giovedì 31 luglio 2014

OVERFLOW
(26/10/2007)

Nel mentre di una sessione improvvisata di scrittura creativa. Il log della chat di Radionation, mentre i CindyTalk imperavano nel mood. Un grazie immenso a Oblio che ha curato l'editing.

<Zoon> colpe terribili e primordiali, di altre vite, che si pagano ora
<VardA> ...e in seguito pagheremo e sconteremo le attuali...
<Zoon> la fuga non serve
<Zoon> una foresta orribilmente nera non ha vie di fuga
<Zoon> inutile
<Zoon> la colpa è dentro
<Zoon> l'orrendo è dentro
<Zoon> la consapevolezza è dentro
<Oblio> labirinti entro altri labirinti
<Antares666> eppure cerco una via di uscita da questa densa e caliginosa materia
<Zoon> è un universo complesso
<Zoon> nero
...

<Oblio> ecco spalancarsi i cancelli oltre la caligine ed il bagliore di riflessi violacei trafigge lo spettro luminoso dei nostri ologrammi
<Zoon> in mezzo ai fumi dell'hashish
<Oblio> percezioni espanse
<Antares666> mi sembra quasi di vedere il fumo diffondersi, azzurrognolo
<VardA> azzurrognolo e denso, compatto
<Iazabel> grigio traslucido come il mercurio che scorre...sul derma...
<Oblio> assaporatene il colore, inalatene il profumo. la prospettiva perderà orizzonte
<Iazabel> il vapore sale alle nari e inebria, ora...l'orizzonte è quello di eventi dovuti ad una prospettiva quantistica...
<Oblio> menti chimicamente alterate bruciano lo stato gassoso della fallace biologia
<Antares666> le sinapsi si sparpagliano, come echi di quanti dall'ontologia alterata 
<Oblio> sono bianche galassie, inghiottiranno visceri, si nutriranno delle nostre alterazioni
<Oblio> la mediocrità avrà fine.
<Antares666> spettri di galassie alla deriva nel nulla...
<Iazabel> un battito cosmogonico nato dalla musica del nulla senziente
<VardA> corde mai sfiorate vibrano, espandendo il celestiale suono, come aurore boreali
<Oblio> è un impulso costante, consistente, irrefrenabile. La linea di demarcazione tra il Nulla che attende nella deriva del nostro fluttuare
<Antares666> la mia autocoscienza si offusca, ma un nucleo ben più profondo si risveglia, rivelandomi l'inesistenza dell'illusione che mi intrappola
<Oblio> odo l'Oscuro crescere, farsi strada nelle circuitazioni più profonde della meccanicità. Estirpare l'umano, assoggettarne la debolezza... quest'Oscurità è il mio risveglio
<Iazabel> ...un demiurgo...alza il velo e il sotteso senso...del nulla dilangante...una alchimia tra il mistico e il vacuo rumor dell'animo.
<Zoon> nulla senziente come una realizzazione
<Zoon> interiore
<Zoon> dell'inutilità della carne
<Iazabel> la carne che scivola nello sgretolio chimico...sfrigola come fuoco ...in un bracere per il sacrificio ...
<Zoon> i sensori della carne si traferiscono nel nulla che avvolge
<Antares666> sento un sussulto, come se stessi abbandonando la mia carcassa... bramo il congiungimento con il vuoto più profondo, là dove le galassie muoiono come fatuo pulviscolo
<VardA> sentori di un corpo che fu, spirito in evoluzione
<Iazabel> o involuzione della chimica?
<Antares666> lo spirito vola nella vertigine, si lascia alle spalle macrouniversi come corpuscoli. la schiavitù chimica è lontana...
<Zoon> fibrillazioni
<Zoon> di un cuore
<Zoon> due cuori
<Zoon> un estratto dalla carne che vuole elevarsi
<Zoon> nel nero nulla senziente
...
<VardA> tiepidi sorrisi inconsistenti increspano labbra di mercurio 
<Iazabel> un piacere estremo esternalizzato..sul pentagramma musicale..
<Oblio> questa vertigine è liberazione. l'organico muta tuffandosi nell'ardere nero. black. Nulla come nutrimento.
<Iazabel> mercurio...che sopravvive sulla punta della lingua della fenice elettronica-...burn&survive
<VardA> il Nulla ingloba e brucia con sonorità cristalline
<Zoon> estratti di dna alieno sulla punta di sperma postumano
<Antares666> quarkioni anomali che si insinuano nei costituenti primi della materia sfasandone il noumeno
<Iazabel> leccare..ogni remora dell'umano che decade!
<Zoon> cosa leccare, cosa assorbire, cosa mangiare e ingoiare?
<Oblio> fagocitare le basi promordie stesse
<Iazabel> il mercurio...che cola dal derma senso perfetto del post.umanesimo
<Antares666> nel metallo liquido si va delineando una struttura genetica
<VardA> impulsi verde-acido infestano ogni connessione sinaptica. Istinto, puro istinto
<Zoon> mercurio come immagine memetica, in cui sono racchiusi istanti di mistico esotismo carnale, vissuto in stanze d'alberga e urla
<Iazabel> l'istinto si diffonde...sul senso imperfetto del ricordo ..carne che si sfalda al comando demiurgico..
<Antares666> cromosomi metallorganici le cui sequenze sono costituite da equazioni senzienti
<Oblio> Bio-mech. Energia assoluta. Perfezione matematica. E' un nuovo Essere...
<Oblio> ...e tutto ciò che d'umano esiste intorno a me.... brucia.
<Antares666> un gelido fuoco blu lo divora, lo fa sfrigolare in un'opalescenza di gedanken e di paradossi
<Iazabel> un'ampolla nella quale traspirare e far eviscerare il senso dell'anima dell'asream stesso ....
<Oblio> consumazione nel mistico dolore d'ere perdute. rilasciando al passaggio ceneri violacee. pulviscolo d'inutilità nella quale maiali subumani sguazzano
<Antares666> fulmini cromati in un sole viola... bagliori assassini che calano nel profondo della notte incenerendo carcasse semoventi
<Iazabel> il piacere di atomi aggregati che restituiscono il colore viola di cenere soffaita al vento....
<Oblio> le stesse carcasse dalle quali siamo infestati
...
<Antares666> il mood è assoluto, di un nero cristallino, sconvolgente
<Zoon> un cristalliino nero e in grado di eviscerare l'anima
<Zoon> dal carapace biologico
<Zoon> per rinchiuderlo in un nero senziente che non ha nulla di comprensibile da umani, e postumani
<Oblio> questa è la chiusura.. nel pulviscolo delle ceneri i cancelli si richiudono...
<Oblio> e le coltri riprendono i loro domini

domenica 27 luglio 2014

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL NOME SEGRETO DI ROMA

Pochi sanno che la città di Roma in realtà ha un altro nome, che è il solo vero. La cosa può apparire paradossale ed essere creduta una mera provocazione, ma le fonti antiche lo confermano.

Questa breve sintesi della questione si trova facilmente nel Web:

"Roma ebbe quasi sicuramente un nome segreto che era addirittura proibito pronunciare, pena la morte, e di cui erano a conoscenza solo i Pontefici Massimi che se lo tramandavano. Un antico commentatore di Virgilio, tale Servius, scrisse in una nota all'Eneide: «Nessuno, nemmeno nei sacrifici, ripete il vero nome della città. Ché, anzi, un tribuno della plebe, Valerio Sorano (come lasciò scritto Varrone), fu messo in croce per aver ardito pronunciare quel nome». Ma qual era il nome segreto di Roma? Il Poliziano indicò «Amarillis» e «Antusa», che in greco significa «fiorente»; per altri fu «Flora», nome che si ricollega anche con quello di aprile (da «aperire», aprirsi alla vita, il mese in cui si aprono i fiori, il mese di Roma; per altri ancora il nome segreto fu «Valentia»; ma per la stragrande maggioranza degli storici questo nome fu AMOR, che è il bifronte di ROMA, e l'equivalenza «Roma-Amor» ha suscitato sempre una grande suggestione. Anche un palindromo avvalora questa supposizione: ROMA TIBI SUBITO MOTIBUS IBIT AMOR (Roma, con dei movimenti letterari, diventerà Amor)."
(Tratto da Domenica Quiz, n. 35, 26 agosto 2004)

Il testo procede citando patetiche assurdità pseudoscientifiche, anacronismi e balbuzienti tentativi di trovare il bandolo della matassa:

"Sorprendente, a questo proposito, e non meno suggestivo, è il fatto che in lingua serba Roma è detta «Rim», e che il suo bifronte, «Mir», significa «pace». Ora, sia «Amor» che «Mir» sono in perfetta armonia con la missione che questa città avrebbe dovuto e dovrebbe esercitare come sede del Papato. Ma che fosse stato «Petra» il nome segreto di Roma? Il giornalista Silvio Cremonese (in Paese Sera del 15.12.1949) faceva notare che la parola «Petra» si presta alla creazione di un sorprendente anagramma: «ept a») che, in greco e in latino arcaici, significa «i sette colli»... Il mistero rimane..."

Essendo il Web pieno di bachi e di bislacchi spropositi, riporto fonti attendibili:

"... superque Roma ipsa, cuius nomen alterum dicere nisi arcanis caerimoniarum nefas habetur optimaque et salutari fide abolitum enuntiavit Valerius Soranus luitque mox poenas. non alienum videtur inserere hoc loco exemplum religionis antiquae ob hoc maxime silentium institutae. namque diva Angerona, cui sacrificatur a. d. XII kal. Ian., ore obligato obsignatoque simulacrum habet." 
(... e sopra c'è la stessa roma, il cui altro nome, che è empio pronunciare se non nel segreto dei riti ed è stato cancellato da un'ottima e benefica fede, Valerio Sorano pronunciò in pubblico e ne pagò immediatamente la pena. Non pare fuori luogo accennare qui ad un esempio dell'antica religione istituita proprio per questo silenzio: infatti la dea Angerona, alla quale si sacrifica nel giorno 21 dicembre, ha il suo simulacro con la bocca fasciata da una benda e sigillata.)
Plinio, Naturalis Historia

"Traditur etiam proprium Romae nomen, et verum magis, quod numquam in vulgum venit, sed vetitum publicari, quandoquidem quo minus enuntiaretur, caerimoniarum arcana sanxerunt, ut hoc pacto notitiam eius aboleret fides placitae taciturnitatis. Valerium denique Soranum, quod contra interdictum id eloqui ausus foret, ob meritum profanae vocis, neci datum. Inter antiquissimas sane religiones sacellum colitur Angeronae, cui sacrificatur ante diem duodecimum kalendarum ianuariarum: quae diva praesul silentii istius, praenexo obsignatoque ore simulacrum habet." 
(Si racconta anche di un nome particolare di Roma, e più vero, che non è mai giunto al volgo, ma che è proibito pronunciare in pubblico, perché il segreto dei rituali stabilì che non potesse essere pronunciato apertamente, affinché in tal modo una fede salubremente taciturna lo nascondesse. Valerio Sorano lo osò pronunciare pubblicamente contro il divieto e fu messo a morte. Tra i culti senza dubbio più antichi, ricordiamo il culto che si celebra nel sacello di Angerona, alla quale sacrifichiamo dodici giorni avanti le calende di gennaio: la Dea che presiede al silenzio ha una statua con la bocca imbavagliata e sigillata.)
Solino, Polyhistor 

"Nam propterea ipsi romani, et deum in cuius tutela Roma est, et ipsius urbis latinum nomen, ignotum esse voluerunt. Sed Dei nomen nonnullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus quicquid de hoc putatur innotuit. Alii enim Iovem crediderunt, alii Luam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat; alii autem, quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consiviam esse dixerunt. Ipsius vero Urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est: caventibus romanis, ne, quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur."
(I Romani vollero che rimanesse sconosciuto il Dio sotto la cui protezione è posta la città di Roma e il nome latino della città stessa. Ma il nome del Dio si trova in alcuni libri degli antichi, anche se tra loro in disaccordo, quindi gli studiosi di antichità hanno potuto conoscere ogni opinione al riguardo. Alcuni credettero che fosse Giove, altri Lua; ve ne sono che <credettero> Angerona, che con un dito sulla bocca intima il silenzio e altri ancora, la cui credenza mi pare più fondata, dissero che si tratta di Ops Consivia. Invero il nome della stessa Urbe è ignorato anche dai più dotti: poiché i Romani avevano paura di soffrire essi stessi ciò che sapevano avrebbero inflitto spesso alle città nemiche, e se il nome del loro nume tutelare fosse stato reso noto, i loro nemici avrebbero potuto evocarlo.)
Macrobio, Saturnali 

È davvero incredibile come di fronte a problemi concreti le menti delle genti a volte si riducano in pappina uscendosene con inconsistenze che dovrebbero suonare stridenti. Sembra che la stessa logica, anche in persone dotate di grande intelligenza e cultura, a volte smetta di funzionare. La questione del Nome Segreto di Roma è un esempio da manuale. L'assurdità Roma-Amor non è un'amena trovata di Genny 'a Carogna: in essa hanno creduto ingegni del calibro di Giovanni Pascoli e di Julius Evola. 

Ragioniamo in modo molto semplice quanto incontrovertibile, partendo da elementi certi e arrivando a formulare veri e propri teoremi.

Primo Teorema del Nome Segreto di Roma: 

Il Nome Segreto non poteva corrispondere a nessun vocabolo della lingua latina.

Ipotesi:

1) Sappiamo che il nome segreto di Roma non era pronunciato da nessuno, pena la morte;
2) Sappiamo che un tribuno della plebe che sfidò la proibizione pagò con la vita. 

Dimostrazione per assurdo:

Se ad esempio il nome segreto fosse stato AMOR, sarebbe stato pronunciato infinite volte da tutti, persino nei postriboli. Ogni volta che un imperatore, un senatore, un soldato o uno schiavo avesse pronunciato la parola "amor", facente parte del vocabolario di base, sarebbe incorso nella condanna. Anzi, il problema non si sarebbe posto alla radice: la parola stessa sarebbe stata considerata tabù dall'epoca della fondazione dell'Urbe e nessuno l'avrebbe mai pronunciata o scritta. Non sarebbe nemmeno arrivata alla nostra epoca. Questo prova che AMOR non era il Nome Segreto.
La stessa dimostrazione sia applicata ad ogni altro nome con riscontro nella lingua latina: Flora, Florens, Valentia, etc.

C.V.D.

Primo Corollario:

Anche se ignoto al volgo, il Nome Segreto doveva essere conosciuto da un certo numero di persone che vigilavano sull'osservanza della legge - quindi non soltanto dal Pontefice Massimo. Altrimenti non sarebbe stato riconosciuto se pronunciato e il divieto non avrebbe avuto senso.

Secondo Corollario:

Il Nome Segreto non poteva essere semplicemente il Nome Rituale, fatto passare per Segreto allo scopo di confondere le acque, come pure è stato proposto. Ci viene infatti detto in modo esplicito che il Nome Segreto non veniva mai usato nei sacrifici pubblici, mentre il Nome Rituale serviva proprio in tali occasioni.  

Secondo Teorema del Nome Segreto di Roma: 

Il Nome Segreto non poteva corrispondere a nessun vocabolo della lingua di un popolo ostile ai Romani.

Ipotesi:

Sappiamo che il massimo terrore per i Romani era che il Nome Segreto fosse usato da popoli ostili per maledire l'Urbe, provocandone così magicamente la caduta.

Dimostrazione per assurdo:

Se il nome segreto fosse stato un vocabolo appartenente alla lingua di un popolo ostile a Roma - quale ad esempio gli Etruschi, i Cartaginesi, i Galli - sarebbe stato pronunciato infinite volte da queste genti, provocando grande nocumento tramite la magia. Anche se inconsapevoli del fatto di pronunciare il Nome Segreto, questi popoli sarebbero stati considerati la causa della disfatta dei Romani: un rischio troppo grande per non essere stato previsto dal Fondatore. Soprattutto non sarebbe mai stata usata una parola di uso comune in una qualsiasi lingua nota.

C.V.D.

Corollario:

Essendo ogni popolo noto a Roma un potenziale nemico, compresi i parlanti della lingua greca, si evince che il Nome Segreto non aveva alcuna corrispondenza con la lingua di nessun popolo dell'antichità.

Un'applicazione concreta:

Molto interessante è un trattato in cui si ricostruisce il Nome Segreto come HIRPA, partendo dagli Hirpi Sorani, ossia i Lupi di Sorano, custodi del Monte Soratte (lat. Soracte).


Il termine hirpus era un nome del lupo, e si nota che il suo femminile *hirpa non è mai attestato neanche come glossa. Il lemma tecnico hirpus, conosciuto ai Romani soltanto come parte del linguaggio religioso, avrebbe ben potuto essere la parola comune usata dai Sabini e da altri popoli italici per indicare il lupo. Tentativi di dare un etimo indoeuropeo al vocabolo (ad esempio la proposta di Pokorny) si sono dimostrati fallimentari; è a mio parere ben possibile che fosse di origine etrusca, come altre parole sabine (ad esempio la glossa cupencus "sacerdote"), anche se al momento non mi è facile ricostruire l'aspetto fonetico originario della parola. La genuina radice italica indoeuropea per indicare il lupo sarà stata ulp-, riscontrabile ad esempio in Ulpius, ma è possibile che il suo uso tra i Sabini fosse oggetto di un tabù che ha portato all'adozione della base hirp-, da cui è sorto anche il nome degli Irpini (lat. Hirpini, gr. Ἱρπινοί). Secondo l'autore dell'articolo sarebbe possibile che il nome Lupa tradotto in sabino suonasse quindi Hirpa, e che questo fosse proprio il Nome Segreto. Applicando tuttavia il Secondo Teorema del Nome segreto di Roma, si evince che questa ipotesi è da ritenersi infondata. Dati i turbolenti rapporti tra i Romani e i Sabini (basti ricordare il famoso ratto delle Sabine), appare paradossale che proprio il Fondatore dell'Urbe abbia dato alla città un nome conosciuto e pronunciabile da nemici tanto irriducibili. Pensate a cosa sarebbe successo se un pastore sabino avesse detto a sua moglie: "Oggi una lupa mi ha ucciso tre agnelli".

Di che natura era dunque il Nome Segreto? Senza dubbio si trattava di una creazione glossolalica. Non possiamo dire molto di più di questo. La questione ricorda una vignetta di Jacovitti in cui un uomo dall'immenso nasone portava al guinzaglio un animale tentacolato e irsuto dotato di proboscide. 
Un passante gli chiedeva: "Cos'è?" 
Lui gli rispondeva: "Non ne ho idea, posso dire soltanto cosa non è." 
Al che l'altro rilanciava chiedendo: "Cosa non è?" 
La risposta lapidaria: "Non è un cammello".

sabato 26 luglio 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GLI ANTICHI COMPOSTI

Nella scuola italiana, istituzione perniciosissima nonché fucina di demenza, il latino è stato a lungo insegnato tramite un profluvio di regoline, regolette, regolucce e regolacce. A nessun insegnante è mai venuto in mente di trasmettere qualcosa di utile, ma soltanto schemi di battaglie navali. Non avendo da tempo il benché minimo contatto con la scuola, non so se l'antica lingua di Roma vi sia ancora davvero insegnata: probabilmente il suo studio è stato obliterato e sostituito da materie ritenute più al passo con i tempi, come ad esempio marketing, scienze delle comunicazioni sociali, valorizzazione politica della pornografia, gattologia e via discorrendo.

Tale era la fissazione degli insegnanti per la teoria grammaticale, che non analizzavano minimamente il vocabolario latino e non sapevano riconoscere l'origine delle parole. Ad esempio, molti trasecolerebbero se dicessi loro che in latino esistono moltissimi esempi di variazione vocalica. Una volta che si è compreso il meccanismo, diventano come per miracolo chiarissime molte etimologie che al profano appaiono invece oscure.

Mutamenti in parole composte con prefisso negativo in-, con preposizioni o con altri elementi: 

aequus "giusto" : iniquus "ingiusto"
alter "altro" : adulter "adultero; falsificatore"
aptus "adatto" : ineptus "inetto" (1)
arma "armi" : inermis "disarmato" 
ars "arte" : iners "incapace, senz'arte"
baculum "bastone" : imbecillis "infermo" (2)
barba "barba" : imberbis "senza barba"
captus "atto di prendere" : inceptus "impresa"
caput "testa" : occiput "nuca",
caput "testa" : sinciput "mezza testa"
locum "luogo" : ilico "sul posto" (= in loco)
pars "parte" : expers "non partecipe"
salsus "salato" : insulsus "insipido; stolto"
sapidus "saporito" : insipidus "senza sapore"
sapiens "sapiente" : insipiens "stolto" 
solum "suolo" : exul "esule" (3)
taberna "taverna" : contubernium "compagnia" 
tenax "tenace" : pertinax "costante, caparbio" 

(1) Ossia "inadatto, incapace"
(2)
In origine "che si regge sul bastone"
(3) Ossia "fuori dal suolo"

Questo fenomeno è ancor più evidente nei verbi:

aestimo "stimo" : existimo "considero, reputo"
cado "cado" : occido "precipito" 
caedo "taglio" : occido "uccido"
calco "calpesto" : inculco "calpesto, schiaccio"
capio "prendo" : accipio "accetto"
causor "intento causa" : accuso "accuso, incrimino"
claudo "chiudo" : includo "rinchiudo"
facio "faccio" : afficio "provvedo"
frango "rompo" : confringo "spezzo"
lego "raccolgo" : colligo "lego insieme"
mando "consegno" : commendo "do in custodia"
salto "danzo" : insulto "salto contro; oltraggio"
sedeo "siedo" : obsideo "dimoro"
taceo "taccio" : conticeo "taccio"
tango "tocco" : contingo "tasto, prendo contatto"
teneo "tengo" : contineo "contengo"

A cosa si deve questo fenomeno? Sempice. Nella lontana antichità, ai tempi della Fondazione dell'Urbe, il latino era diversissimo da quello a cui siamo abituati. L'accento cadeva sulla prima sillaba in modo sistematico, e le parole erano spesso più lunghe. Così all'epoca si diceva iouesat "giura", che poi è divenuto iurat subendo contrazione e rotacismo. Così *iouestos è la forma da cui ha avuto origine iustus "giusto". I composti sopra elencati avevano una forma diversa. Ad esempio *aptos : *ìnaptos; *salsos : *ìnsalsos e via discorrendo. A un certo punto la vocale atona mediana si è indebolita, passando da -a- a -e- e quindi a -i-, colorandosi invece in -u- se seguita da labiale -b- o dalla liquida -l-, che in fine sillaba aveva un suono velare come quello che si riscontra in russo. Nel passaggio successivo si è avuta una vera e propria rivoluzione: l'accento si è spostato, venendo a cadere sulla penultima sillaba lunga (cioè con vocale lunga, dittongo o consonante finale), e in molti casi l'antica vocale ridotta si è trovata ad essere tonica. Così *ìnsalsos > *ìnsulsos > insùlsus.

Cos'è accaduto quindi se la vocale alterata è passata da -a- ad -i-? È accaduto che se la consonante precedente era una velare sorda /k/, questa in epoca tarda ha finito col rendere tale consonante affricata. Così a capio corrisponde accipio. Questo prova al di là di ogni dubbio e una volta di più che la consonante "dura" era primitiva, e che la consonante "molle" non esisteva ab aeterno, ma è un suono derivato, un'innovazione tarda.

Passiamo ora ai composti formati da due sostantivi, oppure da un sostantivo e da un derivato verbale.

Diversi sono i casi che forniscono chiari esempi dell'alternanza:

auceps, gen. aucupis "uccellatore" :
< avis "uccello" + capio "prendo" 
aurifex, gen. aurificis : "orefice" :
< aurum "oro" + facio "faccio"
carnifex, gen. carnificis "carnefice" :
< caro, gen. carnis "carne" + facio "faccio"
princeps, gen. principis "principe" :
< primus "primo" + caput "testa"
tibicen, gen. tibicinis "suonatore di flauto" :
< tibia "flauto" + cano "canto"
vaticinium "profezia" :
< vatis "profeta" + cano "canto".

Ancora una volta si ripete quanto visto sopra nei casi in cui è coinvolta la consonante c. Prendiamo auceps, che nella pronuncia ecclesiastica usata nelle scuole ha un suono palatale nel nominativo. Anche il più ostinato dei professori di latino non aggiornati deve riconoscere che il genitivo aucupis ha un vocalismo diverso e un suono velare. La spiegazione diventa lampante ammettendo la natura originale del suono "duro" e la natura derivata, secondaria e tarda del suono "molle". Lampante come la teoria di Copernico e di Galileo in confronto alla teoria tolemaica con i suoi cicli, epicicli e deferenti che non riuscivano a spiegare assolutamente nulla. Chi sostiene l'inesistenza e l'antiscientificità della pronuncia restituta ne rimane stracciato: i suoi balbettamenti valgono meno del caviale di blatta.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA LABIOVELARE SORDA SEMPLIFICATA

Richiamo l'attenzione su alcune parole latine: QUINQUE, COQUERE, TORQUERE, LAQUEUS. Le forme italiane evolute da questi vocaboli sono rispettivamente CINQUE, CUOCERE, TORCERE, LACCIO, tutte con consonante palatale. Neppure tra gli stolti si trova una sola persona che oserebbe attribuire una consonante affricata ai lemmi latini in questione: è della massima evidenza che anche coloro che utilizzano la pronuncia ecclesiastica per leggere i classici usano in questi contesti una consonante labiovelare /kw/ identica a quella dell'italiano quando.

Coloro che con somma arroganza pretendono di retrodatare la pronuncia ecclesiastica all'infinito nel tempo, non possono ovviamente spiegare come questo mutamento sia potuto avvenire. Siccome per questi individui, data la loro totale mancanza di conoscenza e di metodo, il suono palatale non sarebbe il prodotto di un'evoluzione fonetica, ma qualcosa di connaturato alla presenza di una vocale anteriore seguente, ecco che non sono in alcun modo in grado di comprendere il fenomeno sopra esposto.

La spiegazione è invece molto semplice e comprensibile: a un certo punto nel latino volgare si è realizzata una semplificazione della labiovelare sorda /kw/, in alcuni casi dovuta a processo di dissimilazione o ad analogia, che ha portato a realizzare le parole in questione come /'kinkwe/, /'kokere/, /'torkere/, /'lakius/. In quinque si è avuta dissimilazione: delle due labiolvelari sorde si è mantenuta soltanto la seconda. In coquere è possibile l'effetto di coquus "cuoco", pronunciato /'kokus/, che ha dato origine per analogia a un genitivo /'koki:/ e di qui a /'kokere/, e via discorrendo.

In laqueus la semivocale -e- ha contribuito a rendere muto l'elemento labiale; in torquere un fenomeno simile è partito dalla prima persona singolare torqueo, estendendosi poi per analogia all'intera coniugazione (il che deve aver anche favorito il cambiamento del paradigma, da torqueo /'torkweo:/, torques /'torkwe:s/, torquere /tor'kwe:re/ a *torco /'torko:/, *torcis /'torkis/, *torcere /'torkere/).

Una volta prodottasi una semplice occlusiva velare seguita da vocale anteriore (e, i), ecco che questa consonante ha cominciato ad essere intaccata e a diventare prima k', poi t', quindi ts' e infine in alcune regioni della Romània (es. Italia centrale e meridionale, Dacia), il suono palatale che ancora abbiamo in cinque, cuocere, torcere, laccio. Questo indica senza dubbio che il processo di palatalizzazione ha cominciato ad agire dopo l'epoca classica, giungendo a compimento in epoca tarda. Se i suoni affricati fossero stati primitivi, un tale processo non sarebbe stato possibile ed avremmo ancora una consonante velare in tale contesto fonetico. Questo dimostra al di là di ogni dubbio la fallacia e l'antiscientificità degli argomenti sostenuti dai propugnatori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno: le loro idee si collocano nell'ambito della pseudoscienza.

domenica 20 luglio 2014

MUHAMMAD AL-IDRISI, LEONE L'AFRICANO E IL LATINO D'AFRICA

La lingua latina è stata parlata a lungo nell'Africa Settentrionale, e nel corso dei secoli si è evoluta in una varietà di lingue romanze, non diversamente da quanto è avvenuto in Europa. Anche se queste sono state sommerse dalle lingue berbere e dall'arabo, si può dedurre la loro esistenza analizzando diversi dati di fatto. 

I Normanni durante la loro conquista del Regno di Tunisi nel XII secolo hanno ricevuto aiuto dalle comunità cristiane che ancora sopravvivevano. Alcuni storici, come Vermondo Brugnatello, hanno ipotizzato che tali Cristiani parlassero ancora una lingua romanza, derivata dal latino d'Africa, e tale proposta è più di una semplice supposizione. Nel XIII secolo il geografo nordafricano Muḥammad al-Idrīsī ha scritto che gli abitanti di Gafsa (latino Capsa), nel meridione della Tunisia, si esprimevano in una lingua non araba e non berbera, da lui chiamata al-lisān al-laṭīnī al-ifrīqī, ossia la lingua (neo)latina d'Africa. Infatti la parola araba latini serviva per descrivere sia il latino che le lingue romanze.

A questo proposito Muḥammad al-Idrīsī riporta le seguenti notevoli informazioni:

"I suoi abitanti sono berberizzati, e la maggior parte di loro parla il latino d'Africa." (1)

Egli fornisce persino una parola di questo idioma:

"Nel mezzo della città c'è una sorgente chiamata Ṭarmīd." (2)

La glossa è chiaramente derivata dalla radice del latino thermae. È possibile che si tratti di un adattamento arabo di un romanzo *termìle, dato che il toponimo è noto al giorno d'oggi come Ṭarmīl. Con tutta probabilità il geografo ha registrato male la consonante finale, scambiando la -l- originale per -d-, non è dato sapere se a causa del suo udito o dell'imperfetta realizzazione da parte del suo informatore.

È interessante notare che a quanto Al-Idrīsī afferma, la città era berberizzata, ossia che nel secolo in cui i Banū Hilāl si stavano diffondendo rapidamente in Tunisia e in Libia, la cultura dei Berberi era abbastanza prestigiosa da poter essere adottata da membri di altre culture, in particolare dalle rimanenti città romane. Nell'area di Gafsa attualmente si parla arabo ma persisteva l'uso del berbero in molti villaggi nel XIX secolo, e in due di essi - Sened e Madjoura - ancora nel XX secolo. 

In un altro luogo della sua opera, lo stesso geografo definisce gli abitanti della Sardegna Romani africani "selvaggi" (ossia "inselvatichiti") e mutabarbarūn (ossia "berberizzati") (3). Non è del tutto chiaro se mutabarbarūn debba essere inteso come berberizzati in senso culturale o linguistico, oppure se debba significate piuttosto "barbari". Siccome però i Sardi non parlavano berbero, e Al-Idrīsī afferma invece che essi parlavano il latino d'Africa, risulta evidente che erano i loro costumi a suggerirgli l'uso di quella parola. L'accostamento tra latino d'Africa e la lingua sarda si trova anche, come abbiamo già visto, nell'importante testimonianza dell'umanista Paolo Pompilio, che attesta la sopravvivenza dell'idioma romanzo proprio nella stessa regione nel XV secolo. 

Esiste una fonte posteriore ad Al-Idrīsī e allo stesso Pompilio: si tratta di Leone l'Africano, noto anche come Leo Africus (Granada 1485 - Tunisi 1554). Egli compose in italiano una descrizione dell'Africa, Della descrittione dell'Africa et delle cose notabili che iui sono, pubblicata a Venezia nel 1550. In quest'opera afferma che alcuni nordafricani mantenevano l'uso della loro lingua anche dopo che erano stati conquistati dagli Arabi, che questa lingua proveniva dai Romani ed era un tipo di italiano: in epoca successiva, i contatti con gli Arabi avevano contribuito a far divergere sempre più questa lingua da quella parlata in Italia. Dato che Leone l'Africano viaggiò a lungo in Nordafrica, sembra verosimile che il romanzo d'Africa fosse ancora vivo nella regione di Gafsa ai suoi tempi, o che ne permanesse almeno un qualche ricordo.

Altri autori hanno ipotizzato che l'estinzione del romanzo di Gafsa sia avvenuta in epoca ancora più tarda, addirittura nel XVIII secolo. Virginie Prevost si mostra scettica a questo proposito, evidentemente ignorando le testimonianze di Pompilio e di Leo Africus di cui sopra. L'abstract della sua opera Les dernières communautés chrétiennes autochtones d’Afrique du Nord (Le ultime comunità cristiane native dell'Africa del Nord) riporta quanto segue:

"Per molti secoli dopo la conquista araba, alcune comunità di Cristiani nativi rimaserno nella parte meridionale della Tunisia, senza ricevere assistenza esterna per far mantenere viva la loro fede. Le oasi di Jarîd e Nafzâwa, controllate da Musulmani Ibaditi, certamente cotituirono l'ultimo rifugio per questi Cristiani nordafricani. Molti storici contemporanei ritengono che essi potessero vivere fino al XIV secolo o addirittura fino al XVIII secolo. L'analisi delle fonti arabe che essi interpretano mostra che tali testi non ci danno evidenza di una così estrema longevità. È più che probabile che i Cristiani scomparissero dalle oasi verso la metà del XIII secolo, alla stessa epoca degli Ibaditi a cui il loro destino era strettamente legato." 

Questa è la riprova del fatto che gli esperti di una data materia di studio spesso non hanno accesso a tutte le fonti sull'argomento: la Scienza minaccia di disperdersi in rivoli tra loro eternamente separati. In quanto autore del Connettivismo, interpreto il significato della parola secondo l'originale semantica e ritengo della massima importanza darsi da fare per portare nuovi flussi informativi dove è in corso un processo di inaridimento.  

(1) وأهلها متبربرون وأكثرهم يتكلّم باللسان اللطيني الإفريقي.

(2) ولها في وسطها العين المسماة بالطرميد.

(3) وأهل جزيرة سرادنية في الأصل روم أفارقة متبربرون ومتوحشون من أجناس الروم وهم أهل نجدة وحزم لا يفارقون السلاح.‏

sabato 19 luglio 2014

GLOSSOLALIA E XENOGLOSSIA SONO DUE COSE DIVERSE

Anni fa mi capitò di sentire a una trasmissione televisiva i discorsi di un esorcista della Chiesa di Roma, che sosteneva una patente assurdità: a parer suo la xenoglossia sarebbe un fenomeno diffusissimo, consistente nella perfetta capacità di articolare lingue ben note ma sconosciute al posseduto. Riportava il caso di uno sciamano di una tribù dell'Amazzonia, forse gli Yanomami, che sarebbe stato in grado di parlare fluentemente l'arabo antico durante i suoi stati alterati. Mi permetto di dubitare dell'affermazione dell'esorcista: quello che gli è stato comunicato sarà piuttosto un caso di glossolalia. Intanto dubito fortemente che nel villaggio amazzonico in questione ci fosse qualcuno in grado di intendere l'arabo del Corano e di attribuire un senso compiuto delle parole dello sciamano. Con tutta probabilità l'uomo-medicina aveva trovato il modo di comporre semplici frasi seguendo una struttura di certo strana per un parlante amerindiano, con una sonorità che può ricordare quella dell'arabo. Per costruire ciò basta avere un sistema fonetico di partenza e poche regole fonotattiche.

Vocali:

a i u (brevi)
a: i: u: (lunghe)

Consonanti:

t k b d g f  χ (kh) h γ (gh) 
m n r l j (y) w
s š (sh) ts z 

Prendiamo alcune strutture tipo usate per formare le parole, dove V è una vocale, C è una consonante e ' indica che l'accento cade sulla vocale successiva:

CV:C 

du:m fi:r gha:r ra:n ru:m 

CVCC

fakht khalb  lurm nirf rams 

CV'CV:C

a'di:m ba'la:r na'mu:r
ri'ghu:n
u'la:m 

'CVCCVC

'bimkhal 'dibdam 'khamsar 'mastab
'ukhtar

CVC'CV:C 

bak'bu:r ham'ta:r kham'si:r mak'ta:b
ud'bi:r

'CVCCV

'akhnu 'bakhmi 'lighma 'nukhta
'rakhra 

CV'CVCV

a'nura gha'mina na'rukhi sha'mira u'limi

Connettiamo ora alcune di queste parole usando monosillabi tipo come questi:

an, am, al, ar, ma, mu, na, nu, etc.

Si può immaginare quindi che lo sciamano intoni con una cantilena monotona frasi pseudo-arabe:

ham'ta:r nu mak'ta:b an 'khimsir
akh'ta:r am ma'nu:r na 'ghaktab

Il risultato ingannerebbe chiunque. Inoltre uno studioso di arabo o un parlante di tale lingua potrebbero benissimo riconoscere parole dotate di senso. Non si tratterebbe però del senso eventualmente attribuito loro dallo sciamano, ma di semplici "falsi amici". In altre parole, lo sciamano non parla arabo coranico, ma utilizza un codice che potrebbe anche essere pseudolinguistico: avrebbe in tal caso imparato ad articolare tali suoni per fare effetto su uomini e donne del suo clan e rafforzare così la sua autorità di Uomo degli Spiriti, senza avere la benché minima idea del contenuto delle sue produzioni glossolaliche. Se le cose stessero così, si tratterebbe di contenitori senza contenuto conoscibile, ossia di pseudoparole. Potrebbe invece essersi dilettato ad attribuire un nome a ogni cosa e aver formato così una lingua vera e propria, ossia una conlang o lingua costruita. Sarebbe improprio parlare di possessione diabolica o simili: in tal caso si tratterebbe di una costruzione consapevole che non implica contatto alcuno con spiriti in grado di conoscere e di trasmettere i suoni della lingua del Corano.

Esempio di vocabolario:

ab'sha:r = formica nera
a'ni:m = donna
a'nu:kh = incendio
'atbakh = nero
ba'kha:r = uomo
'bukhmi = uovo
da'mira = mano
fa'nu:m = ventre
ga'di:l = pioggia
gha:n = acqua
khans = piede
khi:r = roccia
'laftur = tronco
lamkh = bambino
lams = aria
ma'ghura = piranha
'mukhtir = tartaruga
ni:r = vulva
'nibghar = caimano
'rakhtum = rosso
ru:m = fuoco
'rukhma = giaguaro
'sakhtar = cane
silb = formica bianca
si'ru:n = vento
ta'muna = giallo
zim'za:l = pappagallo ara 

Veniamo ora alla xenoglossia. Perché si dimostri che una persona è xenoglossa, bisogna innanzitutto dimostrare che essa articola frasi in una lingua che non soltanto non conosce, ma che è invece ben nota ad altri. Una persona potrebbe anche apparire glossolalica, ma dover essere classificata come xenoglossa una volta provato che la lingua utilizzata è una lingua nota. Così se una donna di un paese veneto proferisse parole in lingua maya yucateca, gli astanti la riterrebbero glossolalica, mentre in realtà sarebbe xenoglossa: la sua xenoglossia potrebbe essere dimostrata soltanto da qualcuno in grado di riconoscere la lingua da lei usata, ad esempio se si imbattesse in uno studioso o in un missionario che la ha appresa. Cose simili però non avvengono, non sono documentate con sicurezza. Se lo fossero, a questi fatti si darebbe la massima propaganda per motivi religiosi, e anche la Scienza avrebbe già trovato modo di trarne un immenso giovamento. Immaginate le possibilità di conoscenza che potrebbe dare uno xenoglosso in grado di parlare etrusco! Invece non si trova nulla di utile. Tempo fa il famoso Milingo, all'epoca arcivescovo della Chiesa Romana, aveva portato un povero handicappato a una trasmissione, esibendolo come un fenomeno da Circo Barnum. Questo ragazzino dagli occhi sbarrati diceva senza sosta "spreke dotch spreke dotch". Milingo voleva farlo passare per un caso di xenoglossia da possessione diabolica. Ora, la cosa sarebbe stata di certo impressionante se il bambino in questione si fosse messo a recitare brani di Così parlò Zarathustra articolandoli in un tedesco classico e perfetto. Inutile sperare tanto. 

Si sono dati casi di pseudoxenoglossia, in cui frasi articolate in una lingua non conosciuta al parlante hanno un'origine non banale ma perfettamente determinabile. Riporto il caso di un carissimo amico che nell'adolescenza parlava estesamente nel sonno una varietà di tedesco. Un suo zio riteneva che egli fosse posseduto e strepitava per far giungere un prete, ma fu presto appurato che i sorprendenti discorsi notturni avevano una loro causa non soprannaturale: l'amico aveva appreso il dialetto bernese dalle suore al Kindergarten in Svizzera, poi con gli anni l'aveva dimenticato - o almento così pensava. Si è dato un caso ancor più strano, di un americano che era in grado di parlare il russo alla perfezione senza ricordarsi di averlo mai studiato. Dopo molte ricerche fu appurato che da piccolo aveva vissuto in una stanza dalle pareti di cartongesso che lo separava dall'appartamento di un inquilino russo che per pagarsi l'affitto dava lezioni della sua lingua madre. Al di fuori di simili occorrenze di falsa xenoglossia, possiamo dire che gli xenoglossi non articolano grandi discorsi e che la loro produzione è piuttosto limitata. Non solo: essa è condizionata dal contesto in cui i presunti xenoglossi sono vissuti. Così un prete della Chiesa Romana parlava di un ragazzo che si sarebbe rivolto a lui in "perfetto latino". Dubito però che abbia usato il latino di Cesare e di Cicerone: alla fine potrebbe anche scoprirsi che il presunto indemoniato si era limitato a chiedere al sacerdote: "Quo vadis?" 

Perché i testi non sono registrati e trascritti? Perché nessuno li studia? Perché nessuno li diffonde nel Web? Semplice: perché non c'è molto da trascrivere, studiare e diffondere. Dalle evidenze disponibili, si potrebbe addirittura negare il fenomeno e attribuirlo alla malafede di psicologi, parapsicologi ed esorcisti.

VALENTINA NAPPI E I PARADOSSI DEL METALINGUAGGIO 

Tempo fa mi è capitato di imbattermi in un articolo polemico scritto dalla pornodiva Valentina Nappi, nota per il suo impegno sociale e politico. Il testo in questione, non più disponibile nel sito dell'attrice, recava scandalo ai lettori affermando che "la mafia è cultura". Cosa intendeva dire la Nappi? Questa è in sintesi la sua tesi: il fenomeno mafioso avrebbe origine nella tradizione del rispetto ai superiori tipica del Meridione d'Italia, e in particolare nella figura del Professore, l'uomo di condizione superiore che nessuno può permettersi di sfidare o di mettere in burletta. Questa eredità spinge a ritenere una gravissima offesa la mancanza di rispetto, che la Nappi chiama con vocabolo greco hybris, ossia "arroganza", dando origine quindi a quelle misure che gli psicologi evoluzionisti conoscono come "deterrenza credibile". In poche parole, l'offesa e il mancato rispetto dei ranghi gerarchici sono comportamenti puniti con la morte come al giorno segue la notte, proprio perché la hybris in tale società è più temuta di ogni altra cosa. La Nappi non si limita a questo: dà del fenomeno mafioso una sorprendente definizione: "sistema memetico". Fedele alla sua impostazione behaviorista, la pornodiva vede in ogni essere umano una tabula rasa priva di una natura innata, e tende ad attribuire ogni fenomeno a cause esterne all'individuo, come la società e la cultura - convinta che affermare una natura innata implichi per necessità il razzismo e la discriminazione.

Un blogger, Giuseppe Scano, si è inalberato cercando di contraddire le affermazioni della Nappi, e lo fatto riportando il suo post tal quale con il titolo "Cara Valentina Nappi la mafia non è cultura è merda". A prescindere dal fatto che le due cose non si escludono affatto a vicenda - ossia che la cultura in ogni sua accezione può anche essere merda - l'indignazione del blogger è nata da un problema semantico.

1) La Nappi intende la parola "cultura" come traduzione del tedesco Kultur, lingua in cui questa accezione è comparsa per la prima volta. La si trova negli intellettuali tedeschi del XVIII secolo, prendendo corpo fino a trovare compimento nelle parole dell'antropologo F. Boas: "La cultura può essere definita come la totalità delle reazioni e delle attività psichiche e fisiche che caratterizzano, collettivamente e individualmente, il comportamento degli individui componenti un gruppo sociale in relazione all'ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del proprio gruppo, nonché di ogni individuo in relazione a se stesso. Include anche i prodotti di queste attività e il loro ruolo nella vita dei gruppi. La semplice enumerazione di questi vari aspetti della vita, però, non costituisce la cultura. Essa è molto di più, perché i suoi elementi non sono indipendenti, hanno una struttura". In questo senso si parla di "cultura della droga" per indicare il complesso mondo dei tossicomani e delle loro interrelazioni. Oppure in etnologia si parla di "cultura degli Jivaro" o "cultura degli Yanomami" parlando della caccia ai crani in vigore tra tali popoli e delle aumentate possibilità di accoppiamento per chi uccide più nemici in guerra.   
2) Lo Scano invece sembra intendere la parola "cultura" in senso più limitato: "Manifestazione elevata dello spirito e della società umana, quale le filosofia, la letteratura, la musica e le arti figurative".

Naturalmente, è ovvio che intendendo la parola nel secondo modo, l'affermazione della Nappi appare mostruosa: tale significato implica infatti un'accezione unicamente positiva della cultura. Nel sentire della Nappi, l'etichetta "cultura" non è un semplice vocabolo della lingua italiana, ma un complesso codice metalinguistico, una sorta di stenografia concettuale - e in quanto tale è moralmente neutra, implicando una vasta serie di possibilità. Lo Scano ha scambiato il metalinguaggio nappiano per linguaggio, e a causa di questo equivoco si è destata in lui una grande furia.  

Quello che sfugge a entrambi è tuttavia un fatto molto semplice: col nome "Mafia" si intende una vera e propria società segreta con propri riti di iniziazione, una propria dottrina esoterica, proprie origini mitologiche e una propria visione del mondo. Non si tratta quindi di un mero fenomeno politico, sociale o culturale, o di una mentalità italiana - come certuni sostengono - ma di una setta che ha avuto la sua origine in un ben preciso momento storico con ben precise finalità. Il Prefetto Cesare Mori aveva già capito tutto questo alla perfezione, mentre l'opinione pubblica ancora confondeva mafia e brigantaggio.

Questo dice ancora la Nappi: "Abbiamo capito, quindi, che nel loro significato più profondo e autentico, “mafioso” e “comunitario” sono perfetti sinonimi, sono termini perfettamente intercambiabili, non c'è fra loro alcuna differenza: l'uno vale esattamente l'altro, e viceversa."
Come ogni teorema, perché sia riconosciuto valido occorre fornirne una dimostrazione secondo i princìpi della logica, che deve essere ineccepibile. Quando una simile dimostrazione manca, è sufficiente riportare un controesempio per invalidare la tesi. Partiamo da alcuni dati di fatto. Sicuramente "mafioso" implica sempre "comunitario". Non vale però il contrario: non tutto ciò che è "comunitario" è "mafioso". In altre parole, non tutte le comunità hanno evoluto organizzazioni criminali con un proprio esoterismo e propri rituali, capaci di espandersi nei contesti più diversi. La Spagna ancora nel XIX secolo aveva tutte le potenzialità per generare una società segreta simile Cosa Nostra o alla 'Ndrangheta. Gli elementi c'erano tutti: latifondo, signorotti tirannici, una casta di intendenti, guardiani e aguzzini, una popolazione contadina sfruttata ed oppressa. Come mai dunque la Spagna non generò un fenomeno mafioso autoctono? Semplice: perché mancava l'elemento settario, esoterico, che nel Meridione d'Italia si è invece formato e irrobustito nel corso dei secoli.

La Nappi descrive molto bene una parte della realtà, ma nel farlo inverte il nesso causale, confondendo cioè gli effetti con la causa - quasi a dire che se un paziente ha la meningite, i meningococchi devono essere causati dalla malattia anziché il contrario. Delirante è poi la sua proposta per risolvere il problema. A sentir lei basterebbe formare una classe di missionarie del sesso libero in grado di distribuire pompini a tutti per far sparire organizzazioni criminali potentissime e determinate come se fossero neve al sole. 

Cara Valentina, caro Giuseppe, l'origine del Male non è culturale o sociale: è metafisica.   

mercoledì 16 luglio 2014


I GIGANTI DI ROMA
(1964) 


Altri Titoli: The Giants of Rome 
Genere: Storico - Avventura 
Anno di Produzione: 1964 
Durata: 95' 
B/N - Colore 
Distribuzione: Variety Film 
Produzione: Devon Film - Radius Production 
Regia: Antonio Margheriti (Anthony Dawson) 
Soggetto: Ernesto Gastaldi, Luciano Martino 
Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Luciano Martino 

Interpreti: 
Richard Harrison: Claudio Marcello
Wandisa Guida: Livilla
Ettore Manni: Castore
Philippe Hersent: Druso
Rulph Hudson: Germanico
Nicole Tessier: Edua
Goffredo Unger: Varo
Renato Baldini: Druido
Piero Lulli: Pompeo
Alessandro Sperlì: Giulio Cesare
Aldo Cecconi: Briano
Maurizio Conti:
Alberto Dell'Acqua: Valerio
Jean Claude Madal:
Renato Montalbano:
Claudio Scarchilli:
Gianni Solaro: Cicerone


Doppiatori italiani:
Sergio Fantoni: Richard Harrison
Nando Gazzolo: Ettore Manni
Mario Pisu: Philippe Hersent
Mario Feliciani: Renato Baldini
Sergio Graziani: Rulph Hudson
Renato Turi: Goffredo Unger
Vittoria Febbi: Nicole Tessier
Giorgio Capecchi: Aldo Cecconi
Emilio Cigoli: voce narrante


  

Trama (http://www.comingsoon.it/):

Alla vigilia di sferrare l'attacco decisivo contro Vercingetorige, Giulio Cesare incarica Claudio Marcello ed altri tre suoi legionari di individuare e distruggere una grossa catapulta costruita dai Druidi. I valorosi sono però fatti prigionieri. Riescono comunque a fuggire e Claudio Marcello condurrà a termine la rischiosa impresa affidatagli, distruggendo la micidiale macchina proprio mentre i due eserciti avversari stanno per iniziare la battaglia. Dopo la vittoria dei Romani, elogiato da Giulio Cesare per il suo ardimento Claudio Marcello si recherà a Roma insieme con la donna che ama.
 
Recensione:
 

Un film grottesco oltre ogni limite, che con la realtà storica non ha proprio nulla a che vedere. Tutto è distorto dall'ideologia fino ad apparire irriconoscibile. Anche l'aspetto fisico dei popoli coinvolti è del tutto inverosimile, tanto da rasentare il ridicolo. I Romani sono giganti biondi dagli occhi azzurri, dai corpi gonfi di muscoli imponenti, che sembrano usciti dalle fantasie di un propagandista del III Reich. In pratica si insinua che gli Americani siano i diretti discendenti di Roma, una stirpe di superuomini destinati a dominare il mondo con pugno di ferro e randello. I Galli sono invece descritti come maligni asiatici rachitici, scuri di capelli, dagli occhi piccoli e neri come la pece, con la pelle itterica e untuosa, i corpi gobbi, malaticci e smagriti. I Druidi sono addirittura abitatori nel sottosuolo, definiti con infinito disprezzo "talpe", che aborriscono la luce del sole come i ratti, i nottoloni e i vampiri. Non contenti di questo scempio, gli ideatori della stravagante pellicola hanno fatto propria la dottrina di Origene secondo cui ogni anima ha il corpo che si merita. Così i Romani giganteschi e fieri incarnano il detto "mens sana in corpore sano": oltre ad avere nel cuore soltanto nobili sentimenti, non soffrono di malattie di sorta, non sono afflitti da alcun disturbo metabolico, mangiano e digeriscono anche i sassi, cagano liscio come l'olio stronzi perfetti che non lasciano traccia di sporco sull'ano, tanto da non abbisognare di carta igienica per pulirselo. Per contro i poveri Celti concepiscono unicamente sentimenti avvelenati e sono mossi in ogni loro azione da perversa, insensata crudeltà. Complottano nelle tenebre di cunicoli e spelonche come larve e fantasmi. Sono così perfidi perché puzzano come cadaveri e nessuna donna vuole avere contatti con loro. Stoltamente si rifiutano di riconoscere la supremazia dei Romani, che non sono invasori, ma portatori di bellezza e di salute, di bontà e di altruismo: la loro missione è quella di inondare le Gallie di pensiero positivo e di gioia di vivere. I giganti di Roma sembra l'incarnazione dei più deleteri stereotipi propagandistici bellici, stranamente rivolti contro le genti del ceppo celtico. Se si considera il film come storico non si può arrivare a capire le motivazioni di questo feroce quanto gratuito razzismo. Tutto diventa chiaro se si ammette che Antonio Margheriti - conosciuto anche con lo pseudonimo americano di Anthony Dawson - intendesse trasportare nel contesto dell'antica Roma una trama tipica di film di guerra americani, come ad esempio I cannoni di Navarone, senza nessun intento ostile nei confronti di popoli che neanche conosceva: se così fosse i Galli si sarebbero trovati come capri espiatori, il loro nome ridotto a mera etichetta di tutto ciò che esiste di turpe. Resta ben chiaro l'impianto americano dell'opera, tutta infarcita di stilemi tipici di oltreoceano. Basta guardare qualche scena per capire molte verità scomode. I cosiddetti "Liberatori" si nutrivano di un sottobosco fatto di suprematismo e di razzismo che nulla aveva da invidiare alle dottrine della Germania di Hitler, e nel dopoguerra lo hanno liberamente irradiato nella loro produzione cinematografica. Mentre i vertici del Partito Nazionalsocialista venivano processati a Norimberga e condannati a morte, ecco che i vincitori potevano continuare imperterriti a propagare tramite i media idee non troppo diverse da quelle che avevano deciso di estirpare con il ferro e con il fuoco, con buona pace dei decerebrati rimbambiti dalla propaganda scolastica che non sanno nemmeno riconoscerle quando se le trovano di fronte.

martedì 8 luglio 2014


DE REDITU - IL RITORNO
(Anno di uscita 2003) 

Genere: Drammatico
Durata: 100 - Origine: Italia


Inizio del V sec. d.C., crisi e decadenza dell'Impero. Cinque anni dopo il sacco di Roma ad opera dei Goti di Alarico, avvenuta nel 410 d.C., Claudio Rutilio Namaziano, un patrizio pagano che era stato Praefectus Urbis, decide di tornare nella natìa Tolosa, in Gallia, per verificare le condizioni della sua patria e dei suoi possedimenti dopo il passaggio dei Barbari. Rutilio decide di partire per mare, poiché la via consolare è divenuta impraticabile a causa delle devastazioni subite... 

CAST

Regia: Claudio Bondì 
Attori: Elia Schilton (Claudio Rutilio Namaziano), Rodolfo Corsato
(Minervio), Romuald Andrzej Klos (Socrate), Marco Beretta (Rufio), Caterina De Regibus (Sabina)

Soggetto: Claudius Rutilius Namatianus
Sceneggiatura: Alessandro Ricci, Claudio Bondi'
Fotografia: Marco Onorato
Distribuito da: Orango Film Distribuzione (2004)
Prodotto da: Alessandro Verdecchi per Misami Film


Note  
- Film riconosciuto di interesse culturale.


RECENSIONE 1

Io sono l’impudicizia

Così afferma la sacerdotessa di Elias, il Sole, che definitivamente cala sull’Impero Romano. Essa, questo film è l’impudicizia: immortalando un’epoca – anzi: l’Epoca - ne sviscera le indicibili vergogne, disegnando la fine della stessa. Altro che crollo: DE REDITU (un altro ritorno, ben altra cosa dall’omonimo veneziano) gironzola per le macerie, in punta di piedi per non calpestare frammenti di frammenti di statue, della Storia e del mondo. Ispirato dall’unica opera lasciata dal filosofo Namaziano, la pellicola è un diario di viaggio all’insegna della sottrazione, che si/ci diverte a spezzettare tabù: i gladiatori sono il contrario di Russel Crowe, ragazzini gracilini che si scannano in una fossa (incontri clandestini, in quanto all’epoca erano vietati) per il rivoltante vocio degli spalti – allora: chi sono i veri barbari? Il ritorno via mare di un sovversivo, (pazza?) figura solitaria che vuole rivoltare un declino ormai compiuto ed assimilato: un pagano inascoltato dagli amici e dagli dei, costretto a divincolarsi in una costellazione senza più credenza alcuna (il vecchio Protadio che dice: “mia moglie è cristiana, forse rinascerà”). Egli intraprende un happening decadente ed antiomerico (nonostante il mare…), dove incontrerà soldati sconfitti nell’animo, poveri diavoli come rematori (un ebreo armato dalla sua fede: ma pare un invasato), donne pronte a scoparselo, le truppe pretoriane che lo inseguono. Il film tesse il tranello di una dialettica soltanto immaginaria: il dissidio crollo-salvezza non esiste mai, neanche per un istante, già essendo emessa in partenza la condanna a morte. Ciò che conta è quindi raccontare un riverbero ammattito di esistenza umana, affannata nello spacciare virtù che non possiede (Namaziano cade nella corruzione della carne, se lo rimprovera, vi cade ancora) e millantare uno scopo anch’esso dubbio (ancora rivelatore Protadio: “Quando hai perso la tua donna hai intrapreso questa impresa disperata”). Al suo quarto lungometraggio Claudio Bondì, anche regista televisivo, confeziona un italiano moderno classicheggiante e misurato, relegando a Mel Gibson il sogno di girare in latino: egli conosce l’avvolgimento naturale come unica scenografia, uccidendo per scelta e per budget ogni ricostruzione di sorta (girato prevalentemente in Calabria, ma anche nella provincia laziale). Ne esce fuori un gioco di luci e colori (raggi solari increspati sulla vela dell’imbarcazione) ordinariamente filmato con spruzzate di handycam, che si ingabbia nella prima parte in una prigione dialoghistica da piccolo schermo, sfoderando qua e là qualche stereotipo del genere (il naufragio). Queste ed altre sparute macchioline galleggiano nel film (come la prova di Elia Schilton: perplesso/addolorato, ma alla lunga un po’ uguale a sé stesso), il quale mostra la sua criniera quando entra in scena il solito, immenso Roberto Herlitzka nelle vesti di Protadio (dopo Aldo Moro, un altro cadavere politico): il guizzo d’orgoglio nella desolazione, la sofferente consapevolezza della vecchiaia (i Romani) di fronte all’avanzare del nuovo (i Barbari). Egli distingue nitidamente le macerie ma per (im)pudicizia le nasconde: sotto un telo bianco c’è semplicemente il suo corpo che si suicida (anche le ceneri vanno nell’acqua), mentre il filosofo ed il film tutto sono imbrigliati a metà viaggio, dissolvendosi bruscamente, per regalare alla tetra fantasia un’esecuzione lasciata in omissis. DE REDITU esce nelle sale (si fa per dire, neanche dieci in tutta Italia) appesantito da una distribuzione sparuta e difficile, in picchiata verso un gustosissimo flop; in pochi vedranno questo ammirevole italiano che suona la cetra mentre Roma brucia, ma Protadio spiegherebbe anche questo: “Tutto secondo logica, senza pietà”.

Emanuele Di Nicola

RECENSIONE 2

Il saccheggio di Roma ad opera dei Visigoti di Alarico, avvenuto nel 410 d. C., secondo alcuni storici, ha provocato nella società romana un disorientamento paragonabile a quello prodotto dall'abbattimento delle Torri Gemelle. Cinque o sei anni dopo, Claudio Rutilio Namaziano, un patrizio pagano che era stato prefetto della città (carica equivalente a quella odierna di sindaco), decide di tornare nella Gallia Narbonese, sua terra d'origine, per verificare i danni delle scorrerie barbariche nei suoi possedimenti.
Siccome la via Aurelia è impraticabile a causa delle devastazioni e
insicura per la presenza di bande di briganti, Rutilio decide di partire per mare, tra autunno e inverno, nel periodo del cosiddetto mare clausum. A piccole tappe, e navigando di cabotaggio, risale lungo un'Italia che attraversa un difficile periodo di transizione, tra rovine, città abbandonate e nuovi stili di vita imposti dalle circostanze politiche (l'economia curtense) e religiose (il monachesimo), sostando presso amici o in locande, talvolta costretto a soste prolungate dal maltempo. Rutilio descrisse la cronaca di quel viaggio in una sorta di diario in versi che fu rinvenuto, incompleto, nel 1400 e chiamato De Reditu: Il Ritorno. Oggi è diventato un film che s'ispira liberamente a quel poemetto per assumere l'aspetto, più che del resoconto nostalgico di un viaggio di addio a un mondo felice, di una fuga dalle persecuzioni di un aristocratico incapace di accettare un mondo in piena trasformazione, un uomo in conflitto con la vitalità e l'arroganza di un potere che si fregia dei simboli della cristianità.
Infatti, lo sceneggiatore Alessandro Ricci e il regista Claudio Bondì,
documentarista già assistente di Rossellini, trascurano la parte più bella e poetica dell'opera, quella comunemente conosciuta come l'Inno a Roma, per privilegiare la dimensione epocale della vicenda, disegnando sì la nutrita galleria di persone, luoghi e ricordi mitologici, ma allo stesso tempo puntando maggiormente su temi come l'intolleranza religiosa e la paura della diversità, la confusione dei linguaggi e la difficoltà della comunicazione da essa generata. Il V secolo rappresenta per l'impero romano l'apice di quella parabola discendente che doveva portarlo alla dissoluzione: questo interessa al regista, il quale affida all'emblematica figura di Protadio (l'intenso Herlitzka), una specie di landlord alla Cincinnato, il compito d'interpretare il crollo delle illusioni. Albino, invece, il generoso ospite di Vada Volterrana, cerca di frenare l'impulso di Rutilio a combattere per "l'utopia di Roma", invitandolo, più realisticamente, all'attesa degli eventi, alla sicurezza di un'agricoltura chiusa e protetta da una milizia privata, preludio vero e proprio alla realtà socio-economica alto medievale.
Non scarseggiano in De Reditu le concessioni allo spettacolo tipiche del
peplum, come la scena del suicidio di Protadio, il combattimento dei gladiatori, praticato in clandestinità, o la sequenza finale dei cavalieri sulla spiaggia; né mancano le sentenze da scolpire sulla pietra, come quella suggestiva, ma anticristiana: "Un solo Dio per la ragione, molti dei per l'immaginazione", alla quale preferiamo di certo i versi di Namaziano (Libro I, vv. 63-67), omaggio a Roma e al valore universale della tolleranza:"Hai fatto di genti diverse una sola patria / la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi: / offrendo ai vinti l'unione nel tuo diritto / hai reso l'orbe diviso unica Urbe."

Claudio Lugi  

Segnalo l'interessante post dedicato a De Reditu su Lankelot:


Aggiungo a questo punto alcune mie considerazioni:   

Quando ho cominciato ad interessarmi a questo film, nel 2004, non era affatto facile poterlo visionare, come se fosse scomparso in un buco nero. "Un caso di censura silenziosa, ma non per questo meno infame", così avevo scritto in più di un'occasione nella blogosfera di Splinder. La causa di tutto ciò era ovviamente la suscettibilità del Papato, in un'epoca in cui fervevano le polemiche sulle cosiddette radici cristiane dell'Europa. Era in corso una specie di guerra di religione: la Chiesa Romana cercava in tutti i modi di affermare il suo dominio sulle nazioni dell'Europa, operando con ogni mezzo per cancellare ogni traccia del mondo antico. Al Papato premeva infatti di rimuovere in modo chirurgico ogni testimonianza della violenza da cui la sua istituzione è nata e delle atrocità di cui si è macchiata nel corso dei secoli. Per merito degli amici Zoon e Nodens, che intendo in questa sede ringraziare di cuore, è stato alla fine posto in qualche modo rimedio all'oblio che aveva fagocitato l'opera di Claudio Bondì. Su Facebook esiste inoltre un gruppo dedicato al film De Reditu, anche se purtroppo non risulta più essere attivo.