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martedì 5 settembre 2023

LA LEBBRA A COMACCHIO

La lebbra in Italia non è una pura e semplice reminiscenza del Medioevo. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Trovo molto interessante raccogliere e pubblicare informazioni sulla sua presenza sul territorio, in tempi non troppo remoti. Espongo qui un caso che sorprenderà gli eventuali lettori.


Un importante focolaio endemico di lebbra si trovava a Comacchio (provincia di Ferrara) nel XIX secolo. La malattia hanseniana, definita da Antonio Campana (1806) "un morbo crudele che travaglia una parte della popolazione", era conosciuta dai nativi di quel luogo con due diverse peculiari denominazioni:
1) mal di formica
Era la lebbra nervosa, chiamata così per la lentezza del suo sviluppo nel corso di anni, che poteva portare alla caduta delle dita e persino di arti: in apparenza benigna all'origine, era devastante sul lungo periodo. Secondo Giacomo Sangalli (1878) il nome avrebbe avuto come causa "il formicolio e il prurito alla pelle sul primo sviluppo della malattia"
2) mal di fegato
Era la lebbra tubercolare, chiamata così perché somigliava nelle ripugnanti manifestazioni cutanee a una malattia dei tacchini, non ben identificata, che guastava loro il fegato. Questo riporta Antonio Campana (1806) nella sua preziosa relazione: "vuolsi analogo ad una certa malattia dei tacchini, che copre di tubercoli e di croste i bargiglioni e tutta la testa di quei gallinacei, guastandone contemporaneamente il fegato".

Non essendo stato ancora scoperto il Mycobacterium leprae, all'epoca in cui scrisse Campana imperavano idee stravaganti sulle origini della malattia hanseniana. In particolare, le cause della persistenza del focolaio di lebbra a Comacchio erano identificate nel continuo consumo di pesce sotto sale. A conferma di questa opinione, era stata notata la presenza di forme molto simili di lebbra in altre località marine europee, in Bosnia, nell'isola svedese di Gotland, in Norvegia e in Finlandia. C'era chi attribuiva il contagio a un parassita dei pesci, denominato Gordio marino: è una specie di verme che provoca lesioni cutanee ai suoi ospiti. Si nota che ancora oggi un gran numero di malattie sono attribuite a una causa simile da complottisti di ogni genere, impegnati a diffondere video spazzatura nel Web. Un'altra idea superstiziosa molto diffusa era quella dell'origine della lebbra da un tipo di malattia mentale, definita "patema d'animo". Se si dovessero raccogliere tutte le ubbie stupidissime sull'argomento, si potrebbe compilare una vasta enciclopedia.
La situazione era terribile. Verso la metà del XIX secolo, i Comacchiesi erano circa 7.000. Si stima che circa 2.000 di loro vivessero lungo la spiaggia; esistevano casi di "vita semiaquatica"; alcuni addirittura si sostentavano con la caccia o con la pesca (Andrea Verga, 1843; 1846). Vivevano in squallidi tuguri, dove la lebbra prosperava. Già Campana aveva identificato in questo modo di vivere una difficoltà quasi insormontabile alla speranza di poter curare ed eradicare la malattia (il morbo "serpeggia segretamente nascosto nei tuguri, quindi con difficoltà può estirparsi"). 
Le cure erano esse stesse dettate dalla superstizione. Esistevano ricette per cucinare la carne di vipera, a cui erano attribuite proprietà terapeutiche. Una preparazione di vipere bollite in brodo (il cosiddetto "brodo viperino") fu somministrata senza registrare alcun beneficio nei pazienti. Così anche le vipere spellate e mangiate crude con lo zucchero. La dieta a base di latte fu dimostrata essere inefficace. La somministrazione di sali mercuriali risultò anch'essa senza alcun effetto, smentendo l'idea che la condizione dei lebbrosi comacchiesi fosse dovuta a una grave forma di sifilide. 
Nel 1806 Campana aveva compreso correttamente la vera natura della malattia, identificandola con la lebbra, che ai tempi era anche denominata "elefantiasi". Per cercare di tenere la situazione sotto controllo, il Ministero dell'Interno decise l'erezione, a spese del Comune, di un "Lazzaretto" in cui raccogliere i lebbrosi. Nel 1807, circa trenta di questi pazienti furono confinati in una parte del convento di Sant'Agostino in Comacchio, situato su una penisola separata dal resto del paese: fu costruito un ponte levatoio per impedire l'accesso a estranei. Le finestre dell'edificio che davano sulla città furono murate, lasciando aperte soltanto quelle che davano sulle valli. C'era separazione totale tra i sessi: esisteva il terrore che i ricoverati potessero concupire e consumare atti carnali. La dieta comprendeva la carne ma escludeva il pesce, perché era dura a morire la convinzione secondo cui "le malattie della pelle coll'uso del pesce infieriscono". Al contempo era ben chiara la natura contagiosa del morbo, dato che gli infermieri, i medici, il chirurgo e il confessore potevano entrare nei recinti soltanto coperti da una veste di tela lucida. Terminato il loro compito, mettevano tale veste protettiva in una "camera di espurgo", disinfettandosi le mani con acqua e aceto.
Nel 1815, subito dopo il Congresso di Vienna, il convento di Sant'Agostino in Comacchio fu chiuso e trasformato in una fortezza austriaca. I lebbrosi furono deportati a Ferrara, nell'ex convento di Sant'Andrea, considerato "spazioso e salubre"

Riporto in questa sede il link a un articolo di Sangalli sull'anatomia patologica: La lebbra dell'Alta Italia, massime di Comacchio: nota / 16 dic. 1880. (massime = massimamente). È ospitato nell'Emeroteca Digitale della Biblioteca Nazionale Braidense

 
 

Possibili origini del focolaio comacchiese 

La cosa che più desta stupore è l'assenza di testimonianze circa la presenza della malattia a Comacchio in tempi antecedenti alla Relazione di Antonio Campana, in particolare negli scritti dei medici Giovan Francesco Bonaveri e Pierpaolo Prioli (1761). Il confinamento di una trentina di lebbrosi nel convento di Sant'Agostino nel 1807 ha destato il terrore dei borghesi della città, come se non avessero mai avuto alcuna contezza dell'esistenza stessa dell'infezione. Va detto che l'ignoranza imperversava e che la condizione dei lebbrosi veniva con ogni mezzo tenuta nascosta. Non è affatto facile tracciare la genesi di un focolaio di lebbra, a cui possono contribuire diversi percorsi di migrazione del patogeno. Si potrebbe pensare che i traffici dei marinai abbiano avuto la loro importanza. Va notato che il focolaio comacchiese è rimasto circoscritto, tanto che già nei paesi confinanti non si trovava alcuna traccia di persone contagiate. Non sono riuscito a reperire notizie sulla sua estinzione, che senza dubbio deve essere avvenuta prima dell'inizio del XX secolo, dal momento che non se ne trova più traccia. 

Un dilemma etico

La butto là come provocazione estrema. Pensate che sia lecito estinguere un patogeno? I patogeni dovrebbero essere tutelati, visto che sono il prodotto di migliaia di anni di evoluzione e di differenziazione? Ebbene, la lebbra di Comacchio aveva alcune peculiarità che non si sono mai viste in altre forme della malattia nell'intero globo terracqueo. Ad esempio, mancava un sintomo peculiare, l'anestesia. Quando il focolaio hanseniano si è estinto tra le tristi genti palustri di Comacchio, si è fatto molto difficile investigare l'affascinante questione. Sarà arduo poter estrarre genoma integro esumando resti di malati, ammesso che la cosa sia fattibile. 

Conclusioni

La memoria delle masse è cortissima e disperde ogni cosa. Ai nostri tempi, Comacchio è un paese noto soprattutto per le anguille, nessuno si sognerebbe mai che in passato fosse invece noto per i lebbrosi. Ricordo uno sketch di alcuni guitti del Bagaglino, in cui si parlava di una fantomatica visita di Romano Prodi a Comacchio. Il politico era esaltato in modo ironico, satirico, come una specie di novello Messia. I guitti raccontavano un "miracolo" a lui attribuito: le anguille si sarebbero ammassate in canali da cui erano da lungo tempo scomparse, saltando sulle piastre roventi e addirittura girandosi per potersi grigliare meglio! 
E l'Italia è questa qua.

domenica 3 settembre 2023

ANEDDOTICA DISTORTA IN EPOCA PRE-INTERNET: LE ORIGINI DEI MICHELETTI

I Micheletti erano un corpo di soldati spagnoli (secoli XVI-XVIII), menzionati nell'opera di Manzoni con cui si purgano gli studenti nelle suole italiane: I promessi sposi. Per l'esattezza, si trattava di truppe irregolari di mercenari reclutati in Catalogna, composte da fanti leggeri armati dapprima di archibugio e in seguito di moschetto. Il loro nome in spagnolo era Miqueletes o Migueletes, a sua volta derivato dal catalano Miquelets, corrispondente al valenciano Micalets


Ecco i brani manzoniani in cui vengono menzionati i Micheletti (ho evidenziato le occorrenze in grassetto): 

Promessi sposi, Capitolo XIII

A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: “ ohe! ohe! ” senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello. 

Promessi sposi, Capitolo XVI 

C’era, proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de’ micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non lasciare entrar di quelli che, alla notizia d’una sommossa, v’accorrono, come i corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un’aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure indietro. 

Promessi sposi, Capitolo XVI 

“ Ma, ” continuò il mercante, “ trovaron la strada chiusa con travi e con carri, e, dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibusi spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo bell’apparato... Cosa avreste fatto voi altri? ” 

“ Tornare indietro. ”

“ Sicuro; e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì sul Cordusio, vedon lì quel forno che fin da ieri, avevan voluto saccheggiare; e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori; c’era de’ cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene; e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c’era chi gli aizzava), costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio anch’io: in un batter d’occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra. ”

“ E i micheletti? ” 

“ I micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare e portar la croce. Fu in un batter d’occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c’era buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate un po’ con che bella proposta venne fuori. ” 

Fastidiose memorie scolastiche 

I tempi del liceo sono molto lontani, eppure ricordo ancora che in un'occasione il professore di italiano e di latino ci disse in tono pedantesco che i Micheletti traevano il loro nome dalla Valle di San Michele, nei Pirenei, dove erano tradizionalmente reclutati. L'atmosfera in classe era plumbea. Ascoltavamo avviliti queste spiegazioni, che ci venivano impartite in tono a dir poco molesto, al preciso scopo di mortificarci. Sembrava che il docente volesse rimarcare la nostra ignoranza e intendesse esprimere questi pensieri: "Brutte merde subumane, adesso vi insegno io i dettagli di ogni cosa, dall'alto della mia Sapienza. Non vi chiederò queste cose all'interrogazione: mi basta dimostrare la vostra natura di vermi". Spesso il tono di voce e il cosiddetto "linguaggio paraverbale" sottintendono interi mondi, per lo più ripugnanti. 
Mi immaginavo un vallone lunghissimo, ampio, pieno zeppo di gente piuttosto ottusa. Chissà come mai, mi ero messo in mente che questi valligiani fossero biondicci. A distanza di anni, volendo verificare quanto udito a scuola, mi sono dovuto rendere conto che questa fantomatica Valle di San Michele non è mai esistita. In altre parole, il dottissimo professore, che sapeva sempre tutto, ci aveva rifilato una fake news


Considerazioni etimologiche 

L'ipotesi più accreditata sull'etimologia del nome dei Micheletti lo fa derivare da quello del Capitano Miquelot de Prats (anche noto come Miguel de Prats o Miquel de Prades), un mercenario catalano che servì Cesare Borgia detto Il Valentino (1475 - 1507), il famoso generale-cardinale sfigurato dalla sifilide. Un altro mercenario al servizio dello stesso padrone era Michelotto Corella, che tra le altre cose strangolò Vitellozzo Vitelli; non è tuttavia plausibile che abbia dato il nome ai Micheletti, essendo più che altro un sicario prezzolato, tanto da essere noto come il Boia del Valentino. Si noterà che Cesare Borgia era Cavaliere dell'Ordine di San Michele, istituito nel castello di Amboise dal Re di Francia Luigi XI, in data 1 agosto 1469. Comunque la si metta, ci deve essere di mezzo un Michele! 
Si potrebbe pensare che il nome dei Micheletti derivi da quello dell'abbazia benedettina di San Michele di Cuxa, in catalano Sant Miquel de Cuixà (-x- si pronuncia come sc- in sci). Si consideri che un tempo era un monastero assai famoso. Si riesce a questo punto a ricostruire il percorso che ha portato il summenzionato docente del liceo a uscirsene con il mito della Valle di San Michele. Deve aver letto da qualche parte che in origine i Micheletti erano reclutati proprio nella zona di San Michele di Cuxa. All'origine dell'aneddoto ci sarebbe una distorsione operata dalla sua memoria, abituata a ricordare una mole immensa di informazioni senza mai verificarle con attenzione. Questo è un bias molto insidioso che può colpire chiunque!

Alcune note storiche

La Francia ha cercato a lungo di imitare i Micheletti, le cui capacità erano riconosciute e ammirate, soprattutto nella guerriglia in regioni montuose e difficili: sono state così formate numerose compagnie di Miquelets francesi, come quelle impiegate da Napoleone Bonaparte nel corso della guerra d'indipendenza spagnola, anche se con scarso successo. 
Il corpo dei Micheletti sopravvisse nelle Province Basche nel corso del XIX secolo e fu abolito soltanto nel 1877.

Uno slittamento semantico

I Micheletti in tempo di pace continuavano una tradizione già in auge tra i militari fin dall'epoca medievale: si procacciavano da vivere con il saccheggio ai danni dei civili. A causa di ciò, il termine "micheletto" venne presto ad essere considerato un sinonimo di "brigante". Perché i razziatori non venivano impiccati? Semplice: perché avevano una speciale licenza che permetteva loro di esercitare questo passatempo senza conseguenze legali, in attesa di rendersi necessari in caso di guerra! Nel 1642 ci fu un tentativo di sciogliere la milizia a causa della sua indisciplina, ma sul finire del secolo si formarono spontaneamente nuove compagnie di Micheletti per difendere la frontiera catalana nel corso della guerra contro la Francia.

I Micheletti e il celebre Michelaccio

In italiano è noto come Michelaccio chi vive senza lavorare, non dandosi pensiero di sorta. La locuzione più comune è "fare la vita di Michelaccio: mangiare, bere e andare a spasso". Anche in Spagna e in Francia esiste questo appellativo, anche se con altro suffisso: spagnolo miquelet(e)micalete, francese miquelet "vagabondo"; "brigante dei Pirenei". E ancora il nome dei soldati di cui stiamo parlando! Alcuni vogliono che fossero chiamati così i pellegrini che si recavano a Mont-Saint-Michel, perché considerati gaglioffi e perditempo, che vivevano scroccando pane e altro cibo. Ritengo invece più probabile che si trattasse dei Micheletti, con questo slittamento semantico:   

micheletto > bandito, razziatore > vagabondo > perditempo 

In Italia il suffisso è stato sostituito con il peggiorativo -accio, dando Michelaccio (variante Michelasso; veneto Michelazzo). A questo punto c'è da notare una bizzarria di non poco conto. Manzoni menziona Michelaccio nei Promessi sposi, senza rendersi conto che non è separabile nell'origine dal nome dei Micheletti! Ecco la citazione (il grassetto è mio): 

Promessi sposi, Capitolo XXIII:

Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo.

Respingo senza dubbio la ridicola favola di Michele Panichi, fantomatico commerciante fiorentino ritiratosi dagli affari e diventato fannullone. L'avranno rifilata a Manzoni quando era intento a "sciacquare i panni in Arno"!

I cognomi Micheletti, Micheletto,
Michieletti, 
Michieletto 

Esistono alcune possibili cognominizzazioni del nome dei Micheletti. Sono cognomi facilmente riconoscibili, che possono almeno in parte essere derivati dall'integrazione dei mercenari catalani in territorio italiano. Sono questi: Micheletti, Micheletto, Michieletti, Michieletto. Riporto i link alle rispettive mappe di distribuzione: 




venerdì 30 giugno 2023


I PAGANI DI BERGEN IN NORVEGIA
(XII-XIV SECOLO) 

Come al solito, il mondo accademico tende a pontificare anche quando non possiede sufficienti informazioni. Così la scomparsa della scrittura runica in Norvegia è stata associata alla Cristianizzazione, avvenuta nel tardo X secolo e nel corso dell'XI. Questa è stata la vulgata accettata quasi per dogma, per lungo tempo. Poi, a partire dal 1955, nel quartiere di Bryggen a Bergen, sono state trovate circa 670 iscrizioni in caratteri runici, risalenti ad epoca basso medievale, da XII al XIV secolo. Sono incise su legno, principalmente di pino. Questi preziosi reperti si sono dimostrati una prova inconfutabile del perdurare della scrittura runica ben dopo i complessi eventi che hanno portato alla prevalenza del Cristianesimo. L'alfabeto latino non è diventato immediatamente popolare quando è stato importato assieme alla religione cristiana; si può dire che sia rimasto appannaggio degli ecclesiastici e dei ceti elevati. La popolazione meno abbiente è invece rimasta fedele alla propria eredità ancestrale, in modo tenace, soprattutto nelle impervie aree dell'entroterra. Per i Cristiani, un battezzato che continuava con gli antichi usi e costumi era un "cattivo cristiano". Chi si trovava in questa condizione ambigua, dal canto suo se ne fregava altamente e fingeva di aver adottato la religione straniera per continuare tranquillamente la sua esistenza. 

Quello che sorprende nel materiale runico ritrovato nella città mercantile di Bergen è la scarsa influenza cristiana. Certo, esistono iscrizioni cristiane con menzioni di Dio, della Vergine e di Santi, in funzione apotropaica, com'è logico attendersi, ma sono state trovate anche numerose iscrizioni pagane con menzioni di Odino e di Thor, delle Valchirie e delle Norne. Questo fatto di capitale importanza, che prova la tarda persistenza di pratiche e credenze pagane, è stato notato da Ebbe Schön nella sua opera Asa-Tors hammare: gudar och jättar i tro och tradition ("Il martello di Asa-Thor: Dei e giganti nella fede e nella tradizione"2004). Destano particolare attenzione alcuni testi erotici. Infine non va nascosto che esistono iscrizioni del tutto incomprensibili, che sembrano redatte in una lingua sconosciuta.


Riporto il testo di alcune iscrizioni, che considero notevoli. I lati dei legni su cui sono incise sono indicati con le lettere A, B, C, D.

Iscrizione runica N B145 

Traslitterazione: 

A. 
fell · til · friþrar · þ(e)llu · farl(e)ghrar · m(e)r · arla · fiskall · festibala · forn · byr hamar 

B.
norna · þæim (u)ihdi heuir þundar · þornluþrs ·  (e)olun·buþar · gloumar · gyghiartouma 

C.
kaltrs falkha . haldet ~ omnia . uinsciþ · amor . æþ nos c(c)itam(m)-- amori . 

D.
galdrs fasl(e)gha · haldet ~ omnia · uinciþ · amor . æþ nos c(e)damus . amori . 

Normalizzazione: 

A. 
Fell til fríðrar þellu fárligrar mér árla fiskáls festibála forn byrr hamarnorna;

B. 
þeim lundi hefir Þundar þornlúðrs jǫlunbúðar glaumarr gýgjartauma

C.
galdrs fastliga haldit. Omnia vincit Amor, et nos cedam[us] Amori.

D.
galdrs fastliga haldit. Omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori. 

Traduzione: 

A. 
L'antica brezza delle Dee della scogliera è caduta presto su di me, rispetto al bellissimo e pericoloso giovane pino del fuoco inamovibile della distesa dei pesci. 
(ossia "Mi sono innamorato subito di quella donna bellissima e pericolosa")

B.
(su) quell'albero di Odino conduce, del trogolo di spine, della dimora del conflitto, il gigante delle briglie della gigantessa.

C.
La presa salda della magia. L'amore vince tutto; cediamo anche noi all'amore!

D. 
La presa salda della magia. L'amore vince tutto; cediamo anche noi all'amore!

Note:
Questo è un testo di magia seiðr. Le parti A e B sono composte di kenningar oscurissime, che hanno l'aspetto di pura poesia nonsense. La parte B è in assoluto la più difficile. Certe parole sono ai confini dell'intraducibilità. 
Come si può ben vedere, alla fine (parti C e D) è riportato e ripetuto un ben noto verso in latino: appare Virgilio nella sua veste medievale di mago! Doveva essere un contesto estremamente interessante dal punto di vista antropologico e culturale! Devo dire che non è affatto facile spiegare come abbiano fatto le parole di Virgilio a unirsi alla tradizione magica autoctona. 

Þundr è un antico nome di Odino (genitivo Þundar); 
jǫlun- può essere connesso con la rara parola poetica jǫll "distrurbo", "conflitto" (l'origine ultima è al momento ignota); 
glaumarr "gigante", da una radice che indica il rumore, specie se festoso (è una tipica kenning). 

Iscrizione runica N B380 

Traslitterazione:  

hæil ÷ se þu : ok : i huhum : goþom
þor : þik : þig÷gi : oþen : þik ÷ æihi : 

Normalizzazione: 

Heill sé þú ok í hugum góðum. Þórr þik þiggi, Óðinn þik eigi.

Traduzione: 

Salute a te e buoni pensieri. Possa Thor accoglierti, possa Odino possederti.

Note: 
Non ci sono dubbi sul fatto che chi ha inciso questa iscrizione era un attivo praticante dei sacrifici cruenti (blót). 

Iscrizione runica N B257 

Traslitterazione:

A. 
rist ek : bot:runar : rist : ek : biabh:runar : eæin:fal : uiþ : aluom : tuialt : uiþ trolom : þreualt : uiþ : þ(u)-- 

B.
uiþ enne : skøþo : skah : ualkyrriu : sua:at : eæi mehi : þo:at æ uili : læuis : kona : liui : þinu g- 

C.
ek sender : þer : ek se a þer : ylhiar : erhi ok oþola : a þer : rini : uþole : auk : i(a)luns : moþ : sittu : alri : sop þu : aldr(i) -

D. 
ant : mer : sem : sialþre : þer : beirist : rubus : rabus : eþ : arantabus : laus : abus : rosa : gaua --

Normalizzazione: 

A. 
Ríst ek bótrúnar, ríst ek bjargrúnar, einfalt við alfum, tvífalt við trollum, þrífalt við þ[ursum], 

B.
við inni skoðu skag valkyriu, svát ei megi, þótt æ vili, lævís kona, lífi þínu gr[anda], 

C.
ek sendi þér, ek sé á þér, ylgjar ergi ok úþola. Á þér hríni úþoli ok joluns móð. Sittu aldri, sof þú aldri

D. 
ant mér sem sjalfri þér beirist rubus rabus et arantabus laus abus rosa gaua ...

Traduzione: 

A. 
Io incido rune di aiuto, io incido rune di protezione, una volta contro gli elfi, due volte contro i mostri, tre volte contro gli orchi,

B.
contro la dannosa Valchiria Skag, affinché non possa mai, anche se lo volesse - donna malvagia! - ferire la tua vita 

C.
Io mando a te, io guardo su di te: malvagità e odio da lupo. Che l'angoscia insopportabile e la miseria del conflitto abbiano effetto su di te. Non ti siederai mai, non dormirai mai.

D.
Amami come te stessa!
(formule magiche di aspetto latino)

Note:
Si tratta di malocchio! È stato notato che l'iscrizione ha stretti parallelismi con gli amuleti magici presenti nella poesia eddica, in particolare il verso 36 del poema Skírnismál. Secondo l'edizione di Finnur Jónsson del 1932 e la traduzione del 2014 di Carolyne Larrington (con le interruzioni di riga modificate per corrispondere all'originale):

Þurs rístk þér
ok þría stafi,
ęrgi ok œði ok óþola,
svá ek þat af ríst
sem ek þat á ręist,
ef gęrvask þarfar þess.

Traduzione: 

Orco, incido per te
e tre rune, 
oscenità, frenesia e desiderio insopportabile;
posso scolpire via questo,
come l'ho inciso,
se c'è bisogno di ciò.

Si nota la parola jǫlun, qui al genitivo jǫluns, già vista nell'iscrizione runica N B145 (vedi sopra). La sua occorrenza conferma il significato attribuito. 

Iscrizione runica N 288 

Traslitterazione: 

uikigr-

Normalizzazione: 

Víkingr 

Traduzione: 

Vichingo

Note: 
Il testo è breve ma altamente significativo. Dimostra la persistenza dell'epiteto víkingr "vichingo", ossia "pirata", ben oltre l'anno 1066, che è considerato ufficialmente la "fine dell'Età Vichinga". Si noti che l'iscrizione N B288 è del tutto diversa: la catalogazione di questi documenti è molto caotica.

Iscrizione runica N B11

Traslitterazione: 

felleg er fuþ sin bylli
fuþorglbasm


Normalizzazione: 

Féligr er fuð sinn byrli
Fuðorglbasm

Traduzione: 

Amabile è la figa, possa il cazzo riempirla!
(rune ordinate dell'alfabeto Fuþork)

Note:
Questa è una tipica iscrizione erotica, che lascia ben poco all'immaginazione. 

Iscrizione runica B018

Traslitterazione: 

þr:inliossa:log:rostirriþatbiþa:(aþ) 
yþænþuæt[-]nuka:ældiriþsu(an)ahiþar: 
s(au)dælakumlynhuit(an)ha[--]klko 
lotak(ol)ahbohas(ol)ar:fiartar:tahs[--] [...]kuiþi 
þækanukabækiiar 

Normalizzazione: 

Traduzione: 
sconosciuta 

Note: 
Questa è una delle iscrizioni runiche scritte in quella che ha tutta l'aria di essere una lingua sconosciuta. Non mi risultano tentativi di normalizzazione e di traduzione di questo testo. Bisognerebbe chiedersi che lingua è mai questa e come riuscire ad identificarla. Forse un giorno qualcuno riuscirà a dare una spiegazione usando il norreno. In questo caso, si dimostrerà che l'intraducibilità era dovuta soltanto alla cattiva grafia (mancanza di separazione tra le parole, etc.) e all'uso di kenningar incredibilmente ostiche. Staremo a vedere come si risolverà la questione. 

Bigliografia 

Riporto il link all'articolo di Aslak Ljestøl, Rúnavísur frá Björgvin (in islandese), che discute ampiamente questo materiale runico: 


Molto interessanti sono anche queste pagine: 

https://www.arild-hauge.com/innskrifter4.htm

https://academytravel.com.au/blog/runic-writing-in-medieval-bergen

Riporto il link a un database delle iscrizioni runiche, ma la sua esplorazione si presenta abbastanza ardua:


Molti altri documenti sono presenti nel Web, basta dedicarci un po' di tempo, se si trova interessante l'argomento.


Il contesto anseatico (XIV secolo)

La Lega Anseatica (da hansa "coorte") aprì un suo importante ufficio a Bergen nel 1360, in cui i mercanti tedeschi controllavano l'esportazione dello stoccafisso norvegese e l'importazione di vari prodotti, tra cui i cereali e il sale. Questi mercanti della Lega facevano lavorare gente di Bergen e dell'interno montuoso, in condizioni molto dure. Fa un certo effetto constatare che tra i lavoratori vi erano molti pagani, residui di un mondo che è stato dato per morto da secoli dalle istituzioni scolastiche. Sono stato nel famoso Quartiere Anseatico di Bryggen nell'estate del 1992, il giorno dopo aver visitato il lebbrosario adibito a museo. Ho potuto vedere con i miei occhi che nei dormitori qualche lavoratore, proprio in prossimità delle cuccette, aveva inciso strani simboli. Tutto irradiava un'atmosfera orrenda di schiavitù, di sopportazione, di vita difficile.

mercoledì 28 giugno 2023

IL MISTERO DELLA CONVERSIONE DI VITICHINDO E DELLA SUA MORTE

Vitichindo (Widukind), nato in Vestfalia nel 730 circa e morto a Enger tra l'804 e l'812, fu un eroico condottiero dei Sassoni di Germania che si oppose con immenso valore a Carlo Magno e alla sua campagna di cristianizzazione forzata. Eppure, dopo una resistenza accanita durata molti anni, dopo molte imprese, è riportato che Vitichindo accettò di essere battezzato, cosa che avvenne nell'anno 785 nella residenza reale di Attigny, nelle Ardenne, essendo stato lo stesso Carlo Magno suo padrino. Qui subentra un grave problema. Da quell'evento in poi, di Vitichindo si perde qualsiasi traccia. Com'era logico attendersi, da allora il nobile sassone non partecipò più ad alcuna azione anticristiana e si astenne dall'avere contatti con i rivoltosi. Tuttavia resta qualcosa di inspiegabile. Nessun contemporaneo di Vitichindo ha scritto qualcosa sulla sua vita dopo il suo battesimo. Niente fonti, niente notizie. 


In sintesi, cosa ne è stato di Vitichindo? Perché è sparito nel nulla? Si possono ipotizzare diverse versioni dei fatti, per necessità tra loro contrastanti e sospette di essere contaminate da motivazioni politiche e religiose. Nel corso dei miei studi, ho raccolto qualcosa che propongo in questa sede:  
1) Vitichindo, convertito o meno, sarebbe stato rinchiuso in un monastero e impossibilitato ad uscire (Althoff, 1983). Non bisogna dimenticare che era una tradizione dei sovrani Franchi rinchiudere gli avversari politici in ambienti monastici, per liberarsi di loro in via definitiva. Non era una cosa leggera e di poco conto: era come seppellirli vivi! Peccato che gli studi di Althoff non abbiano portato alcun risultato concreto ai ripetuti tentativi di identificare l'abbazia in cui Vitichindo sarebbe stato rinchiuso.  
2) Vitichindo si sarebbe convertito in seguito a un miracolo eucaristico. Stando al resoconto, il condottiero sassone si era travestito da mendicante per spiare un sacerdote nell'atto di officiare dell'Eucarestia e di somministrarla ad alcuni soldati franchi: avrebbe  quindi visto nell'ostia la figura di un bambino bellissimo, che finiva in bocca ad ogni partecipante - ad alcuni con gioia, ad altri con ripugnanza e solo dopo costrizione. Riconosciuto da una malformazione ossea ad alcune sue dita, il sassone era stato catturato e avrebbe spiegato l'accaduto ai suoi carcerieri e all'Imperatore, destando in tutti grande impressione. Avrebbe quindi rinunciato all'adorazione degli idoli, chiedendo di ricevere il battesimo. In seguito si sarebbe dedicato a diffondere il Cristianesimo tra i Sassoni, a costruire nuove chiese e a restaurare quelle già esistenti, tanto da acquisire fama di santità. Questo racconto è riportato da Martin von Cochem in Cochem's Explanation of the Holy Sacrifice of the Mass (1896, pagg.), che menziona come unica fonte Albertus Krantius, ossia lo storico Albert Kranz (Amburgo, 1450 - 1517). Sembrano i deliri mistici di un pazzo di DioLa Chiesa Romana ha fatto di tutto per propalare questa versione, dichiarando il sassone Beato. Questa tradizione fissa la data della morte del "Beato Wittikund di Vestfalia" il 7 gennaio 810. Infatti la sua festa è proprio il 7 gennaio. 
3) Vitichindo, in seguito al battesimo, avrebbe ricevuto un trattamento onorevole alla corte di Carlo Magno, vivendo da vassallo o da funzionario, senza alcun ruolo di rilievo nelle vicende politiche della sua terra d'origine (Reuter, 1991). Secondo la Vita Liudgeri, avrebbe accompagnato Carlo Magno in una sua campagna militare contro il capo degli Slavi Veleti, Dragovit. 
4) Secondo la Kaiserchronik (circa 1152 - 1165), documento scritto in medio alto tedesco, Vitichindo sarebbe stato ucciso da un cognato dello stesso Carlo Magno, Geroldo di Baar (noto anche come Geroldo di Vintzgau); questa versione è attestata molto dopo gli eventi e non ha alcun riscontro, cosa che la rende molto sospetta. Se fosse vera, Vitichindo sarebbe dovuto morire prima del 799, dato che in quello stesso anno morì Geroldo. Invece l'anno di morte del sassone è indicato come l'807. Questa tradizione è particolarmente insistente in siti del Web di lingua tedesca. Ho reperito un altro dettaglio: Vitichindo sarebbe morto in una battaglia contro gli Svevi ("Der Sage nach fiel er 807 im Kampf gegen die Schwaben"), guidati per l'appunto dal Duca Geroldo. Quindi non si sarebbe trattato di una lite a corte. Mi sembra tutto piuttosto inverosimile, con ogni probabilità si fonda solo su un'oscura leggenda popolare. 

Come si può constatare, la confusione imperversa. Qua e là si raccolgono dettagli erratici e spesso incongruenti, che sembrano nascere da generazione spontanea. Compaiono anche incroci tra leggende diverse. Ecco un esempio: 

Christliche Legenden berichten von seinem Leben, das bis 807 gedauert habe. Kaiser Karl wandelte demnach in Folge der Taufe Widukinds Wappentier, das schwarze Ross, in ein weißes Ross um und erhob ihn zum Herzog der Sachsen; er herrschte dann auf der Wallburg Babilonie - heute Ruinen nahe Obermehnen, einem Stadtteil von Lübbecke bei Osnabrück - mild und gerecht, ließ Kirchen bauen und bereicherte sie mit Reliquien. 

"Le leggende cristiane narrano della sua vita, che durò fino all'807. Secondo questa leggenda, dopo il battesimo di Vitichindo, l'Imperatore Carlo cambiò il suo animale araldico, il cavallo nero, in uno bianco e lo elevò a Duca dei Sassoni. Governò quindi la Fortezza Babilonia – oggi ridotta a rovine nei pressi di Obermehnen, un quartiere di Lubecca, vicino a Osnabrück – con dolcezza e giustizia, fece costruire chiese e le arricchì di reliquie."


Etimologia di Widukind 

L'origine dell'antroponimo Widukind è trasparente e non presenta alcun problema: proviene dall'antico sassone widu "legno, bosco", kind "bambino". Entrambe le parole sono di chiarissima origine indoeuropea. Widukind significa "Bambino del Bosco". La semantica mostra la sua provenienza dal patrimonio religioso dell'antico politeismo germanico. In alto tedesco si è avuto l'adattamento Wittekind, ancor oggi usato in tutta la Germania. 

Futili genealogie

Divenuto un simbolo nazionalista, a partire dal IX secolo il leggendario Vitichindo è stato ritenuto un capostipite di diverse stirpi nobiliari della Sassonia. Verso il 1100, è stata costruita per lui una tomba ad Enger (la terra degli antichi Angrivari), supposto luogo della sua morte. Recenti scavi in loco hanno potuto appurare che la sepoltura risale realmente a quell'epoca, anche se i resti contenuti sono quelli di una giovane donna. Falsi storici e fake news imperversavano già nel Medioevo! 
La dinastia degli Ottoni, anche denominata dinastia dei Liudolfingi, fu la casata di Imperatori del Sacro Romano Impero che regnò ininterrottamente dal 963 al 1024 - rivendicando la discendenza da Vitichindo. A quanto è stato accertato, Matilde, moglie del Re Enrico I, era realmente una pronipote dello strenuo avversario di Carlo Magno. La Casa di Billung, alla quale appartenevano diversi duchi di Sassonia, aveva tra i suoi antenati la sorella di Matilde e quindi si univa alle rivendicazioni degli Ottoni. Per il resto, non si è giunti a risultati credibili nella validazione di alberi genealogici che sembrano nati nel mondo dei sogni.  
Molti anni fa, con mio grande stupore, ho appreso che persino i Savoia avrebbero una leggenda famigliare che riconduce la loro stirpe a Vitichindo. In seguito ho letto della famiglia aristocratica Del Carretto, col suo supposto ramo francese de Charette, che vanta questa stessa ascendenza. Seguono i Reali d'Inghilterra e molti altri! Se dovessimo ascoltare le pretese di tutti i nobili europei, scopriremmo che traggono le loro origini nel glorioso sassone. Ritengo che queste siano fole degne di ludibrio. 


Edmund Kiss (Kiß nell'ortografia tradizionale, 1886 - 1960), nazionalsocialista fanatico e pseudoarcheologo ossessionato dalle origini aliene del genere umano, nel 1935 scrisse un dramma violentemente anticristiano, Wittekind der Große, "Vitichindo il Grande". Quest'opera teatrale ha destato violente proteste da parte dei cattolici, perché ha presentato una verità nuda e cruda. Dopo il tremendo massacro di Verden, noto come Bagno di Sangue, il condottiero sul palco dice: "Questo è ciò che hanno fatto i Cristiani: fingono amore e portano omicidi!" 
Ecco il piano diabolico di Carlo Magno, evocato da Kiss col violento linguaggio del razzismo hitleriano su base biologica, tipico della NSDAP: egli avrebbe messo in un campo di concentramento 60.000 ragazze Sassoni, minacciando di farle congiungere a "Ebrei, Mori, Negri, Greci, Italiani e altri Orientali" (sic)! Così Vitechindo, inorridito, avrebbe esclamato: "L'Onore e il Sangue, la salute e l'anima tedesca di 60.000 donne Nordiche valgono bene l'onore di un Duca tedesco".
Purtroppo non sono riuscito a reperire il testo del dramma in lingua originale (immagino che gravi la censura). Faccio notare che l'idea della violenza di massa e della contaminazione del sangue germanico è stata propugnata con particolare ossessione da Julius Streicher, fautore convulsionario della dottrina dell'impregnazione e dell'imbastardimento. 

Una ricostruzione immaginaria 
(ma realistica!)

Vitichindo, travestito da mendicante, viene riconosciuto e catturato dagli armigeri di Carlo Magno, senza tanto clamore. L'eroe sassone viene condotto in una segreta, incatenato e massacrato di botte, alla presenza dell'Imperatore. Nel corso del violentissimo pestaggio, uno degli sgherri franchi assesta un colpo "tecnicamente perfetto", che uccide il prigioniero. Ecco il dialogo che si è formato nella mia mente, avente come protagonisti il Re Carlo (Ther Kuning Karl) e gli armigeri Gerold, Adalbert e Arnulf: 

Gerold: "Merda! È morto!" 
Adalbert: "Adesso nella merda ci siamo dentro fino al collo!" 
Arnulf: "Quelli insorgeranno ancor più violentemente!" 
Gerold: "Sarà considerato un martire!" 
Adalbert: "Lo ripeto: siamo nella merda!" 
Ther Kuning Karl: "Non necessariamente." 
Adalbert: "E come facciamo a uscirne?" 
Ther Kuning Karl: "Possiamo volgere questo incidente a nostro favore. Basta tenere nascosta la sua morte e dire che si è convertito." 
Gerold: "Ma se non lo vedranno più in circolazione, quelli si insospettiranno!" 
Ther Kuning Karl: "Diremo che si è ritirato in un monastero per dedicarsi alle opere pie! Funzionerà. Fiaccheremo il loro spirito ribelle, umiliando il loro onore e i loro duri princìpi!" 
Arnulf: "Sì, potrebbe funzionare!"

Così fu fatto e funzionò. L'inganno funziona ancora oggi! In fondo, se una persona scomoda viene soppressa, poi si può dire di lei tutto quello che si vuole: sarà privata all'istante di ogni diritto di ribattere. 

Conclusioni

1) Un proverbio africano dice: "Tu puoi nascondere il fumo, ma per il fuoco come farai?" 
2) L'Unione Europea dice di ispirarsi a Carlo Magno, elogiandolo per la sua opera e per i suoi "ideali di unificazione". Gli storici e i docenti si inchinano, infilando la lingua nelle emorroidi del Sistema. Diffondono per ogni dove simili idiozie funeste! Vorrei che i 4.500 Sassoni martirizzati a Verden fossero evocati e potessero dire la loro!

sabato 24 giugno 2023


GEMISTO PLETONE E IL NEOPAGANESIMO
RINASCIMENTALE

Il filosofo bizantino Giorgio Gemisto, detto Pletone, in greco Γεώργιος Γεμιστός Πλήθων, Geṓrgios Gemistós Plḗthōn (Costantinopoli, 1355 - Mistra, 1452), fu la causa prima del Rinascimento Italiano ed ebbe un'influenza immensa sulla cultura della sua epoca. Quanti ne hanno sentito parlare? Immagino che siano ben pochi. Io per primo non l'ho mai sentito nominare quando frequentavo la scuola. In genere i docenti parlano del neopaganesimo rinascimentale come di un fatto puramente artistico, privo di una vera causa e di qualsiasi reale valenza religiosa e filosofica. Intendo qui dimostrare in estrema sintesi che quest'idea, diffusa dal sistema scolastico italiano e dal mondo accademico, è erronea,  parziale, semplicistica, ideologica. 
Innanzitutto, fu proprio Gemisto Pletone a riportare in Occidente la conoscenza e lo studio approfondito della lingua greca, che era stata da lungo tempo quasi dimenticata e ridotta a rudimenti. Del resto, gli studiosi del Trecento che si erano occupati della materia, come ad esempio Petrarca e Boccaccio, non avevano ottenuto risultati strabilianti. Cosa d'importanza capitale, il filosofo bizantino permise la conoscenza diretta dei testi in lingua originale di Platone, Plotino e altri neoplatonici. Negli anni 1438-1439 partecipò al Concilio di Ferrara e Firenze, occasione di importanza capitale che gli permise di plasmare l'Umanesimo, diffondendo la sua visione del mondo. Fu determinante la sua influenza su Cosimo de' Medici (Firenze, 1389 - Careggi, 1464), che nel 1462 portò alla fondazione dell'Accademia neoplatonica fiorentina. La rinascita del pensiero neoplatonico in Italia fu un movimento che si oppose al monopolio del pensiero aristotelico e della filosofia scolastica, che avevano da secoli il sostegno dalle autorità ecclesiastiche. 
Senza sapere dell'esistenza e dell'opera di Gemisto Pletone, ci sarebbe impossibile comprendere personalità come Leon Battista Alberti (Genova, 1404 - Roma, 1472), Marsilio Ficino (Figline Valdarno, 1433 - Careggi, 1499), Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola, 1463 - Firenze, 1494) e numerosissimi altri. Si arriva infatti a Leonardo da Vinci (Anchiano, 1452 - Amboise, 1519), sommo ingegno che fu descritto dal Vasari come "pitagorico e neoplatonico al punto di non essere cristiano"
Ciriaco Pizzecolli (o de' Pizzicolli), noto anche come Ciriaco d'Ancona (Ancona, 1391 - Cremona, 1452), esploratore e padre dell'archeologia, nutriva un vero e proprio culto per il filosofo bizantino. Così scrisse: 

"Lì (1) trovammo Costantino Dragaš (2), della stirpe reale dei Paleologi, l'illustre despota regnante. E presso di lui facemmo visita a quell’uomo per cui eravamo venuti, insigne, senza dubbio il più dotto tra i Greci nel nostro tempo e anche, direi, per vita, costumi e insegnamenti un filosofo platonico illustre e importantissimo."

(1) A Mistra, nei pressi di Sparta. 
(2) Signore semi-indipendente del Regno di Serbia, satellite frammentario dell'Impero Romano d'Oriente.  

Proprio a Mistra (Mistrà, Mizithra), in una terra in cui fiorì una delle più austere civiltà comparse sul pianeta nei millenni, Gemisto Pletone aveva fondato la sua scuola, da cui si irradiava la sua sapienza ancestrale. Protetto dall'Imperatore Manuele II Paleologo, di cui era personale amico, fu sempre al riparo dalla persecuzione della Chiesa Ortodossa, e in particolare del fanatico Gennadio II Scolario, che non riuscì nel suo intento di farlo imprigionare e processare per eresia. 

Etimologia dello pseudonimo 

Il soprannome del filosofo, Pletone (Πλήθων, Plḗthōn) deriva dal greco πληθύς (plēthýs) "folla", "maggioranza", che è semanticamente affine a γεμιστός (gemistós) "pieno". Si tratta quindi di un dotto gioco di parole, la cui origine è da ricercarsi anche dall'assonanza col nome di Platone (Πλάτων, Plátōn). 


Imitatio Iuliani 

L'intera vita di Gemisto Pletone fu plasmata sull'esempio dell'Imperatore Giuliano il Filosofo, che i Cristiani hanno soprannominato Giuliano l'Apostata. Si riconosce subito nelle idee professate dal dotto di Bisanzio l'impronta del fondatore dell'Ellenismo, che cercò di riformare le tradizioni religiose del mondo antico per contrastare l'irruzione del Cristianesimo. Mi chiedo questo: com'è potuto nascere e svilupparsi un personaggio tanto innovativo e al contempo tanto legato a qualcosa che si pensava morto da molti secoli? Gemisto Pletone nacque a Costantinopoli, con ogni probabilità da una famiglia nobile. Non si conosce il motivo che lo costrinse a trasferirsi, ancora molto giovane, dapprima ad Adrianopoli e in seguito a Mistra. Non si hanno notizie certe, anche se sembra che proprio ad Adrianopoli abbia iniziato i suoi studi esoterici, dedicandosi tra le altre cose alla Cabala. Come si formò e divenne compiuta la sua peculiare visione dell'Universo, considerato il contesto cristiano in cui era immerso? Ha ricevuto le sue idee leggendo qualche testo, elaborando quanto aveva appreso, oppure ha ricevuto un'iniziazione da qualcuno che continuava in linea diretta le idee ellenistiche di Giuliano? La seconda alternativa sembrerebbe piuttosto improbabile, tuttavia non credo di poterla escludere. In fondo sappiamo così poco! 

Il Trattato delle Leggi

Questo è il testo dell'Inno al Sole, contenuto nel Trattato delle Leggi (
Νόμων συγγραφή, Nómōn syngraphḗ), opera di Gemisto Pletone che purtroppo ci è nota soltanto per frammenti: 

Ἄναξ Ἄπολλον, φύσεως τῆς ταὐτοῦ ἑκάστης 
Προστάτα ἠδ' ἡγῆτορ, ὃς ἄλλα τὲ ἀλλήλοισιν 
Εἰς ἓν ἄγεις, καὶ δὴ τὸ πὰν αὐτὸ, τὸ πουλυµερές περ
Πουλύκρεκόν τε ἐὸν. μιῇ ἁρμονίη ὑποτάσσεις 
ύ τοι εκ γ' ὁμονοίης καὶ ψυχῖσι φρόνησιν· 
Ἠδὲ διχην παρέχεις, τα τε δὴ κάλλιστα ἐάων, 
Σὺ δὴ καὶ ἵμερον θείων καλλῶν δίδου αἰὲν,
Ἄναξ, ἡμετέρησι φυχαῖς: ὠὴ παιάν.  

Traslitterazione: 

Ánax Ápollon, phýseōs tẽs tautoũ hekástēs 
Prostáta ēd' h
ēgẽtor, hòs álla tè allḗloisin 
Eis hèn ágeis, kaì dḕ tò pàn autò, to poulymerés per 
Poulýkrekón te eòn, miẽ harmoníē hypotásseis
; 
Sý toi ék g' homonoíēs kaì psykhẽsi phrónēsin 
Ēdè díkhēn parékheis, tá te dḕ kállista eáōn,
Kaì rh' hygíean sṓmasi, kallos t' àr kaì toĩsin;
Sỳ dḕ kaì hímeron theiōn kallõn dídou aièn,
Ánax, hēméterēsi psykhaĩs; ōḕ paián.

Traduzione: 

Apollo Re,
tu che regoli e governi l'identità in tutte le cose,
che stabilisci l'unità tra tutti gli esseri,
che sottoponi alle leggi dell'armonia questo vasto Universo, così vario, così molteplice,
sei anche tu che stabilisci l'accordo tra le anime e generi saggezza e giustizia, i beni più preziosi; 
sei tu che dai salute e grazia ai corpi. 
Perciò ispira sempre le nostre anime con l'amore per le bellezze divine; salve, o Peana.

Purtroppo il testo completo del Trattato delle Leggi è stato fatto distruggere dall'acerrimo nemico del filosofo, Gennadio II Scolario, che nel 1454 divenne Patriarca di Costantinopoli. Ormai nella grande città comandavano i Musulmani, ma il potere che l'ecclesiastico conservava gli permetteva ancora di fare gravi danni. Quanto ci resta del Trattato delle Leggi è consultabile nell'Archivio del Web e liberamente scaricabile: 



Sunto dottrinale

Gemisto Pletone era un convinto sostenitore della necessità di unificare tutte le religioni del mondo in una sola, che era quella Ellenistica. Egli faceva risalire le filosofie di Platone e di Pitagora alla dottrina del persiano Zoroastro, ritenuta il fondamento della Conoscenza Primigenia. Da questa sarebbero discesi in linea diretta, nel corso dei secoli, gli insegnamenti di tutti gli antichi saggi, tra cui si possono enumerare Minosse, Licurgo, Numa Pompilio, i Sacerdoti di Dodona, i Sette Sapienti, Parmenide, Timeo, Plutarco, Porfirio, Giamblico, i Magi e i Brahmani (ΒραχμᾶνεςBrakhmãnes) della remota India. Importante il riferimento agli Oracoli Caldaici (
Χαλδαικὰ λόγια, Khaldaiká lógia), importante opera misterica risalente con ogni probabilità alla fine del II secolo d.C., attribuita a Giuliano il Teurgo e giunta a noi in forma frammentaria.   

L'antico politeismo era concepito nello spirito platonico, con Zeus come dio supremo. Gemisto Pletone ideò una liturgia dettagliata allo scopo di rendere l'Ellenismo una religione praticabile. Egli presumeva che gli Dei mantenessero una completa armonia tra loro, evitando così conflitti come quelli descritti da Omero e organizzandosi volontariamente in un sistema gerarchico capace di servire da modello per gli esseri umani. Filosoficamente, ciascuno degli Dei era visto come rappresentante del principio a loro associato, come ad esempio l'unità rappresentata da Zeus e la molteplicità rappresentata da Era. L'Universo era considerato senza inizio e imperituro, in nettissimo contrasto con il Cristianesimo: le stesse parole "creare", "creazione" erano interpretate in senso letterario e metaforico, non come realtà fisiche. 
Riguardo all'anima, il filosofo sosteneva la dottrina platonica della trasmigrazione o metempsicosi. Tuttavia, non concepiva l'esistenza dell'anima nel mondo materiale come punizione o sventura, ma la affermava come necessaria, significativa e immutabile. Pertanto, non dava per scontata alcuna vita ultraterrena accessibile all'anima, nessuna prospettiva di redenzione. Tra le tesi anticristiane da lui fortemente sostenute c'era la dottrina del diritto etico al suicidio. Si sospetta che egli stesso sia morto volontariamente, all'età di quasi cento anni. 

Critica all'aristotelismo 

Nel 1439, Gemisto Pletone scrisse a Firenze il trattato Περὶ ὧν 'Αριστοτέλης πρὸς Πλάτωνα διαϕέρεται (Perì hõn Aritostotélēs pròs Plátōna diaphéretai, in latino De Platonicae atque Aristotelicae philosophiae differentiis) "Sulla differenza tra la filosofia platonica e quella aristotelica". In questa polemica, difese gli insegnamenti di Platone dalle critiche di Aristotele. Scrisse l'opera in fretta e furia mentre era malato, con citazioni fatte a memoria e non esenti da errori. Il suo merito più grande, tuttavia, fu quello di aver attirato l'attenzione sulle differenze fondamentali tra la filosofia aristotelica e quella platonica. Queste differenze ricevettero troppo poca attenzione all'epoca a causa delle tendenze armonizzatrici di molti umanisti. Gemisto Pletone criticò anche i commentatori arabi, in particolare Abū 'l-Walīd Muḥammad ibn Aḥmad ibn Muḥammad ibn Rushd, più noto come Averroè (Cordova, 1126 - Marrakech, 1198), accusato di aver falsificato gli insegnamenti originali. La tesi sostenuta dal filosofo bizantino era questa: il mondo antico antepose sempre Platone ad Aristotele; fu solo grazie alla disastrosa influenza di Averroè che la gente iniziò a preferire Aristotele. Questo era un punto particolarmente controverso degli insegnamenti di Gemisto Pletone, che gli attirò particolare ostilità: basti pensare l'importanza che il pensiero aristotelico aveva come cardine della filosofia sostenuta dalla Chiesa Romana.   

Gemisto Pletone e la politica 

La vita del filosofo fu plasmata dalla fase finale del declino di Bisanzio. Come consigliere di imperatori e despoti, partecipò attivamente a questi sviluppi. Tuttavia, considerò il crollo dell'Impero bizantino e la vittoria dei Turchi in modo diverso rispetto ai suoi concittadini ortodossi, poiché, a differenza di loro, non era radicato nella fede cristiana, ma nel Platonismo. Credeva che lo Stato cristiano, allo stesso modo di quello islamico, fosse un'aberrazione storica destinata al crollo, e che il futuro appartenesse a un nuovo Stato greco, non più cristiano, ma radicato nell'antichità classica. Questo Stato futuro sarebbe stato guidato dai principi platonici, pitagorici e zoroastriani.
Gli elementi centrali del programma politico pletoniano sono i seguenti: 

- Sostituzione del Cristianesimo con l'Ellenismo come religione di Stato. 
- Un sistema monarchico in cui il sovrano dovrebbe ascoltare i consiglieri filosofici. 
Questi consiglieri non dovrebbero essere particolarmente ricchi, poiché altrimenti seguirebbero la loro avidità, ma nemmeno poveri, poiché altrimenti sarebbero suscettibili alla corruzione.
- Divisione del popolo in tre classi (contadini, commercianti e funzionari pubblici/capi di stato).
- Nessun servizio militare per i contribuenti ed esenzione fiscale per i soldati; un esercito puramente professionale, rifiuto del servizio mercenario.
- Aliquota fiscale fissa: un terzo del raccolto agricolo. Nessun altro onere per gli agricoltori attraverso tasse e obblighi di servizio.
- Abolizione di ogni sostegno del monachesimo con il denaro delle tasse, in quanto è un'attività criticata come parassitaria.
- Abolizione delle pene di mutilazione, perché impediscono ai puniti di svolgere attività utili.
Enfasi sulla risocializzazione nel diritto penale, ma – similmente alle Leggi di Platone – ampio uso della pena di morte.
- Impegno sociale per la proprietà terriera, che dovrebbe essere collegata all'obbligo di utilizzarla per l'agricoltura, perché la terra è proprietà comune di tutti gli abitanti.
Se un proprietario terriero trascura questo dovere, chiunque può coltivare qualcosa lì; il raccolto, al netto delle tasse, appartiene quindi a chi lo ha prodotto. Con questa richiesta, il filosofo prese di mira i vasti terreni ecclesiastici, in parte incolti. 


Il lascito e il sarcofago

Questo scrisse il Cardinale Bessarione (Trebisonda, 1403 - Ravenna, 1472) ai figli del filosofo defunto, Demetrio e Andronico, per onorarne la memoria: 

"Ho saputo che il nostro comune padre e maestro ha lasciato ogni spoglia terrena ed è salito in cielo... per unirsi agli dèi dell'Olimpo nel mistico coro di Iacco. Ed io mi rallegro di essere stato discepolo di un tale uomo, il più saggio generato dalla Grecia dopo Platone. Cosicché, se si dovessero accettare le dottrine di Pitagora e Platone sulla metempsicosi, non si potrebbe evitare di aggiungere che l'anima di Platone, dovendo sottostare agli inevitabili decreti del Fato e compiere quindi il necessario ritorno, è scesa sulla terra per assumere le sembianze e la vita di Gemisto. Personalmente, dunque, come ho già detto, mi rallegro all'idea che la sua gloria si rifletta anche su di me; ma se voi non esultate per essere stati generati da un padre simile, voi non vi comporterete come si conviene, perché non si deve piangere un tale uomo. Egli è diventato motivo di grande gloria per l'intera Grecia; e ne sarà l'orgoglio dei tempi a venire. La sua reputazione non perirà, ma il suo nome e la sua fama saranno perennemente tramandati a futura memoria." 

Si resta basiti considerando che queste parole commoventi sono state pronunciate da un ecclesiastico, sostenitore dell'unione tra la Chiesa Ortodossa e la Chiesa Romana; si deve però ricordare che egli fu sempre impegnato nello studio e nella conservazione della cultura greca classica, oltre ad essere il discepolo prediletto dello stesso filosofo - da lui considerato il Secondo Platone e persino la sua reincarnazione!

Nel 1453, un anno dopo la morte di Gemisto Pletone, Costantinopoli fu conquistata dai Turchi e anche Mistra si arrese nel 1460. Pochi anni dopo, il valoroso condottiero Sigismondo Malatesta, al servizio di Venezia, giunse a Mistra con una spedizione militare, riuscì a recuperare le spoglie del filosofo dalla tomba e le portò a Rimini nel 1466. Da allora il sarcofago di Gemisto Pletone è stato collocato su una parete esterna del Tempio Malatestiano, dove è tuttora ben visibile.

Ricordi di scuola

Un professore del liceo, Alberto C., che insegnava storia dell'arte, a volte riportava qualche dato interessante nelle sue lezioni. Ad esempio affermava che durante il Rinascimento i miti greci erano noti persino alle persone di bassa condizione sociali. Non comprendeva però la ragione di questo pervasivo fenomeno culturale. Era un cattolico fanatico e in un'occasione fece alla classe un discorso su Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520) e su un singolare mito fiorito intorno alla sua persona. Ci disse che molti contemporanei dell'artista lo consideravano la reincarnazione di Gesù, per via della sua bellezza eterea e della morte che lo aveva ghermito quando aveva 33 anni. Poi precisò che "la reincarnazione non esiste", come se fosse depositario della conoscenza di tutte le cose inconoscibili. Ribadì più volte la sua posizione, facendo sfoggio di un atteggiamento di scherno. Quindi affermò che le credenze nella metempsicosi erano tipiche della moda dell'epoca: a suo dire erano cose futili sorte dal pettegolezzo, del tutto prive di sostanza. Non poteva capire che invece si trattava di un esito del Neoplatonismo importato in Italia da Gemisto Pletone! 

I deprecabili bias dei professori

Gemisto Pletone non è menzionato a scuola soprattutto per un motivo: la maggior parte del corpo docente (pur con debite eccezioni) nega in modo reciso l'esistenza di tutto ciò che non è nel programma ministeriale. Sono fin troppi a pretendere che la propria conoscenza parziale sia metro e misura dell'intero Universo! La cosa più scandalosa è che nessuno parli di questo personaggio importantissimo nelle lezioni di filosofia. Almeno un cenno in quel contesto lo meriterebbe.

Prove del successo dell'opera di Gemisto Pletone

È stato scoperto che una famiglia di commercianti di Lucca sacrificava agli Dei un bue ogni anno per propiziarsi gli affari, tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII. Sono stati trovati resti di una di quelle offerte: 
un teschio di bovino, studiato, che è stato studiato nell'ambito dei reperti del Museo Archeologico Palazzo Poggi. I reperti, provenienti da uno scavo archeologico nella città di Lucca, sono stati sottoposti ad analisi archeozoologiche per comprendere il loro significato storico e culturale, rivelando un passato finora poco conosciuto della città: riti pagani nel Cinquecento! Non ho dubbi sul fatto che questo emergere di pratiche pagane, in un contesto in cui non sarebbero dovute esistere, è connesso agli insegnamenti diffusi da Pletone in Italia nel XV secolo. Deve esserne una naturale conseguenza. Lo stesso Imperatore Giuliano era un gran sacrificatore: i maligni dicevano che se fosse tornato vittorioso dalla campagna militare in Persia, i bovini si sarebbero immancabilmente estinti. 


Nel fondamentale testo di Prudence Jones e Nigel Pennick, A History of Pagan Europe (1995), è menzionato un fatto sorprendente: nel 1522, in pieno XVI secolo e 30 anni dopo la scoperta dell'America, a Roma fu sacrificato un toro a Giove, nel Colosseo, nella speranza di riuscire a fermare un'epidemia di peste che stava infuriando. Lo storico Francis Young riporta ulteriori dettagli. Il Papa e i porporati avevano abbandonato l'Urbe per sfuggire al contagio. Aveva fatto la sua comparsa un greco di nome Demetrio, che aveva proposto al popolino il rito pagano. I magistrati avevano dato la loro autorizzazione. Tuttavia, visto che la pestilenza non accennava a regredire, il volgo aveva ripreso a fare processioni in onore dei Santi e della Vergine, biascicando preghiere, sgranando rosari. 
Cosa possiamo dedurre da questi fatti portentosi? Esistevano ancora Ellenisti agguerriti nella Grecia del XVI secolo e avevano abbastanza audacia da giungere a Roma come missionari!  

Differenze tra Gemisto Pletone
e Vilgardo di Ravenna
 

Il neopagano medievale Vilgardo di Ravenna non aveva mezzi. Non possedeva nulla oltre alla sua erudizione, in ogni caso mediata dalla Chiesa Romana. Le sue conoscenze erano rudimentali. Non aveva alcun testo oltre a quelli dei poeti romani. Il greco gli era completamente sconosciuto. Non aveva il sostegno di un Imperatore e non era riuscito ad ascendere nella scala sociale fino a diventare un consigliere di corte. Inoltre, fatto non meno importante, gli mancava la componente esoterica. 

Conclusioni 

Un grave limite del pensiero di Pletone è l'incapacità di comprendere la natura del Male, concetto da lui rifiutato in modo radicale. Detto questo, la sua opera merita la massima attenzione. Il fatto stesso che sia stata rimossa, prova al di là di ogni dubbio che il Sistema ne ha tuttora un immenso terrore.