Nel lontano 2014 ho pubblicato un brevissimo articolo sul pippologio, un dolce fallico prodotto nella nativa città di Seregno, in Brianza, in occasione dell'Epifania. Riporto il link a quel mio vecchio contributo, che si concludeva con una richiesta di informazioni, ovviamente caduta nel vuoto.
Avevo cercato invano di trovare un'etimologia credibile a una parola così stramba, senza riuscire ad approdare a nulla di convincente. La mia mente contorta aveva risolto l'enigmatico pippologio in un improbabile *pippologi(h)o, cioè "pippo logico" quasi fosse un "pene dotato di logica" (ben noto è il termine pippo nel senso di "pene" e di "scemo"); l'inconsueto sviluppo fonetico lo adducevo a un'origine toscana tramite gorgia, pensando che si dovesse alla pronuncia di un pasticcere trapiantato in Brianza. Invece l'amico Watt, che ai tempi di Splinder gestiva il blog Etymos, mi aveva suggerito un'interpretazione altrettanto implausibile, ricostruendo un *pippo-elogio, ossia "elogio del pippo", senza badare troppo alla bizzarria formale di un simile composto. La cosa poi era finita con la pubblicazione dell'articoletto su questo blog e per diversi anni non ho più pensato a questo argomento.
Qualche
tempo fa l'amico seregnese P., grassoccio e calvo ma con una robusta barba,
scrisse sul suo profilo di Facebook un post brevissimo ma entusiastico, corredato da una foto del dolciume simile a un membro eretto: "VIVA IL PIPOLOGIO!" La cosa mi ha illuminato. Finalmente avevo trovato una attestazione certa della parola da me descritta già da
anni e la cui etimologia mi era parsa tanto misteriosa! Subito ho capito l'arcano: si
trattava di una semplice questione di ortografia! Quando avevo appreso
il vocabolo, chi me lo trasmise lo pronunciava con una consonante -pp- doppia (pippologio), ma la forma più comune ha una consonante -p- semplice (pipologio). Quando ho cercato "pipologio" usando Google, il vasto Web mi ha restituito alcune tracce utilissime quanto insperate e sono finalmente riuscito a capire qualcosa di più.
Si trovano anche altre varianti del nome: papurogio, poporogio e papuròtt. Queste forme sono utilizzate nei comuni di Desio e di Lissone. Non c'è motivo di dubitare del significato originario di queste parole: "bambolotto".
Epifania in Brianza, la tradizione del "Papurott" o "Papurogio"
"Papurott o Papurogio è il bambolotto, dolce tipico brianzolo della festa: nella giornata del
sei gennaio sulle tavole dei brianzoli, per la gioia dei bambini, non
può mancare il fantoccio (esiste la variante con impasto di pan brioche o
di frolla) preparato secondo le ricette della tradizione con le sue
innumerevoli varianti. L'usanza di sfornare o acquistare i Papurott è
particolarmente sentita a Lissone dove ogni anno all'Epifania in città
avviene la distribuzione dei dolcetti e anche a Desio."
E ancora, su una pagina ormai cessata:
Il Papurogio è un dolce tipico dell’Epifania di Desio
"Il nome lo si può ricondurre alla parola dialettale “Papurot” ossia bambino paffuto e sorridente, come è raffigurato tradizionalmente Gesù Bambino."
"Il dolce tipico di Desio è il ‘papurogiu’.
Le pasticcerie e le panetterie della cittadina brianzola ne fanno
ognuna la propria versione personalizzata, solo nei cinque giorni che
precedono l’Epifania. Il nome in origine lo si può ricondurre alla
parola dialettale “Papurot” ossia bambino paffuto e sorridente, come è raffigurato tradizionalmente Gesù Bambino."
Papurott o Papurogio: un po’ di storia (e storie) del dolce dell’Epifania in Brianza
"A Desio ne sono convinti. Sono sicuri. L’originale dolce dell’Epifania è nato qui, esattamente a metà strada tra le case dove hanno visto la luce due grandi: Achille Ratti e Luigi Giussani. È nato nel laboratorio di Edoardo Pastori, sul “ponte”, con la roggia Traversi a scorrere accanto, la discesa per raggiungere la basilica e lo sferragliare del tram. È nato nel 1929, l’anno dei Patti Lateranensi, ma le sue radici, l’idea, l’intuizione, sono più vecchi di dieci anni, quando il papà di Edoardo, panettiere a Rho, già creava qualcosa di simile con la pasta del pane."
"A Desio il dolce della Befana è chiamato ‘papurogiu’, con due ‘u’. Il suo nome, però, in origine era leggermente diverso: Pastori lo aveva battezzato ‘poporogio’,con una serie di ‘o’ da fare invidia ad un onomatopeico. Era così per via della sua forma da bambino. Il nome del dolce si è alterato nel tempo, ma non la ricetta originale. Quella è rimasta invariata per anni, è stata portata avanti da Italo, figlio di Edoardo, ed è andata in pensione con lui, quando decise di chiudere il bar pasticceria di corso Italia. Non è mai invecchiata, la ricetta, pur avendo tra le pieghe 90 anni di vita come il lievito madre che era l’anima di ciascun omino dei Pastori. Sempre quello. Custodito gelosamente e attentamente dentro il tabernacolo della sala dolci. Piuttosto, la ricetta diveniva più fresca e fragrante, tanto che in molti hanno cercato di ripeterla. Ma non col medesimo gusto, quello regalato dalla ‘ics’, dall’ingrediente segreto."
"A Desio il dolce della Befana è chiamato ‘papurogiu’, con due ‘u’. Il suo nome, però, in origine era leggermente diverso: Pastori lo aveva battezzato ‘poporogio’,con una serie di ‘o’ da fare invidia ad un onomatopeico. Era così per via della sua forma da bambino. Il nome del dolce si è alterato nel tempo, ma non la ricetta originale. Quella è rimasta invariata per anni, è stata portata avanti da Italo, figlio di Edoardo, ed è andata in pensione con lui, quando decise di chiudere il bar pasticceria di corso Italia. Non è mai invecchiata, la ricetta, pur avendo tra le pieghe 90 anni di vita come il lievito madre che era l’anima di ciascun omino dei Pastori. Sempre quello. Custodito gelosamente e attentamente dentro il tabernacolo della sala dolci. Piuttosto, la ricetta diveniva più fresca e fragrante, tanto che in molti hanno cercato di ripeterla. Ma non col medesimo gusto, quello regalato dalla ‘ics’, dall’ingrediente segreto."
"E proprio a Lissone è storia è diversa. Perché sono storie di famiglia che sono dolci ricordi, dolci come il “Papurott”. Giancarlo Gatti, titolare della pasticceria “San Rocco” di via Settembrini a Lissone, ha mosso i primi passi sul bancone dell’attività aperta dal padre, Alfredo, e dallo zio Camillo nel 1953 in via Mazzini e 10 anni più tardi trasferitasi nella sede attuale. «Ai tempi mio padre e mio zio dividevano i locali, tra falegnameria e dolci – raccontava al CittadinoMB un anno fa – Vedevo mio papà col triciclo dei legnamè portare in giro le brioches. Poi, in via Settembrini, ricordo che io, avevo 7 o 8 anni, lo aiutavo a fare il Papurott: mettevo le uvette per creare gli occhi e l’ombelico. Si faceva solo a Lissone, sì. A Desio lo portavamo ai clienti. È una tradizione che è rimasta e di cui ancora oggi c’è una vera febbre: il 5 e il 6 gennaio la richiesta è sempre alta. Tutti vogliono il Papurott che è un simbolo, come la torta paesana alla festa di Lissone»."
Le genti di Lissone, in uno slancio di fanatismo campanilistico, si ostinano a dire che il dolciume è tipico unicamente del proprio paese. Le genti di Desio, dal canto loro, sono sempre pronte a giurare il contrario. A distanza di tanto tempo, è molto difficile accertare i fatti. Immagino il dialogo da cui è nato tutto. Il pasticcere ha plasmato dell'impasto e lo ha cotto, dando origine a una figura storpia e gobba. La moglie gli ha chiesto, con tono scettico: "Sa l'è cus'è cul ropp chi?" E l'uomo, afflitto, le ha risposto: "Al su nò. L'è un queicòss. L'è un poporògiu".
Mi trovavo a Malesco, in Val Vigezzo, con il fraterno amico P. "Nodens" (da non confondere con P. il Pingue) e con suo fratello T. (R.I.P.). Mentre passeggiavamo in paese come tutte le sere, ci imbattemmo in una vetrina in cui erano mostrati oggetti provvisti di etichette con il loro nome nel dialetto ossolano locale. C'era una bambola gigantesca, grande quasi quanto una bambina di dieci anni, con lunghe vesti e con i capelli biondi ben pettinate, di quelle che a Milano erano un tempo chiamate pigòtt (al singolare pigòta). Sotto la bambola c'era un'etichetta con la sua denominazione ossolana: LA PUPÙ. Scoppiammo a ridere e andammo avanti per una buona mezz'ora. Il giorno dopo, l'anziano C. (R.I.P.), che era nativo del paese, ci spiegò che in dialetto maleschese la pupù è la bambola.
In un'altra occasione giunse una glossa inattesa. Il fratello di P. "Nodens" se ne uscì in un'occasione a chiamare i bambini col loro nome locale: pupurìtt. Capii subito che questo strano vocabolo era connesso con l'ossolano pupù "bambola". Certamente il termine pupurìtt "bambini" significava in origine qualcosa come "bambolotti". Anche in italiano esistono voci simili: pupo, pupa, pupattola, pupazzo. In Sicilia i pupi sono burattini che narrano vicende epiche, e l'uomo che li muove è il puparo. Questa radice esisteva già in latino, come ci mostrano le forme di origine dotta pupillo e pupilla.
pupo
1) "bambino piccolo" (regionalismo, Italia centrale)
2) "marionetta"
pupa
1) "bambola"
2) "ragazza" (gergale)
Esempio: Quella è la pupa del boss.
3) "crisalide" (linguaggio scientifico)
Forma derivata:
pupazzo
pupazzo
Etimologia: dal latino pūpus "bambino, ragazzo", fatto derivare dalla radice indoeuropea *peh2w- "poco, piccolo". La forma derivata pupazzo presuppone un latino *pūpāceus.
1) ragazzino, fanciullo
2) bambola, pupazzetto, fantoccio
1) bambina, fanciulla, ragazza
2) pupilla dell'occhio
3) (in senso figurato) occhio
4) bambolina
5) pupilla
Nell'Atlante Linguistico AIS, alla voce "bambola" (numero 750), troviamo alcune informazioni interessanti.
Si può vedere che in alcuni paesini della Val Chiavenna e della Valtellina la bambola è chiamata pipœla o pipóla. Queste forme sono semplici varianti del più comune pupòla. Certo, è possibile che a Seregno il pipologio o pippologio si sia originato da un mutamento fonetico dissimilatorio simile a quello che ha portato a pipœla, pipóla, a partire da papuròtt, papurogio e simili, anche se la cosa in fondo non mi convince molto. A parer mio il passaggio dal biascicato papurogio all'audace pippologio è stata introdotta da un pasticcere estroso che ha deciso di alterare la figura infantile del pupazzo per trasformarla nella figura maliziosa del pippo, che è un cazzone gonfio di sperma. Detto questo, P. "Nodens" mi ha confermato che nella sua nativa Albiate è usata soltanto la forma pupurìn "bambino" (plurale pupurìtt "bambini"), che un vocabolo papuròtt "bambino grassoccio" è del tutto sconosciuto e che il dolciume fallico non si trova affatto. Evidentemente la produzione del pupazzo di pasta brioche, nata a Desio o a Lissone, è giunta a Seregno subendo la sua metamorfosi in un simulacro del membro virile eretto, senza poter arrivare più lontano.