giovedì 20 settembre 2018

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Prima)

  - Credo di non essere mai esistito per davvero.
  - Infatti non esisti.
  - Lo sapevo, l’ho sempre sospettato.
  - Ne parli come se fosse un male.
  - Lo è.  La vita è bella. Vorrei solo poterla assaporare per qualche istante.
  - Sciocco: la vita, come le sabbie mobili, non ti lascerà più andare. Stanne fuori, finché puoi.
  - Ma io voglio provare!
  - Lo desideri proprio?
  - Sì!
  - Eccoti accontentato.
 


Introduzione

Ci sono luoghi sulla terra in cui si vorrebbe vivere, metter su casa e famiglia, e poi vendere l’una e l’altra al miglior offerente. E infine c’è, o per meglio dire c’era, la città di Elissinia. Elissinia sorgeva sulle rive di un fiume, e fin qui nulla di strano. Solo che non si trattava di un fiume qualsiasi: per ragioni sconosciute, l’acqua vi scorreva in direzioni diverse, persino nell’arco della stessa giornata, creando qualche imbarazzo ai barcaioli. La vegetazione che cresceva lungo le rive non assomigliava a nessun’altra: un intrico di alberi sghembi, le cui radici affioravano dal suolo come viluppi di serpi, aggrovigliandosi nel sottobosco pullulante di specie fungine dalle dimensioni abnormi. Le spore del zorites caperatus germinavano sul tappeto muschioso dando vita a funghi bitorzoluti, di consistenza gommosa, lunghi talvolta sino a quaranta centimetri e oltre. In città se ne faceva grande uso, e non solo per scopi alimentari. Accanto ai zorites proliferavano miceti più piccoli: fra questi i pleurotus (già panati) e il boletus foetidus, giunto dalle Indie orientali e mai più ripartito.
Smisurata avidità ed avarizia costituivano i tratti peculiari degli abitanti di Elissinia. I bambini venivano educati al culto dell’oro, ma solo pochi di essi, una volta diventati adulti, potevano godere dei privilegi legati al possesso di grandi quantità del prezioso metallo: agli altri non restava che rassegnarsi a svolgere mansioni servili scarsamente retribuite. La frustrazione provata da migliaia di individui sconfitti nelle competizioni gerarchiche, esseri condannati a un destino di subordinazione, creava intorno alla città una cappa di energie negative fitta e opprimente quanto una nube di gas intestinali. Elissinia ospitava un’antica accademia, edificata dall’Arconte Fabius IV sulle rovine del tempio di Ahriman. La città contava una popolazione di centomila abitanti, sui quali regnava Sarmand, il rettore dell’accademia. Sarmand era privo di un arto, sebbene non fosse mai riuscito a stabilire quale: soffriva di una “sindrome dell’arto fantasma” di carattere metafisico. Si aggirava zoppicando vistosamente per i corridoi dell’accademia circondato da uno stuolo di servi zelanti pronti ad eseguire, anzi a prevenire, ogni suo più piccolo desiderio. Disprezzava profondamente quei galoppini, e correva voce che ne avesse soppressi a decine, sacrificandoli alle divinità ctonie durante abominevoli cerimonie notturne. Ciò nonostante, i vuoti nella schiera dei sotto-uscieri venivano puntualmente colmati, anno dopo anno, da altri appartententi ai gradi più infimi della gerarchia, attirati dal miraggio di un avanzamento di carriera. Molti di essi erano stati, in gioventù, allievi dell’accademia. La caratteristica saliente di questa antica, esecrabile istituzione consisteva, a detta dei suoi stessi reggitori, in un processo di selezione negativa, in base al quale ad emergere erano i soggetti con le peggiori attitudini. Ammesso che sia possibile stabilire una graduatoria nella scelleratezza, i peggiori fra i peggiori confluivano puntualmente nella congrega dei compilatori dei codici destinati a regolamentare ogni più piccolo aspetto della vita degli abitanti di Elissinia. Il sintomo più evidente della stortura mentale dei compilatori era rappresentato dalla forma dei loro scritti, concepiti in un gergo di straordinaria bruttezza, intellegibile ai soli addetti ai lavori. Ciò aveva fatto proliferare, in città, un’intera classe di individui – per lo più affiliati secondari alla congrega dei compilatori - la cui professione consisteva nel tradurre i codici e i regolamenti in una lingua comprensibile agli abitanti di Elissinia, dietro lauto compenso. In sostanza, caso raro in natura, una specie parassita – quella dei compilatori – ne aveva generata un’altra: quella dei decifratori di codici. Il malvagio Sarmand regnava su questo tenebroso abisso di  umana abiezione in cui, nel corso dei secoli, mai era era riuscita a penetrare una scintilla di luce. Si sbaglierebbe a giudicare questa una semplice immagine metaforica: l’esistenza di un’accademia sotterranea era un fatto certo, benché noto a pochissimi. Il sottosuolo della città sul fiume celava una rete di gallerie scavate da servitori non umani del consiglio magistrale superiore. Gallerie che si intersecavano creando ambienti più vasti, teatro di riti innominabili.
Tutto ciò che sappiamo di Elissinia lo dobbiamo a uno scritto anonimo custodito presso la Biblioteca Nazionale Centrale della capitale dell’Impero, Veltronia. Della città, infatti, non rimane più traccia, tanto che alcuni studiosi dubitano persino che sia mai esistita. Il libro, un pesante volume rilegato in legno, cesellato a sbalzo con incisioni a bulino, reca il titolo “De natura hominum”. La traduzione del testo, il cui stato di conservazione è tale da scoraggiare anche le tarme, procede con difficoltà ma senza soste. Quella che qui vi proponiamo è la prima versione autorizzata in veltroniano moderno dei capitoli compiutamente tradotti.

DE NATURA HOMINUM

I

Come ogni mattina, i servitori erano intenti a lucidare le teche di vetro che custodivano i cadaveri imbalsamati dei Catafratti, massimi detentori della suprema autorità magistrale. Il corridoio centrale dell’accademia, su cui si affacciavano le aule principali, ospitava venti di queste teche. I volti dei rettori defunti erano orribili a vedersi: vi si leggeva ancora la cupidigia che aveva ispirato ogni singolo gesto della loro esistenza. Dinanzi alle salme dei Catafratti, sfilavano a capo chino gli allievi dell’accademia, prima di recarsi a lezione.  
La porta del rettorato si aprì ed entrò un nano. Era il direttore dell’ufficio affari generali dell’accademia, un individuo temutissimo dai suoi sottoposti, e per questa ragione fatto oggetto della più bieca adulazione. Si narrava che fosse entrato nei ruoli del personale non docente dell’accademia dal grado più basso, quello di vice-portiere addetto allo spolvero delle teche, ed avesse costruito la sua prodigiosa carriera sulla delazione e il ricatto.
  - Eccellenza, il rapporto settimanale.
Sarmand sedeva sulla poltrona accanto alla finestra, tutto preso ad osservare l’andirivieni degli studenti nel cortile sottostante.
  - Posi il fascicolo sulla scrivania e mi faccia un sunto veloce, che non ho tempo da perdere con le scartoffie.
Il nano sapeva benissimo che Sarmand avrebbe letto ogni riga del rapporto, per verificarne la corrispondenza con quanto si accingeva ad esporgli, e si dedicò a riassumerlo con la massima precisione.
  - Sì eccellenza. Il professor Valterius è stato inghiottito da una voragine profondissima apertasi improvvisamente nel manto stradale.
  - Fin qui le buone notizie. E le cattive?
  - A dir il vero oggi non ne sono giunte.
  - Continui.
  - Sì eccellenza, devo segnalarle l’avvenuto decesso del docente emerito di cripto-glottologia, Parvenio, spirato dopo lunga e straziante agonìa. Pensi: il poveretto aveva perso l’uso di entrambi i mignoli delle mani!
  - Ed è morto per così poco?
  - Il resto del corpo era già paralizzato da tempo. Infine, ho raccolto alcune testimonianze che potrebbero inchiodare il professor Euforione. Le ho qui nella borsa.
  - Faccia vedere!
Il nano con uno scatto felino porse a Sarmand un robusto plico.
  - Il pervertito! - disse con maligna soddisfazione il Rettore, scorrendo la documentazione.  - Non l’ho mai potuto sopportare. Ma adesso basta. Quant’è vero Ahriman, stavolta lo ridurrò in polvere. Non intendo solamente distruggerlo, voglio sentirlo squittire come un topo stretto all’angolo.
Il nano non battè ciglio, ma avvertì dentro di sé un brivido di piacere profondissimo.
Sentiva di aver appena contribuito a segnare la sorte di un uomo che lo aveva pubblicamente umiliato in più di un’occasione.
  - Eccellenza.
  - Che altro c’è?!
  - Oggi pomeriggio, in aula magna… la cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa  a Calvertius.
  - Calvertius! Quel miserabile saltimbanco! Avete affisso gli annunci?
  - Da un settimana, eccellenza.
  - E gli avvisi sulla Gazzetta dei Sottomessi?
  - Sono in pubblicazione da ieri.
  - Faccia vedere.
La Gazzetta dei Sottomessi era un foglio a stampa, il solo notiziario pubblicato a Elissinia. Ospitava apologie degli accademici e, più in generale, encomi di chiunque ricoprisse una posizione di potere, qualunque essa fosse, anche la più infima. Ovviamente, la lunghezza dei testi apologetici variava in relazione all’importanza del soggetto: i vice-sotto-delegati della commissione incaricata di sovrintendere alla pulizia delle abitazioni dei Presidi di facoltà ricevevano sì e no tre righe di elogi al mese. Solo i Docenti Emeriti potevano contare su un articolo encomiastico di lunghezza superiore alle trenta righe. I collaboratori della Gazzetta davano il peggio di sé in occasione dei funerali dei potenti: lodi sperticate, ritratti celebrativi talmente enfatici da sconfinare nel ridicolo. 
Gli autori di questi testi erano il prodotto migliore del processo di selezione negativa attuato dall’accademia. Alcuni di essi erano solo in parte umani, altri non lo erano affatto. Il direttore era un pupazzo di legno mosso da un ventriloquo (ma questo era un segreto noto solo a Sarmand).
  - E’ previsto che io tenga un discorso?!
  - Sì eccellenza.
  - Non ci penso neanche. Mi sostituirà il sosia.
  - Il sosia è afono, ha preso freddo.
  - Come sarebbe a dire? Come ha fatto a prendere freddo?
  - La cantina in cui lo  teniamo rinchiuso è umida.
  - Trovategli un'altra collocazione!
  - Senz’altro. Ma per il momento è afono.
  - Ho capito, dovrò intervenire di persona. Provveda lei a stilare un discorso per l’occasione.
  - L’ho già preparato.
  - Posi lì e se ne vada.
- Eccellenza.
Il nano si inchinò e così facendo sfiorò il pavimento con la fronte. Uscito dall’ufficio del Grande Catafratto si stropicciò le mani per la soddisfazione.
Non appena il nano se ne fu andato, ampie volute di fumo cominciarono a levarsi da un’anfora posata su un tavolino d’angolo. Il fumo disegnò i contorni di una figura femminile. Sarmand, per nulla sorpreso, stette ad osservare il fenomeno: in breve, dinanzi a lui venne a stagliarsi la sagoma di una giovane donna, avvolta in un mantello. I suoi occhi risplendevano come braci ardenti, e da tutto il suo corpo emanava una specie di bagliore, quasi il riflesso di un incendio. La voce della donna alata aveva un timbro sepolcrale.
  - Perché mi hai evocata, Sarmand?
  - Questa città poggia su quattro pilastri: avidità, paura, invidia e odio. Da questi quattro elementi trae alimento il mio potere. Come potrei dominare su decine di migliaia di uomini e donne, se costoro non fossero dominati dalle peggiori passioni? Sono come cani rabbiosi, sempre pronti a sbranarsi a vicenda. Rispettano solamente la forza. Ricordi il mio predecessore? Era un vero animale, eppure tutti lo riverivano. Ancora oggi viene ricordato come un benefattore, e una piazza di Elissinia porta il suo nome.
  - Non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché mi hai evocata?.
  - Avverto un pericolo. Una minaccia sospesa sul potere dell’accademia, che io incarno.
  - La minaccia di cui parli  ci è nota, da giorni ne seguiamo l’evolversi.
  - E non siete intervenuti a sventarla? - domandò timidamente Sarmand.
  - Saremo noi a decidere il quando e il come. Ma ti ho già dedicato sin troppo tempo, affari più urgenti mi attendono.
E così dicendo la creatura si dissolse nell’aria, lasciando dietro di sé un aroma di baccalà. 

II

Garm avanzava guardingo sul sentiero illuminato dalla luce argentea della luna piena. Il bosco alle sue spalle si stagliava maestoso: vera e propria fortezza arborea, capace di infondere timore anche nei cuori più impavidi. Non un alito di vento scuoteva le fronde degli alberi secolari. Il giovane estrasse dalla bisaccia l'amuleto donatogli, molto tempo prima, da Firlfrind, il mago, e se lo passò più volte sotto le ascelle e nel solco inguinale, come gli era stato insegnato. Guardò dinanzi a sé: il sentiero proseguiva in linea retta attraverso la brughiera butterata di acquitrini. Riprese il cammino, non senza aver prima lasciato partire un peto fragoroso che rimbombò nel silenzio della pianura come un tuono. Erano giorni che si nutriva di bacche e la cosa cominciava a fare i suoi effetti. Giunto in prossimità di uno stagno, Garm avvertì una sgradevole sensazione: qualcuno, o qualcosa, dal profondo del bosco lo stava fissando.  “Devo far finta di nulla”, pensò. Ma il suo intestino non seguì questo saggio proposito. Un peto, ancor più violento del primo, crepitò paurosamente rimbombando fra gli alberi. Lo spostamento d’aria fu tale da proiettare Garm ad alcuni metri di distanza.
Immediatamente, dal folto della foresta, sbucarono dei guerrieri con dei curiosi copricapi a forma di turacciolo, lanciando urla belluine. Garm si diede a una fuga precipitosa, non certo per sottrarsi al combattimento, ma per pura e semplice codardia. 
Corse come corre una volpe inseguita da un branco di segugi, distanziando i propri inseguitori che non cessavano di rivolgergli improperi. Sfruttando la propulsione fornita dalle emissioni intestinali guadagnò ulteriore terreno. Raggiunse una specie di argine, in cima al quale si arrestò, finalmente, a riprendere fiato. Si volse a guardare indietro, rallegrandosi nel constatare come i suscettibili abitanti della foresta avessero desistito dal braccarlo. Nella sua mente balenò il ricordo della terra natìa, la valle di Gyelheim, da cui un destino avverso lo aveva strappato, forse per sempre. Gli apparve il volto angelico della bella Fringa dalle lunghe trecce dorate e dai seni grandi come meloni. Fringa che mai lo aveva degnato di uno sguardo. Un pigolìo scosse Garm dai suoi pensieri, facendolo sobbalzare più e più volte. - Pulcini! - esclamò, sentendosi perduto. Mancava ancora molto all’alba e la luce del disco lunare pareva suscitare sinistre entità dal suolo coperto di muschi e radici putrescenti. Dove trovare scampo? La foresta pullulava di indigeni ostili, e la brughiera… la brughiera celava ogni sorta di insidie! Non restava che cercare rifugio nella palude, che si estendeva a perdita d’occhio ai piedi dell’argine. Di nuovo il pigolìo risuonò minaccioso nella notte, questa volta ancor più vicino. Garm non esitò oltre e discese nell’acquitrino, rabbrividendo al contatto con l’acqua tiepida. Vi affondò fin sopra il ginocchio e si inoltrò fra la vegetazione. Avanzò fra le canne, finchè l’eco dei pigolii non si affievolì alle sue spalle. La vegetazione palustre dopo un centinaio di metri prese a diradarsi, ed allora Garm scorse delle luci risplendere dinanzi a sé. Provenivano da un villaggio edificato su un’isola, protetta dal canneto. Garm si avvicinò guardingo a una capanna, da cui proveniva una voce cantilenante, e sbirciò all’interno. La capanna era vuota! Ma allora da dove proveniva la voce misteriosa? Forse dalla capanna accanto. Garm, tremando come una foglia, si avvicinò con circospezione al tugurio, da cui ora giungeva un vero e proprio concerto di voci, frammiste a belati, latrati, muggiti, ruggiti, guaiti, bramiti. Troppo per il povero Garm, che stava già per fuggire quand’ecco che la porta della capanna si aprì.
  - Che fai lì, straniero? Entra.
A rivolgergli questo invito era una giovane donna, straordinariamente bella, che lo osservava dalla soglia. Indossava una corta tunica di lino che lasciava scoperte le cosce tornite. Garm si tolse il lungo cappello a cono, dono del generoso Firlfrind, e salì i gradini della capanna. 
  - Il mio nome è Kavàla - esclamò la donna. - Vivo nella palude e mi annoio terribilmente. Tu chi sei?
  - Il mio nome è Garm. Provengo da Gyelheim, non so se hai presente.
  - Veramente no.
  - E’ una valle ubertosa, resa fertile dalle acque di due grandi fiumi alimentati, secondo la leggenda, dalle mammelle di Gea.
  - Molto interessante. Cosa ti porta in questi tristi paraggi?
  - Non dovrei dirlo ma sto svolgendo un’importante missione da cui dipende il destino del mio popolo.
  - Però! E in cosa consiste questa missione?
  - Non potremmo sederci? Sono stanchissimo.
  - Ma certo, entra, anzi scusami se ti ho trattenuto fuori dall’uscio. L’aria della palude è così insalubre. Ecco, siedi pure per terra, su quello straccio bisunto.
  - Grazie, sei molto gentile.
  - Allora, questa missione?
  - Mi spiace ma non posso entrare in particolari: è una missione segreta. Posso però rivelarti che la mia meta è la città stregata di Elissinia.
Kavàla trasalì, scuotendo la sua bella chioma a caschetto.
  - Elissinia è un luogo pericolosissimo! Hai idea dei rischi a cui ti esporrai? E poi come pensi di cavartela da solo? No, no, è una follia bell’e buona, credimi… Una soluzione però ci sarebbe.
  - Quale?
  - Potresti prendermi con te. In due si ragiona meglio! E poi io so fare un sacco di cose: imito le voci degli animali e so contraffare quelle degli esseri umani, alla perfezione.
Così dicendo, Kavàla si mise a quattro zampe e prese ad abbaiare, dimenando il sedere.
Garm, giovane ingenuo, in tutta la sua breve esistenza non aveva concepito un solo pensiero peccaminoso. Ma, alla vista di quelle natiche perfettamente modellate, fu colto da una specie di vertigine.
  - Aria, ho bisogno d’aria! - esclamò, levandosi in piedi. Prim’ancora che la donna della palude potesse accennare una reazione, il giovane sgaiattolò dalla finestra.
Tutt’intorno a lui gracidavano le rane. Il gracidìo era così intenso che Garm, provato dalle troppe emozioni, svenne.
Si risvegliò a giorno inoltrato. Giaceva nella capanna, disteso su del pagliericcio.
Kavàla sedeva, accanto a lui, su uno sgabello rivestito di pelle di sgrinz, un animale erbivoro simile allo yak, che all’inizio della primavera si disfa della sua pelliccia invernale per indossare una  livrea più adatta alla stagione mite.
Garm si stupì nel constatare come le ascelle di Kavàla fossero perfettamente depilate. La terra da cui proveniva era abitata da donne selvagge, di cui tutto si poteva dire tranne che avessero familiarità con il sapone. Kavàla non emanava alcun afrore ferino, anzi, sapeva di pulito. La sua pelle era liscia come seta, e sul suo viso non si scorgeva traccia di baffi. Persino gli insetti parevano restii ad aggredirla, mentre invece si tuffavano con voracità sull’irsuto Garm, come su un’esca succulenta.
  - Bentornato. Hai dormito a lungo.
  - Non so cosa mi ha preso, mi dispiace.
  - Mentre riposavi ti ho procurato del cibo.
La donna porse a Garm un vassoio con delle ciambelle e una ciotola di latte.
  - Mangia che ne hai bisogno, sei così pallido.
Garm divorò tutto quanto con appetito.
  - Ora dimmi: cosa pensi di fare? mi porterai con te?
Garm annuì.
  - Fantastico! Sono già pronta  a partire.
  - Ci servirà una provvista di cibo.
   - Ho preparato tutto. E qui fuori c’è uno sgrinz sellato. Ci stiamo in due comodamente. Pronti?
  - Andiamo. Ma non devi salutare nessuno, prima? I tuoi parenti?
  - No, il villaggio è disabitato.
  - Cosa? Vivi qui sola?
  - Già, tutta sola.
  - Che fine hanno fatto gli altri?
  - Li hai sentiti poco prima di svenire. Si sono trasformati in rane, un paio di anni fa.
  - E com’è successo?
Un’ombra di tristezza si posò sul volto di Kavàla.
  - Un giorno arrivò al villaggio un viandante e chiese ospitalità al consiglio degli anziani. Lo ricordo come fosse ieri. Era un bell’uomo, alto, ma di altezza variabile.
  - In che senso?
  - Che la sua altezza variava. Si allungava e si accorciava.
  - Ma si allungava tutto o solo in parte?
  - Tutto si allungava. A volte invece si restringeva e diventava piccolo piccolo, un vero nano. E in quei momenti mi faceva paura. I nani sanno essere terribili.
  - E poi?
  - Il viandante mi faceva una corte spietata. Si appostava sui rami degli alberi e mi spargeva petali di fiori sui capelli mentre passavo di sotto. Scriveva poesie e me le faceva trovare al mattino, affisse sulla porta della capanna. Un brutto giorno me lo vidi spuntare davanti lungo lungo ed ebbi la cattiva idea di mettermi a ridere, ma mica volevo prenderlo in giro, ero proprio imbarazzata dalla sua lunghezza. Fatto sta che lui s’infuriò, raccolse le sue cose e mentre si allontanava scagliò una maledizione sul villaggio. Tutti coloro che lo abitavano, tranne me, si trasformarono in rane! Ormai ho rinunciato a sperare che possano ritornare umani. L’unica soluzione è che ritrovi quel disgraziato e lo costringa a disfare il sortilegio.
  - Entrambi andiamo alla ricerca di qualcosa o qualcuno, e non sappiamo se lo troveremo.
  - Ora però basta parlare, partiamo - disse Kavàla, e balzò in groppa allo sgrinz.
L’animale cacciò una scoreggia che investì in pieno viso il povero Garm scompigliandogli i capelli. Il giovane barcollò semintontito.
  - Ti ci dovrai abituare. Queste creature si nutrono di vegetali che, fermentando, producono nei loro ampi stomaci quantità considerevoli di gas.
  - Bacche, scommetto.
  - Precisamente. Sali, dai. No, non dietro di me: davanti. Non mi dirai che non hai mai cavalcato.
  - Certo, cosa credi.
Garm mentiva spudoratemente: la sua pratica non andava oltre il cavallo a dondolo ricevuto in dono da bambino. Ma lo sgrinz, nella sua innata saggezza, venne in aiuto del giovane inesperto: si chinò così che Garm potesse salirgli in groppa, quindi si mise in movimento lungo il sentiero che si allontanava dal villaggio in direzione di un bosco di isverdie. Le isverdie, com’è noto, sono piante sempreverdi. Tranne che in un’occasione: quando si sentono osservate. In tal caso, infatti, le foglie assumono una colorazione rossastra. Per questa ragione la pianta è nota fra i botanici con il nome di isverdia timida.
  - In quel bosco vivono strane creature, caro Garm. E’ per questa ragione che non mi sono mai azzardata a recarmici da sola, specialmente di sera. Ma in tua compagnia, mi sento al sicuro.
  - Che genere di creature?
  - Io di persona non le ho mai viste, ma mio nonno mi raccontava che una volta vide sbucare da dietro un cespuglio una scimmia albina, con un cappello a cilindro calcato in testa. E la scimmia gli rivolse la parola!
Garm rabbrividì. Il bosco celava dunque minacce tanto orrende?
  - E poi, - proseguì Kavàla - la scimmia prese da terra un oggetto di forma quadrangolare, simile a un cristallo, recitò una formula incomprensibile e si dissolse nell’aria, come una bolla di sapone.
Il bosco, a quell’ora del giorno, risuonava dei canti di innumerevoli specie d’uccelli, alcuni dei quali estinti da migliaia di anni. L’eco dei loro cinguettii vibrava ancora fra le fronde delle isverdie! Lo sgrinz, con passo lento ma sicuro, si inoltrò nel folto. L’aria era densa di aromi e profumi, così penetranti da indurre un lieve stordimento. Kavàla si strinse ancor più a Garm, che sentì crescere dentro di sé un sentimento quale mai aveva provato prima. E cominciò ad allungarsi, ma non come il viandante: solo in parte.
Lo sgrinz, giunto nel frattempo a una biforcazione del sentiero, si bloccò in attesa di ordini.
  - E adesso dove si va? - riflettè il giovane. In quel mentre, una farfalla dalle ali azzurre venne a posarsi sulla criniera dello sgrinz, per poi levarsi in volo diretta verso il sentiero di sinistra. E fu proprio in quella direzione che Garm spronò la sua cavalcatura.
  - Garm, come faremo ad entrare a Elissinia?
  - Non me lo sono mai chiesto. Troveremo il modo, e poi sono convinto che Firlfrind verrà in nostro soccorso.
  - Speriamo, ma forse sarebbe il caso di preparare un piano di riserva, casomai il mago non potesse intervenire.
  - Hai ragione, faremo così. Quando saremo in vista delle mura della città, ci fermeremo a riflettere.
  - Potremmo farlo anche adesso.
  - Buona idea, comincia tu.
Kavàla si era accorta da un pezzo dello stato di eccitazione di Garm, e non sapeva che fare. Era attratta dal giovane, ma non voleva concedersi a lui troppo presto, almeno non prima del tramonto. A parte ciò, era sinceramente preoccupata per la sorte che li attendeva in città. Non si era mai allontanata dal suo villaggio di capanne, e, pur conoscendo alcune pratiche magiche elementari, non si sentiva certo in grado di rivaleggiare con i negromanti di Elissinia.
A distoglierla da queste considerazioni giunse un evento tanto improvviso quanto inaspettato: lo sgrinz si mise a parlare.
  - Ho viaggiato per mezzo mondo, valicato montagne, guadato fiumi… e ora comincio ad essere stanco di tutto questo andare. Un tempo ero affascinato dal paesaggio, mi incuriosivano le persone che incontravo. Oggi non più: di voi umani so tutto ciò che c’è da sapere, e, quanto al resto, sinceramente m’è venuto a noia. Tuttavia, siccome voi due mi state simpatici, vi porterò a destinazione. Adesso però, se permettete, vorrei sostare un poco.   
Ripresasi dallo stupore, Kavàla rispose allo sgrinz.
  - Ma certo, anche noi abbiamo bisogno di una pausa.
Garm non fiatò. Altre volte, in passato, aveva assistito ad episodi simili,  ma solo in sogno. Era dunque un sogno anche quello? Carezzò una coscia di Kavàla: quella pelle, liscia e calda, era reale. Anche il pizzicotto - lieve, a dire il vero – che ricevette dalla ragazza, lo era. Dunque non stava sognando. Lo sgrinz aveva parlato, e se così stavano le cose, tutto poteva accadere. 

III

Ventri gonfi come otri, teste pelate, guance cascanti, doppi e tripli menti: la platea di accademici radunati nella Sala delle Conferenze offriva allo sguardo un repertorio di corpi sfatti e deformi. Su quell’accolita di eruditi si stendeva già l’ombra della morte. Sarmand, nel fare ingresso in sala da un passaggio segreto, fu colto da sgomento alla vista dei colleghi, e soprattutto dall’odore di carne andata a male, che gli incensi profusi in gran quantità nel locale non riuscivano a cancellare. Scambiò un’occhiata con l’ultraottuagenario professor Ragades, aggrappato a un seggiolone in prima fila. Il rudere rivolse al Catafratto la parodia di un sorriso e, sollevandosi appena sui braccioli, esalò una peto fragoroso. Ritto in piedi dietro di lui, impassibile, l’assistente Gromius, candidato a succedergli alla cattedra di grafologia dei crittogrammi, saettava occhiate torve sui presenti. Smodata ambizione, superbia, volontà di rivalsa trasudavano da tutti i pori del nerboruto assistente, amatissimo dalle studentesse per il suo carattere tirannico, la sua arroganza e quell’aria da bruto irriducibile a qualsiasi tentativo di civilizzazione. Un vero animale, insomma, villoso per di più, e capace di battute incredibilmente volgari, che mandavano in brodo di giuggiole le sue ammiratrici.
Una coppia di portieri, scorto il Catafratto, corse ad inginocchiarsi ai suoi piedi. Sarmand li ignorò, e si diresse verso un capannello di docenti i cui neri mantelli facevano pensare a uno stormo di corvi radunati intorno a una carcassa da spolpare. La folla si aprì al suo passaggio, fra inchini, salamelecchi e sorrisi untuosi, e lasciò apparire il laureando, Calvertius. Era costui un saltimbanco, esibitosi per anni nelle fiere di paese. Divenuto in seguito giullare presso la corte del Proconsole Fistulòs, entrò nelle grazie del potente personaggio e da questi fu avviato a una brillante carriera teatrale. Decisiva fu, in seguito, la conoscenza dell’Archimandrita, Zoran. Con una repentina quanto inaspettata metamorfosi, Calvertius modificò radicalmente il proprio repertorio, fatto un tempo di battute salaci e irriverenti, e divenne “poeta”. Non perdeva occasione per esibire in pubblico questa sua nuova vena poetica, declamando versi, altrui, tesi a celebrare le meraviglie del creato e la benevolenza della Nube Purpurea. Una politica che gli guadagnò apprezzamento da parte dei potenti e consensi entusiastici da parte delle torme dei sottomessi, sempre grati a chi li conferma nelle proprie illusioni consolatorie.
  - Eccellenza! Quale onore, venga, si lasci abbracciare!
All’apparire di Sarmand, Calvertius esplose in una fragorosa esclamazione di giubilo. Il Catafratto si sottrasse all’abbraccio e raggiunse la poltrona riservata alla suprema autorità accademica, foderata in velluto rosso e dotata di soffici imbottiture atte a lenire i disturbi emorroidali cui Sarmand era cronicamente soggetto. Su un seggiolone poco distante, collocato ad un’altezza leggermente inferiore, l’Archimandrita Zoran, assicurato con cinghie robuste allo schienale, dispensava sorrisi melliflui e gesti benedicenti ai convenuti.
Il suono di un gong mise fine al cicaleccio disperdendo i crocchi degli eruditi, che guadagnarono immediatamente i propri posti. Ad un secondo colpo di gong, una botola situata giusto al centro della sala si spalancò, e ne uscì un vecchietto smilzo, con un altissimo cappello a cono ed un abito che pareva fatto di stracci cuciti alla bell’e meglio. Si trattava di Scrotulus, economo dell’istituto di geomanzia, incaricato di presiedere la cerimonia.
Gli era stato riservato una specie di pulpito ma sarebbe meglio dire una botte, agganciata in modo rudimentale a una colonna. Il vecchio vi fu issato con un argano da una coppia di portieri affetti da lordosi, che impiegarono quasi un’ora a compiere l’operazione, tra continue pause per riprendere le forze. Ed ogni volta, per lunghissimi minuti, l’economo restava appeso per le ascelle come un fagotto, le gambe penzoloni nel vuoto, avvolto nei suoi stracci colorati, un’espressione disperata dipinta sul volto. I portieri, madidi di sudore, gemevano per la fatica, ansimando come mantici, tra sinistri scricchiolii d’ossa e rumorose flatulenze, attirandosi i lazzi degli Ululanti seduti nelle ultime file (quella degli Ululanti era una conventicola di allievi dell’accademia accuratamente selezionati e addestrati in appositi serragli). Il pubblico assisteva compiaciuto all’umiliazione pubblica dell’economo, da tutti disprezzato per i suoi trascorsi di strozzino, e alle tribolazioni dei portieri. Il calvario dei tre meschini finalmente si concluse: l’economo fu adagiato nella botte e qui, dopo un’ulteriore, non breve pausa, Scrotulus attaccò il suo discorso.
  - Nel rivolgermi a questo almo consesso, desidero anzitutto ringraziare vivamente e sentitamente Sua Eccellenza il Rettore, nonché presidente della Società dei Catafratti: il mai sufficientemente lodato professor Nicolaus Sarmand, alla cui suprema autorità ci inchiniamo ammirati e riconoscenti; il reverendissimo Archimandrita Zoran, fonte inestimabile di ammaestramento morale, che ha voluto onorarci della sua presenza; i Diadochi Galvano, Labano e Carcarodonte, qui raffigurati in effigie; i membri del Consiglio Magistrale Superiore; il Proconsole Fistulòs e la sua diletta moglie, Isabella, la cui bellezza illumina come un raggio di luce questa sala prestigiosa.
Sarmand aguzzò la vista. Sedeva accanto al proconsole, in prima fila, una giovane donna molto attraente. Si stupì di non averla scorta prima: evidentemente, il viavai di docenti prima del gong l’aveva nascosta al suo sguardo. Il contrasto fra l’avvenenza di lei e lo sfasciume fisico del proconsole non avrebbe potuto essere maggiore. Fistulòs viaggiava verso i settantadue anni, e in lui restava ormai ben poco di umano. Come tutti i suoi sodali, aveva utilizzato il potere per accumulare illecitamente ricchezze enormi. Rimasto vedovo in seguito al suicidio della prima moglie, Fistulòs aveva messo gli occhi su Isabella, una donna di appena 26 anni. Appartenente a una facoltosa  famiglia di allevatori di lemming ridotta sul lastrico dall’irrefrenabile inclinazione al suicidio dei simpatici animaletti, Isabella aveva accondisceso al matrimonio con il laido proconsole per evitare ai genitori l’umiliazione del declassamento sociale. Era una donna d’animo fondamentalmente buono, una di quelle nature che, per ragioni insondabili, ritengono che la loro vita debba essere una continua espiazione.
L’attenzione del Catafratto tornò allo svolgimento della cerimonia. Scrotulus stava giusto pronunciando le ultime battute del suo discorso introduttivo, quando dal fondo della sala si levò un grido. Ampie volute di fumo sospinte da un’improvvisa corrente d’aria raggiunsero le prima file. L’uditorio esplose in un grido di terrore:
- Al fuoco!
Il professor Ragadès si cagò immediatamente nei pantaloni. Sarmand, unico fra tutti i presenti a non cedere al panico, osservava e taceva. Ad ardere erano le tende di un finestrone situato accanto all’entrata principale. Gli accademici si diedero a una fuga precipitosa, dirigendosi come una mandria al galoppo verso l’uscita collocata alle spalle del tavolo della presidenza.
Nella massa dei nerovestiti spiccava un individuo la cui deformità fisica superava ogni immaginazione: si trattava del redattore capo della Gazzetta dei Sottomessi, Demetrio Sileno. Era costui un essere del tutto privo di arti, che si trascinava utilizzando degli pseudopodi. Sarmand aveva pensato talvolta di esiliarlo, ma quell’abominio, così zelante nel proprio ruolo di servile scribacchino, gli tornava tutto sommato utile lì dove stava.
  - Guardali come scappano… come pulci da un cane morto.
Sarmand, fermo al proprio posto, osservava la scena con il distacco di un entomologo. Il principio di incendio fu domato da un squadra di ausiliari richiamati dai sotterranei della Biblioteca Centrale dove prestavano la loro opera di cacciatori di tarme.
All’interno del locale, ausiliari a parte, era rimasto il solo Sarmand, meditabondo.
  - Bene, cerimonia annullata - sospirò il Catafratto. Il pensiero di chi avesse appiccato l’incendio non lo sfiorava neppure. Avvertiva piuttosto un’acuta insoddisfazione per la rapidità con cui gli ausiliari avevano domato il fuoco.
Si decise ad abbandonare l’aula. Il corridoio che conduceva al rettorato era una specie di budello privo di finestre. In origine, le sue dimensioni erano più ampie, ma Sarmand aveva ordinato che fossero ridotte così da indurre angoscia nei visitatori. L’ufficio del Catafratto era, al contrario, molto spazioso. Vi regnava il disordine più assoluto, tanto che lo si sarebbe scambiato per il magazzino di un robivecchi. Refrattario alle sirene del piacere, Sarmand coltivava una sola passione: il Caos. Nessuno più di lui era capace di generare disordine, di inficiare il corretto funzionamento degli apparati amministrativi.
Sarmand aprì la porta con la consueta circospezione, sbirciò all’interno ed ebbe un tuffo al cuore. Sulla poltrona accanto alla finestra sedeva Laetitia, la più bella studentessa dell’accademia. Il Catafratto la convocava spesso nel suo ufficio per ammirarla come si ammira un’opera d’arte. Non si stancava di guardarla, sebbene la cosa fosse per lui estremamente faticosa: a causa di un difetto congenito, Sarmand non riusciva  fissare gli oggetti per più di un minuto, dopo di che la vista gli si appannava. Di qui il suo caratteristico sguardo  incessantemente mobile, l’impossibilità di concentrare l’attenzione su qualsiasi cosa che risiedesse al di fuori della sua mente.
  - Dimmi cosa vuoi che faccia per te - domandò il Catafratto a Laetitia. - Vuoi che dia fuoco all’emeroteca? Lo farò immediatamente. A che servono le emeroteche? Andrebbero distrutte, non fosse altro  per il nome che portano. 
  - Che bel sole c’è fuori.
Sarmand trasalì: la luce feriva i suoi occhi abituati alla penombra delle aule secolari, dei corridoi angusti, dei sottoscala dell’accademia. Luoghi insalubri, ricettacoli di polvere, sporcizia, nidi di ragni e individui affetti da malformazioni non sempre evidenti.
  - C’è troppa luce in questa stanza… dovrei far murare la finestra.
  - Tanto varrebbe seppellirsi vivi. L’accademia somiglia già sin troppo a una tomba.
  - L’accademia è una tomba. Ma tu non puoi capire.
La morte del vicedirettore della facoltà di numerologia, annunciata da giorni, si stava compiendo proprio in quell’istante, nelle catacombe dell’accademia. Per volontà di Sarmand l’anziano erudito, ormai agli stremi, era stato deposto in una delle cripte più tenebrose di tutto l’edificio, un sotterraneo dove persino i pipistrelli esitavano ad avventurarsi. I singhiozzi del povero vecchio, le sue inutili suppliche agli dèi, frammiste a ululati di terrore, risuonarono a lungo nell’oscurità, sino a trasformarsi in flebili lamenti, via via più fiochi. Com’erano lontani i giorni del potere, della gloria accademica! Niente più platee adoranti, ma lugubre silenzio e oscurità fittissima. Il vegliardo sollevò debolmente la mano destra - con cui tante volte aveva pizzicato il sedere alle donne di servizio – quasi  a cercare un appiglio cui aggrapparsi per sfuggire alla salda presa della morte. Ma le sue dita non incontrarono altro che il vuoto, ed emesso un ultimo rantolo, l’uomo spirò.
Nello stesso istante, come se un genio malefico gli avesse sussurrato la notizia in un orecchio, Sarmand sorrise soddisfatto.   
  - C’è un geco sulla parete - disse Laetitia.
  - Ho notato. E’ lì da stamattina.
  - E un altro, proprio qui, sul davanzale.
  - Ce ne sono parecchi, sì.
  - Da dove arrivano?
  - Dall’istituto di zoologia, immagino.
  - E non ti danno fastidio?
  - Perché mai dovrebbero? Sono creature pacifiche e silenziose.
  - Ma la stanza ne è piena.
  - Momentaneamente.
  - Perché, poi se ne vanno?
  - Sì, in genere prima che faccia buio. Ora sarà il caso che tu torni a studiare. Ho impegni urgenti di lavoro.
  - Come vuoi.
La camera da letto di Sarmand era stata ricavata, su suo espresso ordine, all’interno della Biblioteca Centrale, previa rimozione delle raccolte anastatiche della rivista di filologia “Mimesis”, fondata secoli prima dal professor Demophilo Cauto (la cui salma, imbalsamata, ammuffiva nello scantinato della Facoltà di Lettere). Sarmand aveva disposto lo sgombero del locale che ospitava le riviste, il loro trasporto nel locale caldaie e la loro immediata distruzione. Fra il crepitare delle fiamme erano così scomparse per sempre decine di migliaia di pagine fitte di note, indici, apparati bibliografici, frutto della fatica di generazioni di eruditi. Un gesto di cui Sarmand andava fierissimo.
Dunque, la camera da letto affacciava direttamente sulla Biblioteca. Da un oblò ricavato nella porta, il Catafratto poteva spiare il lavoro delle catalogatrici intente a compulsare tomi su tomi per produrre etichette recanti indicazioni vergate secondo le severissime regole del Catalogo Sistematico di Veltronia.
Sarmand, ogni notte, si divertiva a scambiare di posto le etichette applicate sui dorsi dei volumi durante il giorno, vanificando così l’operato delle catalogatrici e rendendo di fatto impossibile il reperimento dei libri da parte del personale addetto al servizio consultazioni e prestiti. Il danno arrecato alla veneranda istituzione in oltre vent’anni di sistematici sabotaggi era gigantesco. Un terzo del patrimonio librario della Biblioteca risultava ormai indisponibile.

Pietro Ferrari, 2010

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