martedì 5 settembre 2023

LA LEBBRA A COMACCHIO

La lebbra in Italia non è una pura e semplice reminiscenza del Medioevo. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Trovo molto interessante raccogliere e pubblicare informazioni sulla sua presenza sul territorio, in tempi non troppo remoti. Espongo qui un caso che sorprenderà gli eventuali lettori.


Un importante focolaio endemico di lebbra si trovava a Comacchio (provincia di Ferrara) nel XIX secolo. La malattia hanseniana, definita da Antonio Campana (1806) "un morbo crudele che travaglia una parte della popolazione", era conosciuta dai nativi di quel luogo con due diverse peculiari denominazioni:
1) mal di formica
Era la lebbra nervosa, chiamata così per la lentezza del suo sviluppo nel corso di anni, che poteva portare alla caduta delle dita e persino di arti: in apparenza benigna all'origine, era devastante sul lungo periodo. Secondo Giacomo Sangalli (1878) il nome avrebbe avuto come causa "il formicolio e il prurito alla pelle sul primo sviluppo della malattia"
2) mal di fegato
Era la lebbra tubercolare, chiamata così perché somigliava nelle ripugnanti manifestazioni cutanee a una malattia dei tacchini, non ben identificata, che guastava loro il fegato. Questo riporta Antonio Campana (1806) nella sua preziosa relazione: "vuolsi analogo ad una certa malattia dei tacchini, che copre di tubercoli e di croste i bargiglioni e tutta la testa di quei gallinacei, guastandone contemporaneamente il fegato".

Non essendo stato ancora scoperto il Mycobacterium leprae, all'epoca in cui scrisse Campana imperavano idee stravaganti sulle origini della malattia hanseniana. In particolare, le cause della persistenza del focolaio di lebbra a Comacchio erano identificate nel continuo consumo di pesce sotto sale. A conferma di questa opinione, era stata notata la presenza di forme molto simili di lebbra in altre località marine europee, in Bosnia, nell'isola svedese di Gotland, in Norvegia e in Finlandia. C'era chi attribuiva il contagio a un parassita dei pesci, denominato Gordio marino: è una specie di verme che provoca lesioni cutanee ai suoi ospiti. Si nota che ancora oggi un gran numero di malattie sono attribuite a una causa simile da complottisti di ogni genere, impegnati a diffondere video spazzatura nel Web. Un'altra idea superstiziosa molto diffusa era quella dell'origine della lebbra da un tipo di malattia mentale, definita "patema d'animo". Se si dovessero raccogliere tutte le ubbie stupidissime sull'argomento, si potrebbe compilare una vasta enciclopedia.
La situazione era terribile. Verso la metà del XIX secolo, i Comacchiesi erano circa 7.000. Si stima che circa 2.000 di loro vivessero lungo la spiaggia; esistevano casi di "vita semiaquatica"; alcuni addirittura si sostentavano con la caccia o con la pesca (Andrea Verga, 1843; 1846). Vivevano in squallidi tuguri, dove la lebbra prosperava. Già Campana aveva identificato in questo modo di vivere una difficoltà quasi insormontabile alla speranza di poter curare ed eradicare la malattia (il morbo "serpeggia segretamente nascosto nei tuguri, quindi con difficoltà può estirparsi"). 
Le cure erano esse stesse dettate dalla superstizione. Esistevano ricette per cucinare la carne di vipera, a cui erano attribuite proprietà terapeutiche. Una preparazione di vipere bollite in brodo (il cosiddetto "brodo viperino") fu somministrata senza registrare alcun beneficio nei pazienti. Così anche le vipere spellate e mangiate crude con lo zucchero. La dieta a base di latte fu dimostrata essere inefficace. La somministrazione di sali mercuriali risultò anch'essa senza alcun effetto, smentendo l'idea che la condizione dei lebbrosi comacchiesi fosse dovuta a una grave forma di sifilide. 
Nel 1806 Campana aveva compreso correttamente la vera natura della malattia, identificandola con la lebbra, che ai tempi era anche denominata "elefantiasi". Per cercare di tenere la situazione sotto controllo, il Ministero dell'Interno decise l'erezione, a spese del Comune, di un "Lazzaretto" in cui raccogliere i lebbrosi. Nel 1807, circa trenta di questi pazienti furono confinati in una parte del convento di Sant'Agostino in Comacchio, situato su una penisola separata dal resto del paese: fu costruito un ponte levatoio per impedire l'accesso a estranei. Le finestre dell'edificio che davano sulla città furono murate, lasciando aperte soltanto quelle che davano sulle valli. C'era separazione totale tra i sessi: esisteva il terrore che i ricoverati potessero concupire e consumare atti carnali. La dieta comprendeva la carne ma escludeva il pesce, perché era dura a morire la convinzione secondo cui "le malattie della pelle coll'uso del pesce infieriscono". Al contempo era ben chiara la natura contagiosa del morbo, dato che gli infermieri, i medici, il chirurgo e il confessore potevano entrare nei recinti soltanto coperti da una veste di tela lucida. Terminato il loro compito, mettevano tale veste protettiva in una "camera di espurgo", disinfettandosi le mani con acqua e aceto.
Nel 1815, subito dopo il Congresso di Vienna, il convento di Sant'Agostino in Comacchio fu chiuso e trasformato in una fortezza austriaca. I lebbrosi furono deportati a Ferrara, nell'ex convento di Sant'Andrea, considerato "spazioso e salubre"

Riporto in questa sede il link a un articolo di Sangalli sull'anatomia patologica: La lebbra dell'Alta Italia, massime di Comacchio: nota / 16 dic. 1880. (massime = massimamente). È ospitato nell'Emeroteca Digitale della Biblioteca Nazionale Braidense

 
 

Possibili origini del focolaio comacchiese 

La cosa che più desta stupore è l'assenza di testimonianze circa la presenza della malattia a Comacchio in tempi antecedenti alla Relazione di Antonio Campana, in particolare negli scritti dei medici Giovan Francesco Bonaveri e Pierpaolo Prioli (1761). Il confinamento di una trentina di lebbrosi nel convento di Sant'Agostino nel 1807 ha destato il terrore dei borghesi della città, come se non avessero mai avuto alcuna contezza dell'esistenza stessa dell'infezione. Va detto che l'ignoranza imperversava e che la condizione dei lebbrosi veniva con ogni mezzo tenuta nascosta. Non è affatto facile tracciare la genesi di un focolaio di lebbra, a cui possono contribuire diversi percorsi di migrazione del patogeno. Si potrebbe pensare che i traffici dei marinai abbiano avuto la loro importanza. Va notato che il focolaio comacchiese è rimasto circoscritto, tanto che già nei paesi confinanti non si trovava alcuna traccia di persone contagiate. Non sono riuscito a reperire notizie sulla sua estinzione, che senza dubbio deve essere avvenuta prima dell'inizio del XX secolo, dal momento che non se ne trova più traccia. 

Un dilemma etico

La butto là come provocazione estrema. Pensate che sia lecito estinguere un patogeno? I patogeni dovrebbero essere tutelati, visto che sono il prodotto di migliaia di anni di evoluzione e di differenziazione? Ebbene, la lebbra di Comacchio aveva alcune peculiarità che non si sono mai viste in altre forme della malattia nell'intero globo terracqueo. Ad esempio, mancava un sintomo peculiare, l'anestesia. Quando il focolaio hanseniano si è estinto tra le tristi genti palustri di Comacchio, si è fatto molto difficile investigare l'affascinante questione. Sarà arduo poter estrarre genoma integro esumando resti di malati, ammesso che la cosa sia fattibile. 

Conclusioni

La memoria delle masse è cortissima e disperde ogni cosa. Ai nostri tempi, Comacchio è un paese noto soprattutto per le anguille, nessuno si sognerebbe mai che in passato fosse invece noto per i lebbrosi. Ricordo uno sketch di alcuni guitti del Bagaglino, in cui si parlava di una fantomatica visita di Romano Prodi a Comacchio. Il politico era esaltato in modo ironico, satirico, come una specie di novello Messia. I guitti raccontavano un "miracolo" a lui attribuito: le anguille si sarebbero ammassate in canali da cui erano da lungo tempo scomparse, saltando sulle piastre roventi e addirittura girandosi per potersi grigliare meglio! 
E l'Italia è questa qua.

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