di esaltazione inumana le cui note si innalzano al cielo spento e si perdono in lontananza nei vicoli. Un’ideologia della violenza come strumento di darwinismo sociale. E dall’altra parte dello schieramento, convulsa irrazionalità, la follia ossimorica di chi uccide in nome della Vita, di chi massacra di botte in nome della Nonviolenza. Fuochi sul muri, che rendono nero e untuoso ogni intonaco. Porte divelte, cadaveri bruciati per strada con taniche di benzina. C’è chi giura di aver visto corvi morti trascinati dal vento disfarsi in mulinelli di scintille nere. C’è chi giura di aver visto bambine pallide alle finestre di case diroccate. C’è chi giura di aver sentito sospiri echeggiare per le vie notturne senza una causa apparente. Avrà mai fine tutto questo marasma? Sorgeranno nuovi giorni dopo questa Era dei Lupi? Mentre dall’alto del suo inespugnabile Palazzo il Ministro Somnyu invita alla calma e nega in sostanza l’entità degli scontri, centinaia di giovani muoiono invano. Il vecchissimo Presidente Morranu, del tutto estraniato dalla realtà, continua ad invitare la gente all’ottimismo. “Il declino non esiste”, questo è il suo motto.

2. Xad odia

Incapace di lasciare la tomba, incapace di svincolarsi dalla carcassa, lo spirito di Xad odia. Odia tutto e tutti i viventi. Eppure in vita era stato animato da tante utopie. Veleno. Ora Xad sa. Tutto ciò per cui ha vissuto è solo veleno, solo menzogna. Questa consapevolezza non gli è però di alcun aiuto. Tutto gli pare paradossale. L’unica cosa di cui è ricco è il tempo, che sembra non scorrere mai, quasi fosse cristallizzato nell’intorno di pochi istanti. Xad sfrutta questa ricchezza sconosciuta ai vivi per cercare di capire qualcosa della sua orrida situazione presente. Eternamente presente.

3. Morte e reminiscenza

Era tra i fanatici Aphitnah, quando una notte molti coltelli stroncarono la sua esistenza terrena, versando il suo sangue tra le immondizie che cospargevano la sordida via dell’agguato. All’inizio Xad non era neppure capace di accorgersi di essere morto. Pensava che l’avesse colto una paralisi maligna, del tipo sindrome dell’uomo incapsulato, che non gli permetteva di muovere neppure un muscolo. Vedeva i suoi compagni ricomporre il suo corpo e coprirlo con un sudario, e cercava in preda al panico di dire loro qualcosa, di fare capire loro che lui viveva, che non dovevano seppellirlo. Nessun nervo, nessun muscolo gli obbediva. Così dopo la veglia funebre fu chiuso nella bara e portato al cimitero. Poco alla volta si rese conto di non avere bisogno alcuno di respirare...

4. Tempi di scheletrificazione

Xad coglie nella sua squallida prigionia il rumore dell’erba che cresce, il gorgoglio del flusso mucoso secreto per stillicidio dalle ghiandole salivari degli uccelli. Non gli servono occhi per vedere, non gli serve la luce per discernere gli oggetti e i loro dettagli più insignificanti dalle ombre del sottosuolo. È cosciente come mai fu in vita. Coglie con agghiacciante lucidità il formarsi di metilmercaptano nelle sue carni, e per ingannare il tempo che gli sembra immobile, Xad elabora mappe mentali dello sfacelo della sua carcassa. Si costruisce una ragnatela simbolica atta a descrivere i gradienti di concentrazione degli enzimi putrefattivi, sonda dedali di canalicoli morti nel loro implacabile rattrappirsi, percepisce l’ammorbante accumulo dei gas cadaverici nei diverticoli del suo ventre gonfio, il loro fuoriuscire dai tessuti, molecola dopo molecola. Avverte la gioia delle larve intestinali, gongolanti in quel fetido brodo di morte. Se solo pochi istanti vissuti al rallentatore gli mostrano tutto questo, come potrebbe mai lo spirito di Xad sopportare i miliardi di eoni che ancora lo separano dalla libertà? Ma sarebbe mai venuto quel momento? O il suo essere si sarebbe disperso con la polvere del corpo?

5. Occhi composti

Occhi sinistri osservano il corpo di Xad nel suo decomporsi. Il Gobbo Nero è una presenza discreta, al punto che per molto tempo lo spirito di Xad non è stato capace di accorgersi di lui... Non è un Gobbo Nero come tutti gli altri, non somiglia ai terrori notturni che funestano i sonni degli infanti facendoli destare madidi di sudore in preda alla tachicardia, quando non li uccidono con un improvviso blocco respiratorio. Questo è un omino molto particolare, che si distingue anche nella tenebra più fitta per i suoi giganteschi occhi di insetto. Ommatidi fissi, lucidi, di un duro nero iridescente e assassino. Non un filo di anima sembra filtrare da quei pozzi infernali che ora fissano gelidi il cadavere immobile nel marmo.

6. Perfezione postuma

Ora Xad sa. Sa perché il sesso genera tanto dolore. Sa perché l’unione tra maschio e femmina è l’impulso contaminante alla radice di ogni male. Xad sente l’odore della propria salma-carcere. Quella puzza di formaggio marcio misto a qualcosa che ricorda lo sterco grasso. Quel sentore afoso ed opprimente familiare a chiunque abbia annusato effluvi cadaverici filtranti da una lapide mal messa in una tomba murale. Nessuno se ne dimentica una volta che l’ha sentito anche soltanto una volta. Quello è l’odore dell’Uomo, quella è la fragranza delle sue pelle. Ogni persona porta su di sé il marchio d’infamia della propria creazione, per quanto possa darsi da fare a rimuoverlo lavandosi.

7. La Preghiera di Xad

Oh vermi, mi consegno all’oscenità della vostra masticazione!
Liberatemi da questa maschera!
Oh Nulla, mi consegno al Tuo oblio!
Immergimi nel pozzo da cui non c’è ritorno!
Fa’ sì che io cessi di esistere e non sia mai esistito!
Oh predatori degli Inferi, cancellate ogni mia impronta dai labirinti del divenire!
Liberatemi da questa insopportabile finzione!
Oh Baratro, inghiotti la mia ontologia, bevi il mio noumeno!
Che ogni vibrazione cessi nella sostanza astrale che ancora mi fa ragionare!

8. L’Infinito nella Pietra

Giacigli funebri, visti come estensioni più insondabili delle vastità siderali... Marmi intrisi del sudore e dello spurgo del Tristo Mietitore, lapidi che occultano i segreti ultimi degli Dèi dell’Annientamento. Nel campo visivo distorto del cervello morente si diffrangono figure del tutto nuove, sagome di astronavi affusolate dirette verso un inconoscibile iperspazio… Una caverna prende forma nei bassifondi della consapevolezza, e il suo richiamo è dolce. Attira il viandante come la melodia di una sensuale sirena, e dal festino illusorio in cui sono profusi gli ultimi colori dell’esistenza terrena, ecco che si passa a un nero assoluto che promette la fine di ogni affanno: il Riposo…

9. Autolisi della mente

La Montagna della Morte sorge dagli Inferi come un lento e mostruoso leviatano. All’inizio è solo un piccolo ostacolo sul Cammino della Vita, ma presto cresce in modo inarrestabile e oscura ogni cosa con la sua ombra minacciosa. La Terra di Psyche trema, si spacca, e la sua geografia neurale viene sconvolta. La Montagna cancella il Cammino, ne disperde l’essere e il ricordo, per estendere il suo nero manto sull’intero orizzonte. Tutto è futile, tutto è inutile entropia: il DNA, la sua lotta per sopravvivere, l’agonia dello sperma che cola dall’uretra nell’istante del trapasso, teso verso un’impossibile immortalità. Quell’ultima erezione, vana e convulsa contrattura del violato, simulante un coito con il vuoto sotto gli occhi del Cielo del Nulla. Come un ragno gettato nell’Abisso, che dimena impazzito le sue zampe cercando un inesistente appiglio, l’intero universo che muore lentamente nel suo ottuplice sguardo.

10. L’incarico

Ille Tumleh ha ormai smesso di guardare fuori dal suo studio umido e fungoso. Quella finestra è poco più di una feritoia incassata in un muro spesso da cui essuda una fetida muffa grigia. Sul lato opposto della stanza è appeso il grigio ritratto di un uomo smunto dal volto allungato e dagli occhi vuoti. Nessuno ha mai saputo chi fosse, ma non c’era una sola persona che potesse guardarlo senza provare un indefinito senso di contagio orrorifico. Tumleh sa anche il perché, e sa che sarebbe molto difficile per qualsiasi persona razionale accettare quella sua spiegazione. Quel quadro appartiene a un altro universo, è una reliquia extra-continuum, un reperto erratico sfuggito alle leggi della quantistica. Tumleh conosce soltanto il nome dell’uomo, ma non osa pronunciarlo per timore che il suo suono possa produrre una qualche disgrazia. E che strano suono, talmente esotico che non si riesce a capire da quale lingua possa essersi generato… Lav-Krapht... Proprio mentre ci pensa, il campanello suona e una lettera viene fatta scivolare sotto la porta.

11. Un mito funesto

Ille Tumleh medita sulla strana richiesta pervenuta al suo ufficio investigativo. Un uomo misterioso privo persino di pseudonimo è interessato a recuperare ad ogni costo un oggetto capace di gettare sul mondo intero sventure indicibili. Acclusa alla lettera è la narrazione di uno strano mito di origine sconosciuta, di cui è stata trovata traccia in un’iscrizione petroglifica della remota Terra di Remus. Si dice che 36.000 cicli solari prima, durante l’avvicinamento del pianeta oscuro Uribin, dalla sua Porta Dimensionale sia scaturito Spur, il Demiurgo-Insettoide. Un umanoide grigio che poteva sopravvivere soltanto lontano da qualsiasi radiazione stellare. Chiuso nella sua arca di piombo uranifero, sarebbe caduto nelle profondità di Edre, in attesa di essere di nuovo liberato dai sommovimenti tettonici che lo avrebbero riportato in superficie e reso immortale. Seguendo i calcoli contenuti nell’opera dei Grandi Necromanti di Nahtap, la sua presenza sarà presto localizzata…

12. L’antico Ateneo

L’università di Mahkra regna la desolazione. I mattoni sono erosi dalla lebbra dell’umidità, dalle muffe, da grasse fungosità. Dovunque per strada ci sono scorie e rottami, sembra che la cittadella accademica sia stata abbandonata da tempo. Ille Tumleh non incontra anima viva sul percorso che porta alla Biblioteca. Oltre a lui, l’unico essere dotato di moto proprio è un ratto bianco che corre a nascondersi in un diverticolo ctonio. Lacere bandiere politiche sono appese sui tetti dei dormitori dai vetri rotti. Sfilacciate, hanno ormai quasi perso i loro colori. Alcune appartengono a movimenti nati da poco e già paiono vecchie di decenni. Mentre procede, l’investigatore medita sul mito e sul senso della sua ricerca. Non ci sono dubbi che il sarcofago del Demiurgo-Insettoide è il responsabile dell’atroce stato di decadenza dell’intero pianeta. Se sarà scoperchiato, la sua potenza contaminante non potrà essere contrastata. Un rumore infrange quella quiete quasi assoluta, distraendo l’uomo dalle sue anguste meditazioni. Alza gli occhi e li rivolge a un muro, su cui campeggia una scritta tracciata di fresco: XAD ODIA.

13. ITIPVTVLHTAVSAL

Ille Tumleh rimane a lungo ad osservare quella scritta. La fissa senza poter distogliere lo sguardo, come se ne fosse rimasto ipnotizzato. Una corrente tellurica di immagini subliminali trasmette il nero più assoluto nella sua anima. Non riesce a muoversi. È rimasto profondamente impressionato da quello che avrebbe dovuto essere solo uno slogan. Si immagina una larva malefica covante nel corpo in decomposizione di un giovane precocemente stroncato, nel marmo di una tomba. Una proiezione, uno spettro. L’ombra di un’ombra, ma ancora capace di rancore, di furia. Una cosa inquietante... I pensieri sorsero come da un pozzo indefinito. ITIPVTVLHTAVSAL. Così gli antichi Ansar chiamavano nella loro lingua l’essere che non poteva sfuggire da un luogo di sepoltura, murato per sempre in un letto di dolore.
- La cosa più assurda di questa vicenda acherontica – rifletté - è che questo Xad un tempo era un Edarmak. Poi all'improvviso, quasi a causa di un colpo in testa, divenne un Aphitnah pazzo... Forse un coagulo sanguigno gli ha fatto cedere la materia grigia? Non posso fare a meno di meditare... Quello che noi siamo può essere etichettato in vari modi, a seconda del contesto in cui siamo nostro malgrado costretti a vivere. Comunque possiamo definirci, come disse Naroic, la passione trae il suo assoluto dalla miseria delle ghiandole...

14. Ascesi

La Biblioteca è l’estremo sacrario della Conoscenza Occulta, un faro nella notte dell’Ignoranza che appesta i mondi. Soltanto a Makhra si trovano i terribili testi scritti nella lingua di Nahtap, soltanto lì sono disponibili i difficili manuali necessari per decrittarli. Il sole sorge e tramonta tre volte senza che alcun cibo venga ingerito, ma alla fine di questo periodo di studio e di astinenza, lo studioso sa tutto…

15. Nella nuda terra

Ille Tumleh ha aspettato l’estinzione della tenue luce solare e il tramonto della luna maggiore. Ora soltanto la luna minore emana un fioco riverbero di un giallastro tubercolotico. La sua superficie pustolosa è a malapena visibile, offuscata da una corona cinerea che ne assorbe la poca luce. L’investigatore entra scavalcando un muro cadente e si ritrova nei campi di inumazione. I necrofori non hanno ancora finito il loro lavoro quella notte. Portano su un baroccio alcune ragazze morte. Giovani, bellissime e nude. Sputando e imprecando, spalano il terriccio cedevole e scavata una fossa comune ci gettano dentro i cadaveri. Presto ricoprono tutto con la terra, senza lasciare un solo segno. Una tristezza abissale scuote Ille Tumleh. C’è qualcosa di mostruoso, di iniquo, ma non sa dire cosa.

16. Orfano di tutti i cieli

Il cimitero resta deserto. Dalla zona adibita alla consunzione rapida dei cadaveri della classe bassa e dei colpiti da pregiudizio, Ille Tumleh si sposta verso le sepolture della classe media. Una serie di cappelle di pietra contengono fino a una decina di corpi. Da una di queste costruzioni sente uscire un fumo mortifero: è vicino alla tomba dove giace Xad. Anche la luna minore tramonta, disperdendo gli ultimi soffi del crepuscolo. L’investigatore è solo, senza l’aiuto di alcuna luminaria celeste. Per vedere in quella densa oscurità indossa un paio di occhiali a diamanti rossi. Ciò che gli interessa si trova nella zona ove sono tumulati i nobili, dove le bare sono trasparenti ed esposte in cappelle trasparenti, dove chiunque può contemplare il progresso della putrefazione…

17. Sarcofagi

Il Commissario incaricato di svolgere l’indagine non sa cosa fare, la mancanza di indizi sembra totale. Un altro caso di scomparsa di persona neutrale denunciato nel giro di cinque giorni. A un tratto è attirato da un’agenda ricoperta di pelle nera, che fino ad allora era sfuggita al suo sguardo inquisitore. Fa cenno a un suo assistente, quindi si siede, apre una pagina a caso del Diario di Ille Tumleh e comincia a leggere:
“Mi circondano. Mi trovo nel cimitero dalle bare di vetro, in una notte illune e senza stelle. Lampi di fotoni sprizzano dai miei occhi rossi e fendono la coltre di tenebra. I miei stivali lasciano impronte profonde nel terreno molliccio. All’improvviso sento rumori sospetti e mi nascondo dietro una cappella gentilizia. Due figure avvolte in pesanti mantelli si dirigono verso i campi di inumazione ventennale, armati di pesanti vanghe. Iniziano a scavare e presto portano alla luce una sepoltura del tutto diversa dalle altre. La bara non è trasparente come tutte le altre, ma fatta di un metallo più denso del piombo. A malapena i profanatori riescono a issarla servendosi di un paranco. Iniziano ad armeggiare, ma nessun loro strumento riesce a scalfirla. All’improvviso il coperchio si apre come se fosse dotato di vita propria, e all’incerta luce delle torce degli intrusi ecco mostrarsi qualcosa di raccapricciante: un antico demone grigio in stato di ibernazione. I suoi occhi di insetto irradiano tutti gli orrori dell’universo concentrati in pochi guizzi di alienità. I due uomini emettono urla strazianti, inconcepibili, morendo di follia nel giro di una manciata di secondi.” 
 
18. L’Orizzonte incancrenisce

Distese che si riempiono di fumo. Sembra una nebbia ma non lo è. Sono i tentacoli di qualcosa che si sta intrudendo nel tessuto stesso del cosmo. Xad è consapevole e si inebria di queste radiazioni lattiginose. Man mano che i viventi si indeboliscono, lui acquista forza. Ora lo sa per certo, la sua densità si accresce. Chi mai potrà fermarlo? Un guizzo di empatia chitinosa accende in lui un’estasi maligna.

19. Profanazione - L’Epilogo

Il condottiero Hcabssor ordina la distruzione della tomba di Xad e la cremazione del suo cadavere, per porre fine all’annosa maledizione. Da tempo ormai gli alberi non danno più frutti, come se da quel sepolcro spirasse un vento capace di congelare i germogli e di bruciare i fiori... Molti giovani sono impazziti per l’influsso empatico dello spirito di Xad, capace di trasmettere flash di immagini orripilanti nelle menti più suggestionabili. Ormai è a tutti chiaro, è come se un eclissi perenne fosse calato sul sole già grigio. I cani ululano di continuo nel modo più straziante, la terra muore e diventa scura e gelida come basalto di Xor. Così gli squadristi di Hcabssor irrompono nel cimitero e devastano la tomba, appiccando fuoco ai resti mortali di Xad dopo averli cosparsi di pece. Per esaugurazione tracciano svastiche destrorse tutto intorno al luogo della rovina. Ma un getto di polvere si alza dal rogo e si allontana nella nebbia, quasi fosse dotato di volontà propria...

Marco "Antares666" Moretti