domenica 20 luglio 2014

MUHAMMAD AL-IDRISI, LEONE L'AFRICANO E IL LATINO D'AFRICA

La lingua latina è stata parlata a lungo nell'Africa Settentrionale, e nel corso dei secoli si è evoluta in una varietà di lingue romanze, non diversamente da quanto è avvenuto in Europa. Anche se queste sono state sommerse dalle lingue berbere e dall'arabo, si può dedurre la loro esistenza analizzando diversi dati di fatto. 

I Normanni durante la loro conquista del Regno di Tunisi nel XII secolo hanno ricevuto aiuto dalle comunità cristiane che ancora sopravvivevano. Alcuni storici, come Vermondo Brugnatello, hanno ipotizzato che tali Cristiani parlassero ancora una lingua romanza, derivata dal latino d'Africa, e tale proposta è più di una semplice supposizione. Nel XIII secolo il geografo nordafricano Muḥammad al-Idrīsī ha scritto che gli abitanti di Gafsa (latino Capsa), nel meridione della Tunisia, si esprimevano in una lingua non araba e non berbera, da lui chiamata al-lisān al-laṭīnī al-ifrīqī, ossia la lingua (neo)latina d'Africa. Infatti la parola araba latini serviva per descrivere sia il latino che le lingue romanze.

A questo proposito Muḥammad al-Idrīsī riporta le seguenti notevoli informazioni:

"I suoi abitanti sono berberizzati, e la maggior parte di loro parla il latino d'Africa." (1)

Egli fornisce persino una parola di questo idioma:

"Nel mezzo della città c'è una sorgente chiamata Ṭarmīd." (2)

La glossa è chiaramente derivata dalla radice del latino thermae. È possibile che si tratti di un adattamento arabo di un romanzo *termìle, dato che il toponimo è noto al giorno d'oggi come Ṭarmīl. Con tutta probabilità il geografo ha registrato male la consonante finale, scambiando la -l- originale per -d-, non è dato sapere se a causa del suo udito o dell'imperfetta realizzazione da parte del suo informatore.

È interessante notare che a quanto Al-Idrīsī afferma, la città era berberizzata, ossia che nel secolo in cui i Banū Hilāl si stavano diffondendo rapidamente in Tunisia e in Libia, la cultura dei Berberi era abbastanza prestigiosa da poter essere adottata da membri di altre culture, in particolare dalle rimanenti città romane. Nell'area di Gafsa attualmente si parla arabo ma persisteva l'uso del berbero in molti villaggi nel XIX secolo, e in due di essi - Sened e Madjoura - ancora nel XX secolo. 

In un altro luogo della sua opera, lo stesso geografo definisce gli abitanti della Sardegna Romani africani "selvaggi" (ossia "inselvatichiti") e mutabarbarūn (ossia "berberizzati") (3). Non è del tutto chiaro se mutabarbarūn debba essere inteso come berberizzati in senso culturale o linguistico, oppure se debba significate piuttosto "barbari". Siccome però i Sardi non parlavano berbero, e Al-Idrīsī afferma invece che essi parlavano il latino d'Africa, risulta evidente che erano i loro costumi a suggerirgli l'uso di quella parola. L'accostamento tra latino d'Africa e la lingua sarda si trova anche, come abbiamo già visto, nell'importante testimonianza dell'umanista Paolo Pompilio, che attesta la sopravvivenza dell'idioma romanzo proprio nella stessa regione nel XV secolo. 

Esiste una fonte posteriore ad Al-Idrīsī e allo stesso Pompilio: si tratta di Leone l'Africano, noto anche come Leo Africus (Granada 1485 - Tunisi 1554). Egli compose in italiano una descrizione dell'Africa, Della descrittione dell'Africa et delle cose notabili che iui sono, pubblicata a Venezia nel 1550. In quest'opera afferma che alcuni nordafricani mantenevano l'uso della loro lingua anche dopo che erano stati conquistati dagli Arabi, che questa lingua proveniva dai Romani ed era un tipo di italiano: in epoca successiva, i contatti con gli Arabi avevano contribuito a far divergere sempre più questa lingua da quella parlata in Italia. Dato che Leone l'Africano viaggiò a lungo in Nordafrica, sembra verosimile che il romanzo d'Africa fosse ancora vivo nella regione di Gafsa ai suoi tempi, o che ne permanesse almeno un qualche ricordo.

Altri autori hanno ipotizzato che l'estinzione del romanzo di Gafsa sia avvenuta in epoca ancora più tarda, addirittura nel XVIII secolo. Virginie Prevost si mostra scettica a questo proposito, evidentemente ignorando le testimonianze di Pompilio e di Leo Africus di cui sopra. L'abstract della sua opera Les dernières communautés chrétiennes autochtones d’Afrique du Nord (Le ultime comunità cristiane native dell'Africa del Nord) riporta quanto segue:

"Per molti secoli dopo la conquista araba, alcune comunità di Cristiani nativi rimaserno nella parte meridionale della Tunisia, senza ricevere assistenza esterna per far mantenere viva la loro fede. Le oasi di Jarîd e Nafzâwa, controllate da Musulmani Ibaditi, certamente cotituirono l'ultimo rifugio per questi Cristiani nordafricani. Molti storici contemporanei ritengono che essi potessero vivere fino al XIV secolo o addirittura fino al XVIII secolo. L'analisi delle fonti arabe che essi interpretano mostra che tali testi non ci danno evidenza di una così estrema longevità. È più che probabile che i Cristiani scomparissero dalle oasi verso la metà del XIII secolo, alla stessa epoca degli Ibaditi a cui il loro destino era strettamente legato." 

Questa è la riprova del fatto che gli esperti di una data materia di studio spesso non hanno accesso a tutte le fonti sull'argomento: la Scienza minaccia di disperdersi in rivoli tra loro eternamente separati. In quanto autore del Connettivismo, interpreto il significato della parola secondo l'originale semantica e ritengo della massima importanza darsi da fare per portare nuovi flussi informativi dove è in corso un processo di inaridimento.  

(1) وأهلها متبربرون وأكثرهم يتكلّم باللسان اللطيني الإفريقي.

(2) ولها في وسطها العين المسماة بالطرميد.

(3) وأهل جزيرة سرادنية في الأصل روم أفارقة متبربرون ومتوحشون من أجناس الروم وهم أهل نجدة وحزم لا يفارقون السلاح.‏

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