giovedì 29 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI DELLA TORRE ARRIGONI

Dianora Della Torre Arrigoni è l'autrice dell'interessantissimo trattato Seta selvatica: passato e presente. Il lavoro è diviso in due parti, consultabili e scaricabili sia dal sito del GENM (Gruppo Entomologico Naturalistico Meldolese) che dalla pagina dell'autrice su Academia:

Prima parte:



Seconda parte: 



Indice

Parte prima
  Caratteristiche, proprietà e usi
  Amica dell'ambiente
  Panorama storico
  La stagione europea
  Bibliografia

Parte seconda  Scenario attuale
  Da parassiti dannosi a fonte di guadagno
  Madagascar: un modello per l'Africa
  Referenze bibliografiche
  I bachi da seta esistono ancora

Immergendosi nella lettura, si apprendono molte utili nozioni. Il baco da seta, ossia la larva del bombice del gelso (Bombyx mori), non è l'unico bruco in grado di produrre un filo serico utilizzabile dal genere umano per confezionare indumenti. Esistono in natura circa 400 specie diverse dal Bombyx mori, i cui bruchi tessono un bozzolo che permette di ottenere la seta selvatica, usata da epoche immemorabili in varie parti del mondo. L'allevamento di queste larve presenta diversi vantaggi: si tratta di specie non completamente domesticate, che non dipendono dall'uomo, inoltre si nutrono di foglie di diversi alberi - mentre il baco da seta si nutre esclusivamente di gelso. L'autrice tratta le caratteristiche dei vari tipi di seta selvatica e fa un quadro storico molto esauriente del loro utilizzo. In Cina, prima ancora della domesticazione del Bombyx mori, era usata la seta ottenuta dall'Antheraea pernyi, originaria della Mongolia e utilizzata anche dalle sue genti già nel II secolo a.C. In India, la seta selvatica era conosciuta già diversi millenni prima di Cristo, mentre il baco da seta vi fece la sua comparsa soltanto più tardi, verso il III secolo d.C. Alcune farfalle produttrici di seta sono da epoche immemorabili ritenute sacre dalla religione Hindu, come ad esempio l'Antheraea mylitta, i cui ocelli erano visti come il disco di Visnu. In tempi più vicini a noi, Gandhi affermò nel corso della sua visita in Assam che "le donne Bodo tessevano sogni sui loro telai": la specie utilizzata in quella regione è Antheraea assama. Nel Messico precolombiano, gli Aztechi e altri popoli traevano la loro seta dai grandi nidi comuni delle larve di Gloveria psidii. I bozzoli di una Pieride, Eucheria socialis, fornivano agli Aztechi non soltanto tessuti, ma anche la carta. L'estinzione dell'uso della seta selvatica in Messico è molto recente, risale a circa cinquant'anni fa. Le informazioni raccolte nel trattato sono numerose e di gran pregio: ne consiglio vivamente la lettura a tutti, è qualcosa che allarga i propri orizzonti e permette di far luce su aspetti poco noti dell'esistenza.  

L'epidemia di pebrina e le sue conseguenze 

Si apprende che l'uso della seta selvatica si diffuse in Europa nel XIX secolo. Una spaventosa epidemia di natura virale aveva aggredito i bachi da seta in molti paesi, devastando la sericoltura tradizionale. La malattia era detta pebrina, dall'occitano pebre "pepe", perché sul corpo dei bachi colpiti comparivano caratteristiche macchie nere, che ricordavano nella forma grani di pepe. Il motivo di una denominazione di origine occitana è presto spiegato: i primi focolai della malattia si sono formati nel Midi francese verso la metà del secolo, diffondendosi poi a macchia d'olio. La sericoltura dipende dal seme-bachi (il vocabolo ha una struttura abbastanza curiosa), che consiste nelle uova della farfalla da seta. Col propagarsi della pebrina in Francia, l'unica risorsa degli allevatori era procurarsi seme-bachi sano da regioni in cui non era ancora giunta l'infezione. Per porre rimedio alla calamità, iniziarono così a importare seme-bachi dall'Italia. Quando l'epidemia oltrepassò le Alpi, la situazione divenne critica: la sericoltura italiana, diffusa e prospera nella quasi totalità degli stati preunitari, subì danni ingentissimi. Di qui la necessità di ricercare seme-bachi sano in terre lontane: i semai andarono a procurarselo nei Balcani, in Turchia, in Asia Centrale, in Cina e persino in Giappone - dove era iniziata l'apertura commerciale ai paesi stranieri dopo secoli di isolamento. Mi ha molto colpito la determinazione con cui i semai affrontavano la durissima via del Giappone, giungendo fino a Yokohama, dove si teneva da agosto a fine ottobre un regolare mercato del seme-bachi. I molli francesi, incapaci di tanto eroismo e privi di tempra, non tentarono nemmeno simili imprese, così quando la pebrina si estinse, la sericoltura non si fu in grado di risollevarsi. Un effetto collaterale di questa crisi fu l'importazione e l'acclimatazione in Europa di specie di farfalle da seta diverse dal Bombyx mori, come alternativa alla seta tradizionale. In particolare furono utilizzati Saturnidi provenienti dalla Cina e dall'India.  

Il Brucaliffo e la serendipità

Sono giunto a conoscere il presente lavoro per puro caso, mentre cercavo notizie sull'allevamento delle larve di Saturnia pyri, farfalla notturna nativa dell'Europa, da cui secondo alcune fonti si può ottenere seta di alta qualità. Ho ricordi d'infanzia di questi bruchi del pero, grossi e molto appariscenti, tanto da somigliare al Brucaliffo. Avevo letto da qualche parte che questa specie, diffusa dalla Spagna alla Siberia e in parte del Nordafrica, in passato era stata utilizzata nella sericoltura. Ho potuto constatare che la Della Torre Arrigoni menziona a malapena nel suo lavoro, ma riporta un fatto importante. Il bozzolo tessuto dal bruco del pero è composto da filamenti spezzati in più punti e necessita di cardatura e filatura per poter essere utilizzato. Peccato: essendo una specie autoctona, avrebbe potuto essere una risorsa importante. In passato supponevo che le larve della Saturnia pyri non fossero di facile allevamento o che la resa fosse scarsa: non potendo disporre di conoscenze più dettagliate, facevo illazioni. Adesso ho imparato qualcosa di molto utile. Navigando nel Web ho poi scoperto che la specie non si trova in Inghilterra, anche se ne sono stati recentemente scoperti alcuni esemplari a Swaythling, nello Hampshire. Con ogni probabilità provengono da un allevamento abbandonato, anche se si specifica che questa pratica non è attestata nel Regno Unito.


Etimologia di tussah

In inglese la seta ricavata dai bozzoli di bachi selvatici è detta tussah, con le varianti tussor, tussore, tusser, tussas, tussus. L'origine di questa parola è dall'indostano tasar, a sua volta dal sanscrito tasara, trasara "spola". Per motivi fonetici, il vocabolo sanscrito non può essere derivato dalla radice taṃs- "decorare; muovere", come suggerito da Monier-Williams (non dimentichiamo la variante con tr-!): è con tutta probabilità un relitto di una lingua del sostrato preindoeuropeo dell'India. 

Gli Aztechi, i bachi selvatici e la seta

Non sono riuscito a reperire i nomi Nahuatl delle farfalle Gloveria psidii ed Eucheria socialis, menzionate dall'autrice. Gli Aztechi usavano il nome ocuilicpatl per indicare la seta (selvatica), nome derivato da ocuilin "verme" e da icpatl "filo" (alla lettera "filo del verme"). Il bruco produttore di seta era chiamato tzāuhqui ocuilin "verme filatore" (da tzāhua "filare"), mentre il bozzolo era chiamato cochipilōtl (da cochi "dormire"). Un sinonimo di cochipilōtl è calocuilin, alla lettera "verme-casa" - e non "casa del verme", che sarebbe *ocuilcalli

Etimologia del nome Dianora

Non posso resistere alla tentazione di inserire un'ultima nota etimologica. Il nome Dianora, davvero curioso e raro, è attestato già in epoca medievale. La sua origine è controversa. Nasce a parer mio da Eleonora, di cui sono attestate le varianti Lionora e Lianora. Alla forma Lianora si è sovrapposto il nome della dea Diana, il cui culto è riuscito a sopravvivere alla dissoluzione dell'Impero Romano d'Occidente, perdurando a livello popolare per tutto il Medioevo.

domenica 25 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI JACQUES

Guillaume Jacques (Centre des Recherchers Linguistiques sur l’Asie Orientale, Paris) e Johann-Mattis List (Max Planck Institute for the Science of Human History, Jena) sono gli autori del lavoro Save the Trees: Why We Need Tree Models in Linguistic Reconstruction (and When We Should Apply Them). Il manoscritto degli autori è consultabile al seguente link:


L'articolo è etichettato come "Authors manuscript" (sic). Si precisa altresì che "This article will appear in the Journal of Historical Linguistics in 2018, Volume 8".

Questa è la traduzione dell'abstract:

"Lo scetticismo verso il modello ad albero ha una lunga tradizione nella linguistica storica. Anche se gli studiosi hanno enfatizzato che il modello ad albero e la sua teoria concorrente, la teoria dell'onda, non sono necessariamente incompatibili, ha sempre goduto di una certa popolarità l'opinione secondo cui gli alberi genealogici non sono realistici e dovrebbero essere abbandonati completamente dalla linguistica storica. Questo scetticismo si è ulteriormente accresciuto con la tecnica, recentemente proposta, per una visualizzazione dei dati che sembra confermare che possiamo studiare la storia delle lingue senza gli alberi genealogici. Mostriamo che gli argomenti concreti addotti a favore dei modelli di onda anacronistica non reggono. Confrontando il fenomeno dell'ordinamento del lignaggio incompleto (incomplete lineage sorting) in biologia con i processi in linguistica, mostriamo che i dati che non sembrano risolvibili in alberi genealogici, possono essere ben spiegati senza rivolgersi alla diffusione. Nello stesso tempo, i limiti metodologici nella ricostruzione storica possono facilmente portare a una sovrastima della regolarità, che può a sua volta emergere come schemi conflittuali quando si tenta di ricostruire una filogenesi coerente. Illustriano con diversi esempi come gli alberi genealogici possono portare beneficio alla comparazione linguistica, ma facciamo anche notare i loro svantaggi nel modellizzare le lingue miste. Mentre riconosciamo che non tutti gli aspetti della storia della lingua sono rappresentabili con alberi genealogici, e che i modelli integrati che catturano le relazioni sia verticali che laterali di una lingua possono dipingere la storia della lingua in modo più realistico, concludiamo che sono essenzialmente erronei tutti i modelli che sostengono che le relazioni verticali di una lingua possono essere del tutto ignorati, sia che essi ancora usino implicitamente gli alberi genealogici, o che forniscano uno schema statistico di dati e quindi falliscano la modellizzazione degli aspetti temporali della storia della lingua." 

Dendrofobia e dendrofilia in linguistica 

L'autore fa una panoramica sull'origine dei modelli linguistici ad albero e delle reazioni scettiche che questi hanno generato. Il primo studioso che divulgò l'idea di classificare le lingue in alberi genealogici fu August Schleicher (1821-1866), da non confondersi con il fantomatico Egon Schleicher inventato da George Steiner. Egli partì dall'assunzione che il modo migliore per rappresentare la nascita e lo sviluppo delle lingue consistesse nell'usare l'immagine di un albero ramificato. Grazie a lui divenne comune l'uso del termine Stammbaum in linguistica. Le prime critiche giunsero da Johannes Schmidt (1843-1901) e da Hugo Schuchardt (1842-1927). Il primo di questi studiosi rimase molto sul vago, mentre il secondo cominciò a far notare che nelle varie lingue indoeuropee sono presenti distribuzioni molto irregolari di vocaboli. Le mappe delle isoglosse lessicali presentano lacune e solo poche caratteristiche sono presenti in tutte le lingue indoeuropee contemporaneamente. Da una stima fatta, risulterebbe che il greco antico e il sanscrito hanno in comune il 39% di parole imparentate, mentre si arriverebbe al 53% considerando il greco antico e il latino. Per quanto riguarda il latino e il sanscrito, la percentuale scende addirittura all'8%. Le percentuali reali possono essere più basse, dato che esistono etimologie fallaci da molti considerate valide (es. latino cālīgō "oscurità" - sanscrito kāla- "nero" sono falsi parenti). Come conseguenza, il modello ad alberi genealogici andò in crisi. Nacquero modelli alternativi che in realtà non spiegano nulla. Prevalse l'idea delle convergenze multiple che avrebbero portato realtà dissimili ad assomigliarsi per mutua influenza nel corso dei secoli. Tra l'altro, solo per fare un esempio, l'influenza dei sostrati preindoeuropei era gravemente sottostimata. Gli attuali dendrofobi hanno diversa origine: sono convinti che partendo col considerare una lingua come un organismo biologico si arrivi ineluttabilmente al darwinismo sociale e al razzismo. Il presupposto politico è l'associazione degli alberi genealogici con la genetica. Rimando all'articolo per un'approfondita disamina del moderno dibattito sugli alberi linguistici e sulla necessità di salvare il modello in questione dagli attacchi di studiosi ipercritici. 

L'identificazione delle innovazioni

Per identificare le innovazioni del lessico ereditato e distinguerle da prestiti recenti, il metodo della glottometria storica usa un criterio che non dovrebbe essere controverso: le etimologie i cui riflessi seguono corrispondenze fonetiche regolari sono da considerarsi ereditate (François, 2014). Così, quando una protoforma comune può essere postulata per un particolare insieme di parole in numerose lingue e può essere derivata dall'applicazione meccanica di leggi fonetiche, è considerata parte del vocabolario ereditato. Tuttavia in questo modo non si tiene conto di un fatto molto importante: il criterio di attribuzione sopra enunciato riguarda una condizione necessaria, ma non sufficiente. Questo perché esistono prestiti e prestiti nativizzati.

Prestiti non identificabili  

Jacques riporta esempi molto interessanti per mostrare come non sia sempre possibile discriminare tra lessico ereditato e lessico preso a prestito. Un caso già noto nel tardo XIX secolo riguarda i prestiti iranici in armeno. Nel 1897, Hübschmann scriveva: "In casi isolati, le forme iraniche e quelle armene genuine coincidono foneticamente, e la questione se si tratti di prestiti [o di eredità comune] deve essere decisa da un punto di vista non linguistico". In una tabella contenuta nell'articolo, sono riportati alcuni esempi, già evidenziati da Hübschmann ai suoi tempi, poi confermati da Martirosyan e da Martzloff nel XXI secolo. 

Armeno naw "barca" - Proto-iranico *nāw-
Armeno mēg "nebbia" - Proto-iranico *maiga-
Armeno mēz "orina" - Proto-iranico *maiza-
Armeno sar "testa" - Proto-iranico *sarah-
Armeno ayrem "bruciare" - Proto-iranico *Haid-

Anche nelle lingue Pama-Nyungan, che costituiscono gran parte delle lingue aborigene australiane, si notano tanti e tali casi di sospetti prestiti, da spingermi a pensare che il gruppo linguistico in questione possa non essere valido. Gli idiomi in questione hanno così poche innovazioni fonologiche che il riconoscimento dei prestiti si presenta davvero complesso - se non impossibile. Aggiungerò un esempio che ho potuto trovare nel corso dei miei vagabondaggi nel Web (Alpher, 2004). La radice proto-Pama-Nyungan *ngulu- dovrebbe significare "fronte". In una moltitudine di lingue derivate troviamo parole che sarebbero ottimi derivati da tale radice, se non fosse per la varietà dei significati: "fronte", "faccia", "guancia", "testa", "nuvola", "tuono", "pene", "copulare", "primo", "presto", "suolo", "creta", "scogliera", "montagna", "cielo". Ciò implicherebbe una serie di slittamenti semantici a volte abbastanza discutibili, con buona pace di Alpher e di altri: è chiaro che alcuni dei significati sono difficilmente compatibili, anche se si potrebbe dire che la parola per "nuvola" venga da qualcosa come "fronte nuvoloso", mentre la parola per "pene" potrebbe essere da un equivalente aborigeno del nostro "testa di cazzo". Sarà, comunque non mi convince.

Nativizzazione dei prestiti

Quando una lingua contiene un cospicuo strato di prestiti da un'altra lingua, i parlanti bilingui possono sviluppare l'intuizione delle corrispondenze fonologiche tra i due idiomi, applicandole a parole prese a prestito di recente. Jacques discute due esempi di questo fenomeno, noto come nativizzazione dei prestiti:  

1) Ci sono casi ove prestiti recenti dal finnico al Saami presentano corrispondenze indistinguibili da quelle del lessico ereditato, come barta "cabina", dal finnico pirtti, a sua volta dal russo dialettale pert' "un tipo di cabina", che mostra la stessa corrispondenza vocalica CiCi : CaCa della parola per "nome" (finnico nimi : Saami namma) e di altre simili. Ancora una volta, l'origine straniera della parola è una chiara indicazione che barta "cabina" non può aver subìto la serie di cambiamenti fonetici regolari che hanno portato dal proto-ugrofinnico *CiCi al Saami CaCa, e che invece la comune corrispondenza CiCi : CaCa è stata applicata al finnico pirtti.

2) La nativizzazione dei prestiti può occorrere tra lingue senza parentela genetica. Un chiaro esempio è il caso del basco e dello spagnolo (Trask 2000, Aikio 2006). Una corrispondenza ricorrente è quella tra spagnolo -ón e basco -oi in fine parola. Il protoromanzo *-one (< latino -ōnem) dà in spagnolo -ón. Tuttavia nei prestiti protoromanzi nel basco, questa uscita ha subìto la regolare perdita della *-n- intervocalica (un mutamento fonetico interno al basco): *-one ha dato *-oe e quindi -oi. Un esempio di questa corrispondenza è fornito dallo spagnolo razón e dal basco arrazoi "ragione", entrambi dal protoromanzo *ratsone, a sua volta dall'accusativo latino ratiōnem. Questa corrispondenza comune è stata applicata a prestiti recenti dallo spagnolo, come kamioi "camion" e abioi "aereo" (da camión e da avión risp.). Questo adattamento non ha giustificazione fonetica, visto che parole uscenti in -on sono attestate in basco, e può essere spiegato solo con l'iper-applicazione della corrispondenza -oi : -ón. È chiaro che in proto-basco all'epoca di Cesare non esistevano *kamione e *abione!

Posso citare altri casi. Un'anziana cugina di Milano, tumulata da tempo, in un'occasione disse: "L'altréer u tòlt un rüm inscì bun al süper", ossia "L'altro ieri ho preso un rum così buono al supermercato". Il termine rüm ha ricevuto la vocale bemollizzata -ü- /y/ a partire da corrispondenze come italiano muro - milanese mür; italiano culo - milanese ; italiano venuto - milanese vegnü. Allo stesso modo supermercato è stato adattato in süpermercàa e quindi abbreviato in süper. Nel comune di Valmadrera mi capitò di udire l'anziano R., già all'epoca quasi decrepito e ormai defunto, dire menü per indicare il menù - inteso come lista di desiderata. Lì per lì rimasi basito. "Caspita", pensai, "sembra un vecchietto così poco istruito e conosce il francese". Subito dopo sentii che chiamava ÜSL /yzl/ la USSL (ossia Unità Socio-Sanitaria Locale: all'epoca le ASL avevano questo nome). Si trattava di nativizzazione dei prestiti, così spinta da intaccare persino le sigle pronunciate come se fossero parole. È chiaro che nel latino volgare diffuso in Insubria non esistevano *rūmu(m), *sūpperu(m) e *ūsle(m)!

Il problema delle lingue miste

Esistono casi di inapplicabilità del modello ad albero genealogico. Ciò accade quando una lingua risulta dalla fusione di due lingue tra loro mutuamente inintelligibili (non importa se siano o meno tra loro imparentate). In questi casi, il lignaggio della lingua ibrida dovrà essere rappresentato da due radici. Jacques riporta il caso del Michif, una lingua di contatto basata sul francese del Canada e sul Cree. I parlanti sono detti Métis e sono discendenti di franco-canadesi che si sono uniti in matrimonio con donne native Cree e di altre nazioni native come gli Ojibway. Un parlante Michif che non conoscesse altra lingua, non sarebbe in grado di comprendere né il francese né il Cree. I sostantivi sono in prevalenza presi dal francese. I verbi e la grammatica sono invece per lo più di origine nativa, a parte i verbi "essere" e "avere", presi dal francese con tutta la loro coniugazione irregolare. Nell'articolo sono riportate due frasi, con le parole di origine francese in grassetto:

1) o-pâpa-wa êtikwenn kî-wîkimê-yiw onhin la fâm-a "suo padre evidentemente ha sposato quella donna".
2) stit=enn pchit orfelin "lei era una piccola orfanella".

Numerose altre frasi in questa lingua possono essere raccolte nel Web, con un po' di pazienza.  Jacques, sconsolato, afferma che "l'applicabilità del modello ad albero genealogico su scala globale dipende in modo cruciale dalla rarità di lingue come il Michif". La vedrei in un modo un po' meno drammatico. In qualsiasi modo si formi una lingua, a partire dalla sua piena definizione, la sua evoluzione è in ogni caso descritta da un albero, quali che siano le sue radici. Questo perché appena qualcuno la parli, la lingua prende ad evolvere naturalmente, cambiando, dando vita a nuove varietà, prendendo a prestito parole da altre lingue, etc. Anche se una lingua nuova fosse creata da uno stregone che porta agli uomini la voce degli Spiriti, nel momento in cui cominciasse a essere la lingua parlata da un gruppo, diverrebbe una lingua naturale ed evolverebbe dando origine a lingue discendenti, a diramazioni.

mercoledì 21 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI SHIN-KOMINSKI

Hyon B. Shin e Robert A. Kominski sono gli autori del rapporto Language Use in the United States: 2007, ossia "L'uso delle lingue negli Stati Uniti: 2007". Il lavoro è stato rilasciato nell'Aprile 2010 dall'American Community Survey - Census Bureau (ACS) e si trova nel Web al seguente url: 


Introduzione

"Questo rapporto fornisce informazioni sul numero e sulle caratteristiche della gente negli Stati Uniti nel 2007 che parlava in casa una lingua diversa dall'inglese. Mentre la vasta maggioranza della popolazione al di sopra dei 5 anni negli Stati Uniti parlava solo inglese in casa (80 per cento), la popolazione che parlava in casa una lingua diversa dall'inglese è cresciuta nettamente negli ultimi tre decenni. Il numero di parlanti è cresciuto per molte lingue diverse dall'inglese, ma non per tutte. In questo rapporto si evidenzia questo paesaggio in mutamento dei parlanti di lingue diverse dall'inglese negli Stati Uniti."

Il questionario e la sua struttura

I dati dell'American Community Survey, relativi al 2007, sono stati usati per descrivere l'uso delle lingue da parte della popolazione statunitense dai 5 anni in su. Le risposte alle domande sulla capacità di parlare inglese e altre lingue che erano raccolte ogni dieci anni in un censimento, adesso sono raccolte ogni anno nell'ACS. La prima domanda riguarda chiunque abbia cinque o più anni, e chiede se la persona in questione parla in casa una lingua diversa dall'inglese. A ogni persona che risponde "sì" a questa domanda è richiesto di riportare la lingua. Il Census Bureau codifica le risposte col dettaglio di ben 381 lingue. La terza domanda serve a capire "quanto bene" la persona parli l'inglese, dando le opzioni "molto bene", "bene", "non bene" e "per niente". I risultati raccolti sono stati elaborati e usati per produrre un gran numero di tabelle e di mappe.

Tendenze 1980-2007

I risultati dell'indagine, riassunti in un'apposita tabella, mostrano la crescita di alcune lingue dal 1980 così come il declino relativo di altre. Nel 1980, 23,1 milioni di persone parlavano in casa una lingua diversa dall'inglese, contro i 55,4 milioni di persone nel 2007: un aumento percentuale del 140% in un lasso di tempo in cui la popolazione degli USA è cresciuta del 34%. Il più grande aumento è stato per i parlanti dello spagnolo (23,4 milioni in più nel 2007 rispetto al 1980). I parlanti del vietnamita hanno avuto il più grande aumento percentuale (511%). Otto lingue sono più che raddoppiate in numero di parlanti nel corso dello stesso periodo, incluse quattro che avevano meno di 200.000 locutori nel 1980: russo, persiano, armeno e vietnamita. Alcune lingue sono declinate dal 1980. L'italiano, la seconda lingua non inglese parlata nel 1980 dopo lo spagnolo, ha avuto un declino netto di circa 800.000 parlanti (50%). Adesso è alla nona posizione nella classifica delle lingue non inglesi parlate in ambito domestico. Anche altre lingue, come il polacco, lo Yiddish e il greco, hanno avuto consistenti decrementi. Anche il tedesco non gode di buona salute, pur non avendo subìto un vero e proprio collasso. Mentre l'accresciuta immigrazione ha portato guadagni per certi gruppi di lingue, altri gruppi hanno sperimentato l'invecchiamento della popolazione e flussi oscillanti di migrazione negli Stati Uniti.

Alcune considerazioni deprimenti  

Il rapporto mostra numeri e mappe molto utili, di grandissimo interesse scientifico, tuttavia sono convinto che la realtà sia descritta in termini un po' asettici e in alcuni casi a dir poco eufemistici. Prendiamo per esempio il disastroso crollo della comunità italo-americana. Quando si parla del declino netto di circa 800.000 parlanti della lingua italiana, si parla di 800.000 di cadaveri il cui smaltimento è stato tutt'altro che facile! Immaginate di essere becchini e di trovarvi all'improvviso di fronte a quasi un milione di corpi in decomposizione da inumare, tumulare o cremare: di certo vi mancherebbe il respiro! Certo, la comunità italo-americana finora non ha subìto un genocidio (anche se il futuro è incerto): le morti sono avvenute piuttosto per stillicidio, nell'arco di diversi decenni.  Il fenomeno è comunque impressionante e mi ha colpito profondamente. Tanto più che va considerato al netto di flussi migratori recenti dall'Italia, così il collasso può essere stato ancor più marcato. Nel rapporto di Shin-Kominski, quanto mai approssimativo nel classificare le lingue, si accomuna la lingua italiana a parlate italo-americane il cui lessico consiste in gran parte di parole inglesi italianizzate nella fonetica, con qualche traccia di voci dei dialetti meridionali. Questi sono alcuni esempi: bisinissi "affari", tracco, trocco "camion" (< truck), baccauso, baccausa "cesso" (< backhouse), p'o becco "da dietro" (< back), coppesteso "in cima alle scale" (< 'ncopp' "in cima" + stairs), genitore "portinaio" (< janitor), stima "caldaia" (< steamer), guazzamara? "che succede?" (< what's the matter?), orrioppo! "sbrigati!" (< hurry up!), sanguiccio "sandwich, tramezzino" e via discorrendo. Un decennio dopo la situazione fotografata dal presente rapporto, le comunità italo-americane sono state oggetto di violenze e di ostilità montante da parte degli antirazzisti (o meglio autorazzisti), inferociti per via della celebrazione del Columbus Day, da loro definito "suprematista". Se la tendenza andrà avanti, finirà che i superstiti italo-americani dovranno essere chiusi nelle riserve: sarebbe l'unico sistema per tutelarli dalla furia degli autorazzisti.

Il melting pot

Per le autorità statunitensi, l'ideale è sempre e soltanto la completa assimilazione di ogni componente alloglotta, il solo fine è il trionfo dell'inglese d'America - che personalmente trovo orrendo, anche se so bene che non esistono lingue brutte in sé. Il modello proposto è raggelante nella sua banalità - per quanto non mi piaccia parafrasare la Arendt. 

1) Prima generazione di immigrati: monolingui nell'idioma di origine;
2) Seconda generazione di immigrati: bilingui nell'idiona di origine e in inglese;
3) Terza generazione di immigrati: lingua madre inglese, qualche conoscenza dell'idioma di origine;
4) Quarta generazione di immigrati: integrazione completata, inglese unica lingua, al massimo conoscenza di qualche parola o frase dell'idioma di origine.
5) Quinta generazione di immigrati: oblio totale della propria origine, testimoniata al massimo dal cognome (nella maggior parte dei casi soggetto a pronuncia ortografica).

Dove questo sistema non vuol saperne di attecchire, scatta la repressione. Repressione democratica, of course. Questo è il caso, tristissimo, dei tedeschi del Texas. Una popolazione laboriosa e onesta, che da generazioni usava la propria lingua avita, detta Texasdeutsch. Questi germanofoni restavano tra loro, avevano pochi contatti con l'esterno e non si assimilavano. Così è accaduto che all'epoca della seconda guerra mondiale sono stati accusati di aderire al Nazionalsocialismo e di sostenere il Reich Millenario. Con questo pretesto capzioso e fabbricato, del tutto falso, migliaia di persone sono state deportate, rinchiuse in campi di prigionia e riallocate nelle terre d'origine solo in seguito, a conflitto finito. In particolare è stata proibita loro la trasmissione del tedesco ai figli, anche tramite sistemi di lavaggio del cervello e di indottrinamento operato dal moloch del sistema scolastico. Come risultato di queste politiche, oggi il tedesco del Texas è parlato soltanto da pochi anziani ed è destinato all'estinzione.

Senilità di una lingua

Fa riflettere l'orribile fato che ha colpito lo Yiddish. Un tempo fiorente, l'idioma giudeo-tedesco ha finito con l'essere perseguitato e stritolato in Israele all'urlo di "un popolo, una lingua" (in ebraico "Am ehàd, safà ahàt"). Definito "meno kosher della carne di porco", è stato una vittima delle dottrine di Theodor Herzl. Come se non bastasse, muore anche negli States. A tal punto siamo arrivati, che l'ashkenazita Barbra Streisand non sopporta che il suo cognome sia pronunciato /'ʃtraɪzant/, come lo pronunciavano i suoi antenati, così cerca di imporne una pronuncia anglizzata /'straɪsænd/. Siamo al paradosso e all'assurdo! Sorprende che tutto ciò accada nonostante l'assenza di persecuzione dello Yiddish negli Stati Uniti. Eppure non ci sono dubbi, la diagnosi è chiara: è una lingua che va incontro alla dissoluzione finale e viene cancellata come la memoria di una persona affetta dal morbo di Alzheimer.

Ispanici rampanti 

Il sistema della sostituzione linguistica prescritto dalle autorità americane ovviamente può valere soltanto in sistemi quasi isolati, in cui i parlanti alloglotti si trovano immersi in una realtà anglofona e sono indotti ad assimilarsi. Non funziona affatto se ci sono incessanti flussi migratori, come nel caso degli ispanofoni, che giungono nel territorio statunitense e vi si radicano per accumuli, tanto da far temere ai WASP un profondo cambiamento etnico e culturale in alcuni stati, come la California, il Nuovo Messico e il Texas. Di fronte a un fenomeno tanto esteso, ecco un Trump uscirsene con l'idea di costruire un muro. A quanto pare nessuno gli ha insegnato che per ridurre l'entropia in un territorio occorre crearne molta di più altrove, per giunta consumando risorse in quantità immani. Dubito molto che sarà evitata l'ispanizzazione delle regioni di frontiera con Messico - dettaglio del tutto irrilevante di fronte a problemi ben più gravi. L'avvenire degli USA può essere soltanto il caos.

domenica 18 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI MOSENKIS

Iurii Leonidovych Mosenkis (Università Nazionale Taras Shevchenko di Kiev, Ucraina) è l'autore del lavoro Paleo-West European Languages, che con molto coraggio tratta quelle lingue considerate paria dal mondo accademico, idiomi antichi e misteriosi che sono tutto ciò che rimane di continenti culturali scomparsi, la sola luce residua che giunge a noi da una preistoria sconosciuta e sprofondata nell'Oblio. Purtroppo la trattazione è poco approfondita e alcune sue ipotesi presentano gravi criticità. Lo studio è consultabile e scaricabile liberamente al seguente link: 


Questo è l'abstract, da me tradotto in italiano:

"Le lingue aborigene delle isole Canarie (Guanche) appartenevano chiaramente alla macrofamiglia afro-asiatica. Tuttavia, in aggiunta all'idea tradizionale delle lingue dei Guanche come berbere-libiche, sono dimostrati legami guanche-chadici.
La lingua pictica potrebbe essere vicina alle lingue siberiane Yenissei, cfr. il possibile sostrato Yenissei in proto-germanico e il proto-hattico come lingua sino-caucasica (di possibile origine indoeuropea occidentale) strettamente imparentata con lo Yenissei.
Resti di sostrato pre-ugrofinnico in Saami/Lappone (connesso all'aplogruppo I1?) mostra somiglianze con il sostrato pre-rumeno (connesso all'aplogruppo I2?). Potrebbe essere una traccia di una lingua d'origine dall'aplogruppo maschile I."
 

Le lingue dei Canari

Da tempo sospettavo che le lingue dei Guanche delle Canarie non fossero semplici dialetti berberi. Esistono sostrati molto difficili da trattare. Se ci sono numerose parole ascrivibili al ceppo berbero, non va nascosto che ne esistono altre che presentano caratteristiche incompatibili con tale origine - anche nel lessico di base. Alcuni dei raffronti proposti da Mosenkis sono fondati e oltremodo interessanti, altri mi lasciano perplesso, altri ancora sono di certo da rigettarsi. A quanto mi è parso di capire, non è stata tentata la ricerca di corrispondenze fonetiche regolari. Talvolta si trovano corrispondenze in antico egiziano, in chadico e in cuscitico, ma non in berbero. In alcuni casi sono riportate anche possibili corrispondenze con il basco, non sempre a proposito. Riporto alcune considerazioni:

1) Guance cel /tsel/ "luna" viene ricondotto al proto-afroasiatico *ṭilVʕ- "sorgere (della luna)", che ha dato esiti in semitico (solo in arabo, col senso di "sorgere del sole"), in chadico occidentale (col senso di "sole") e in chadico centrale (col senso di "luna"). Mosenkis connette a questa radice il cretese talos "sole" (glossa di Esichio) e il proto-basco *hil- "luna" (in realtà è *(h)iL-, con la liquida forte). Si noterà che la forma basca potrebbe essere benissimo un prestito dal proto-afroasiatico *hilal- "luna" (con esiti in semitico e in berbero), ben diverso da *ṭilVʕ-. Al momento, la questione non può essere facilmente risolta.  
2) Guanche tea "pino" sembra derivato dal latino taeda "pino resinoso; torcia" (cfr. berbero taida "pino"). In spagnolo vive ancora la parola tea "torcia", sempre da taeda, così alcuni decostruzionisti hanno ritenuto che la voce Guanche in realtà sia un ispanismo equivocato. A parer mio può ben trattarsi di una mera convergenza fonetica, essendo l'origine ultima la stessa. Non mi sembra necessario ricorrere a un proto-afroasiatico *tVʔal "albero, cespuglio". Esistono antichi prestiti dal latino nelle Canarie (il toponimo Afur a Tenerife, < lat. furnus) e anche iscrizioni rupestri in caratteri romani.
3) Guanche guirre /'girre/ "avvoltoio" a parer mio corrisponde alla perfezione al berbero igider "aquila": il mutamento è stato /*i'gidre//'girre/. L'etimologia data da Mosenkis (proto-afroasiatico ʔac̣ir- "uccello da preda") mi pare vana, non rendendo conto della consonante /g/ iniziale, che ben difficilmente potrebbe risalire a PAA c̣ /tsʔ/. I decostruzionisti vorrebbero ricondurre guirre allo spagnolo buitre "avvoltoio" (esito del lat. vultur), cosa che è impossibile per motivi fonetici e priva di qualsiasi senso. 4) Guanche mayec "madre" viene ricondotto al proto-afroasiatico *maH- "madre". Il paragone con il basco emazte "donna" è da rigettarsi non soltanto per motivi semantici, ma per l'errata etimologia: non è lecito ritagliare da tale parola una radice -ma-, dato che è un composto di eme "femmina" e di gazte "giovane", la protoforma essendo *ema-gazte. A parer mio eme viene da *enbe ed è un termine nativo, anche se la massima parte dei vasconisti lo ritiene un prestito dal guascone hemna "femmina" (< lat. fēmina) - cosa che porrebbe gravi problemi fonetici. 5) Guanche cancha "cane" (Tenerife) è fatto risalire da Mosenkis al proto-afroasiatico *kwVHen-, che ha dato esiti solo in omotico e in chadico. Tuttavia la stessa radice è diffusa in moltissime lingue nostratiche, come ad esempio nel proto-indoeuropeo. È ben difficile capirne il percorso. Si noterà che oltre a cancha è documentato anche cuna "cane", che ipotizzo essere un prestito dal celtiberico < *kunam (acc.). La cosa non è così folle come potrebbe sembrare: è possibile che ci siano state spedizioni dall'Iberia alle Canarie nel corso dei secoli. Esistono anche altre voci che potrebbero essere prestiti: si veda magua, maguada, magada "vergine" (Gran Canaria), che rimanda al proto-germanico *maγaθi- "vergine"

La lingua dei Picti 

La lingua dei Picti è una crux per gli studiosi. I decostruzionisti cercano con ogni mezzo di negarne l'esistenza, servendosi di argomenti derridiani futili e capziosi. Con buona pace di questi propagatori di virus memetici, è chiaro che esiste un residuo di lingua non indoeuropea, un nucleo che non può essere spiegato a partire dal celtico.

1) Il nome dei Picti viene ricondotto al proto-Yenisei *pixe- "essere umano" (-x- è una forte aspirazione), che ha dato in Yug fik. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, il nome non era un endoetnico. La spiegazione tradizionale vuole che i Picti siano semplicemente dei "dipinti", per via dei loro tatuaggi, ma questa sembra proprio una falsa etimologia. Per alcuni, la riprova starebbe nel fatto che Picti ha l'aria di essere una traduzione della denominazione gaelica Cruithne e di quella gallese Prydein (< *Pritanī < *Kwritanī). In antico irlandese abbiamo cruith "forma" e in gallese pryd "forma". Da questa fonte sarebbe derivato il nome dei Britanni, pur con una consonante iniziale di difficile spiegazione. Resta poi da colmare la distanza semantica tra "forma" e "dipinto, tatuaggio". Potrebbe anche essere sensata l'ipotesi di una somiglianza col nome della popolazione celtica dei Pictavi (Pictones) della Gallia Transalpina, che potrebbe ben risalire a piχto- "quinto" (sinonimo del più comune pinpetos "quinto", attestato nella forma piχte "come un quinto"). Al momento attuale delle conoscenze, non scomoderei le lingue paleosiberiane.
2) Interessante il tentativo di accostare il nome degli Scotti, donde deriva quello della Scozia, agli etnonimi Yenissei Ket e Kott. La stessa origine avrebbe anche il nome dei misterioso popolo antropofago degli Attacotti (e varianti), sempre formato da una radice *kott-. Va detto che a quanto pare, i nomi paleosiberiani Ket e Kott non avrebbero la stessa etimologia. 
3
) Mosenkis fornisce un'etimologia Yenissei per il termine IPE, con ogni probabilità da tradurre con "figlio". Questa parola enigmatica è attestata in due iscrizioni - la più famosa riporta DROSTEN IPE UORET ETT FORCUS. L'autore fa risalire questo IPE al Ket hyp "figlio". Si noterà però che poi prende Fip (variante Fibe), nome di un figlio di Cruithne, l'antenato mitico dei Picti, e lo correla allo Yug fyp "figlio". Dalla ricostruzione fatta da Starostin, risulta chiarissimo che il Ket hyp e lo Yug fyp risalgono alla stessa protoforma. Quindi è difficile ammettere che nella lingua non indoeuropea dei Picti esistessero entrambe le forme. Per quanto riguarda ETT, Mosenkis l'analizza come un suffisso del genitivo con corrispondenze in Ket. Credo più probabile che si tratti del latino et, preso come prestito. Si tradurrà dunque "Drosten figlio di Uoret, e Forcus". Non sussiste infatti traccia alcuna di un ETT interpretabile come genitivo in altre iscrizioni. Quelli di Mosenkis sembrano voli pindarici. Dal canto suo, Theo Vennemann fa risalire IPE a una protoforma semitica (donde ebraico bēn, arabo ibn). Si noterà che la parola pictica più comune per "figlio" è MAQQ, un evidente prestito dal goidelico.

La scarsità di materiale è un fattore limitante e non è facile capire se queste proposte di Mosenkis hanno un senso. Per quanto mi riguarda, credo che il pictico fosse una lingua imparentata alla lontana con il proto-basco, ma con una fonotassi radicalmente dissimile in quanto ha subìto mutamenti divergenti. Mi propongo di esporre le mie teorie e relative prove in altra sede; posso tuttavia anticipare di aver trovato una certa quantità di materiale interessante nello Shelta, la lingua degli stagnini itineranti irlandesi, che conserva un gran numero di vocaboli finora inspiegabili.

La lingua pre-Saami e
la lingua paleobalcanica

L'autore tenta una classificazione delle parole del sostrato pre-Saami, basandosi sulla loro somiglianza con materiale di altre lingue, in particolare cercando connessioni con vocaboli problematici comuni all'albanese e al rumeno. Questo è il riassunto proposto dall'accademico ucraino, in cui le voci trattate sono qui riportate tal quali:

1) Parole di aspetto indoeuropeo comune: viske "giallo", ken'te "uccidere"
2) Parole di aspetto indoeuropeo satem: sar'D' "cuore di cervo"
3) Parole di aspetto iranico: s'avn'e "diventare scuro";
4) Parole di aspetto germanico: ur'm "tafano"
5) Parole di aspetto russo antico: v'arv "cappio, occhiello"*
6) Parole di aspetto basco: niŋgлes' "femminile", nizan "donna"
7) Parole di aspetto urartaico: šuɛn'n' "palude"
8) Parole di aspetto "pre-inglese": odgi "giovane volpe"
9) Parole di aspetto albanese o "carpatico": beaski "passo montano", roahpi montagna rocciosa"
10) Parole che hanno aspetto paleo-balcanico: čearr "vetta", čerr "cresta" (cfr. mediterraneo kar "pietra"); abbr' "pioggia" (pre-rumeno abur, albanese avull "vapore"); k'ed'd'k "pietra" (pre-rumeno codru "foresta densa", albanese kodër, kodrë "collina").

*L'autore riporta "loop" come traduzione, senza specificare altro. Ho cercato senza successo la parola lappone, perdendo tempo senza arrivare a nulla. Non so quindi se il lemma sia corretto. Questo rende l'idea di quanta approssimazione regni nel mondo accademico dei paesi slavi.

Resterebbe da spiegare cosa si intenda per "parola di aspetto pre-inglese". Si dovrebbe anche specificare che la radice kar- è ricostruita a partire da vocaboli residuali di varie lingue e da toponimi, da come viene posta sembra invece che kar- sia "mediterraneo" attestato, cosa ovviamente non possibile. Questa approssimazione può rendere difficile per molti accademici cogliere quanto di interessante c'è nella trattazione, che reputo senza dubbio utile. Per maggiori dettagli rimando ai lavori del finlandese Ante Aikio e alle mie note sull'argomento.

Limiti del lavoro

Non nascondo la mia grande sfiducia nell'archeolinguistica fondata sulla genetica. La storia ci insegna che numerosi gruppi umani possono cambiare lingua nel corso dei secoli: non c'è ragione alcuna per pensare che le cose andassero diversamente nella preistoria. Così come un afroamericano di Harlem si esprime in un bizzarro inglese e non in Yoruba, è possibile che persino un sostrato linguistico antichissimo non fosse in realtà la lingua originale di un dato popolo identificabile dall'analisi degli aplogruppi. Non dimentichiamoci che i Pigmei dell'Africa e i Negritos dell'Indonesia hanno abbandonato le loro lingue d'origine da tempo immemorabile, per adottare quelle dei popoli stanziali con cui vivevano a contatto.

venerdì 16 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI BEEKES

Robert Stephen Paul Beekes (1937-2017), dell'Università di Leida, è l'autore dello studio Pre-Greek: Phonology, Morphology, Lexicon, ossia "Pre-greco: fonologia, morfologia, lessico". Non è difficile trovare nel Web il file in formato pdf di questo lavoro. 


Il termine pre-greco, traduzione dal tedesco "das Vorgriechische", è usato per indicare la lingua che si parlava nell'Ellade prima dell'arrivo dei Greci indoeuropei, assunta da Beekes come sostanzialmente unitaria. Anche se si è estinto, il pre-greco ha lasciato numerose vestigia nella lingua greca antica, ben riconoscibili per le peculiarità fonetiche, oltre che per il fatto di non avere etimologia indoeuropea credibile.

Riporto il sistema fonemico ricostruito per la lingua pre-greca da Beekes. 

Ogni consonante può essere semplice, palatalizzata o labializzate: 


py
pw

ty tw

ky kw

cy cw

sy sw

ry rw

ly lw

my mw

ny nw

Le vocali originarie sono soltanto tre: 

a     i      u  

I dittonghi  primari sono soltanto due: 

ai     au  

Un sistema fonemico abbastanza semplice. Gli allofoni sono tuttavia numerosi. Dall'analisi dell'opera di Beekes, si deduce che per le occlusive vige una situazione che presenta caratteristiche sorprendenti. 

1) Allofoni delle occlusive labiali:

[p]
[py]
[pw]
[ph]
[phy]
[phw]
[b]
[by]
[bw]
[w]
[wy]


 2) Allofoni delle occlusive dentali: 

[t] [ty] [tw]
[th] [thy] [thw]
[d] [dy] [dw]
[l] [ly] [lw]

3) Allofoni delle occlusive velari:

[k]
[ky]
[kw]
[kh]
[khy]
[khw]
[g]
[gy]
[gw]

Per le vocali, si hanno gli allofoni [a], [e], [o] per la vocale /a/; gli allofoni [i], [e] per la vocale /i/; gli allofoni [u], [o] per la vocale /u/. 

Beekes fonda la sua opera di somma importanza su un concetto molto semplice, che tuttavia riesce incomprensibile a molti indoeuropeisti: il lessico della lingua greca nelle sue diverse varianti è pieno zeppo di prestiti di origine non greca, riconoscibili a causa delle varianti non spiegabili a partire dalle caratteristiche fonetiche del lessico ereditato, indoeuropeo. Queste peculiarità si trovano nel lessico della lingua comune, ma anche in un gran numero di antroponimi e di toponimi, nella maggior parte dei casi oscuri, ossia privi di significato ricostruibile allo stato attuale delle conoscenze. Anche se non è una conoscenza molto diffusa tra il volgo, i nomi di Achille, di Odisseo e di Arianna non sono di origine greca. Anche tra le divinità della religione ellenica, non poche portano nomi antichi e problematici. Esempi: Bacco e Afrodite. 

L'autore discute in dettaglio tutte le variazioni fonetiche nelle parole di origine pre-greca, che sono realmente soprendenti. Riporto una sintetica lista di interessantissime parole greche di origine non indoeuropea, che è ben lungi dall'esaurire l'esistente: 

ἀγέρδα "pero" / ἄχερδος "pero selvatico"
ἅδην "a sazietà"
αἰγωλιός / αἰγώλιος "tipo di gufo" (Strix flammea)
αἴλινος "nenia funebre"
ἀκακαλλίς "fiore di narciso" * / κακαλίς "narciso"
ἄληνον "olio di mandorla"
ἀλήπτωρ "sacerdote"
ἀλισγέω "io inquino" 
ἄλπαρ "amabile" * / ἄλπνιστος "il più amabile"
     (superlativo con suffisso IE)
ἀμαράσαι (pl.) "scrofe" / μαράσσαι (pl.) "cani,
     uccelli" (da ingrasso)
ἄμπελος "vite" (Vitis vinifera)
ἀμυγδάλη / ἀμυσγέλα "mandorla"
ἀμφίας / ἄμφης "un vino cattivo"
ἄναξ "principe" (< ϝάναξ)

ἀπήνη / ἀμάναν (acc.) / καπάνα "carro" (a quattro
      ruote)
ἀρβύλη / ἀρμύλη "scarpa forte"
ἅρπεζα "bordo" / ἅρπισαι (pl.) "muri" 
ἀρύβαλλος "borsa; fiasco globulare da olio"
ἀτμήν "schiavo"
ἄφαρ "all'istante"
ἄχνυλα "noci" *
ἄχωρ "forfora" / ἄχυρον "crusca"
βασιλεύς "re"
βέρκιος "cervo"
βήλα "vino"
βόθρος / βόθυνος "buco"
βρένθος "tipo di uccello acquatico";
     "arroganza"; "tomba"
βριτύ "dolce" *
βροῦκος / βερκνίς "locusta"
γέφυρα / δέφυρα / βέφυρα "ponte"
δάμαρ "moglie"
δάφνη / λάφνη / δαύχνα "alloro"
δίβαν (acc.) / δίφατον "serpente" * 
δορύκνιον "convolvolo, piretro" (Convolvulus
     oleafolius)
ἐρέβινθος "cece" / ὄροβος "veccia" (Vicia ervilia)
ἔνυστρον / ἤνυστρον "quarto stomaco dei
     ruminanti"
θάλαττα / θάλασσα / δαλάγχαν (acc.) "mare"
θάμνη "vino d'uva pressata"
θάπτα / λάπτα "mosca" *(1)
θρινία "vite" (Vitis vinifera) *
θρῖον "foglia di fico"
ἴαμβος "giambo" (tipo di verso poetico)
ἴβηνα "vino" *
ἴκταρ "vulva"; "tipo di pesce"
ἴον "viola, violetta" (Viola odorata)
κάβασος / κάβαισος "ghiottone, persona ingorda" /
     καμασός "abisso" (< *"senza fondo")
καίπετος "ascia di guerra"
καλαῦροψ / κολλόροβον "bastone del pastore"
καλυβός / κολυβός / κόλυβος "fattoria" / καλύβη
     "capanna"
καμασήν "pesce"
κάμπος / κέμπορ "mostro marino"
κασαλβάς / κασσαλβάς "prostituta"
κίλλιξ "bue dalle corna curve"; "tipo di vaso" 
κίναδος / κίδαφος "volpe"
κίνδυν "pericolo"
κνώψ / κινώπετον "serpente, colubro"
κοάλεμος "idiota" / καυαλός "discorso stupido"
κόβαλος "ragazzo impudente" (cfr. κοάλεμος)

κορυδός / κορύδαλος / κορυδαλλίς "allodola" 

κύβαβδα "sangue"
κύδαρ "funerali, sepoltura"
κύμηχα "fava"
λαῖφα / λαίβα "scudo" / λαίας (acc. pl.) "scudi"
λάσταυρος "cinedo, uomo effeminato"
λατμενεία "schiavitù" (cfr. ἀτμήν)
λωρυμνόν "abisso, profondità"
λύγδη "pioppo bianco"
λυκαψός / λύκοψος / λυκοψίς "erba della
      vipera" (Echium italicum) (2)
λυπτά "prostituta"
μαλάχη / μολόχη "malva"
μαρίν (acc.) "maiale" 
μάρτυρ / μάρτυς / μαῖτυς "testimone"
μάταιος "vano, inutile; vuoto"
μέριμνα "preoccupazione, sollecitudine; ansietà"
μηλολόνθη / μηλάνθη "maggiolino"
μόλυβδος / βόλιμος "piombo"
μόσσυν "casa di legno"
μυελός / μυαλός "midollo"
ὄαρ "moglie"
ὄβριμος / βρίμη "forza, potenza" / βριμός "grande;
     difficile"
ὄθρυν (acc.) "monte" *
ὄλονθος "frutto del fico selvatico" / ὄλυνθος "fico
      invernale"
ὄμπνη "grano; cibo"
ὀμφύνειν "esaltare, magnificare"
ὄνθος "sterco, escremento"  
πέλλα "pietra" / φελλεύς "suolo roccioso"
πέλωρ "mostro, mostruosità"
πλίνθος "mattone"
σαλάμβη / σαλάβη "camino"
σέλας "luce, splendore" / σελήνη "luna"
σίδη / σίβδα / ξίμβραι (pl.) "fiore di melograno"
σίδηρος / σίδαρος "ferro"
σίμβλος "alveare"
σκίναρ "corpo" / σκῆνος "corpo, carcassa; tenda"
σμίνθος "topo" 
σπέλεθος / πέλεθος "sterco"
ταλῶς "sole" *
τερέβινθος / τέρμινθος / τρέμινθος "terebinto"
      (Pistacia terebinthus)
τράμπις "nave" / τράφηξ "trave; maniglia del remo"
τύραννος "tiranno"
ὑάκινθος / ϝάκινθος "giacinto"
φαλακρός "calvo"
χάλις "vino puro"
χλούνης "cinghiale"
χρέμψ / χρέμυς / κρέμυς "tipo di pesce"

* Parola attribuita ai Cretesi.

(1) Non "topi", come ha erroneamente inteso Facchetti. Rimando alla mia confutazione.
(2) Non significa "occhio di lupo", come si può vedere dalle alternanze fonetiche problematiche: è una falsa etimologia.

Trovo soltanto pochi limiti nell'opera di Beekes:

1) Nella massima parte dei casi sono riportate le parole di origine pre-greca senza traduzione né glossa. Se alcune voci sono note a tutti, in altri casi un lettore deve andare a spulciare nei vocabolari, dato che si tratta di termini molto particolari, rari e ben poco noti. Le fonti sono spesso i glossari di autori come Esichio. Se questi singolari lessemi fossero stati trattati in modo approfondito, ne sarebbe scaturito un lavoro enciclopedico.
2) Si dà per scontata l'esistenza di un'unica lingua pre-greca, sostanzialmente unitaria, quando potrebbero essercene state varie e non necessariamente tra loro imparentate. Il problema deve essere vagliato con attenzione, anche se è molto plausibile che la principale fonte di prestiti sia stata la lingua cretese. 
3) Non è avanzata nessuna ipotesi concreta sulla concreta origine del materiale pre-greco e sulle sue possibili parentele - anche se va detto che l'autore in più occasioni menziona la somiglianza con la lingua etrusca, ad esempio trattando i suffissi -rn- e -mn-. Aggiungo che in questo materiale non sono rari i prestiti da lingue semitiche non identificate.

Per fortuna è disponibile nel Web lo splendido Etymological Dictionary of Greek, dello stesso Beekes con la collaborazione del suo assistente Lucien van Beek. Il vocabolario è messo a disposizione gratuitamente per lo scaricamento dal Forum di Sant'Isidoro, un portale davvero bizzarro: un sito di teologia cattolica fuori tempo massimo, addirittura post mortem. Per poter scaricare una copia del prezioso volume basta seguire questo link: 


Si vede subito che l'opera comprende il trattato di Beekes sul pre-greco come prefazione. Con la funzione "Trova" non è difficile raggiungere i lemmi desiderati nel corpo del vocabolario, che ha centinaia di pagine: basta selezionarli a partire e copiarli nella finestra di ricerca, anche se convertiti in geroglifici informatici, il sistema li sa riconoscere. Ogni vocabolo è fornito di note etimologiche di grandissima utilità, anche quelli che sono di origine indoeuropea. Consiglio senz'altro il testo al professor Facchetti, credo che gli sarebbe di grandissima utilità nei suoi studi. 

Lo stesso Beekes ha affermato di lasciare ad altri il problema dell'origine del pre-greco. Raccolgo volentieri la sfida. In effetti, sono anni che mi dedico alla questione. Conto di pubblicare numerosi contributi sull'argomento, dissertando su ogni vocabolo.

mercoledì 14 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI ADIEGO LAJARA

Ignasi-Xavier Adiego Lajara, dell'Università di Barcellona (Universitat de Barcelona) è l'autore dello studio Lenguas anatolias y protoindoeuropeo (in inglese Anatolian Languages and Proto-Indo-European), pubblicato sulla rivista archeologica e filologica Veleia (n. 33, 2016, codice DOI: 10.1387/veleia.16819). Il lavoro, che si trova sul sito Academia.edu, è consultabile e scaricabile liberamente seguendo questo link:


Riporto l'abstract, tradotto dal sottoscritto:

"Questo articolo è un rapporto sullo stato dell'arte sulla posizione dialettale del gruppo anatolico (che comprende l'hittita, il luvio, il palaico, il licio, il milio, il cario, il pisidio e il sidetico) all'interno della famiglia linguistica indoeuropea. Valuta le due principali posizioni con cui finora si sono cercate di spiegare le forti divergenze tra le lingue anatoliche e lo stadio linguistico ricostruito di proto-indoeuropeo: da una parte, c'è l'ipotesi che assume un generale processo di perdita di categorie linguistiche in anatolico a partire dalla lingua comune; dall'altra, abbiamo l'ipotesi che assume una precoce separazione dalla lingua comune. A questo proposito, evidenzio alcune opinioni di parte sul cambiamento linguistico, che hanno condizionato questa discussione. Inoltre enfatizzerò il progresso nello studio delle lingue anatiliche diverse dall'hittita e il loro contributo alla questione sulla posizione dialettale dell'anatolico nel gruppo indoeuropeo. La conclusione è che la presente situazione rende difficile decidere quale delle due posizioni sia giusta."

Ricostruzione di Brugmann (morfologia nominale):

1) Un sistema con tre categorie, genere, numero e caso. Queste categorie consistevano in tre generi (maschile, femminile, neutro), tre numeri (singolare, duale, plurale) e otto casi (nominativo, vocativo, accusativo, genitivo, ablativo, dativo, strumentale, locativo).
2) Da un punto di vista formale, è stato assunto un sistema di temi caratterizzato dal suono finale del tema stesso. È stata assunta una generale opposizione tra temi in -o e temi atematici. I temi in -o, chiamati anche temi tematici, sono caratterizzati da una vocale tematica -o/e-, accento fisso o non mobile e assenza di alternanze apofoniche o ablautiche, mentre i temi atematici sono caratterizzati da alternanze apofoniche e in molti tipi da accento mobile. Tra i temi atematici, un'importante sottoclasse è quella delle radici in -a:, che per lo più esprimono il genere femminile e che hanno sviluppato un particolare insieme di uscite flessive.
3) Per gli aggettivi, l'espressione di gradazione è ottenuta tramite specifici suffissi. Nel caso del grado comparativo, un suffisso *-ies-/-ios- può essere ricostruito con sicurezza.

Ricostruzione di Brugmann (morfologia verbale):

1) Un sistema di tre temi (tritematismo), ossia presente, aoristo, perfetto, basato principalmente - ma non esclusivamente - sull'espressione dell'aspetto. Ogni tema era formata dalla radice verbale per mezzo di diverse procedure caratteristiche con una varità di costruzioni per il tema del presente (radicale, raddoppiata, con infisso nasale, con diversi suffissi), contro una varietà  più limitata per il tema dell'aoristo (radicale, sigmatico, raddoppiato) e una formazione praticamente esclusiva del tema del perfetto (il perfetto raddoppiato). È notevole anche l'esistenza di una differenziazione chiaramente definita tra i temi tematici e atematici, con caratteristiche simili ai corrispondenti temi nominali (invariabilità delle forme nella flessione tematica rispetto alla variabilità apofonica e di accento nella flessione atematica).
2) L'esistenza della distinzione di voce tra attivo e medio-passivo, la distinzione di numero tra singolare, duale e plurale, così come la distinzione tra prima, seconda e terza persona, tutte espresse tramite uscite personali.
3) L'uso di diverse uscite personali aggiunte al tema del presente indicativo come mezzo per distinguere tra presente e passato (il cosiddetto imperfetto).
4) L'esistenza dei modi indicativo, congiuntivo e ottativo, gli ultimi due espressi tramite suffissi aperti aggiunti al tema.
5) L'esistenza di un modo imperativo caratterizzato dall'uso di specifiche uscite personali.
6) L'uso di un insieme di uscite per il tema del perfetto.
7) La presenza di aumento in alcune lingue come tratto del tempo passato, opposto all'uso senza aumento per il cosiddetto modo ingiuntivo.
8) L'assenza di ogni espressione formale del tempo futuro, rimpiazzato dall'uso del presente pro futuro.

Ecco invece ciò che emerge dal terremoto anatolico:

La morfologia nominale è molto diversa da quella proposta per il proto-indoeuropeo prima dell'interpretazione della lingua hittita:

1) L'hittita ha due generi (comune e neutro) senza alcuna traccia del femminile, sia nei sostantivi che negli aggettivi.
2) Non c'è il duale.
3) Un unico insieme di uscite dei casi è usato per tutti i temi nominali, cosicché non possiamo propriamente parlare di temi "tematici" e di temi in -a: come flessioni differenziate dal resto delle flessioni atematiche.
4) Non si possono osservare tracce di gradazione aggettivale.

Morfologia verbale:

1) Non c'è tritematismo: c'è soltanto una forma tematica da cui tutta la coniugazione è creata per ogni verbo. Contro il sistema presente-aoristo-perfetto del proto-indoeuropeo di Brugmann, l'hittita mostra un sistema monotematico.
2) Cosa ancor più interessante, non ci sono affatto chiare tracce di tutti i marcatori dei temi dell'aoristo e del perfetto.
3) Ci sono soltanto due modi, l'indicativo e l'imperativo. Non esistono tracce di ottativo e di congiuntivo.
4) Ogni verbo appartiene a una delle due classi di coniugazione, dette coniugazione in -mi e coniugazione in -hi, e queste classi sono caratterizzate da insiemi di uscite flessive in parte diverse. I criteri secondo cui i verbi primari e derivati sono assegnati a una o all'altra classe restano non chiari. Mentre le uscite della coniugazione in -mi si confrontano facilmente con le uscite primarie e secondarie del proto-indoeuropeo di Brugmann, le uscite singolari della coniugazione in -hi mostrano evidenti connessioni con le uscite del perfetto e del medio del proto-indeuropeo brugmanniano - ma è formalmente impossibile pensare che la classe in -hi sia un semplice esito di una "riconversione" dei perfetti e dei medi proto-indoeuropei in una classe di coniugazione.
5) In modo simile al modello brugmanniano, l'hittita distingue tra presente e passato tramite uscite personali.
6) L'esistenza di due voci espresse tramite uscite personali è anch'essa comune al modello brugmanniano.
7) L'hittita mostra particolari mezzi per esprimere il modo e l'aspetto: ha sviluppato un perfetto perifrastico, usa suffissi come -ske-/-ska per derivare temi con significato di imperfetto o ricorre a particelle per esprimere sfumature modali (potenziale, irreale, ottativo).
8) L'hittita non ha né duale né aumento.

È notevole che un tipo di formazione di temi nominali considerata residuale nel proto-indoeuropeo di Brugmann, i temi eteroclitici in -r-/n-, fosse pienamente produttiva in hittita e in luvio.

Prova della natura arcaica delle lingue anatoliche

Sono uno strenuo sostenitore della tesi della natura arcaica delle lingue anatoliche: esse non presentano traccia alcuna di molte caratteristiche morfologiche indoeuropee perché non le hanno mai sviluppate. Se le lingue anatoliche fossero derivate da una protolingua affine all'indoeuropeo brugmanniano o a quello ricostruito dai laringalisti, sarebbero di certo rimasti residui della situazione più antica. Ad esempio, non è possibile che l'usura fonetica sia stata così radicale da far scomparire ogni traccia di un'ipotetica antica distinzione del genere femminile nei sostantivi e negli aggettivi, e neppure di certe caratteristiche della flessione verbale (raddoppiamento, pluralità dei temi, etc.): sarebbe rimasta in ogni caso qualche reliquia. Non va dimenticato che tali lingue non hanno avuto un'erosione quasi completa dell'apparato grammaticale, paragonabile a quella che possiamo constatare nell'inglese. Hanno mantenuto una grammatica abbastanza complessa. Dovremmo quindi immaginare una perdita selettiva, che avrebbe fatto sparire certe caratteristiche brugmanniane ma conservando tutto il resto, come se ad agire fosse stato un diavoletto di Maxwell, un genietto maligno con in mente un progetto ben definito. Inutile dire che cose simili non accadono nell'evoluzione delle lingue.

Per quanto possa rendermi impopolare, non esiterò ad affermare una verità scomoda. Tecnicamente parlando, le lingue anatoliche non sono lingue indoeuropee vere e proprie. Sono lingue preindoeuropee derivanti da una protolingua geneticamente imparentata con il protoindoeuropeo: il punto di divergenza è da collocarsi ben a monte dell'indoeuropeo ricostruito da Brugmann. In altre parole, la teoria a parer mio più vicina alla realtà è quella dell'indohittita. Il nome è brutto e sarebbe il caso di modificarlo, ma per comodità può andar bene.

Le invereconde baggianate di Renfrew

Noto una certa tendenza nel Web ad associare l'ipotesi indohittita con le deliranti teorie pseudoscientifiche dell'indoeuropeizzazione neolitica enunciate da Colin Renfrew, che respingo con fermezza. È chiaro che le lingue anatoliche hanno avuto origine più a nord, fuori dall'Anatolia e che si sono espanse in Asia minore solo in un secondo momento. Ritenere che l'Anatolia sia l'origine dell'indoeuropeizzazione è semplicemente folle, anche perché ancora in epoca storica persistevano in quelle terre lingue non indoeuropee. Lo stesso nome degli Hittiti deriva da quello della terra di Hatti, abitata anticamente da genti non indoeuropee poi assorbite e assimilate. Com'è ovvio che sia, la radice in questione non ha alcun parallelismo nelle lingue indoeuropee e non può essere spiegata tramite la ricostruzione brugmanniana. Va ricordato inoltre che la lingua delle antiche genti di Hatti ci è attestata, perché gli Hittiti se ne servivano per scopi religiosi: era una lingua non indoeuropea, chiamata proto-hattica dagli studiosi, appartenente alla molteplicità nord-caucasica (con somiglianze soprattutto con le lingue caucasiche nordoccidentali). Per usare un paragone rozzo che renda l'idea, la differenza tra l'hittita e il proto-hattico sembra quella che passa tra il latino e il cinese. A complicare il quadro, bisogna ricordare che lo stesso lessico dell'hittita è molto composito e in buona parte di origine oscura per non dire ignota - non necessariamente con corrispondenze in proto-hattico. I seguaci di Renfrew ignorano che anche parole con la stessa radice di termini indoeuropei possono gettare un po' di luce sulla lontana preistoria. Così apprendiamo molto dall'uso di un termine hittita, hartagga- "orso" (parente dell'IE *ṛkθo- "orso"), che indica anche un tipo di sacerdote: il ministro di culto doveva indossare la pelle dell'animale e impersonarlo, e questo ci appare come un lampante residuo di sciamanesimo, correlabile a un'origine settentrionale della popolazione.

È evidente che l'Anatolia non può essere stata a maggior ragione il luogo d'origine dell'indoeuropeo di Brugmann. Non è in quella terra che sono derivate le lingue indoeuropee moderne, come appare chiaro già analizzando la sua situazione linguistica nell'antichità, in cui dominano le lingue anatoliche. Ma forse Renfrew, che NON È un linguista, crede che un diavoletto di Maxwell abbia fatto evolvere la protolingua indohittita nelle lingue indoeuropee moderne in Europa e nelle lingue anatoliche in Asia Minore, postulando assurdi meccanismi selettivi.

Epilogo

L'articolo di Adiego Lajara non prende posizione in modo netto. Si limita a fare un riepilogo dei fatti conoscibili, per affermare che non si può giungere in alcun modo a conclusioni certe. Questo è in un certo qual senso l'ammissione di una sconfitta. Posso capire la sua sfiducia. La discussione è dominata da posizioni preconcette, che rallentano e ostacolano gli studi, complice anche l'estrema frammentarietà del mondo accademico. Uno studioso che segue il metodo scientifico deve raccogliere dati e far passare sotto il loro giogo le proprie teorie. Non può e non deve in alcun caso manipolare la realtà documentabile e accertabile per piegarla alle proprie idee preconcette. Se lo fa, è un falso uomo di Scienza e un malfattore. Ci sono neogrammatici e laringalisti che adorano con feticismo estremo le proprie teorie, al punto di costringere le lingue anatoliche nel letto di Procuste delle loro ricostruzioni, considerate assolute e definitive.