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lunedì 9 gennaio 2023

CHIOME IN FIAMME 

La Cometa d’Orrore è in massimo avvicinamento. Emana bagliori di morte azzurrognola dal suo cuore che come un secondo sole bianco acceca le genti, facendo impallidire ogni altra luminaria celeste. Le folle sono in fermento, e ognuno ode nel profondo della sua anima un sinistro stridore di dannazione. La coda di quel messaggero di devastazione è triplice e la sua lunghezza occupa metà della volta celeste, seminando veleno. L’aria tremola, una fatamorgana che impedisce di focalizzare bene i dettagli del mondo visibile. Palazzi fatui vibrano in quella densa atmosfera alterata dal mortifero portento cosmico. Il cuore dei coraggiosi e dei temerari diviene all’improvviso vile. Il cuore dei vili scompare, ed essi supplicano di ricongiungersi ai vermi nel terriccio. Tutte le donne incinte abortiscono. Tutti i sacerdoti si suicidano dopo aver urlato la vanità della loro fede, capendo di colpo chi è il vero Signore dell’Universo. Tutti i potenti battono i denti in preda al terrore, e baratterebbero un’eternità di cancro pur di sfuggire al presente. Dzadara viene! Dzadara è adirato! Il Regno del Caos avvolge tutto con i suoi tentacoli, portando la dissoluzione di ogni struttura sociale nel fango della Cosmonemesi. Nulla potrà sottrarsi alla Morte Cometaria, all’estremo strale sidereo! Il chiarore innaturale dissolve le nubi come effimera neve estiva, riducendole a cernecchi sfilacciati in una lettiera di carboni ardenti. Un rombo lontano echeggia nel labirinto e nei cunicoli uditivi delle masse come un urlo arcano, un tremendo clamore che preme su milioni di timpani, simile a un martello assassino su un’incudine dolorante.  Non sono suoni, ma fluttuazioni che si propagano dalla ferita nel tessuto stesso dell’universo, dal Continuum oscenamente lacerato. Fili di flogisto indaco si dipartono da ogni cosa, richiamando esili saette screziate, finché a tutti è chiaro cosa sta accadendo. I capelli della gente cominciano a prendere fuoco! Lingue di un rosso mai visto prima a memoria d’uomo lambiscono ogni testa nello sfrigolio di una frusta neuronica permanente! I peli bruciano incapaci di consumarsi in quell’infernale etere, parassiti di plasma che agiscono su ogni centro del dolore amplificandone la follia fino al parossismo prigoginico. Come vermi incorruttibili su una stufa al calor bianco, le membra delle genti si contorcono in quell’apoteosi di aberrazione, in quella dilatazione del flusso temporale in una fornace sempiterna. Le urla salgono al cielo, salgono fino al cuore della Cometa come fulmini che danzano su un oceano di crani! Mani ritorte e contratte in crampi cercano in tutti i modi di strapparsi la pelle, di liberarsi di quel supplizio, senza riuscire a trovare la presa. Artigli che scavano invano nelle carni, volti contratti in abominevoli maschere orrorifiche. Fiori incandescenti si muovono al ritmo di tempeste di raggi X durissimi, corpuscoli trascinati nell’Orizzonte degli Eventi di un buco nero che divora miliardi di galassie moribonde. Si possono distinguere tutte le sfumature di un caleidoscopio cromatico alieno in un’orgia sinestetica di disperazione che filtra in ogni singolo quanto di materia. Poltiglia quarkionica vibrante nello stato di massima entropia. Gli esseri umani sono nudi, tuffati nelle profondità solari senza poter morire! Cosa resterà quando il Principe della Cometa sarà passato? Una distesa di cenere inerte? Il brodo primordiale scomposto nei suoi costituenti prebiotici? Un mare senza confini di basalto fuso? Oppure gli stessi elementi senza vita rimarranno intrappolati per sempre in quell’atrocità escatologica, in quella metànoia satanica, in quello straziante Cantico dell’Assurdo? 

Sulla cima dell’arido e pietroso monte Aramonth, l’Eremita osserva la Consumazione dei Secoli, lo scatenarsi delle Forze di Maspigand, distinguendo ogni dettaglio del mondo come se fosse fornito di una vista telescopica. Lui che è stato rifiutato dalla società degli umani, ora gode di un privilegio inatteso, ora gongola nello spettacolo capace di dare senso a un’intera esistenza di privazioni e di umiliazione. Avvolto da un’aureola di fuoco, l’Uomo di Dio si lascia trasportare da un’ebbrezza infinita che trasforma il dolore della combustione in gioia selvaggia. Ogni istante della sua gioventù nella Città dell’Edonismo gli ritorna alla memoria, e sente i risolini di scherno delle giovani donne copulanti. Sente l’egoista felicità delle coppie che ostentavano le loro effusioni nei bistrot e sulle camminate lungo i navigli adorni di fiori variopinti e di afrodisiache fragranze. Percepisce nella sua empatia espansa ogni attimo del piacere di quei petali e di quei pistilli in umido congiungimento, mentre a lui tutto è stato sempre negato. Portatore di un’antica lebbra, erede di una cultura perseguitata, non gli era rimasta altra alternativa che cercare rifugio nelle caverne per sfuggire all’eccessivo dolore. Ora sa finalmente di aver seguito la via giusta, quella che così a lungo gli era parsa soltanto un percorso di dannazione su accidentati dirupi. I suoi piedi nudi si erano tante volte lacerati su quegli spuntoni rocciosi del Deserto senz’Acqua! Ora tocca all’Acqua bruciare! Quelle puttane, quei corrotti che le insozzano, adesso si consumano insieme nel tormento! Invidioso, così lo hanno chiamato innumerevoli volte mentre lo vedevano vagare avvolto in abiti laceri. Inetto, perdente, questo gli dicevano, scientemente crudeli. Lo definivano uno sconfitto nella lotta della biologia, nell’agone spermatico per propagare questa corrotta prigionia nel lurido carapace carnale. Così è sempre stato definito da uomini di affari e politici. Quei boia non facevano questo in quanto spinti da profonde convinzioni filosofiche, ma soltanto perché pareva loro di sentirsi vivi, soltanto avendo qualcuno da disprezzare e da tagliuzzare con oscuro sarcasmo. Mostravano denti e contraevano i diaframmi, ratti glabri e immondi che si sollazzano nella fogna della vita gaudente. Così l’Eremita intona la sua canzone della rivincita contro il genoma brulicante: “Finalmente la loro base è sradicata, il loro seme cancellato! La loro arroganza è un guscio vuoto sotto il calcagno del Giusto! Dzadara avvolge i miei antichi aguzzini nel suo abbraccio crematorio! Questo istante non è solo il più felice della mia intera esistenza terrena, ma di milioni e milioni di vite passate migrando da un involucro corporale all’altro, umano o animale! Questo è il punto terminale della mia Caduta dai Cieli! Questo è il Giorno del Ritorno! Nessuno potrà più farmi pentire di esistere sfoggiando le sue immonde vesti di muscoli, di ossa e di sangue”. Quasi in risposta alle sue turbolente correnti dell’anima, il Buco nel Cielo si apre. Ha l’aspetto di un uomo di ferro, talmente nero che gli stessi fotoni vi affondano senza speranza di poterne uscire. Sembra calare su ogni cosa, anche se i contorni nitidissimi sono immobili. Gelido, inumano, duro nel suo manto metallico di nero stellare, è l’uscio ipergeometrico che dà su un piano di esistenza di una vastità atroce e non euclidea. Quella sfida alla luce è la sua meta, il nero astro che spezzerà ogni suo limite, ogni suo vincolo termodinamico. Fiducioso, l’anacoreta esiliato vi ascende fiammeggiante e in esaltazione, lasciandosi ogni cosa alle spalle senza rimorsi né rimpianti. Anche il grido delle città dannate gli è giunto a noia, perché ha cose più importanti da fare. Sotto la sua ombra fluttuante le chiome sono torce inesauribili e i grattacieli miraggi, ma lui non se ne cura affatto, perché quello è il Momento Perfetto: dopo aver vissuto il respiro degli Eoni sta per tornare a casa. 

Marco "Antares666" Moretti 

sabato 7 gennaio 2023

L’ARTIGLIO DEL NULLIFICO 

Discendo da una casata nobiliare che ha sempre sostenuto la religione dei Ferengal. A causa delle frequenti unioni tra consanguinei che si sono succedute nel corso dei secoli, ho ereditato un carattere ipereccitabile, lunatico e incline alla paranoia. Dato l’obbligo di nascondere la propria professione religiosa alle potenze del mondo, la mia stirpe è sempre vissuta in uno stato di costante angoscia. In passato il Re perseguitava i Ferengal e i loro credenti con tale acrimonia da condannarli ad essere bruciati vivi a fuoco lento; per fortuna da secoli questo non è più il costume, ma sanzioni pesanti sono ancora in vigore. La più grave delle condanne è l’Intoccabilità. Se filtrasse qualcosa al di fuori delle mura domestiche, tutto sarebbe perduto. Lo stato feudale, le nostre ricchezze, la nostra rispettabilità sociale. Mia madre, mio padre, i miei zii, mia sorella, i miei primi cugini, tutti diventerebbero degli Agoth, evitati e disprezzati persino dai servi. Per quanto mi riguarda, la maledizione non potrebbe arrecarmi un così grave pregiudizio, essendo io già sepolto in questa tomba segreta e traendo il poco fiato a me necessario da una cannuccia fatta passare in un’intercapedine invisibile dall’esterno. 
Dovrei andare con ordine nel narrare le mie disgrazie a beneficio dei soli spiriti dell’Etere: nessun essere vivente di figura anche vagamente umana potrebbe ora raccogliere la mia eredità. Ma esiste sempre la speranza che il rantolo della mia agonia possa trasmigrare in un altro universo, ripetuto dalle voci delle larve dei morti per essere finalmente captato da un apparecchio elettromagnetico, trascritto e consegnato ai posteri. 

Ricordo il laboratorio del dottor Ansinaskar, in cui avvenivano quei pericolosi esperimenti mesmerici che mi hanno condannato. Quel luogo sinistro era da anni il funto focale di tutta una comunità di cosiddetti Spiriti Liberi, gente che riteneva ogni forma di religione una cariatide della preistoria e che si adoperava per la sua sostituzione con un panteismo indifferenziato. Dal canto mio, cercavo nelle sedute ipnotiche del dottor Ansinaskar la soluzione di un arduo enigma intellettuale: anche se non potevo farne esplicita menzione, intendevo trovare prove che confermassero o smentissero la dottrina della reincarnazione tipica della Fede dei miei Padri. 
Avrei dovuto ascoltare gli ammaestramenti dei miei e tenermi alla larga da un simile covo di empietà, ma all’epoca ero spinto dagli ardori di una gioventù scapestrata e ribelle, cosicché ogni volta che mi si ammoniva io ero spinto a far tutto l’opposto. 
Durante una seduta particolarmente drammatica, fui sottoposto al fluido mesmerico e qualcosa entrò in me. Vidi un’ombra scorrere vicino alle imponenti lampade di peltro che emanavano la loro lugubre luce nella grande sala. Seguendo i movimenti di quell’entità spettrale, ebbi l’impressione di assistere a una caccia. Un predatore stava balzando sulla preda. Quando il concetto fu chiaro nella mia mente, compresi che la preda ero proprio io: quella cosa entrò dentro di me. Cominciai a parlare… 
Rammento ancora ogni dettaglio di quella cruciale esperienza, con una precisione sconosciuta ai ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza. Avevo cessato di essere nel mondo che aveva visto la mia nascita. La mia identità era diversa. Pensavo e parlavo con la massima naturalezza in una lingua sconosciuta, le cui bizzarre parole sono riuscito a trattenere nella mia mente. Il mio nome era Edgar Allan Poe. 
All’improvviso fui certo di avere un corpo fisico, potei toccare il mio volto con mani che non riconoscevo come mie. Una nebbia impenetrabile rendeva invisibile ogni cosa intorno a me. Camminavo senza meta, barcollando in preda a un orrendo delirio. Mi sembrava di aver bevuto fin quasi a morirne un qualche liquore intossicante che a tratti mi ritornava in bocca con aspri rigurgiti. Le articolazioni mi dolevano, come se qualcuno mi avesse colpito a randellate e fossi a malapena riuscito a sfuggire a gravi fratture. Non ne potevo più del sordo dolore che gravava sulle mie membra martoriate. Le forze mi stavano venendo meno. Mentre pensavo qualcosa, accadde un fatto che mi lasciò sconvolto. Un vento gelido soffiò via la nebbia, mostrando un cielo alieno, atroce, con una luminaria bianca che brillava nel manto nero della notte come un teschio ghignante. 
Ritornai in me urlando come un ossesso. E forse ero proprio questo: un posseduto dai demoni. Un dolore simile a quello di una pugnalata mi squarciò il cranio, solo a fatica riuscii a riconoscere le persone che mi stavano intorno. Dissero che avevo a lungo delirato in una lingua composta prevalentemente da parole brevi e impastate, una favella incomprensibile mai udita da orecchio umano. 
Quando ci si desta da un sogno, ogni dettaglio tende a sfocarsi e alla fine svanisce nel nulla. Solo eccezionalmente si riesce ad imprimere qualche vicenda onirica nella memoria. Ancor più raro è che parole udite tra le brume oniriche possano conservarsi per più di qualche istante alla luce della coscienza vigile. Invece a me accadeva di poter parlare, sapevo come identificare correttamente ogni oggetto servendomi di quell’idioma astruso. Di più, cominciai a farmi portare fogli di carta e ad esercitarmi a scrivere. Che assurdità: quella lingua non si scriveva come la nostra, tramite alcune centinaia di geroglifici, ma servendosi soltanto di ventisei semplici caratteri, più o meno corrispondenti ai suoni emessi dalla glottide. Una cosa davvero stravagante. Cercai di parlarne con mio cugino Khlarn, che mi derise sonoramente. Temendo di esser preso per folle, non feci più menzione ad alcuno di quello che rimase il mio segreto. Dipinsi con inchiostro nero i caratteri che formavano il mio nome arcano. Non senza fatica tracciai su un foglio color crema tre parole: “Edgar Allan Poe”. 
Avevo vissuto i peggiori istanti della vita terrena di un uomo che ora si confondeva con il mio essere. “Ne sono certo”, pensai, “Esistono innumerevoli mondi abitati da umani, come il nostro”. Qualche dettaglio emerse dall’oscurità. Mi vedevo intento a scrivere un racconto intitolato “The Black Cat”, ossia “Il gatto nero”. Era una storia terribile che parlava di un uomo che in preda all’ebbrezza finiva con l’uccidere sua moglie a colpi d’ascia per poi murarla insieme a un gatto nero in una cripta. 
Cercai di trascrivere il racconto, ma fui colto dalla confusione ed accantonai ben presto il progetto. La mia fronte bruciava di febbre. Non stavo affatto bene, così decisi di mettermi a letto. Fu quello l’inizio di una lunga malattia. Il medico di famiglia disse che era una febbre maligna e che molto difficilmente l’avrei superata. Per quanto il mio corpo sudasse e ribollisse, non per questo la mia mente smetteva di funzionare. Anzi, nella compressione e nell’infiammazione dell’encefalo, raggiungevo una saggezza mai vista prima tra le genti. Ogni tanto, quando le forze me lo permettevano, mi mettevo a sedere sul letto e trascrivevo alcune delle mie illuminazioni. 
Questo ad esempio scrissi nel giorno 257 dell’anno 1758 dalla Grande Unificazione: “Il nostro oscuro mondo, che i miei simili stoltamente reputano essere il solo esistente, non possiede luminarie celesti visibili come il mondo di origine di Edgar Allan Poe. Di giorno, un vago chiarore rischiara le eterne coltri di nubi, di notte regna incontrastato l’Abisso. Un anno si definisce come il tempo che intercorre tra il Giorno del Drago, il più lungo del ciclo e il Giorno del Lupo, in cui quasi non c’è luce. Il motivo di questi cicli era però finora un mistero imperscrutabile. Ora so quello che tutti i sapienti ignorano: c’è una grande lampada oltre quelle nubi grigie a volte calme e a volte vorticose che intristiscono e consumano gli umori dell’umanità.” 
Quando i miei venivano a trovarmi, nascondevo con cura i miei scritti sotto il cuscino. Ma tanto a loro non interessavano i miei vaneggiamenti. Mia zia mi disse che pregava il Vero Dio, Balagon, affinché confondesse i demoni che mi stavano divorando. Per i Ferengal tutto l’universo fisico è opera del Demonio, Beylghilflar, e il Vero Dio non ha alcun potere sugli elementi terreni; si dice però che in alcune circostanze possa proteggere gli Spiriti caduti nella prigionia della materia. 
Sempre avvolta nel suo nero abito da Perfetta, mia zia usciva molto raramente dalla sua cella, e sentiva che presto avrebbe abbandonato la vita terrena astenendosi da ogni cibo. Mi salutò, dicendomi che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta in cui qualcuno l’avrebbe vista viva. Rimasi molto scosso dalle sue parole. 
Contro ogni previsione, accadde che proprio nel Giorno del Lupo di quell’anno di sciagure, cominciassi a stare meglio. Il nuovo ciclo del tempo coincise con la mia convalescenza. Diminuirono febbri e sudori, e nel giro di dodici giorni fui in grado di riprendere le mie attività. 
Con più folle audacia che buon senno, ripresi a frequentare il laboratorio del dottor Ansinaskar. Non volevo ammettere con me stesso che stavo giocando con il fuoco, che stavo sfidando quegli stessi demoni che molto a malincuore avevano mollato la presa dei loro artigli, lasciandomi indebitamente libero. Non seppi essere grato al Vero Dio della recuperata salute, anzi, sfidai lo Spirito immischiandomi con gente sacrilega e materialista. Fu in una delle prime sedute di quell’anno 1759 che conobbi una bellissima fanciulla. Mi colpì tanto la sua eterea bellezza che decisi di farne la mia sposa. Si chiamava Vlensild, ed era la figlia del Duca di Kutughar. Fui subito attratto dalle sue chiome bionde, lunghissime e lisce, dai suoi occhi cerulei, dalle sue membra delicate ed esili, dal candore marmoreo della sua pelle tanto sottile da lasciar intravedere l’azzurro delle vene. 
Cominciai a corteggiare la nobildonna. Bruciavo d’amore per lei, tanto che ogni giorno senza di lei mi sembrava un supplizio. Contavo di chiederla presto in sposa, anche se non sapevo come far mandare giù questo amaro boccone alla mia famiglia. Tutti erano infatti concordi nel definire il matrimonio meretricio, lupanare infetto e opera di Beylghilflar. L’unione carnale era possibile solo all’interno della stirpe e al solo scopo di trasmettere la Fede dei Ferengal fino alla Fine dei Tempi. Stando a questa logica, avrei dovuto unirmi a una mia cugina o meglio ancora a mia sorella. Era inammissibile un matrimonio d’amore, perché proprio l’amore era riconosciuto come Male Assoluto. Inoltre il padre di Vlensild, il Duca Hasturk, odiava mortalmente i Ferengal, e i suoi antenati ne avevano bruciati vivi molti. La religione dell’eterea Vlensild era quella del Regno Unificato, la ripugnante Om Bohokhrift, ossia un culto idolatra dei demoni e dei vampiri. 
Se avessi continuato nella mia insana passione per una donna della stirpe di Kutughar, discendente proprio dai più feroci carnefici dei miei correligionari, mi sarei macchiato di una tale infamia che sarei stato rinnegato ed escluso dal Sacramento del Fuoco. Persino mia madre mi avrebbe maledetto, e stando ai dogmi dei Ferengal sarei stato dannato in eterno. Come fare? 
Preso in una morsa, scisso e conteso tra le mie necessità e quelle della mia famiglia, non osai prendere la decisione di far morire la cosa sul nascere, come avrei invece dovuto fare. Continuai a blandire la mia adorata, e presto arrivai ad avere da lei il permesso di poterle baciare le mani. Accostare le mie labbra a quella pelle mi faceva quasi svenire dall’emozione: non avevo mai potuto toccare una donna una sola volta in vita mia prima di allora. 
I miei sospettavano che le mie continue uscite notturne nascondessero qualcosa di turpe. Quasi prevedendo un futuro nefasto, mio padre mi ammonì, dicendo che avrebbe ricevuto con minor pena la notizia della mia morte, piuttosto che quella di una mia azione disonesta. Mi disse altresì che se proprio non potevo fare a meno di peccare, meglio sarebbe stato giacersi con una donna prezzolata che con una prostituta legittima: nel primo caso il male non sarebbe durato oltre l’avventura. 
Non diedi ascolto a nessuno di questi saggi consigli e insistei con il mio amore proibito per la figlia del Duca Hasturk. Era una cosa grossa, se appena ci avessi pensato avrei capito che non aveva il minimo senso bramare di unirmi nella carne a lei: sarebbe stato come copulare con l’assassina dei miei cari. 
Il profumo della pelle di Vlensild mi inebriava e mi faceva perdere ogni cognizione. Così accadde che una notte, appena usciti dalla riunione nel laboratorio di Ansinaskar, lei mi prese da parte e mi baciò in bocca. Sentii la sua lingua e la assaporai. Tutto accadde come per automatismo. Lei si spogliò, mostrandomi qualcosa che non avevo mai visto. Non potei resistere. Mi guidò all’atto con mille impudicizie, così fornicai con lei e finii con l’emettere il mio seme nel suo ventre. 
Stavo tornando a casa in carrozza, quando un dolore insopportabile mi annientò. Era come se mi avessero conficcato una lama all’interno della scatola cranica per poi scoperchiarmi e mettere a nudo il cervello. Ebbi la sensazione che un corvo si fosse posato sulla mia fronte per immergere il becco nella materia grigia sanguinolenta. Vedendo in che stato ero, il cocchiere mi sorresse, non senza fatica, e mi trascinò fino al castello. Quello che sarebbe seguito non potevo far altro che accettarlo. 
Sapevo di non poter evitare la riunione di famiglia. Con il mio comportamento stravagante avevo troppo spesso minacciato di valicare i limiti ultimi dei tabù che gravavano sulla mia stirpe. Le mie frequentazioni non erano passate inosservate, così mia madre aveva riunito il parentado al completo per tenermi una predica. Forse mentre ero privo di sensi avevo rivelato qualcosa di cruciale, perché quando entrai nella grande sala, vidi che le espressioni di tutti erano funeree come non le avevo mai viste. Mio zio Gasthn, che era l’Anziano dei Perfetti, mi fissò a lungo. Non leggevo commiserazione nei suoi occhi, ma qualcosa di molto più tremendo. Se fossi morto, in fondo sarebbero stati felici per me: avrei abbandonato l’involucro corporale e avrei potuto conseguire una migliore rinascita. No, quello non era il mio funerale. Mi guardavano come se avessi subìto la Condanna Eterna. 
Mia madre prese la parola. Mi disse, col tono più grave, che quanto avevo fatto era tanto perverso ed infame che nulla poteva purificarmi. Il mio commercio carnale con la figlia di un persecutore comportava una colpa tremenda e rivelava in pieno la mia natura diabolica. Non ero un Figlio della Luce, ma un Figlio di Beylghilflar. Non avrei potuto perciò abitare più nella dimora avita, non avrei più potuto turbare la santità di quei luoghi che avevano dato ai Ferengal tanti Perfetti. Fu così che fui allontanato, ma con tutte le garanzie che il mio rango terreno comportava davanti agli occhi dei principi di questo mondo. Non avrei avuto di che lamentarmi. Mi fu concesso di abitare nel castello di Altoghand e mi fu assegnata una notevole rendita, purché conducessi la mia esistenza lontano dagli altri membri della famiglia. 
Altoghand si trovava oltre un territorio desolato. Era un luogo impervio e isolato, in cui sorgeva un’imponente dimora turrita costituita da enormi blocchi di basalto nero. In passato l’avamposto era servito ai Ferengal come rifugio dalle persecuzioni. La strada per raggiungere la fortezza si prestava a trappole micidiali e poteva essere interrotta in più punti, tagliando fuori ogni tentativo di invasione. Io sapevo i sentieri segreti che mi avrebbero permesso un viaggio relativamente sicuro, evitando le morene e i punti più franosi. In attesa di ultimare i preparativi per il trasloco, andai ad abitare in una locanda che si trovava non lontano dal laboratorio del dottor Ansinaskar. Passò qualche mese senza che potessi rivedere la mia amata Vlensild. Mi fu detto che non stava bene e che il suo augusto genitore le aveva revocato il permesso di uscire come aveva saputo che frequentava il Circolo dei Mesmeristi. 
Sentivo che prima o poi mi sarei imbattuto in un ostacolo insormontabile. Quando finalmente lei si fece viva, una notte in cui il gracchiare dei corvi sembrava rivelare sintomi di natura turbata, per poco non persi i sensi dalla gioia. Mi disse che era fuggita eludendo la sorveglianza delle guardie ducali e che di certo i suoi l’avrebbero presto cercata. Quello che aggiunse mi diede un tremito ancora maggiore. La fornicazione che c’era stata tra noi l’aveva resa gravida. Se l’avessi presa con me, si sarebbe concessa in matrimonio e saremmo vissuti insieme per il resto delle nostre vite. Con il cuore che mi palpitava in gola accettai. 
Andammo in un tempio della religione Om Bohokhrift e giurammo fedeltà reciproca davanti a uno dei suoi stregoni. Una cerimonia riservata che si svolse in gran fretta e col favore della notte per paura che i sicari del Duca potessero rintracciarci. Quando il sacerdote benedisse la nostra unione aspergendoci di sangue sacrificale, potei finalmente baciare la sposa. Sollevai il suo velo nero e accostai le mie labbra alle sue. Ora che la mia Vlensild era incinta avevo un’immane responsabilità. Le credenze ereditate dai miei stabilivano infatti che una donna morta in quello stato sarebbe stata destinata ad ardere in eterno nel fuoco nero degli Inferi. Anche se contemplando i suoi bellissimi occhi e il suo radioso sorriso non potevo credere che quanto asserivano i Ferengal fosse vero, non sapevo trovare un solo argomento razionale per escluderne a priori la possibilità. Pensai che troppe volte le cose più incredibili accadono. Chi l’avrebbe mai detto che le diavolerie faalu del dottor Ansinaskar mi avrebbero reso incerto persino della mia identità? Eppure era accaduto. Non potevo correre rischi. 
Il grigio lucore del giorno iniziava appena a filtrare dalla coltre di nubi chiamata cielo, quando partimmo in carrozza per Altoghand. Non c’era più il cocchiere della mia famiglia, e anche il veicolo non era lo stesso. Mio cugino Khlarn non aveva esitato ad accaparrarsi dei beni tanto importanti, così avevo comperato una carrozza nuova, più modesta ma funzionale, e avevo affittato un conducente tramite il gestore della locanda in cui alloggiavo. 
Il viaggio proseguì per tre giorni e tre notti, con soste limitate al minimo indispensabile per cambiare i cavalli. Raggiunti i confini della pietraia, ci toccò proseguire a piedi. La strada non era abbastanza larga perché un veicolo potesse percorrerla. Mia moglie propose di assoldare una guida, ma io sapevo di non poter rivelare la strada che intendevo percorrere. Se lo avessi fatto, sarei stato costretto ad uccidere la guida una volta arrivati. La cosa mi ripugnava al punto che opposi alla richiesta di Vlensild un netto rifiuto. Le dissi che sarei bastato io per difenderla da ogni insidia, e cha avrebbe dovuto togliersi quel ridicolo abito nuziale che ancora indossava. Lei si limitò a sistemarsi la veste in modo che non desse troppo fastidio e ribatté che avrei dovuto condurla nel castello così addobbata, come da tradizione Om Bohokhrift. Mio malgrado fui costretto a cedere. Nonostante la mia baldanza, dovetti riconoscere che la strada fu lunga e difficile. In certi punti vidi distintamente ombre guizzanti che si agitavano. Mi parve anche di sentire dei versi strazianti che lì per lì non fui capace di interpretare. In ogni caso erano inquietanti e mi fecero venire la pelle d’oca. Non erano lupi, sembravano più felini. 
Mentre procedevamo, meditai amaramente sulla mia breve esistenza. Avremmo dovuto restarcene tagliati fuori dal mondo per molto tempo, e non era garantita la nostra sopravvivenza. A quanto ne sapevo restava nella dimora di Altoghand un solo custode assai in là con gli anni. Non era possibile avere alcuna assistenza medica. Ogni malattia poteva condurci alla morte. Quello che non volevo ammettere era che non avevamo alcuna scelta. Esplorai il mondo alternativo da cui tanto avevo imparato, per vedere se le conoscenze di Edgar Allan Poe avrebbero potuto essermi d’aiuto. Niente da fare. L’Edgar Allan Poe che ero diventato mi evocava una gran quantità di vicende turbinose e confuse. Per quanto potessi capire, il mondo dalle grandi luminarie celesti era più complesso del nostro, ma nella sostanza non troppo diverso. “La stessa gretta miserabile umanità dovunque”, sogghignai sardonico. 
Quando giungemmo al castello di Altoghand sospirai di sollievo. Dopo tanta sofferenza avevamo il nostro nido d’amore a portata di mano. Ci ero stato soltanto una volta, quando ero ancora un infante. Adesso le mura del maniero mi sembravano ancor più scure e minacciose, forse perché la decadenza era nel frattempo proseguita apportando nuove corrosioni. Un muschio grigio nerastro si insinuava dovunque, intaccando i blocchi di roccia, che pure avrebbero dovuto essere incorruttibili. Dovunque volgessi gli occhi notavo asperità lebbrose e rivoli di umidità. 
Percorsi il ponte sul fossato dall’acqua zeppa di fetide alghe. Mi feci coraggio e sollevai il pesante batacchio che serviva ad avvisare della presenza di visitatori. Lo mollai, facendolo cozzare contro una spessa lastra di bronzo che ornava il portone. Il suono rimbombò a lungo, diffondendosi in echi spettrali. Dopo pochi minuti di attesa, il custode venne ad aprire e ci accolse degnamente. 
Presi Vlensild e la sollevai, piegandomi alle costumanze della sua religione. La sua corporatura era tanto esigua che non mi fu difficile farle attraversare la soglia senza toccare terra. Ci rinfrescammo e ci rifocillammo, ma lei non volle sentire ragioni: pretendeva di indossare quell’osceno sudario pagano durante l’accoppiamento. Avrei dovuto spiegarle che tanto, visto che avevano commesso peccato e che lei portava in grembo un demonio, il matrimonio poteva dirsi già più che consumato. Invece assecondai la sua immonda lascivia. Dopo che si fu lavata, si denudò completamente e si rimise l’abito nuziale. Io non vedevo l’ora di possederla. Siccome si trovava in stato di gravidanza, mi pregò di prenderla da dietro, per non urtare troppo i miei preconcetti sulla procreazione. Solo l’idea mi produsse una violenta eccitazione. In cambio la presi di nuovo tra le braccia e la sollevai. Le avrei fatto varcare la stanza nuziale senza il minimo contatto col pavimento. Il custode prese una torcia da una parete e ci fece strada. 
Vlensild non si aspettava che la stanza fosse in realtà una cripta. Era naturale che fosse così: essendo ogni forma di sesso detestata dai Ferengal, doveva essere consumato nel sottosuolo, dove Balagon non avrebbe mai potuto assistere alle sconcezze dei suoi figli caduti dal Cielo. La luce tremolante della torcia illuminava le pareti di quell’inferno ctonio, mettendo in evidenza ogni tanto delle strutture ad arco fatte di mattoni e di calce. Non potevo dire alla mia sposa che lì dentro erano state murate vive delle persone. Quando ero un bambino, mia zia mi raccontava sempre che spesso ad Altoghand si sentivano i lamenti dei morti, anime dannate rinchiuse in recessi angusti per le loro innominabili colpe. Sarà stata la suggestione, ma proprio mentre ci pensavo udii un verso raccapricciante. Adesso lo riconobbi: era l’urlo di un felino rabbioso. 
Chiesi a Vlensild e al custode se avessero sentito nulla, ma loro negarono. 
La camera da letto sembrava in tutto e per tutto un sepolcro. Il grande letto era tutto nero e coperto da un baldacchino dello stesso colore. Ai quattro angoli della stanza c’erano altrettanti sarcofagi in marmo massiccio, ornati da sculture di scheletri grotteschi. Le macabre figure sembravano modellate nel burro, tanta era la maestria con cui erano state intagliate. Dalle orbite dei teschi l’oscurità sembrava irradiare, il nero del marmo era come una lampada che divorasse la luce. Alzai gli occhi al soffitto. Sembrava di essere in un ossario: tutto era stata ricoperto da resti umani ripuliti. Persino i lampadari erano formati da spine dorsali e da decine di teschi deformi. 
Una torcia ardeva ad ogni angolo della camera, assicurando una fioca illuminazione. Non perdemmo tempo. Mia moglie si mise sul letto sulle ginocchia e sui gomiti dopo aver alzato la nera veste nuziale. Mi parve di vedere un’ombra guizzare, ma non ci feci caso. Ero pieno di libidine, così misi allo scoperto la mia virilità e iniziai a possederla come lei desiderava. Ancora quel dannato, indescrivibile verso! Era evidente che l’anziano servitore aveva permesso a qualche gatto di vivere nel castello. Adesso gli infelici animali erano in calore e si dilaniavano. Nonostante la paura e il disagio che quelle bestie mi mettevano, il mio ardore non diminuiva. Vlensild gemeva di piacere. L’indomani avrei dato disposizioni perché quelle bestie immonde fossero cacciate via o uccise. Meglio uccise, conclusi. 
Un rumore nuovo mi vece balzare sul chi vive. Questa volta sembrava che un grande vaso fosse caduto e si fosse rotto in mille pezzi. Ancora i gatti. Accidenti a loro, così non potevo andare avanti. Mi tirai fuori dalla mia adorata e mi incamminai verso l’ingresso. Presi una torcia e mi affacciai al corridoio. Uscii per vedere cosa stava succedendo. Proprio in quel momento accadde la sciagura. Un sibilo intensissimo, come una freccia di acciaio che fendesse l’aria. Poi l’urlo agghiacciante di Vlensild. Fortissimo, senza fine. Entrai e quando vidi ciò che stava accadendo i capelli mi si rizzarono come gli aculei di un istrice. Un piccolo gatto nero come la notte era balzato sul volto di mia moglie, dilaniandolo crudelmente con i suoi artigli affilati come rasoi! Aveva la testa piccolissima, con le orbite scavate al cui interno non si vedevano gli occhi, quasi fossero nere ferite nel bitume. Il corpo inarcato mostrava il pelo eretto, gli artigli scavavano negli occhi e nel volto di Vlensild, che ormai era del tutto cieca. Non riuscivo a reagire, ero paralizzato dal terrore, i muscoli mi erano diventati talmente rigidi che mi sembrava di essermi trasformato in un blocco basaltico. Il felino demoniaco era solido, ma al contempo sembrava che la sua sostanza fosse ombra condensata. Non era un essere naturale! Quando potei assumere di nuovo il controllo sul mio corpo, la mia Vlensild amatissima era stata uccisa. Ciò che seguì, avvenne in una frazione di secondo. Il gatto dell’Inferno girò il muso verso di me, preparandosi a balzare. Non avevo tempo di pensare, scattai e fuggii a precipizio per il corridoio, stando bene attento a non mollare la torcia. Corsi ed urlai fino ad esaurire il fiato nei polmoni. Mi accorsi che il custode non c’era: aveva pensato bene di dileguarsi, o forse Beylghilflar se lo era preso prima di esigere mia moglie in tributo. Le ombre balzavano dietro di me, i versi dei felini crebbero in intensità e in numero. Mi girai per un attimo indietro, solo per vedere la piccola figura di uno di quel mostri catapultarsi a mo’ di proiettile. Aprii un portone e lo chiusi, mentre i miei persecutori si accanivano contro l’inatteso ostacolo. Mi fermai a riposare un po’. 
Proprio quando sembrava tutto finito, con orrore mi resi conto che c’era un altro felino che saliva da una rampa di scale. Mi precipitai in un corridoio laterale, fino a giungere a un vasto salone dove si trovavano le catacombe. Nelle pareti erano scavati molti loculi in cui potei distinguere di sfuggita resti di ossa e di marciume. Il tanfo dei secoli mi avvolse e mi saturò. Come se la mia mano fosse guidata da una potenza soprannaturale, puntai la torcia verso il centro della stanza, scoprendo una botola che conduceva nel sottosuolo. Mi infilai dentro e mossi la pesante lastra quadrata di marmo per occludere il passaggio. Ero in una tomba. Dovetti sdraiarmi, perché non c’era molto spazio. La fiamma morente illuminò i corpi consunti di alcuni uomini rinsecchiti, di cui si erano conservate alla perfezione le barbe canute. Cercai in tasca e trovai qualcosa di molto utile: la cannuccia che mi serviva per inalare i vapori delle erbe aromatiche. Vidi una crepa nei pressi della lastra marmorea e vi infilai la cannuccia, quindi estinsi in tutta fretta il fuoco. Ecco, avevo trovato la mia ultima dimora. Fuori centinaia di felini impazziti cozzavano contro la botola nel tentativo di entrare: non potevano smettere, semplicemente non potevano. 

Così concludo questa narrazione, sapendo che viaggerà a lungo nell’Ade prima di giungere a destinazione. Per quello che mi riguarda, è solo questione di tempo e avrò la Cattiva Fine che mi sono meritato. Nel terrore assoluto, fino all’ultimo. 

Marco "Antares666" Moretti,
pubblicato nell'antologia del concorso letterario Una Penna per Poe (2010), indetto dal blog edgarallanpoe.it e dal sito La Tela Nera. 
L'ebook, non più disponibile, era scaricabile gratuitamente a questa pagina: 

giovedì 19 maggio 2022

I PRIMI CINQUE MINUTI DOPO LA MORTE

Stavo camminando con grande fatica. Affannandomi, seguivo un impervio sentiero montano. Le cime innevate erano incredibilmente cristalline, il sole bucava il cielo sconfinato come una fornace letale di un giallo caustico. Cauterio dello Spirito, quell’astro feriva le deboli retine dei miei occhi. Mi sembrava di essere trafitto da ogni singolo raggio che arroventava il suolo, i fotoni solari trasformati in dardi in grado di bucare la mia fragile epidermide. Ero un lebbroso. Sentivo come corpi estranei gli arti avvolti in spesse bende sporche di pus e di sangue rappreso. Se la malattia fosse ancora peggiorata, sarei stato costretto a nascondere il mio stesso volto all’azzurro: i miei lineamenti erano già molto deturpati, ricoperti di grossi tuberi rossastri. Ognuno di questi schifosi tumori tendeva ad ulcerarsi, spurgando un umore acre che feriva le mie narici. La mia mano sinistra era ormai priva di dita, la destra era tanto rattrappita che a stento riusciva a stringere il bastone da viaggio. In alto, proprio in cima alla montagna più alta, c’era il Castello del Drago. Dovevo raggiungerlo, perché se non avessi supplicato il malvagio Signore dell’Universo, non avrei mai potuto trovare il mio conforto nell’Annientamento. L’unica vera salvezza che potevo aspettarmi: la Morte Totale, la Morte Definitiva. Dovevo fare ancora molta strada per arrivare lassù. Le ore del giorno sembravano non passare mai: il sole era fisso nel Cielo di Luzabel, come l’occhio di un aguzzino ciclopico. Forse proprio quella grande volta di un turchese assoluto era la restaurazione dell’originale Cielo di Vetro, quello che andò in frantumi quando il Drago mosse ai Buoni Spiriti la Prima Guerra Cosmica. I sassi che formavano il sentiero erano acuminati, e di certo avrebbero tagliato i piedi di un comune viandante fino a farli sanguinare. Essendo colpito dalla più immonda elefantiasi, la mia pelle era insensibile come una suola di cuoio. Non di rado mi capitava di scorgere una scia di orribili liquami dietro di me. A un certo punto ho raggiunto un ruscello che scendeva da un pendio roccioso, attraversando il sentiero e disperdendosi in una gola profonda poco sotto. Mi sono fermato un attimo a riflettere. Il sole non era davvero immobile, sembrava piuttosto un frattale brulicante scosso da perenni convulsioni. La sua radioattività mi si riversava addosso, provocandomi un’abbondante sudorazione. D’un tratto mi sono messo in allarme. Ho visto qualcosa muoversi in lontananza. Un animale, non ci potevano essere dubbi, che stava percorrendo la mia stessa strada, ma nel verso contrario, venendo verso di me. Forse stava scendendo direttamente dal Castello. La sua andatura era traballante. Man mano che si avvicinava, potevo distinguere con sempre maggior chiarezza i particolari di quella sagoma che pareva uscita da un incubo delirante. Era un bruco grande come un cane massiccio. Procedeva sugli pseudopodi, contraendo e rilassando la massa delle sue viscere sotto il pingue mantello scarlatto. Aveva sul grosso capo due decorazioni simili a grandi occhi dalla pupilla nerissima. I veri occhi, composti da ommatidi, erano più sotto. Le fauci robuste e scure avrebbero benissimo potuto lacerarmi una gamba e masticare la mia carne in sfacelo. Il dorso gobbo era ornato da ciuffetti di cernecchi neri, mentre ocelli biancastri marcavano ogni segmento del suo addome. Dalla coda, proprio vicino alla regione anale, si protendevano due lunghi flagelli a segmenti bianchi e neri, molli, che si contorcevano senza sosta. Sono stato preso da un acuto conato di vomito. Qualcosa dentro di me mi diceva di distogliere lo sguardo dalla larva scarlatta, ma poi i miei occhi rimanevano immobili, incapaci di sfuggire all’ipnosi luttuosa che li incatenava. Intorno a quel demone l’aria sembrava tremolare. C’erano sciami di piccole mosche che gli ronzavano attorno, attratte dai suoi effluvi pestiferi. O forse i molesti insetti erano attratti dal colore e dalla consistenza del budello, che ai loro sensi era simile a un gran pezzo di carne? Dovevo scappare. Non c’erano dubbi. Se fossi stato raggiunto, sarei stato dannato. Sembrava che una voce senza parole parlasse dentro di me, muovendosi inquieta nelle profondità della mia anima come un uccello svolazzante. All’inizio facevo fatica ad interpretare quei pensieri muti, la cui origine non conoscevo. Poi però, mentre il bruco infernale si avvicinava inesorabilmente, ho saputo per certo che se non mi fossi nascosto, sarebbe avvenuto qualcosa di assurdo e tremendo: i Demoni dell’Etere avrebbero catturato il mio spirito rinchiudendolo nel corpo del bruco, e avrebbero tolto dalle carni larvali la Legione che vi era rinchiusa, dandole possesso sul corpo lebbroso che indossavo. “Via da me, Cane dei Morti!”, mi sono messo ad urlare mentre mi precipitavo dall’unica via di fuga, un pendio franoso. Il suono delle mie parole sembrava estinguersi in un silenzio ovattato, densissimo, poco dopo che era uscito dalla mia gola. È stata una caduta rovinosa, che mi ha provocato diverse fratture scomposte, ma almeno sono riuscito a sottrarmi a un pericolo tanto atroce. Guardavo in alto, fin dove la mia vista poteva arrivare in quello spazio ricurvo. Dovevo essere rotolato per almeno tre miglia sulle rocce. In cima al pendio, il bruco scarlatto si guardava attorno con aria sospettosa ed irritata, contorcendosi, sollevando il capo e la gobba. Qualcosa lo tratteneva dall’inoltrarsi giù per il pendio. Ho immaginato che fosse in qualche modo consapevole che la sua via in una pietraia tanto perigliosa gli avrebbe arrecato ferite mortali. Poco dopo la ripugnante larva si è ritratta dal bordo del dirupo ed è scomparsa alla mia vista. Una cosa era certa: non potevo sperare di tornare da dove ero venuto. Davanti a me c’era una grande cavità che sembrava essere stata scavata nelle pareti rocciose di una montagna dallo scalpello di un gigante. Una corrente fragorosa di acqua gelida si rovesciava nell’Abisso, scaturendo da una ferita nel fianco dell’altura che mi stava di fronte. Una strana salsedine giungeva fino a me, facendomi bruciare le ferite e le piaghe. Cosa potevo fare in quella circostanza davvero singolare? Al solo pensiero di muovermi, una stanchezza mortale mi colpiva. Sentivo un terrore sordo, assoluto, alla sola idea di gettarmi nella corrente che conduceva in un inconoscibile universo ctonio. L’unica alternativa era rimanere lì al mio posto, a lasciarmi uccidere dagli spietati strali del sole assassino. Mentre giacevo in quel luogo, meditando questi pensieri, mi sono accorto di qualcosa che prima non avevo notato. La mia vista si era espansa in modo incredibile, riusciva a cogliere dettagli che non avrei mai ritenuto possibile notare. Ma da questa nuova visione delle cose non ho avuto nessun giovamento. Mi sono accorto che l’intera realtà che mi teneva prigioniero era composta da un microscopico frattale di minuscoli vermi, intrecciati e brulicanti in un numero talmente grande da non poter neppure essere contato in un milione di eternità.

Marco "Antares666" Moretti

martedì 12 aprile 2022


CONFUTAZIONE DEL LIBRO
DEL BATTESIMO DI FUOCO 

Un singolare falso di origine massonica, presentato come Regola Segreta dei Cavalieri Templari, circola da qualche secolo. È noto come Libro del Battesimo di Fuoco o Regola Segreta; il titolo completo è Il Libro del Battesimo di Fuoco o riguardo gli Statuti segreti redatti per i Fratelli dal Maestro Roncelinus. Incredibile a dirsi, qualcuno lo ha anche preso sul serio. Lo stesso Runciman, ottimo autore, sembra che l'abbia ritenuto autentico e che abbia pubblicato un libro sull'argomento. Questo a dispetto delle gravi inconsistenze che la Regola in questione contiene. 

Il testo fu ritrovato negli archivi del Vaticano verso la fine del XVIII secolo da Friederich Münter, il vescovo cattolico di Copenhaghen (alcuni riportano nel 1780, altri nel 1794). In quell'epoca la Massoneria fioriva, e documenti di questo tipo venivano chissà come alla luce un po' dovunque. La Regola non mi è nota nella versione originale in latino, ma soltanto in alcune sue traduzioni reperibili in rete, compilate in inglese, in francese moderno e in castigliano. Tuttavia, va notato che queste diverse versioni sono congruenti: in alcuni casi saltano all'occhio grossolani errori di trascrizione che fanno pensare ad un'unica fonte.

Il Libro del Battesimo di Fuoco sarebbe opera di Matthieu de Tramlay e di Robert de Samfort, Procuratore del Tempio in Inghilterra. Secondo quanti lo reputano autentico, dovrebbe risalire al XIII secolo. È diviso in due parti, una formata da 31 articoli e l'altra da 20. La prima parte è la Regola dei Fratelli Eletti (firmata Matthieu de Tramlay), datata 1205, mentre la seconda è la Regola dei Fratelli Consolati (firmata Robert de Samfort), datata 1240. 

Cominciamo ad analizzare il titolo dell'opera. Chi è il Maestro Roncelinus? Il nome è una latinizzazione di Roncelin de Fos. Questo personaggio vive una vita spettrale nel fantomatico cosmo della Disinformazione. Scarse le sue attestazioni in documenti autentici dell'epoca, è poco più di un nome, un capro espiatorio che vegeta rivestito di pixel negli antri cyberspaziali. Mentre è arduo trovare notizie di questo nobile negli archivi, è oltremodo facile imbattersi in una sua menzione in un qualsiasi sito misteriologico.

Secondo la versione più comune, questo Roncelin sarebbe stato testimone degli orrori della crociata di Simon de Montfort, in particolare al massacro di Béziers e alla battaglia di Muret, e avrebbe quindi maturato la convinzione che ad avere la Verità non fosse la Chiesa di Roma, ma la Chiesa Catara. Avrebbe allora cominciato ad importare nell'Ordine Templare gli insegnamenti dei Buoni Uomini. Quest'ipotesi sarebbe tra l'altro difficile da sostenere, dato che anche se si reputasse genuina la Regola degli Eletti, questa sarebbe stata redatta qualche anno prima del bando stesso della nefasta crociata. Siccome sembra che Roncelin de Fos sia nato nel 1198, così quando Montfort cominciò la guerra avrebbe dovuto avere undici anni!  

Dato che molti reputano il documento come la prova del nesso tra Templari e Catari, è necessario passarlo al vaglio. Evidenziamo i punti più contraddittori della Regola degli Eletti.

L'articolo 10 afferma: "Saranno esclusi rigorosamente i discendenti di Arefasto, servitore del Duca di Normandia Riccardo II, che, per suo tradimento, ha causato il martirio di Stefano e di Lisoio a Orléans: chierici o laici, che essi siano esclusi dalla Fratellanza degli Eletti fino alla settima generazione."

I fatti ai quali allude l'articolo 10 sono avvenuti nel XI secolo. Per saperne di più si rimanda all'articolo "Lo strano caso dei Canonici di Orléans". Orbene, se ammettessimo per vero questo testo, dovremmo dedurre che tra i Templari sopravviveva proprio la setta dualista di Stefano di Orléans. Purtuttavia ci sarebbe da chiedersi come mai la Regola non escludesse anche i discendenti del Duca di Normandia e del Re Roberto il Pio che aveva materialmente ordinato il martirio dei Protocatari in questione. Sarebbe anche interessante capire come mai di tutti gli assassini macchiatisi dell'uccisione di Buoni Uomini, soltanto questi meritassero l'interdetto. Visto che il pronipote di un compagno di Ugo di Payns ha perseguitato con ferocia i Catari di Reims nel XII secolo, sembra come minimo profilarsi una certa incoerenza.

L'articolo 11 afferma: "Rituale di ricevimento degli Eletti: giuramento di custodire il segreto dell'Ordine, la minima indiscrezione sarà punita con la morte. L'Iniziatore bacerà successivamente il neofita sulla bocca, per trasmettergli il soffio, sul plesso sacro, che comanda la forza creatrice, sull'ombelico, e infine sul membro virile, immagine del principio creatore maschile."  

Tutto ciò è incompatibile con il Catarismo, che reputa ogni giuramento malvagio, e che identifica nel principio creatore della sessualità il Male Assoluto. Già Stefano di Orléans e Lisoio vedevano nella carne e nella sua generazione la radice dell'universo di Satana, quindi se ammettiamo per vera la Regola, dobbiamo ammetterne anche l'insostanzialità.

Gli articoli 12 e 13 sono di stampo docetista: si afferma che Cristo non è nato, né morto né resuscitato, e si prescrive il calpestamento della croce. Eppure l'articolo 14 definisce Cristo "Figlio di Maria" in netto contrasto con il dogma cataro. Dio viene definito Creatore. Inoltre si afferma: "Noi pieghiamo le ginocchia davanti al Padre di Tutto, dal quale viene la paternità del Cielo e della Terra". Sembra una riedizione del Simbolo di Nicea, che definisce Dio creatore del Cielo e della Terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Il Catarismo invece afferma che Dio creò le cose visibili al cuore e invisibili agli occhi.

L'articolo 22 afferma: "È inutile digiunare. Il Templare è esentato dalla quaresima e dagli altri digiuni, ma deve stare attento a non scandalizzare altre persone. Tutto è puro per i puri. Mangiate la carne e ringraziate Dio che vi dona l'abbondanza."  

In questo passo della Regola si rilevano forti influenze del Libero Spirito a proposito del consumo di carne: inutile far notare che tale impostazione è assolutamente incompatibile con il Catarismo. Come si può vedere, queste prescrizioni ricalcano come se fossero fotocopie le dottrine di Amalrico di Bène, quando affermano che tutto è puro per i Puri. Quanto diversa è l'impostazione ideologica rispetto a quanto affermavano i Buoni Uomini! Se per i Catari è inutile che un semplice credente digiuni, per chi ha ricevuto il Consolamentum l'astinenza dalla carne vale sette giorni su sette. Inoltre la dottrina catara afferma che è inutile pregare o ringraziare il Vero Dio per l'abbondanza terrena, perché è Satana che genera il cibo per nutrire il corpo degli uomini.

L'articolo 24 menziona ancora Stefano di Orléans e Lisoio: "Se voi passate da Orléans, andate piamente verso le mura della città dove i gloriosi martiri della Scienza Divina, Stefano e Lisoio, assieme ad altri dieci figli dei nostri Padri, sono stati cremati su ordine del Re, Roberto il Pio, e dei vescovi."  

Quegli stessi Protocatari condannavano il consumo di carne. La loro Scienza Divina era la stessa identica predicata e messa in pratica dai Catari di Reims, non si vede cosa potesse distinguerli.

L'articolo 25 cita Tertulliano, che condannava Marcione e ironizzava raccomandandogli di lasciarsi morire di fame per curare il suo orrore verso il mondo materiale. "Noi laici, non siamo noi stessi dei preti?" Ma per i Catari è il Battesimo di Spirito che fa il Cristiano, mentre il credente è sotto il potere di Satana. Non si capisce perché questi Templari Eletti, se la loro fede fosse davvero stata catara, avrebbero citato Tertulliano, nemico della Conoscenza del Bene, e negato la struttura stessa di ogni società dualista.

L'articolo 28 parla dei libri che la Biblioteca del Tempio deve possedere, citando tra questi gli scritti di Amalrico di Bène, a conferma del già citato articolo 22, e le ritiene "tesori di saggezza". Nessun Buon Uomo avrebbe questa opinione di una qualsiasi opera panteista.  

Passiamo alla Regola dei Consolati.

L'articolo 5 dice: "Voi che siete il vero Tempio di Dio, costruito sulle fondamenta della saggezza e della Santità antiche, sappiate che Dio non fa alcuna differenza tra le persone: Cristiani, Saraceni, Giudei, Greci, Romani, Franchi e Bulgari, perché ogni uomo che prega Dio è salvo."

Il Catarismo afferma il contrario: esiste Salvezza solo nella Chiesa di Dio tramite il Consolamentum. Solo i Catari sono salvi, mentre gli altri o sono demoni (dannati in eterno) o sono esseri umani privi della Conoscenza del Bene (che quindi trasmigreranno finché non rinasceranno Catari). Solo i Buoni Uomini possono recitare il Pater, mentre i non consolati e i cattolici che lo fanno sono in peccato mortale.

Per l'articolo 7, "A voi che siete Santi, tutto è permesso. Nonostante ciò, non dovete abusare di questa licenza."

Questa è ancora una volta dottrina del Libero Spirito, non Catarismo. Un Buon Uomo perde il Consolamentum se rompe un uovo, se si masturba o se ingerisce anche una minima particella di carne. Invece un Templare Consolato sembra che possa abbandonarsi ai piaceri carnali essendo immune dal peccato, proprio come affermava Amalrico di Bène.

L'articolo 8 dice che "Ci sono Consolati in ogni parte del mondo", e cita tra questi "i Buoni Uomini di Tolosa, i Poveri di Lione, gli Albigesi, quelli di Verona e di Bergamo, i Bajolesi di Galizia e di Toscana, i Begardi e i Bulgari".  Inoltre sostiene che "Là dove costruirete grandi edifici, fate i segni di riconoscimento e troverete molte persone istruite da Dio e dalla Grande Arte."

Costruttori, segni di riconoscimento, Grande Arte, siamo in pieno dominio massonico. Sorvoliamo pure sul fatto che Valdesi e Fratelli del Libero Spirito non sono affatto Consolati e le loro dottrine non equivalgono affatto a quella dei Buoni Uomini.

Il rituale del Consolamentum descritto nell'articolo 13 è molto fantasioso e non ha nulla di cataro. Si prescrive la recita di un'antifona tratta dal Deuteronomio, che notoriamente era ritenuto dai Buoni Uomini un testo diabolico. Il giuramento di silenzio, obbedienza e fedeltà è pur sempre un giuramento, e in questa forma non avrebbe mai potuto essere pronunciato.

Articoli 14, 15 e 16: "La prima preghiera è quella di Mosè: Magnificetur, fortitudo Domini..., seguita dalle parole: Dixit que Dominus vivo ego et implebitur gloria Domini universa terra. Quindi il Precettore tagli un pelo della barba, dei capelli e l'unghia dell'indice destro del neofita, dicendo: Servi Dio, e soffrirai più nel tuo cuore che nel tuo corpo in segno dell'Alleanza di Dio con lo Spirito dell'uomo".

Per i Catari Mosè era un demone. Il concetto di Alleanza implica un patto tra forze tra loro incompatibili perché di diversa origine. In questo senso si parla dell'Alleanza tra un popolo della terra e il Dio Straniero (Iehova Satanas).

Naturalmente non poteva mancare qualche menzione di Baphomet. "La terza preghiera detta di Baphomet è quella di apertura del Corano, che porta il nome di Fatiha". L'ipotesi sposata dall'autore del manoscritto è quella che identifica Baphomet con Maometto. Allora come mai si usa la forma alterata del suo nome mentre si riporta correttamente la parola araba Fatiha?  

L'articolo 18 afferma in buona sostanza il Principio della Convergenza delle Fonti Dottrinali, su cui si fonda l'esoterismo massonico: "Il neofita è condotto agli archivi dove gli si insegna la Scienza Divina, di Dio, di Gesù Bambino, del vero Baphomet, della Nuova Babilonia, della natura delle cose, della Via Eterna della Grande Filosofia, Abrax(as) e i talismani."

Curioso è l'articolo 19, che parla esplicitamante dell'Alchimia: "È proibito nelle case in cui tutti i Fratelli non sono Consolati o Eletti di lavorare certi materiali mediante la Scienza Filosofica, e dunque di trasformare i metalli vili in oro e in argento."

Sembra davvero poco credibile che i Cavalieri del Tempio fossero interessati alla fantomatica Pietra Filosofale: l'idea di Templari alchimisti sembra molto più consona all'immaginario del XVIII secolo.

Il testo della Regola è intessuto su anacronismi, incoerenze e luoghi comuni vetusti. Ha in altre parole tutte le caratteristiche di un falso storico di bassa qualità. 

Il nesso tra Catari e Templari è illusorio.  

mercoledì 6 aprile 2022


I TEMPLARI, IL BAPHOMET E LA SINDONE 

Un articolo sui Templari è apparso recentemente sui quotidiani, recando un sunto degli studi di una studiosa vaticana che ha libero accesso agli archivi segreti della Chiesa di Roma: Barbara Frale. L'idea portante - da lei presentata come una sconvolgente scoperta - è l'adorazione tributata dai Cavalieri del Tempio a un manufatto di incerta origine, già tacciato di falso dalle autorità ecclesiastiche non appena la sua esistenza è stata resa manifesta: la Sindone

Secondo questa ipotesi, il famoso idolo barbuto denominato Baphomet e presumibilmente oggetto di culto da parte dei Templari altro non sarebbe che il dubbio sudario custodito oggi a Torino (dagli anglofoni noto appunto come Shroud of Turin). Eppure la stessa Frale non può nascondere che l'identificazione con la Sindone era già stata fatta nei tardi anni settanta del novecento, da parte di uno studioso di nome Oxford Ian Wilson. Aggiungo che tale ipotesi è stata subito bollata come pseudoscienza, così come al reame della fantasia sono state assimilate molte altre proposte. Q
uindi la storica del Vaticano non ha inventato proprio nulla: ha solo attinto a materiale preesistente datato di almeno un ventennio, e per giunta neppure di buona qualità. 

L'immagine più diffusa del Baphomet è quella che lo identifica con il Capro di Mendes, una divinità egizia connessa con la fertilità. Non c'è alcun fondamento storico per questa iconografia: si tratta del frutto della fantasia del massone Eliphas Lévi in pieno XIX secolo. Fu nel suo Dogma e rituale dell'alta magia, edito nel 1845, che questo autore produsse un'immagine di questa divinità ermafrodita cornuta dal vello nero. I suoi attributi sono densi di significati esoterici, basti pensare alle ali, alla torcia fallica sulla fronte, alla posizione delle mani. Non c'è nulla di tutto questo che abbia la benché minima connessione con i Templari; tra l'altro le fonti dell'epoca non alludono mai a corna, ma solo al fatto che si trattava di una testa barbuta. 

Le etimologie proposte per il nome Baphomet sono tante, una più assurda dell'altra. Ne citerò soltanto alcune. Friedrich Nicolai, un libraio tedesco, ha collegato il nome al verbo greco che significa 'immergere' e che è anche l'origine della parola 'battesimo'. In questo caso resterebbe in ogni caso un residuo suffisso -met, inanalizzabile. Invece Elipas Lévi sostenne un anagramma da un fantomatico TEM.O.H.P.AB, che starebbe per Templi omnium hominum pacis abbas (ossia 'Abate del Tempio della Pace di tutti gli uomini'). Alesteir Crowley, che in preda all'esaltazione orgiastica aveva assunto Baphomet come epiteto, arrivò a proporne l'origine da una frase bizzarra da lui inventata e tradotta come 'Padre Mitra'. 

Qualcuno afferma che Baphomet derivò dalla pronuncia popolare del nome Maometto, di cui si registrano molte varianti, dal veneziano Malcometto fino all'inglese Mahound, ora usato soltanto in Scozia. Esiste però una difficoltà. Com'è risaputo, l'Islam è una religione che rifiuta il culto delle immagini, al punto che rappresentare Maometto è assolutamente vietato ai suoi fedeli. Tra i musulmani non c'è mai stato un culto dell'immagine di Maometto, né dipinta né scolpita. I fautori di questa origine del Baphomet affermano che Filippo IV di Francia considerava del tutto irrilevante questo fatto: a lui importava solo inculcare l'idea che i Templari avessero tradito la Cristianità per servire segretamente l'Islam, insozzando così la loro integrità morale. 
 

Se inseguire un manufatto a forma di testa non ci porta da nessuna parte, le cose non vanno meglio con l'immagine impressa su telo. Stando sempre al racconto della Frale, "I Templari si procurarono la
sindone per scongiurare il rischio che il loro ordine subisse la stessa contaminazione ereticale che stava affliggendo gran parte della società cristiana al loro tempo: era il miglior antidoto contro tutte le eresie"

Inizierei col mettere i puntini sulle i, precisando che soltanto il Catarismo nega la corporeità di Cristo. Le altre forme di dissidenza religiosa note all'epoca, come il Valdismo, affermano la natura carnale del corpo di Cristo esattamente come fa la Chiesa Romana.
L'idea della Sindone come 'antidoto' all'eterodossia non regge affatto, anche perché per un cataro un idolo è soltanto il Nulla. Nessun docetista si convertirebbe all'idolatria vedendo l'immagine di un uomo barbuto stampata su un telo, e nessun cattolico di una certa levatura avrebbe bisogno di un idolo per dimostrare la sua teologia. Siamo ai livelli degli strani racconti sulla mummia di Cristo che si trovano nella Rete. 

Se i Templari avessero avuto tutto questo terrore dell'eresia, difficilmente avrebbero mantenuto una posizione di neutralità nei confronti dei Catari, ma anzi avrebbero partecipato attivamente alla crociata di Montfort. 

Non contenta, la Frale insiste. Aggiunge che "L'umanità di Cristo che i catari dicevano immaginaria, si poteva invece vedere, toccare, baciare. Questo è qualcosa che per l'uomo del medioevo non aveva prezzo". 

Incredibile. Forse nessuno ha detto all'autrice che anche i Catari dei secoli XIII-XIV erano uomini del Medioevo?  

Inoltre vale la pena di riportare che nel 1353 la Sindone fu esibita a Lirey, in Francia, da Goffredo di Charny. Il vescovo di quella regione ne fu scandalizzato e ordinò subito un'indagine. Risultato: fu stabilito che il telo era un falso ed è anche riportato che il vescovo riuscì a contattare il suo autore! Non dimentichiamoci che i Sudari di Cristo proliferavano, tanto che ci sono notizie di una quarantina di reliquie di questo tipo. Come distinguere un vero dai tanti falsi? Impossibile. Tant'è che calmatesi le acque, Goffredo di Charny rimise in mostra l'idolo, provocando una nuova inchiesta, con lo stesso esito. Gli ecclesiastici dell'epoca avevano le idee più chiare di quelli odierni? Si direbbe di sì. D'altronde spopolavano anche i prepuzi rinsecchiti detti reliquie della Circoncisione di Gesù. Bisogna credere che simili contraffazioni costituissero un antidoto al Catarismo? Lascio al lettore le conclusioni. 

In contrasto stridente con l'idolatria della Sindone è il rituale eminentemente docetico del calpestamento del crocifisso. Difficile negare l'esistenza di questa strana pratica richiesta alle reclute dei Templari. La
Frale propone un'interpretazione goliardica del rituale, assimilandolo persino a un atto di nonnismo malinterpretato e ingigantito. La cosa è tanto assurda che non vale nemmeno la pena di sforzarsi a deriderla: la verità è su queste basi la studiosa non può dare una spiegazione consistente con le sue premesse.   

D'altro canto, si può smentire con certezza l'appartenenza dei Templari al Catarismo. Se ci fosse anche stata l'ombra di un sospetto, i nemici dell'Ordine avrebbero sicuramente colto l'occasione. L'inquisitore Bernardo Gui, che studiò approfonditamente la distruzione del Tempio, non menziona mai una sola traccia del Catarismo - e se avesse avuto anche solo una mezza idea della presenza di Catarismo tra i Templari l'avrebbe certamente menzionato nella sua opera (non dimentichiamoci che i Domenicani sono molto precisi). 
Si deduce quindi che il calpestamento del crocifisso, pur di essenza docetica, doveva avere un'origine diversa. Ritorneremo su questo affascinante argomento.  

In buona sostanza, concordo con la Frale soltanto su una cosa, che il 99% di ciò che si dice sul Tempio è spazzatura. Comprese molte cose che lei afferma.
Non so ancora dire quasi nulla in positivo a proposito della strana vicenda dei Templari, mentre non riesce difficile confutare assurdità dette da altri. 

Meditando su tutto ciò si arriva a una conclusione desolante: il destino più orribile dei Poveri Cavalieri di Cristo non furono le torture e i roghi, ma la caduta del loro nome nell'abisso della Disinformazione. Che il Dio dei Buoni Spiriti protegga la Conoscenza del Bene e la Chiesa dei Buoni Uomini da un simile fato. 

(Il Volto Oscuro della Storia, 13 aprile 2009) 

lunedì 4 aprile 2022


I TEMPLARI E IL GIOVANNISMO 

Una delle ipotesi più strane formulate nel tentativo perennemente vano di spiegare il mistero dei Templari, è quella che li collega al Mandeismo o Giovannismo. Secondo alcuni studiosi o sedicenti tali, tra cui si annoverano anche i famigerati Leigh e Baigent, i Poveri Cavalieri di Cristo sarebbero in qualche modo venuti in contatto con i Mandei in Mesopotamia e ne avrebbero assunto segretamente la religione. In altre parole, questa interpretazione ammette che i Templari avrebbero praticato una forma di Gnosticismo non connesso con il Catarismo. 

I Mandei, chiamati anche Cristiani di San Giovanni, sono i soli eredi diretti degli Gnostici ancora viventi alla luce del sole. Essi continuano di generazione in generazione una religione di tipo gnostico sicuramente antica: alcuni pensano che vi aderisse già il padre di Mani. Documentati nel III secolo dopo Cristo, i Mandei sono qualcosa che lega il mondo antico a quello odierno attraverso una linea di successione autentica e ininterrotta. A differenza dei Neognostici, che hanno ripreso insegnamenti antichi leggendoli sulla carta. 

Si devono tuttavia fare alcune precisazioni di importanza capitale. Il Mandeismo è molto diverso dalle altre forme di Gnosticismo antico, al punto che qualcuno ha formulato l'idea che si tratti di uno Gnosticismo non cristiano, poi cristianizzato solo in superficie. 

Il Mandeismo non è propriamente anticosmico. Sostiene sì che il mondo materiale è opera dello Spirito delle Tenebre, Ruha, ma ammette anche che l'anima dei morti fa ritorno alla Luce subito dopo la morte, in modo quasi automatico. Il rito fondamentale di questa religione è il Battesimo d'Acqua di Giovanni il Battista e non vi esiste invece alcun equivalente del Battesimo di Fuoco o di Spirito. Infatti il Mandeismo è  chiamato anche Giovannismo proprio per il ruolo centrale di Giovanni il Battista. I Mandei si battezzano più volte nella loro vita nelle acque di un fiume sacro, che nella loro lingua aramaica è sempre chiamato Giordano. Propugnano il matrimonio come unione carnale, e sostengono anzi  che nessuno può salvarsi se non ha contratto tale vincolo - in netta opposizione con le religioni dualiste anticosmiche. Il ciclo delle rinascite lo credono una maledizione riservata a chi muore senza essersi sposato. Questa condanna del celibato, ritenuto peccato, dimostra in modo irrefutabile la lontananza dalla teologia catara. Non è ammesso il proselitismo: per diventare Mandei occorre avere almeno un parente che lo sia per nascita. 

I Mandei non solo non ammettono un Cristo venuto sulla Terra, ma addirittura lo considerano malvagio e incarnato. Chiamano questo uomo, Ishu Mshiha (Gesù Terreno), un impostore: dicono infatti che fu crocifisso realmente nella corpo terreno e contrapposto allo Spirito di Luce, Manda d-Haiye. Secondo la tradizione mandea, Cristo sarà smascherato alla fine dei tempi dall'angelo Anosh Uthrà, identificabile con l'Enoch biblico. Egli "accuserà Cristo il romano, il mentitore, figlio di una donna che non
è dalla luce" e "smaschererà Cristo il romano come mentitore; egli sarà legato dalle mani dei giudei, i suoi devoti lo legheranno e il suo corpo sarà trucidato"

Questa avversione per Cristo si adatterebbe alla perfezione alla pratica del calpestamento del crocifisso ricorrente tra i Templari.  Per rendere più verosimile l'ipotesi, Baigent e gli altri citano alcune testimonianze del rifiuto di Cristo. Alcune frasi, che sarebbero state pronunciate durante la cerimonia di iniziazione, sono ad esempio riportate nel libro Il Santo Graal di M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln, edito da Arnoldo
Mondadori Editore S.p.A.: 

"Tu credi erroneamente, perché egli [Cristo] è in verità un falso
profeta. Credi soltanto in Dio nel cielo, e non in lui". 

"Non credere che l'uomo Gesù, crocifisso dai Giudei in Outremer, sia
Dio e possa salvarti" 

"Credi solo in un Dio Superiore" e "Non riporre grande fede in questo
[Cristo], perché è troppo giovane". 

Se devo essere franco, non ho molta fiducia nell'attendibilità di questi documenti. Non riuscendo a trovarne traccia da nessuna parte, se non appunto nell'opera di Baigent, attendo che qualche esperto che ha più conoscenza di me mi illumini. Fino ad allora, sarò propenso a ritenere questo materiale falso e costruito ad hoc per dimostrare la tesi del Giovannismo templare. 

Il problema è che non si capisce come il Mandeismo sia potuto passare nel Tempio, visto che è una religione priva di attività missionaria. Dovremmo pensare all'esistenza di un mandeo eterodosso entrato nelle file dei Templari per poi spargere tra di loro una religione mandea modificata - cosa di cui non esistono documenti e che appare di per sé molto improbabile. 

Chi accetta l'interpretazione giovannita della dottrina occulta dei Templari, identifica il Baphomet con la testa di Giovanni il Battista. Il problema è che non si ha nessuna documentazione di un rito battesimale mandeo tra i Poveri Cavalieri di Cristo. Nessuno afferma che essi propugnassero forme di anabattismo, né tantomeno che ripetessero un battesimo d'acqua più volte in un anno. Non risulta neppure che avessero un particolare culto per Giovanni il Battista. 

Ammettendo l'ipotesi di una dottrina templare occulta, si dovrebbe sperare di trovare le prove di una forma di religione finora ignota che spieghi alla perfezione tutti i fatti documentati. Comunque la si metta, non si riesce ad avere che una visione sfocata dell'argomento,
soprattutto perché gli accademici rimangono chiusi nella loro torre d'avorio ed evitano con cura di cimentarsi in un'ardua battaglia contro le forze della Disinformazione. 

sabato 2 aprile 2022


 
L'INSIDIA DEI FALSI STORICI NEOTEMPLARI:
IL CASO MALNIPOTE

La carenza di informazioni può essere meno problematica della loro sovrabbondanza, perché spesso queste risultano essere fondate sul nulla. Se la Rete rende agevoli le ricerche, introduce al contempo grandi incertezze, perché così come si può condividere un'informazione vera, è altrettanto agevole e immediato pubblicare falsità. Tra i tanti, a farne le spese sono i Catari e il Tempio, forse a causa dell'alone di mistero che li circonda. Soprattutto sui Cavalieri Templari si trova una pletora impressionante di falsi storici non sempre grossolani, al punto che è davvero difficile districarsi per ogni navigatore che voglia accrescere la propria conoscenza.

Mentre discutevamo sul controverso argomento dei rapporti tra i Buoni Uomini e i Templari, io e la carissima amica Krak abbiamo scoperto in diversi siti una corrispondenza tra da Roncelin (Roncelinus) de Fos e Richard de Vechiers, entrambi Poveri Cavalieri di Cristo. Vale la pena di analizzare queste lettere, perché sembra che abbiano incuriosito e tratto in inganno diverse persone. Tutte le informazioni disponibili concordano nel collocare il carteggio e in una biblioteca nota come Fondo Malnipote, aggiungendone a volte anche un codice identificativo. La traduzione, non si sa se dal latino o dal francese antico, è ascritta a Opizzo Malnipote, mentre uno studio sui testi in questione è a nome di un certo professor Umberto Cardini. 

Riporto i testi in versione integrale:

MANOSCRITTO 1

A Richard de Vichiers da Roncelin de Fos

Mio caro fratello in Cristo,
qui ad Acri, posso oggi scriverti per riferirti il successo della missione che mi affidasti il giorno della nascita del Nostro Signore nell'anno 1243 quando il diacono dei Buoni Uomini, Pierre Bonnet, giunse alla nostra Casa e chiese il nostro aiuto per proteggere il loro Tesoro. Tu mi affidasti l'impegno di accompagnare e scortare le Buone Dame e la loro Reliquia al nostro Tempio e consegnarla segretamente a tuo fratello. Partii la sera stessa dalla nostra casa di Pieusse e fui guidato dal Buon Uomo Bonnet fino alla grotta fortificata di Niaux, dove protette da un Buon Uomo trovai sette Buone Dame. La notte stessa ci separammo: mentre i due Buoni Fratelli continuavano il loro cammino per nascondere il resto del loro tesoro, le dame viaggiarono, protette da me, su un carro con la Reliquia di Giuseppe. Seguendo il tuo suggerimento, per confondere gli eventuali inseguitori non ci dirigemmo verso i nostri porti del Mediterraneo ma andammo fino a La Rochelle dove ci imbarcammo per Bari; ritenni infatti più prudente sbarcare in Terra Santa proveniente dalla Sicilia e non dalla Francia. Alcuni mesi dopo, nonostante la tragica notizia della  caduta di Gerusalemme decidemmo di imbarcarci da Bari per la Terra Santa ma quando sbarcammo ad Acri sapemmo della tragedia: un mese prima le forze cristiane erano state massacrate a La Forbie, dove perì anche il nostro Gran Maestro Armand, che Dio lo abbia in gloria; la speranza di recuperare Gerusalemme era perduta. Arrivato, fortunatamente, seguii di nuovo il tuo consiglio: invece di rivolgermi al Gran Maestro mi rivolsi direttamente a tuo fratello Renaud e questi, quando seppe di cosa si trattasse, mi fece giurare di non farne parola al nuovo Gran Maestro, Richard de Bures, uomo molto amico (e secondo tuo fratello prezzolato) del signore di Tiro, Filippo Montfort, nipote di quel Simone che sta combattendo contro i Buoni Uomini. La crociata contro il conte di Tolosa, mi spiegò tuo fratello, è stata scatenata da forze malvagie per impossessarsi della Reliquia di Giuseppe e tuo fratello sospetta addirittura che la nomina del Gran Maestro sia stata favorita da queste forze per recuperare altri potenti oggetti che noi Templari proteggiamo, custodiamo e nascondiamo dai nemici perché non siano rivelati prima dall'ora designata. Tuo fratello si rivolse invece ad un altro fratello, Guillaume de Sonnac, di cui aveva assoluta fiducia; la tremenda situazione in cui si trovano oggi i cristiani sotto gli attacchi di Satana è dimostrata dal fatto che tuo fratello decise, con l'avvallo di Guillaume, di chiedere aiuto agli infedeli, ai seguaci del Saggio della Montagna. Per calmare i miei scrupoli per questa alleanza con i nemici, non solo mi convinse che il Saggio era più amico nostro che il Montfort, ma mi mostrò un documento straordinario: in esso il nostro fondatore racconta che alla sua morte il Saggio della Montagna gli aveva inviato un sigillo di grande potere magico chiedendogli di nasconderlo e proteggerlo dai seguaci di Satana; perplesso il nostro fondatore era partito per la Francia per consegnarlo al santo uomo che ha redatto la nostra regola. Ma il santo abate ebbe parole di onore per il Saggio e ordinò al nostro fondatore di custodire questo oggetto. Sappi che il sigillo e la documentazione alla morte del nostro Gran Maestro Armand, che Dio lo abbia in gloria, sono stati nascosti da tuo fratello e da Guillaume che temono le trame del Montfort. Tale sono gli intrighi di Satana che per difendersi bisogna essere "prudenti come serpenti". I seguaci del Saggio della Montagna, contattati da tuo fratello accompagnarono lui, me e le sette Buone Dame fino alla Valle di Mosè. Lì vidi una meraviglia che mi lasciò senza fiato: una montagna in cui sono stati scolpiti e scavati templi e palazzi e chiese e tombe. Lì i seguaci del Saggio ci guidarono ad un altare scavato sul fianco della montagna sulla cima del quale era inciso un simbolo che ti disegno:

(Il disegno è quello del simbolo dell'infinito; ognuno dei due cerchi contiene il simbolo di un otto; ognuno dei quattro cerchi degli otto contiene un punto spesso. N.d.E.)

I seguaci del Saggio ci mostrarono come l'altare può aprirsi: è necessario introdurre contemporaneamente in ognuno dei quattro buchi al centro dei cerchi un medaglione dalla foggia curiosa. Consegnarono quindi una di queste chiavi a ciascuna delle sette Buone Dame che deposero nella tomba la Reliquia di Giuseppe. Voglia Dio che resti per sempre nascosta e protetta dagli attacchi di Satana fino all'ora designata per la sua rivelazione, nonostante una possibile minaccia. Una delle sette Buone Dame fu infatti catturata dal signore di Tiro e torturata a morte, che Dio abbia pietà della sua anima. Il signore è venuto quindi in possesso di una delle chiavi ed è a conoscenza del ruolo di tuo fratello, mio e dei seguaci del Saggio a fargli perdere per sempre la reliquia per la quale la sua famiglia ha versato tanto sangue innocente. 

MANOSCRITTO 2 

A Richard de Vichiers da Roncelin de Fos

Mio caro fratello in Cristo,
devo scriverti notizie dolorose e che straziano il mio ed il tuo cuore. Forse ti è già giunta la notizia della tragica morte di tuo fratello, che Dio lo abbia in gloria, insieme a malevoli commenti. Sappi che tuo fratello è immune delle macchie di cui è accusato: la sua sola colpa è quella di aver seguito il compito che ci era stato affidato dal sant'uomo Bernando che scrisse la nostra regola e ci impose di proteggere, custodire e nascondere dai nemici di Dio e dai servi di Satana quegli oggetti potenti che non devono essere rivelati prima dall'ora designata. Quando Re Luigi sbarcò a Cipro si crearono subito degli scontri nella gestione delle operazioni tra il Re che voleva agire immediatamente e i nobili locali (tra cui il nostro Gran Maestro Guilleume) che suggerirono prudenza. Lo scontro divenne più duro quando il re ordinò al Gran Maestro di cessare le trattative col sultano di Damasco. La campagna in Egitto del Re, fu una follia militare e causò la morte  del nostro Gran Maestro Guilleume, che Dio lo abbia in gloria, e si concluse con la cattura del Re.

Liberato il Re e tornato ad Acri, Luigi, istigato da Filippo Montfort, pretese che il maresciallo del Tempio, Ugo di Jouy, il quale aveva trattato col sultano per ordine del Gran Maestro Guilleume, venisse rimosso e bandito dalla Terra Santa. Tuo fratello fu costretto a cedere ed Ugo divenne maestro in Catalogna. Quando il Re lasciò Acri e tornò (finalmente!) in Francia, Filippo Montfort colpì di nuovo: i suoi seguaci nel Capitolo, nel corso di una deliberazione segreta, deposero tuo fratello. Due giorni dopo, tuo fratello fu trovato ucciso. Non ho dubbi su chi abbia mosso la mano dei sicari. Come non ho dubbi su chi ha fatto girare voci sui rapporti tra tuo fratello e i mussulmani. È vero che tuo fratello da sempre ebbe stretta collaborazione con i seguaci del Saggio della Montagna, ma io, che fui il suo amico e il suo servitore, ti giuro che il suo obbiettivo in ciò era difendere la Terra Santa e seguire il compito segreto affidato a noi dal sant'uomo Bernardo. E sappi che tuo fratello mi insegnò che noi, i Buoni Uomini e il Saggio della Montagna in questo santo compito siamo stati da sempre alleati. Sappi dunque che tuo fratello è morto per compiere il nostro compito segreto ed è stato ucciso dall'uomo della stirpe che Satana ha generato sulla terra per recuperare quegli oggetti di potere che non devono essere rivelati prima dall'ora designata.

MANOSCRITTO 3

A Richard de Vichiers da Roncelin de Fos

Mio caro fratello in Cristo,
mi sembra doveroso farti sapere che tuo fratello è stato vendicato. Alcuni giorni fa un seguace del Saggio della Montagna, fingendosi un convertito al cristianesimo entrò nella cappella dove Filippo di Tiro e suo figlio Giovanni stavano pregando e pugnalò entrambi. Giovanni è sopravvissuto mentre l'anima di Filippo ha raggiunto il suo sovrano Satana. Si dice qui che la mano è stata armata dal sultano dell'Egitto ma io credo che il Saggio abbia voluto vendicare il suo fratello e proteggere ulteriormente il segreto della reliquia di Giuseppe.

Il prezioso contributo di Krak permette di mettere a fuoco alcune significative criticità:

1) Un professor Umberto Cardini non è mai esistito, esiste un Franco Cardini che è uno storico e un saggista specializzato in studi sul Medioevo.

2) Il Fondo Malnipote, che dovrebbe essere una biblioteca contenente manoscritti inestimabili, si è rivelato inesistente.

3) Opizzo Malnipote, da cui l’omonimo Fondo, è una figura inconsistente: non esiste nessuna traccia storica della sua esistenza.

4) L’autenticità dei manoscritti sarebbe stata confermata da verifiche scientifiche preliminari - che sono tuttavia inaccessibili.

5) Si dice che le lettere sono databili 1245, 1256, 1270 – ma non si specifica da chi… nel testo che si trova in rete non ci sono queste date.

6) Le lettere sono state scritte da Roncelin de Fos a Richard de Vichiers, ma il tono con cui parla il Templare è quello di una persona che in questi 25 anni in cui sono distribuite le lettere non si è mai mossa da Acri. Nella presentazione del personaggio si parla invece di vari incarichi che ha ricevuto anche in Europa.

7) Richard de Vichiers è storicamente sconosciuto: non vi sono conferme storiche che fosse fratello del Gran Maestro Rinald de Vichiers, né che fosse vissuto nella domus Templare di Pieusse.

8) La scelta di Gerusalemme risulta alquanto bizzarra, considerando le disfatte subite dai crociati in quegli anni. La Città Santa non era di certo un luogo sicuro per nascondere “una reliquia così importante”. Lo dimostra il fatto che nel 1244 ad agosto Gerusalemme cade in mano ai Turchi.

9) Le lettere giungono ad Acri, un mese dopo la sconfitta della Forbie (17 ottobre), quindi presumibilmente intorno alla metà di novembre. Ora mi chiedo se effettivamente il viaggio era dovuto alla “reliquia”, se si può stare un anno in giro con un oggetto talmente importante, a rischio che venisse catturato dai “nemici” da cui lo stavano nascondendo…. Mi sembra altamente improbabile e rischioso. Si notino le incerte conoscenze di geografia: “non ci dirigemmo verso i nostri porti del Mediterraneo ma andammo fino a La Rochelle dove ci imbarcammo per Bari; ritenni infatti più prudente sbarcare in terra santa proveniente dalla Sicilia” (Bari è in Puglia non in Sicilia).

10) Acri in quegli anni era una degli ultimi presidi crociati, mi sembra anche in questo caso altamente improbabile che un’operazione di tale portata rimanesse segreta.
 
11) I rapporti tra Fos, Vichies, Sonnac (1247-1250) e gli Assassini sono problematici. Secondo la lettera questi ultimi offrono un nascondiglio tra le rovine di Petra, azionata con un meccanismo segreto che viene rivelato alle sette custodi, ognuna delle quali ha consegnato un medaglione - anche in questo caso a parte la storia del meccanismo segreto mi sa tanto di storiella, mi sembra molto pericoloso avere così tante “chiavi” per accedere alla “reliquia”. Una di loro viene catturata dal signore di Tiro, quindi si presume che il nipote dell’infame Simone di Montfort fosse entrato in possesso di una delle “chiavi” e quindi conoscesse il segreto e le persone che lo avrebbero occultato………allora perché non impegnarsi per trovarlo? O per eliminare chi ne era a conoscenza?

12) Si fa poi riferimento a Richard de Bures (1244-1247), Guillaume de Sonnac (1247-1250), Rinaldo di Vichiers (1250-1256) e Tomas Bérard (1256-1273) - Molti studiosi tra cui Runciman e Malcom Barber nella lista dei Grandi Maestri del Tempio omettono il de Bures.

13) Il de Sonnac racconta la pia leggenda (dove e quando?) secondo la quale il Vecchio della Montagna avrebbe consegnato al fondatore dei Templari un “sigillo di grande potere” perché lo consegnasse a San Bernardo - Storicamente i rapporti tra i Templari e gli Assassini non sono mai stati provati tanto meno ritengo fossero possibili all’origine dell’Ordine. Inoltre se tutto ciò fosse stato portato al cistercense ci si dovrebbe domandare com’è possibile la seguente affermazione: “Sappi che il sigillo e la documentazione alla morte del nostro Gran Maestro Armand… sono stati nascosti da tuo fratello e da Guillaume che temono le trame di Montfort” (perché questi oggetti dalle mani di San Bernardo sarebbero stati di nuovo portati in Terra Santa?).

14) Quando i Templari, hanno perso definitivamente i presidi in Terra Santa che ne hanno fatto della reliquia…. In ultimo il contenuto delle presunte lettere fosse stato reale, sarebbe stato di vitale importanza, per cui è impensabile che tali notizie vengano scritte in modo così esplicito, potevano cadere in mano del nemico in qualsiasi momento….
Saluti
Krak

Per quanto mi riguarda, sono stato quasi immediatamente assalito da dubbi sull'intera struttura narrativa anche senza verificare date, personaggi ed avvenimenti. La menzione della Reliquia di Giuseppe mi ha subito convinto che questi testi non sono genuini, ma interamente costruiti ad arte. Infatti il Catarismo non ha mai ammesso il culto di qualsiasi reliquia, idolo o simulacro. E' chiara la posizione dei Buoni Uomini: quando un sant'uomo muore, il suo spirito abbandona il carcere materiale, che ritorna agli elementi diabolici da cui è stato generato. Nessuna elevazione spirituale può venire da un resto mortale mummificato o conservato altrimenti, non più di quanta ne possa venire dalla carcassa di un asino o da una latrina. Anche ammettendo che non si tratti di resti umani, non appare credibile che un oggetto di qualsivoglia natura possa essere stato tanto importante per i Buoni Uomini da giustificare una simile perigliosa impresa.

Alla fine io e Krak siamo riusciti a svelare l'arcano: abbiamo trovato le lettere di Roncelin de Fos e Vechiers in un
sito che riportava nell'url la dicitura "giochidiruolo".

http://www.mclink.it/com/agonistika/giochidiruolo/
pathos2/archivio/a1/graal.htm 

Il cammino dello studioso è irto di difficoltà, ma per fortuna esistono criteri che permettono di non lasciarsi ingannare. Di fronte a un testo è buona norma cercare di reperirlo in lingua originale. Se la cosa non è agevole, si può avere il sospetto che si tratti di un falso. Capita che dei testi siano scritti in un linguaggio moderno, seguendo un'ordine di idee moderno: questa potrebbe essere frutto di una traduzione troppo libera, oppure la firma di un falsario. Bisogna avere una conoscenza di base del soggetto che si sta studiando, in modo da scoprire incongruenze. Per quanto riguarda i Catari la cosa è più facile: la dottrina è così peculiare e inconfondibile che qualsiasi frode viene immediatamente scoperta. Nel caso del Tempio le cose sono più complicate, perché la dottrina segreta di cui tanto si parla non è nota con altrettanta certezza. Deve esistere inoltre un potere nascosto, sulla cui vera natura non ho potuto avere certezza, che mira a diffondere su questo argomento confusione. Si ha come l'impressione che questo marasma cognitivo sia deliberatamente coltivato. Forse la cosa è da mettere in relazione alla galassia delle associazioni cosiddette Neotemplari. Di queste una cosa sola so per certo: non ne esiste neanche una che possa veramente affermare di rappresentare il Tempio. Un autentico cavaliere non persegue infatti menzogna ed inganno, ma verità.

Di Roncelin de Fos avremo occasione di occuparci ancora in altra sede, perché il suo nome compare in relazione a un documento controverso: la Regola Segreta

La pseudostoria è un nemico subdolo. 

(Il Volto Oscuro della Storia, 18 gennaio 2008)

Nel gennaio 2011 i contenuti di questo post hanno attratto l'attenzione lodevole dei gestori del blog Tradizione Templare, ospitato sulla piattaforma Blogspot, che hanno pubblicato il post Quando i polli scrivono la storia. A loro va tutta la mia gratitudine! Questo è il link:  

Anche se nel frattempo le pagine del sito di giochi di ruolo sono diventate inagibili, resta la prova della creazione fraudolenta. Il post di Tradizione Templare è tuttora accessibile e spero ardentemente che lo resterà a lungo!