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sabato 11 settembre 2021

ETIMOLOGIA DI GIAGGIANESE, GIARGIANESE

Cos'è un giaggianese? Molti se lo saranno chiesto. La parola, che ha la comune variante giargianese, in sostanza significa "persona che parla in modo incomprensibile". Ha una connotazione intrinsecamente spregiativa, giungendo a indicare anche chi parla in modo incomprensibile a bella posta, al fine di imbrogliare, di raggirare gli ingenui. L'idea portante è che colui che parla in modo oscuro, lo debba per forza fare per un cattivo fine. 
 
Formazione e diffusione del termine  

La parola in questione, attestata alla fine del XIX secolo, in ultima analisi deriva dal napoletano ggiaggianése, plurale ggiaggianise. Dopo un periodo di declino, negli anni '40 dello scorso secolo la parola ha ripreso vita e da Napoli si è irradiata anche a Settentrione. Nella città Partenopea, giaggianese ormai è più che altro in uso per indicare una lingua incomprensibile, non tanto colui che la parla. La locuzione tipica è "parlare il giaggianese". Per un napoletano, ogni lingua che non riesce a capire è automaticamente una forma di giaggianese. Sembra comunque che la locuzione fosse più diffusa in passato e che attualmente stia scomparendo. A Milano è in uso la forma abbreviata giaggiana o giargiana. Esempio: "L'è un giaggiana" o "L'è un giargiana". L'accezione più comune nella metropoli è quella di "persona non nativa di Milano e non assimilata agli usi locali", quindi anche di "zotico". La traduzione nel gergo dei Paninari sarebbe "tamarro". Pare che sia tuttora considerato un "giargiana" anche chi proviene dalla periferia della città, indipendentemente dalla sua origine etnica. La scomparsa del suffisso -ese e l'uscita maschile in -a sono comuni in milanese, basti pensare a cuménda "commendatore" e a Berlüsca "Berlusconi". Sembra che la parola in questione sia del tutto ignota in Veneto e in Sardegna. A Torino non è ignota, ma a quanto pare è desueta e il suo uso identifica immediatamente la persona come milanese.
 
Esperienze personali: 
giargianese = che parla un diverso dialetto
 
In Puglia, nelle province di Foggia, Bari, Barletta, Andria e Trani, il giargianese (giargianaise) è il forestiero, colui che parla un dialetto differente da quello locale. Quindi il giargianese può anche essere un pugliese egli stesso. Ricordo che due giovani pugliesi, uno di Trani e l'altro di Lecce, non riuscivano affatto a intendersi quando parlavano nelle loro rispettive lingue locali: erano costretti a ricorrere all'italiano come lingua franca. In quell'occasione il pugliese di Trani ebbe a dire, forse scherzosamente, che quelli di Lecce sarebbero "di un'altra razza".

Esperienze personali:
giaggianese = meridionale

Ricordo ancora la frase pronunciata in un'occasione dall'amico P., nativo della Brianza, ai tempi in cui frequentavamo l'università. Quando gli chiesi cosa significasse la parola "giaggianese", rispose così: "I giagianés hinn i teruni", ossia "I giaggianesi sono i terroni". Il termine "terroni", comunemente usato per indicare le genti del Meridione, ha una connotazione abbastanza spregiativa. Lo si sente usare soprattutto nei paesi della Lombardia profonda, che non hanno mai metabolizzato i flussi migratori. Questa traduzione di "giaggianesi" con "terroni" mi lasciò abbastanza interdetto. In vita mia non avevo mai sentito la parola con questo significato. Sapevo invece che alcuni meridionali la usavano per designare le genti del Nord. Come risolvere questa eclatante contraddizione? La cosa mi incuriosiva, ma pensai che dovesse trattarsi di un fraintendimento. Finii col non pensarci più per molti anni, finché il problema semantico ed etimologico non saltò fuori nuovamente. 
 
Esperienze personali:
giaggianese = extracomunitario
 
Nel frattempo la realtà sociale era cambiata profondamente e con "giagganesi" si intendevano  gli extracomunitari, soprattutto quelli provenienti dall'Africa. Rimasi stupito quando un siciliano biondiccio, di accese simpatie neofasciste, indicò come "giaggianesi" proprio le genti del Nordafrica - che per ovvi motivi non riscuotevano affatto le sue simpatie. Ovviamente la traduzione del lombardo P., che rendeva "giaggianesi" con "meridionali", era incompatibile con quella del siciliano neofascista, che era meridionale e rendeva invece "giaggianesi" con "marocchini".  

Tentativi etimologici
 
Non si riesce al momento ad andare oltre alle due principali ipotesi di etimologia finora enunciate. Sono le seguenti: 
 
1) I giaggianesi sarebbero stati in origine gli abitanti di Viggiano (prov. di Potenza, Basilicata). La pronuncia del toponimo è Viggiàno (parola piana).

viggianese => ggiaggianese 
plurale viggianise => ggiaggianise
 
Crollato il Regno delle Due Sicilie, a Napoli si riversarono innumerevoli esuli dalla Lucania, che esercitavano la professione di musicisti ambulanti, vivendo spesso di espedienti e finendo con acquisire una pessima fama di imbroglioni - come di regola accade ai vagabondi. Quando mi sono imbattuto in queste informazioni, all'inizio sono stato diffidente, pensando che potessero essere pacchetti memetici e miti infondati diffusi nel Web. In realtà, sono stato in grado di trovarne conferma. Proprio a Viggiano c'è un'importante tradizione di suonatori di arpa fin dal tempo del Regno di Napoli, attestata già nella prima metà del XVIII secolo (Antonini, 1745). L'arpa viggianese, diatonica e più piccola di quella classica, è sprovvista di pedali. È detta anche arpicedda. Nel corso dei secoli molti musicisti di Viggiano hanno portato la loro arte fin nelle più remote contrade del pianeta, ottenendo talvolta un notevole successo. 

2) I giaggianesi sarebbero stati stati in origine gli abitanti di Vigevano (prov. di Pavia, Lombardia). La pronuncia del toponimo è Vigévano (parola sdrucciola).
 
*viggevanese => ggiaggianese  
plurale *viggevanise => ggiaggianise 

Il romanista Gerhard Rohlfs (Berlino, 1892 - Tubinga, 1986) spiegò questo strano vocabolo in questo modo ingegnoso, per quanto un po' macchinoso e contorto. Così ha scritto: "piccoli commercianti che vengono dall'Alt'Italia per comprare l'uva o il mosto: deformazione di viggevanesi 'di Vigevano'." 
 
A parer mio è più probabile che Vigevano sia divenuto *Viggéggiano per assimilazione, quindi la trafila sarebbe questa:  
 
*viggevanese => *viggeggianese => ggiaggianese 
plurale *viggevanise => *viggeggianise => ggiaggianise 
 
L'amico D. mi spiegava che nel suo paese, situato nel Varesotto, esisteva la costumanza di miscelare il vino locale, rosso e a basso tenore alcolico, a certi rosati pugliesi, economici e molto più forti. Il risultato a quanto pare era eccellente, tanto da essere stato trovato in vendita anche in taverne nella lontana Genova. 

Una profonda incertezza
 
Sono stati fatti tentativi di sintesi per mettere assieme queste due etimologie contrastanti, che pure sembrano avere qualche verosimiglianza: i Vigevanesi compratori di uve e di mosti sarebbero stati assimilati ai precedenti Viggianesi musicisti itineranti per via della loro supposta e comune tendenza a imbrogliare. Ovviamente il condizionale è d'obbligo: secondo altre fonti, i compratori settentrionali di uve e di mosti erano invece persone da infinocchiare (Tarantino, 1985).  
 
L'enigma della rotica  

Lo stesso Rohlfs ebbe occasione di inventare un racconto che a parer mio è ridicolo. È il mito del soldato George. Il vocabolo "giaggianese" sarebbe tornato in auge a Napoli dipo lo sbarco alleato, proprio per via della presenza di militari statunitensi, che parlavano in modo incomprensibile. Dato che molti di loro si chiamavano George, spiega il Rohlfs, ecco che "giaggianese" sarebbe diventato "giargianese", quasi "giorgianese". Sembra che una variante "giorgënése" sia davvero attestata a Monopoli (Cortelazzo, Marcato, 1998), ma questo non prova granché: in molti dialetti meridionali le sillabe pretoniche sono per loro natura abbastanza deboli e suscettibili ad oscillazioni. A mio avviso, è più probabile che da "giaggianese" si sia arrivati a "giargianese" per via di un banale ipercorrettismo.  
 
Alcune considerazioni 
 
Il fallimento della romanistica appare evidente. 
 
1) Si avverte la necessità di un vocabolario storico del napoletano, che a quanto pare è tuttora inesistente. 
2) Si avverte la necessità di mappe di diffusione dei termini colloquiali, che a quanto pare mancano o sono in ogni caso di difficile reperibilità. 
3) Non è possibile che si debba scavare nei forum del Web per raccogliere informazioni frammentarie, spesso difficili a validarsi.  
4) Troppo spesso non si riesce ad andare oltre alla fatidica etichetta "etimologia incerta", per quanti sforzi si possano fare. È la condizione terribile del PANTANO ETIMOLOGICO
5) Il senso di impotenza e inconoscibilità si accresce in modo enorme quando ad essere di "etimologia incerta" sono vocaboli di origine recente.

mercoledì 1 settembre 2021

IL VINO AMARO DI SODOMA E GOMORRA

Deuteronomio 32, noto come Cantico di Mosè o Canto di Mosè, consiste in una serie di maledizioni, non sempre coerenti e comprensibili alle menti moderne. Non va confuso con Esodo 15, che pure è chiamato allo stesso modo ed esprime la gioia per la liberazione del popolo di Israele dal giogo del Faraone Ramesse, le cui armate pronte a macellare furono sommerse dalle acque del Mar Rosso. Qui invece Mosè giudica la propria gente, colpevole di aver deviato dalla Legge di Dio, così tuona e minaccia le più terribili punizioni. A causa del rilassamento dei costumi e dei sacrifici rivolti a divinità straniere, ossia a demoni, gli Israeliti sono diventati come le genti di Sodoma e Gomorra, si sono degradati. Eppure, essendo pur sempre gli Eletti, a differenza degli altri popoli, avranno comunque la possibilità di scamparla e di non incorrere nell'annientamento. Ecco la sostanza del testo in questione.
 
Tra le invettive contenute in Deuteronomio 32 ve ne è una di particolare interesse filologico, perché potrebbe alludere a un vino molto peculiare che oggi è andato perduto. Ecco il testo che ha catturato la mia attenzione: 
 
30 Come può un uomo solo inseguirne mille
o due soli metterne in fuga diecimila?
Non è forse perché la loro Roccia li ha venduti,
il Signore li ha consegnati?
31 Perché la loro roccia non è come la nostra
e i nostri nemici ne sono giudici.
32 La loro vite è dal ceppo di Sòdoma,
dalle piantagioni di Gomorra.
La loro uva è velenosa,
ha grappoli amari.
33 Tossico di serpenti è il loro vino,
micidiale veleno di vipere. 
 
Questo è il testo biblico originale in lingua ebraica: 
 
ל  אֵיכָה יִרְדֹּף אֶחָד, אֶלֶף,  {ר}  וּשְׁנַיִם, יָנִיסוּ רְבָבָה:  {ס}  אִם-לֹא כִּי-צוּרָם מְכָרָם, {ר}  וַיהוָה הִסְגִּירָם.  {ס} 
 
לא  כִּי לֹא כְצוּרֵנוּ, צוּרָם;  {ר}  וְאֹיְבֵינוּ, פְּלִילִים.  {ס}
 
לב  כִּי-מִגֶּפֶן סְדֹם גַּפְנָם,  {ר}  וּמִשַּׁדְמֹת עֲמֹרָה:  {ס}  עֲנָבֵמוֹ, עִנְּבֵי-רוֹשׁ--  {ר} אַשְׁכְּלֹת מְרֹרֹת, לָמוֹ.  {ס} 

לג  חֲמַת תַּנִּינִם, יֵינָם;  {ר}  וְרֹאשׁ פְּתָנִים, אַכְזָר.  {ס}
 
Questa è una rudimentale traslitterazione:  
 
eichah yirdof echad, elef, ushenayim, yanisu revavah: im-lo ki-tzuram mecharam, va-Yehovah hisgiram 
ki-lo ketzurenu, tzuram; ve'oyeveinu, pelilim 
ki-miggefen Sedom gafnam, umishadmot Amorah 
anavemo, inne-vei-rosh - ashkelot merorot, lamo 
chamat tanninim, yeinam; verosh petanim, achzar. 
 
Glossario ebraico-italiano  
 
eichah "o come (può)", "ahimè" (interiezione)
yirdof "egli inseguirà" (dalla radice r-d-f "inseguire")
echad "uno"
elef "mille" 
ushenayim "e due (soli)" (u- "e"; shenayim "due") 
yanisu "essi espelleranno" (dalla radice y-n-s "scacciare, 
     espellere")
revevah "diecimila"
im-lo "altrimenti" 
ki- "perché"
tzuram "la loro roccia" (da tzur "roccia")
mecharam "li ha venduti" (dalla radice m-k-r "vendere";
      -am "loro")
va-Yehovah "e il Signore" (sostituito da vahashem, lett.
     "e il Nome")
hisgiram "li ha consegnati" (dalla radice s-g-r "chiudere;
      arrendersi; consegnare"; -am "loro")
ketzurenu "perché la nostra roccia" (ke- "perché", tzurenu
     "la nostra roccia")
ve'oyeveinu "e i nostri nemici" (da oyev "nemico")
pelilim "giudici" (da palil "giudice")
miggefen "dalla vite" (da gefen "vite")
Sedom "Sodoma"
gafnam "la loro vite" (da gefen "vite"; -am "loro")
umishadmot "e dai campi (coltivati)"
Amorah "Gomorra"
anavemo "le loro uve" (da enav "uva")
innevei-rosh "piene di veleno" (innevei- "con, insieme a";
     rosh "veleno")
yeinam "il loro vino" (da yayin "vino")
ashkelot "grappoli" (da eshkol "grappolo)
merorot "amarezza" (da maror "amaro")
lamo "a loro" 
chamat "calore" (ossia "cosa caustica, veleno")
tanninim "serpenti" (da tannin "serpente") 
verosh "e veleno" (da ve- "e", rosh "veleno")
petanim "vipere" (da peten "vipera")  
achzar "crudele, spietato, terribile" 
 
Alla luce di queste evidenze, dobbiamo porci una domanda. Queste velenose similitudini tra il vino del Paese di Sodoma e Gomorra erano soltanto frutto dell'arte poetica e di un lamento morale, oppure esprimevano qualcosa di più concreto e portavano in sé una memoria ancestrale? Propendo in modo nettissimo per la seconda ipotesi: non credo che queste fossero pure e semplici metafore. 
 
Il vino coltivato e bevuto nella Pentapoli doveva essere amaro come il veleno e scuro, per via di qualche particolarità materiale dei suoi ingredienti e della sua lavorazione. Date le proprietà dell'area in cui era situato il Paese di Sodoma e Gomorra, sulle rive del Mar Morto, queste caratteristiche della bevanda inebriante dovevano derivare dalle uve da cui era prodotta, perché crescevano su un terreno ricchissimo di bitume naturale. Proprio il Mar Morto (in ebraico יַם הַמֶּלַח Yam hamMelach, ossia "Mare del Sale") è noto per la sua grande abbondanza di asfalto, che talvolta affiora a grandi blocchi dopo essersi staccato dai fondali. Dagli Autori greci era chiamato Ἀσφαλτίτης Λίμνη (Asphaltites Limne) "Lago di Asfalto", denominazione ripresa dai Romani (Lacus Asphaltites). La Valle di Siddim era piena di pozzi di bitume, denominati nel testo biblico בֶּֽאֱרֹת֙ חֵמָ֔ר  be'erot chemar (Genesi 14, 10). La regione, oggi infeconda come un deserto lunare, era assai fertile nei tempi antichi, prima che un'immane catastrofe cancellasse le città e persino le loro vestigia. Possiamo quindi dire che la mia ipotesi non sia poi così peregrina.
 
Possono le vigne crescere sul bitume di Sodoma e Gomorra? Senza dubbio sì. I suoli più idonei alla coltivazione della vite sono quelli contenenti calcare, marne, scisti e argille. Orbene, esistono gli scisti bituminosi. Sono rocce sedimentarie, in genere di granulometria fine. Il loro colore tipico è nerastro o marrone scuro. La loro particolare ricchezza di materia organica, il cherogene, deriva dalla diagenesi dei resti di antichi organismi sepolti nel sedimento all'epoca della sua formazione. Gli idrocarburi sono un comune esito della materia organica: tra questi si annovera l'olio di scisto, che può essere usato come sostituto del petrolio. Un sostrato ideale!   
 
Nell'antichità il vino conteneva composti organici volatili rilasciati dalla pece e dalla resina, sostanze che venivano usate ovunque per rendere stagni i recipienti. Aveva certamente un sapore che risulterebbe molto strano per i nostri palati, diverso da qualsiasi cosa a cui abbiamo potuto fare l'abitudine. Il vino della Pentapoli doveva essere ancora più particolare di quello prodotto in altri luoghi e in altre epoche, ad esempio nella Roma dell'Impero. È possibile che avesse proprietà psicoattive marcate e che fosse nocivo alla salute, sia fisica che mentale. Cercare di coltivare uve come quelle di Sodoma e Gomorra, in modo tale da ricostruire un prodotto simile, richiederebbe studi approfonditi, lunghe sperimentazioni e soprattutto molte risorse. Sarebbe in ogni caso una sfida molto interessante. Anche se si riuscisse nel nobile intento, si otterrebbe qualcosa che forse sarebbe considerato imbevibile e che potrebbe fruttare accuse di avvelenamento. Al massimo potrebbe diventare una bevanda di nicchia. 
 
Generazioni di botanici con poco senno hanno identificato la vite di cui si parla in Deuteronomio 32 con una pianta la cui denominazione scientifica è Calotropis procera. Popolarmente è chiamato melo di Sodoma e appartiene alla famiglia delle Asclepiadacee. Si tratta di un piccolo albero sempreverde ed ermafrodita, alto da 4 a 6 metri. Esiste poi anche il Pomo di Sodoma (Solanum linnaeanum), una pianta appartenente alla famiglia delle Solanacee. Le sue bacche dopo la maturazione si riducono in una polvere nerastra e non se ne può trarre alcunché di utile. Secondo una leggenda, questo vegetale orrendo sarebbe stato l'unico a crescere dopo il disastro che annichilì le città del Mar Morto. Evidentemente non sono queste le fonti da cui si abbeveravano le genti della Pentapoli per narcotizzarsi quotidianamente! Nemmeno il Diavolo saprebbe spiegare come si possa ottenere del vino da questi sgradevole vegetali, che definire aberranti è ancora poco! 

sabato 28 agosto 2021

ETIMOLOGIE ENOLOGICHE: IL FALERNO

Come tutti sanno, immensa fama ha goduto nell'antichità il vino falerno (latino falernum). Il naturalista Plinio il Vecchio fece una classifica dei vini migliori: Antea caecubum, postea falernum, ossia "Prima il cècubo, poi il falerno". 
 
Questo riporta il celeberrimo Vocabolario Treccani: 
 

falèrno agg. e s. m. [dal lat.  Falernus]. – Antico nome (Agro f., lat. Ager Falernus) della Campania settentr., prima appartenente ai Capuani, poi annessa (fine del sec. 4° a. C.) al territorio dei Romani. Era celebrato dagli antichi scrittori per il suo vino, chiamato appunto falerno (lat. vinum falernum, o falernum s. neutro), nome che nell’uso poet. divenne sinon. di vino prelibato; sono ancor oggi così chiamati alcuni vini tipici della Campania. 
 
Il problema è sempre lo stesso. Molti credono che risalire al latino sia la fine della ricerca, come se la lingua di Roma insegnata a scuola fosse un idioma adamitico, non derivato. Per me invece, una parola latina è l'inizio della ricerca: bisogna capire da dove è venuta.  

Plinio il Vecchio, i cui testi sono sempre molto utili, ci dice questo (Naturalis Historia XIV, 8): 

Antea Caecubo erat generositas celeberrima in palustribus populetis sinu Amynclano, quod iam intercidit iniuria coloni locique angustia, magis tamen fossa Neronis, quam a Baiano lacu Ostiam usuque navigabilem incohaverat. Secunda nobilitas Falerno agro erat et ex eo maxime Faustiniano; cura culturaque id collegerat; exolescit haec quoque copiae potius quam bonitatis studentium. Falernus ager a ponte Campano laeva potentibus Urbanam coloniam Sullanam nuper Capuae contributam incipit, Faustinianus circiter IIII milia passuum a vico Caedicio, qui vicus a Sinuessa VI M passuum abest. Nec ulli nunc vino maior auctoritas; solo vinorum flamma accenditur, tria eius genera: austerum, dulce, tenue. Quidam ita distingunt, summis collibus Caucinum gigni, mediis Faustinianum, imis Falernum.
 
Traduzione:  
 
Prima c'era per il cècubo una qualità molto famosa nelle paludi con i pioppi nel golfo di Amicla, che ormai è scomparsa per la negligenza del contadino e per la ristrettezza del luogo, ma ancor di più per il canale di Nerone, che aveva reso navigabile dal bacino di Baia fino ad Ostia. La seconda eccellenza era per il territorio di Falerno e da questo soprattutto per il faustiniano; se l'era conquistata con la cura e con la coltivazione. Queste vengono meno anche per colpa di quelli che aspirano all'abbondanza più che alla qualità. Il territorio di Falerno comincia dal Ponte Campano a sinistra per quelli che vanno verso la colonia Urbana di Silla associata da poco a Capua, il faustiniano a circa quattromila passi dal villaggio di Cedicio, villaggio che dista seimila passi da Suessa. Per nessun vino c'è oggi maggiore rinomanza. A lui solo si accende la fiamma dei vini. Tre sono le sue specie: aspro, dolce, leggero. Alcuni lo distinguono così: il caucino nasce sui colli più alti, il faustiniano sui medi, il falerno sui più bassi.
 
C'è molta confusione. Dalle parole di Plinio, sembra ben chiara la localizzazione dell'area in cui il vino falerno era prodotto, nella Campania settentrionale, in quella che attualmente è conosciuta come provincia di Caserta. Pure sono state fatte ipotesi alternative, per quanto presentino qualche difficoltà.
 
 
Marina Alaimo (AIS Napoli) cerca di risalire al luogo d'origine del falerno, arrivando a questa conclusione: non sarebbe l'area denominata Piana di Falerno, ai piedi del Monte Màssico, bensì il Monte Falero, oggi conosciuto come Monte Echia. Data la mia scarsa conoscenza dei luoghi, a prima vista l'idea mi era parsa ragionevole. Tuttavia non ha retto a una breve ricerca. Non sono riuscito a trovare l'oronimo Falero: c'è soltanto la mitologica Torre di Falero, dal nome di uno degli Argonauti. Invece ho potuto appurare che il Monte Echia era anticamente chiamato Eple o Emple, denomine che si suppone derivata da Euplea (Afrodite Euploia, patrona della navigazione). Ho potuto vedere una sua foto. Si tratta di un minuscolo pinnacolo di tufo giallastro, di apparenza malaticcia e lebbrosa, friabile, che non sembra davvero il luogo di origine dell'illustre vino, prodotto in grande abbondanza: non è più alto di un palazzo a tre piani! 

In ogni caso, la Alaimo puntualizza una cosa interessante: se il falerno fosse stato coltivato sulle pendici del Monte Màssico, sarebbe stato conosciuto come màssico. Ebbene, il vino chiamato màssico, in latino (vinum) massicum, era noto nell'antichità ed era ben distinto dal falerno. Il màssico era un vino robusto ma di qualità mediocre.   
 
Attualmente si produce il vino denominato Falerno del Massico nel territorio dei seguenti comuni: Mondragone, Falciano del Massico, Carinola, Sessa Aurunca e Cellole (tutti in provincia di Caserta). Si tratta di un vino composto, prodotto a partire da uve di diversi vitigni. 

Falerno del Massico Rosso
    Aglianico: minimo 60%
    Piedirosso: massimo 40%

Falerno del Massico Primitivo
    Primitivo: minimo 85%
    Barbera, Aglianico, Piedirosso massimo 15%

Falerno del Massico Bianco
    Falanghina: minimo 85%
    Altri vitigni campani: massimo 15%

Detto questo, rimane il problema imbarazzante della continuità. Con che uve gli Antichi facevano il falerno? Sappiamo che il falerno continuò ad essere prodotto in epoca medievale, tanto che Papa Innocenzo III lo menzionò nel suo De contemptu mundi. Come erano cambiate le tecniche di vinificazione? Cesare e Augusto avrebbero riconosciuto il falerno bevuto da Innocenzo III, se un crononauta lo avesse portato loro con un prodigioso viaggio nel tempo? Innocenzo III avrebbe riconosciuto il falerno bevuto da Cesare e da Augusto? Non lo sappiamo con certezza, anche se parrebbe implausibile. A maggior ragione, si possono nutrire fondati dubbi sull'identità tra il falerno prodotto in epoca moderna e quello dell'epoca di Roma. La questione ampelografica sembra irrisolvibile.    

Luca Menna, nel Saggio Istorico  della Città e Diocesi di Carinola, 1848, ha scritto quanto segue:  

"Qualsia l’etimologia del vocabolo Falerno, nulla sì conosce , possiam dire solamente , che il Possessore di questo Campo si chiamava Falerno , e li diede un tal nome; di questo sentimento è Sillo Lib. VII, e di fatti il vocabolo Falernus è nome di uomo, e lo vediamo in uso presso il Gori in una sua Iscrizione così: Falernus Euclito fratri suo." 
 

Saggi storici di questo genere sono il prodotto di una cultura autoreferenziale. L'enunciato di Menna è l'essenza stessa dell'impotenza etimologica. Mentre la linguistica faceva passi da gigante, resisteva questo zoccolo duro di topi di biblioteca locali, che spesso erano anche parroci, per i quali l'intera conoscenza del genere umano si riduceva al latino e al greco. Tutto ciò che è al di fuori di queste lingue classiche, era per loro profondo abisso di inconoscibilità. 

Io mi oppongo strenuamente a chiunque dica "nulla si conosce", quando è possibile conoscere!  

In questo specifico caso, si nota una certa negligenza etimologica, perché l'autore avrebbe potuto benissimo trovare una spiegazione al nome Falernus ricorrendo alle fonti classiche.
 
Radice: etrusco fal- "alto"  
 
Testo originale della glossa: "Falae dictae ab altitudine, a falado quod apud Etruscos significat caelum." 
Traduzione della glossa: Le falae ("torri") sono così chiamate dall'altezza, da falado, che tra gli Etruschi significa "cielo". 
Autore: Sesto Pompeo Festo 
Forma singolare: fala 
Varianti ortografiche: phala "torre"; falando "cielo" 
Note: 
Si trova il testo della glossa di Festo con coelum anziché caelum.

Forme etrusche ricostruite: 
*fala "alto"
*falaś "luogo alto; torre; pertica" 
   attestazioni:  
   locativo: falś-ti "sulla pertica" (Cippo di Perugia,
        cfr. Facchetti) 
   locativo: falza-θi aiseras "nel luogo alto degli Dei" 
        (lamella plumbea di Magliano)
*falaθu "cielo"  
Note:  
Etrusco *falaθu "cielo" deve avere avuto il significato di "soffitto a volta". Il latino palātum "palato", ma anche "volta del cielo", deve essere un prestito antico dall'etrusco, come evidenziato da Pittau. Si noti la consonante iniziale p- in luogo di f-: si deve trattare di esiti diversi di una protoforma in ph- /ph/. Per la semantica, si confronti il rumeno ceru gurei "palato", alla lettera "cielo della gola", "soffitto della gola".

Testo originale della glossa: "Falarica genus teli missile quo utuntur ex falis, id est ex locis instructis, dimicantes."
Traduzione della glossa: La falarica è un tipo di arma da getto che i combattenti utilizzano dalle falae, ossia dai luogi fortificati. 
Varianti ortografiche: phalarica  
Pronuncia: /fa'la:rica/
Autore: Sesto Pompeo Festo 
Protoforma ricostruibile: *falāsica 
Note: 
Un notevole caso di rotacismo. Il fenomeno è comune: etrusco tus "letto, giaciglio" è stato preso a prestito in latino arcaico come *tosos per poi diventare torus "cuscino, guanciale, materasso". 
False etimologie: greco φαλός (phalos) "bianco", φάλαρος (phalaros) "con una macchia bianca". Siamo di fronte a un'evidente fabbricazione scolastica. La metodologia è questa: aprire un vocabolario di greco e cercare forme assonanti, anche a dispetto della semantica.  
 
Forme etrusche derivate dalla radice fal- "alto" e attestate in iscrizioni: 
 
falaθres "di Celeste", gentilizio, oppure "della volta celeste"  
faliaθere "nella volta celeste"
faluθras "degli Dei Superi" 
falau "innalzato" (Tabula Capuana, TLE 2)
Note: 
Etrusco falaθres, attestato al genitivo in diverse iscrizioni, deve essere l'equivalente del latino caelestis "celeste, del cielo" (dissimilato per l'atteso *caelestris). In un caso non è chiaro se le attestazioni siano quelle di un gentilizio oppure se sia un sostantivo col significato di "volta celeste". Il testo tr: falaθres: (iscrizione di Settecamini, ET Vs 1.176) potrebbe stare per tular: falaθres: e significare "confine della volta celeste". Secondo Kaimio (2017), si dovrebbe invece interpretare tr: come un'abbreviazione di trepies "di Trebio" (prenome), per cui falaθres sarebbe un gentilizio. Non ci sono ancora elementi per decidere la questione. Una forma arcaica di falaθre- potrebbe essere il faliaθere documentato in un'iscrizione ad Orvieto (Stopponi, 2009). La presenza di -i- è ancora enigmatica; conto tuttavia di poter risolvere il problema quando emergeranno nuovi dati. Il genitivo plurale faluθras "degli Dei Superi" compare in un'iscrizione a Tarquinia (ET Ta 1.164). Stopponi afferma di voler lasciare ai linguisti la definizione esatta di questa forma: ebbene, è un tipico tema plurale, proprio come cliniiaras, clenaras "dei figli", genitivo di clenar "figli". 
Nel testo della Tabula Capuana, alcuni leggono falal anziché falau: se tale lettura fosse corretta, avremmo un genitivo in -al anziché un participio passato in -u, ma la sostanza non cambierebbe molto.  
 
Etrusco arcaico: 
   nominativo/accusativo: *falaθu "cielo" 
   genitivo: *falaθu-s "del cielo"
   nominativo/accusativo: *falaθu-r "Dei Superi"
   genitivo: *falaθu-ra-s "degli Dei Superi"

Neoetrusco: 
   nominativo/accusativo: faltu, haltu "cielo"
   genitivo: *faluθ-s "del cielo"
   nominativo/accusativo: *faluθ-r "Dei Superi"
   genitivo: faluθ-ra-s "degli Dei Superi" 

Note: 
La forma faltu, con la variante delabializzata haltu, è attestata in molte iscrizioni composte da una sola parola.
 
Il nome del popolo dei Falisci e della città di Falerii, loro capitale, è pure di origine etrusca. I Falisci parlavano una lingua indoeuropea, italica e simile al latino. Com'è naturale, aveva numerosi prestiti onomastici dall'etrusco. Tra questi prestiti c'è il nome stesso dell'etnia e l'aggettivo che la designa. 
 
latino Falerii < *Falasioi (pl. tantum), alla lettera
    "Luoghi Alti", "Fortezza"  
latino Falisci < *Falasikoi "Gente di *Falasioi
latino Faliscus < *Falasikos
Note: 
La sincope di -i- nel suffisso *-ikos dovette avvenire prima del rotacismo della sibilante mediana -s-. In etrusco troviamo alcuni gentilizi molto interessanti che potrebbero essere connessi al nome dei Falisci. Mostrano una peculiarità di difficile spiegazione: l'Umlaut palatale. 

Feluskes (gen.) < *falius-
Feleskenes (gen.) < *falias- 
 
A questo punto possiamo azzardare qualche ipotesi di ricostruzione più dettagliata della protoforma dell'aggettivo falernus
 
1) falernus < *falasi-nos 
2) falernus < *falar(i)-nos
 
Il problema fondamentale è quello dell'eventuale rotacismo. Essendo il toponimo ager Falernus localizzato in un'area di lingua osca (sannitica), si dovrebbe propendere per l'ipotesi 2), dato che in tale lingua italica non esisteva il rotacismo. Tuttavia è sempre possibile che l'origine sia connessa a una migrazione da Nord, dal territorio dei Falisci: in tal caso Falernus sarebbe un sinonimo di Faliscus. Sono necessari ulteriori studi. 
 
Queste sono alcune sopravvivenze toponomastiche della radice fal- "alto":  

Falacrina, frazione del comune di Antrodoco (Rieti)
Falacrina, Falagrina, valle nella quale nasce il Velino 
Falecare, frazione del comune di Cittareale (Rieti)
Falerna, comune della Calabria (Catanzaro)
Falerno, frazione del comune di Città di Castello (Perugia)
Falerone, comune delle Marche (Fermo) 
Faleria, Falesia, comune del Lazio (Viterbo) 
Falisco, corso d'acqua del Lazio 
Falsini, frazione del comune di Radicondoli (Siena) 
Falterona, frazione del comune di Lastra a Signa (Firenze)
Falterona, monte del Val d'Arno Casentinese 
Faltignano, frazione del comune di San Casciano (Firenze)
Faltona, frazione del comune di Talla (Arezzo)  
Faltona, frazione del comune di Borgo San Lorenzo (Firenze)
Faltona, torrente della Val di Sieve, Toscana
Faltugnano, frazione del comune di Prato 
Faltugnano, frazione del comune di Vinci (Firenze)
Falzano, frazione del comune di Cortona (Arezzo)

Sopravvivenze romanze della radice fal- "alto":  
 
Italiano: falasco "tipo di vegetazione palustre" 
Significato originale: *"erba alta" 
Note: 
Il nome "falasco" era attribuito a diverse piante delle Ciperacee e delle Graminacee. Gli utilizzi di questa vegetazione erano molteplici: oltre che come combustibile o lettiera per il bestiame, serviva per lavori di intreccio e per impagliare fiaschi. In Sardegna esistevano capanne di falasco fino a tempi abbastanza recenti.

Napoletano: falerne "superbo"  
Significato originale: *"alto" 
Note: 
Anni fa mi sono imbattuto in questa voce, che i romanisti spiegano a partire dal nome dell'antico vino. Per loro lo slittamente semantico sarebbe stato questo: "ubriaco di falerno" > "altezzoso, superbo". Non so se la parola sia ancora usata nella lingua viva di questi tempi o se sia antiquata. Dai dati che ho esposto si dimostra subito che non c'è alcun bisogno di simili contorsioni. Reputo che questo vocabolo napoletano sia un relitto osco (sannitico), a sua volta preso a prestito dall'etrusco.    

Conclusioni 

Nonostante tutti i problemi di cui abbiamo trattato, è indubitabile la radice etrusca da cui deriva il nome del vino falerno, anche se il percorso semantico non è sempre chiarissimo.  

martedì 24 agosto 2021

ETIMOLOGIE ENOLOGICHE: IL CECUBO E L'ABBUOTO

Per molto tempo, il miglior vino dell'antica Roma è stato il cècubo (latino caecubum). Fin da quando ho sentito menzionare questa bevanda per la prima volta, mi sono interrogato sull'etimologia del suo nome. Mi sono anche reso conto che non esisteva una letteratura scientifica in grado di diradare le tenebre dell'ignoranza. Da quell'epoca sono cambiate molte cose e la possibilità di trovare informazioni interessanti si è accresciuta notevolmente. Ho quindi utilizzato il Web per cercare lumi. Questo riporta il celeberrimo Vocabolario Treccani: 
 
 
cècubo s. m. [dal lat. (vinum) Caecŭbum]. – Famoso vino che si produceva in età romana nel Caecubus ager, nel territorio di Fondi; il nome è stato ridato oggi a un vino rosso pallido prodotto nella stessa zona, spec. a Sperlonga.
 
Ecco. Appurate queste cose, peraltro già note da secoli, mi chiedo come sia possibile che nessuno abbia cercato di indagare più a fondo sull'etimologia del toponimo Caecubus ager, chiaramente connesso con l'oronimo Caecubi montes "Monti Cecubi", da cui derivò il nome della pregiata bevanda.

L'eccellente bevanda raggiunse il culmine della sua fama quando fu usata dal dal popolo di Roma per festeggiare la morte della povera Cleopatra, come documentato da un componimento di Orazio (Libro I, Ode 37). Questa è la parte che ci interessa:   

Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.

Antehac nefas depromere Caecubum
cellis avitis, dum Capitolio
regia dementis ruinas
funus et imperio parabat

contaminato cum grege turpium
morbo virorum, quidlibet impotens
sperare fortunaque dulci
ebria. ... 

Traduzione: 

O amici, ora bisogna brindare, ora bisogna battere la terra con il piede libero, era ora di ornare le immagini degli dei con cibi degli dei Salii.

Prima di ora non era lecito spillare il cecubo dalle cantine degli antenati, mentre una regina preparava folli rovine per il Campidoglio e per l'Impero

con un gregge di uomini turpi contaminato dalla perversione, sfrenata nello sperare qualsiasi cosa ed ubriaca per la dolce fortuna. ...

La storia del nobilissimo liquore di Bacco ebbe una brusca e inattesa fine, che è possibile leggere come un portento. Uno stravagante esperimento di geoingegneria voluto dal Divo Nerone ha portato alla perdita del cècubo. Siccome all'Imperatore dava sommo fastidio la persistente nebbiolina che gravava sull'area, decise di fare scavare un canale con lo scopo di aumentare la ventilazione. Altri affermano invece che egli cercasse di esumare un fantomatico tesoro appartenuto a Didone, sepolto in quei luoghi secondo una leggenda popolare. Fatto sta che l'imponente opera di scavo ebbe come conseguenza concreta una perdita irreparabile per Roma: l'ager Caecubus non diede più uve in grado di produrre ottimo vino. Dopo che la produzione cessò, rimase soltanto il vino che già stava invecchiando nelle cantine, menzionato ancora da Marziale. Sembra che tra le ultime persone ad averne bevuto, un secolo dopo gli scavi di Nerone, ci sia stato il medico Galeno.  

Un'etimologia popolare di Caecubus 

Secondo una leggenda di origine non chiara, Caecubus sarebbe stato un ipocoristico del nome del politico e letterato Appio Claudio Cieco (Appius Claudius Caecus), vissuto dal 350 a.C. al 271 a.C., che fu anche un militare e tra le altre cose rivestì le cariche di censore, console, dittatore. Egli aveva ricevuto il suo cognomen, Caecus "Cieco", a causa della sua effettiva cecità, attribuita dalla superstizione del volgo all'ira degli Dei, irritati dalle sue riforme religiose. Su quali siano in concreto queste riforme, il Web è diviso. Alcuni parlano di un'identificazione delle divinità greco-romane con quelle celtiche e germaniche - cosa che mi pare assai dubbia: nella Roma di quell'epoca l'idea di cosa fosse la Germania doveva essere abbastanza nebulosa. Altri parlano dell'assegnazione di alcuni riti del culto di Ercole a una famiglia diversa da quella che tradizionalmente li praticava. Anche questa informazione non l'ho potuta verificare. 
 

Secondo una storiella raccontata nel Web, la plebe avrebbe rumoreggiato nel vedere Appio Claudio Cieco nell'atto di bere avidamente il vino. I popolani avrebbero così commentato dicendo: "Caecus bibendum." A questa frase è stato attribuito il significato di "Cieco che beve". Così si sarebbe formato l'ipocoristico Caecubus. Il problema è che tale frase non è grammaticalmente corretta. In latino il cieco che beve può essere soltanto Caecus bibens. Se ammettessimo come vera questa spiegazione etimologica, la seguente trafila fonetica avrebbe portato a Caecubus partendo dal latino arcaico, quello parlato nel III-IV secolo a.C.:  

*Kaikos bibēns =>
*Caicus bibēns  => 
*Caecububs  => 
Caecubus  
 
Le forme declinate sarebbero state livellate per analogia. Quindi per il genitivo avremmo una trafila fonetica come questa: 
 
*Kaikei bibentis =>
*Caicei bibentis =>  
*Caecububuntis => 
*Caecubuntis
Caecubī, subentrato per analogia a Caecubu(b)s.  

Il passaggio da *Caicei bibentis a *Caecububuntis e quindi a *Caecubuntis si spiegherebbe con il tipico indebolimento delle sillabe atone in una fase del latino in cui l'accento cadeva sulla sillaba iniziale delle parole, prima che fosse regolato dalla quantità della penultima sillaba.

Mi rendo conto che tutto ciò sia a dir poco grottesco. Il Caecus bibendum riportato sistematicamente nei siti del Web è a dir poco sospetto e punta all'invenzione. Chi lo ha escogitato non era certo un latinista e non cita alcuna fonte antica.
Ecco una breve confutazione. Il gerundivo di bibere "bere" è bibendus e significa "che deve essere bevuto", "da bere". Non è possibile che la forma neutra bibendum concordi con Caecus, che è maschile, oltre al fatto che non significa "che beve". Così si dice Carthago delenda (est) "Cartagine deve essere distrutta", con un gerundivo femminile. Solo i metallari direbbero Carthago delendum o Caecus bibendum nel loro latino distorto. Se anche considerassimo bibendum come un gerundio, dovrebbe essere preceduto dal nome al dativo: Caeco bidendum, il cui significato sarebbe però "il Cieco deve bere". Nemmeno questa soluzione è soddisfacente per motivi semantici. 
 
 
bibendum 
 
1) accusativo del gerundio di bibō
2) accusativo maschile singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
3) nominativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
4) accusativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
5) vocativo neutro singolare del gerundivo (bibendus
     di bibō
 
Riporto il link a un compendio sull'uso del gerundivo e del gerundio in latino.  


Con ogni probabilità il mito del cieco che beve è soltanto una fabbricazione moderna. Il pacchetto memetico è stato diffuso nella Noosfera da una manciata di siti pubblicitari che hanno a che fare con il turismo enologico. La stessa narrazione ha tutte le caratteristiche dell'etimologia popolare.  

Abbiamo provato che la leggenda del Caecus bibens è nel migliore dei casi molto dubbia. Tuttavia, l'etimologia di ager Caecubus e di Caecubi montes è in ogni caso connessa con la stessa radice della parola latina caecus.  
 
 
caecus 
   femminile: caeca 
   neutro: caecum 
 
1) senza luce
2) cieco, che non vede 
3) mentalmente o moralmente cieco; accecato 
4) cieco, casuale, vago, indiscriminato, senza scopo 
5) senza germogli (termine botanico) 
6) invisibile, che non può essere visto 
7) che non può essere conosciuto, nascosto, segreto, oscuro  
8) che ostacola la vista, non trasparente, opaco 
9) che ostacola la percezione, oscuro, fosco; incerto, dubbio   


Proto-indoeuropeo: *kaikos "monocolo"
        (*kéh2ikos nella ricostruzione laringale)
   Proto-italico: *kaikos "cieco", "senza occhi" 
   Proto-germanico: *χaiχaz "monocolo" 
       Gotico: haihs "monocolo"
       Norreno: Hárr (epiteto di Odino) 
   Proto-celtico: *kaikos "cieco"; "monocolo" 
       Antico irlandese: cáech "monocolo"  
       Medio gallese: coeg "monocolo", "cieco" 
   Greco: καικίας (kaikías) "vento di Nord-Est"
         (lett. "che oscura il cielo")
   Proto-Indoario: *kaikaras "strabico" 
       Sanscrito: kekaraḥ "strabico" 
 
Cosa notevolissima, questa radice è documentata anche nell'onomastica etrusca. La mia idea è che fosse un prestito dal proto-italico.
 
Etrusco: 
1) Kaikna, Caicna, Keikna, Ceicna, Cecna (gentilizio)
=> Latino Caecina, Cēcina, Cēcinna (gentilizio); Caecinius (gentilizio).  
Caecina è anche un idronimo ben attestato (attuale Cècina, in Toscana centro-meridionale).
2) Ceice (cognomen): corrisponde al cognomen latino Caecus e al gentilizio Caecius;
Ceicesa "quello di Ceice" (patronimico).
Dai dati mostrati si deduce l'esistenza di questa radice:
kaik-, keik-, ceic- "scuro", "torbido".
Il fiume Cècina ha ricevuto questo nome per via delle sue acque torbide.  
 
Abbiamo anche alcune parole contenute nei glossari latini, che attribuirei all'etrusco per via dei peculiari suffissi: caecua, caecuba e caecuma "civetta". Ad esempio, nel Totius latinitatis lexicon di Egidio Forcellini (terminato nel 1761, prima edizione postuma nel 1771), leggiamo quanto segue:  
 
Caecua et Caecuma, noctua quae lucem fugit, Lex. Philol. 
 
Si capisce subito che caecua, caecuba e caecuma (anche senza dittongo, cecua, cecuba, cecuma) sono varianti di una stessa parola antica; interessante è constatare che sono glossate con noctua "civetta", un evidente derivato di nox "notte" (noctua a tempore noctis dicta, ci spiega Sesto Pompeo Festo). Si vede quindi che la radice che ha formato caecua e varianti, deve essere caec- "oscurità". 

Si menziona un'ulteriore variante: cicuma. Esichio riporta il vocabolo κικυμίς (kikumís), con lo stesso significato di "civetta". La scansione metrica sembra che fosse /ki:ky:'mis/ (vedi Henry George Liddell, Robert Scott, A Greek-English Lexicon, 1843), cosa del tutto inusuale per una parola greca; del resto Esichio non glossava soltanto parole greche e spesso non riportava la loro origine. Anche questa alternanza tra il dittongo -ae- e una vocale lunga -ī- sembra a dir poco strana. Esichio potrebbe aver reso on -i- una vocale chiusa dell'etrusco, derivata dal dittongo -ei-.  
 
W.M. Lindsay, nel suo lavoro Bird-names in Latin glossaries (1918), cita due possibili esiti romanzi: toscano di Lucca cuccumeggia e sardo cuccumeu, entrambi col senso di "civetta". Non fornisce ulteriori dettagli.  

 
Credo che quanto fin qui raccolto possa bastare.
 
Conclusioni 
 
A questo punto possiamo attribuire significati antichi e concreti:  
 
*Kaikubos = Nebbioso 
ager Caecubus = Campo Nebbioso 
Caecubi montes = Monti Nebbiosi 
 
In milanese la nebbia è chiamata scighéra: questa parola deriva da *caecāria, dalla radice di caecus. Questo perché la nebbia impedisce od ostacola la vista. Una semantica simile è all'origine del cècubo e la questione si può dire risolta. 
 
L'abbuoto 

I Wikipediani traducono il latino caecubum con abbuoto, che è il nome oggi dato a un vitigno coltivanto in Lazio e al vino che se ne ottiene, rosso e molto pregiato. Dobbiamo ricordare che anche usando la stessa uva che coltiviamo ancor oggi, gli Antichi avevano metodi di vinificazione molto diversi. A parer mio la traduzione è quindi da considerarsi impropria.
 
 
Abbuoto 
"Vitigno a bacca nera di origini remote, dalle cui uve in un passato remoto si produceva con molta probabilità il famoso Cécubo, più volte decantato da Orazio. Secondo quanto riporta il Drao (1934) – unico studioso a essersi occupato, per quanto ne sappiamo, di questo vitigno –, era originariamente coltivato nell’area pedemontana e collinare del comune di Fondi, in provincia di Frosinone. Agli inizi del Novecento fu descritto come vitigno italiano anche dagli ampelografi francesi Viala e Vermorel. Nulla si conosce circa l’etimologia del nome e dei sinonimi, il cui principale è Aboto; l’unica curiosità è che risulta sempre il primo vitigno di qualsiasi classificazione alfabetica, non solo italiana ma anche straniera. È stato iscritto al Registro Nazionale delle Varietà di Vite nel 1970." 


Qual è dunque l'etimologia di abbuoto? Ecco il responso dell'Oracolo di Google alla richiesta di maggiori informazioni sull'origine dello strano vocabolo: 
 
"Sull'etimologia non si hanno notizie certe, presumibilmente il nome deriva dalla vicinanza dell'area di origine, in particolare la zona di San Raffaele – Fondi, al lago di San Puoto. Molto probabilmente il termine “Abbuoto” proviene proprio dalla trasformazione del nome “San Puoto”." 
 
Il lago di San Puoto si trova nella pianura pontina a circa 3,5 chilometri da Sperlonga, in provincia di Latina. San Puoto deriva dal latino Sanctus Potitus. Il sinonimo San Potito è evidentemente una forma dotta. La possibilità più concreta è che il nome dell'abbuoto derivi direttamente da una formula di brindisi: a un certo punto "a Puoto!" è diventato "abbuoto!" per naturale evoluzione fonetica. Del resto, si nota che anche i Romani antichi brindavano con il caecubum abbandonandosi a manifestazioni di allegria e battendo selvaggiamente i piedi sul pavimento.
Ammettendo che l'antroponimo Potitus abbia dato oltre a Puoto anche *Pòto, si spiegherebbe all'istante la variante più rara e senza dittongo, abòto
 
Non bisogna confondere la denominazione del vino detto abbuoto con una parola omofona, usata nella stessa regione, che indica invece un tipo di involtino. Riporto giusto un paio di citazioni (i grassetti sono miei). 
 

"L’abbuoto viticusano (abbuot nel dialetto locale, cioè “avvolto”) è un insaccato di ovino cotto, a base di carne e frattaglie ovine, uova, peperoni dolci e peperoni piccanti, spezie, tipico di Viticuso, una piccolissima comunità montana della provincia di Frosinone a 825 metri sopra il livello del mare."


"L’abbuoto detto anche abbticchie sono involtini di interiora d’agnello è un piatto povero della cucina ciociara e del paese di Picinisco, ottenuto utilizzando le parti meno nobili dell’agnello: budella, frattaglie e trippa."