mercoledì 31 ottobre 2018

LETTERATURA ONIRICA

L’apertura della sessione pomeridiana del convegno era prevista per le 14 e 30. Un quarto d’ora prima dell’inizio l’aula era già gremita, in gran parte di studenti iscritti al corso dell’oratore, il professor Canestracci - l’uomo che ero pagato per pedinare.
Mi sedetti in una posizione defilata, da cui potevo controllare agevolmente la sala e, all’occorrenza, allontanarmi senza dare nell’occhio.
Ero reduce da una notte insonne, l’ennesima. Quando si dorme poco, o non si dorme affatto, i processi mentali subiscono un rallentamento non dissimile da quello prodotto dagli oppiacei. Ciò nonostante, gli stimoli sensoriali non giungono attutiti, ma amplificati. Una condizione tutt’altro che piacevole.
Alla mia destra, poco lontano, un giornalista sudaticcio, collaboratore della Gazzetta dei Sottomessi, il quotidiano locale, si gingillava freneticamente con il tablet. Lo conoscevo di vista e di fama: era un assiduo frequentatore di strip club e bische clandestine. Spandeva intorno a sé un scia olfattiva greve e inconfondibile, un misto di profumo dozzinale, sudore rancido e whisky.
Il microfono diede uno di quei fischi acutissimi per cui i microfoni paiono essere appositamente progettati. Il moderatore, dopo una breve introduzione infarcita di omaggi servili ai notabili presenti in sala, diede la parola a Canestracci. Questi esordì facendo una panoramica sui precursori dell’onirismo: Macronio, Eustachio, Filemone d’Alicarnasso, sino a giungere agli esponenti tardo rinascimentali di quel singolare genere letterario. Si soffermò con particolare attenzione sulla figura di Ermenegilda da Brescia, la monaca-veggente autrice di un trattato sulla scrittura automatica e il sonnambulismo. Alle 16 l’uditorio cominciò a dare segni inequivocabili di cedimento. Gli studenti, stremati, boccheggiavano come pesci fuor d’acqua; un’anziana docente di pedagogia si accasciò al riparo di una tenda ed ivi giacque, esanime. Canestracci, eccitato dalla vista delle sofferenze che andava infliggendo al pubblico, si gettò a capofitto in un’analisi degli epigrammi di Giulebbe da Orvieto. La conclusione del discorso fu salutata da un applauso scrosciante, liberatorio. Mai in vita mia avevo desiderato tanto aprire il fuoco su un accademico.
Il moderatore ringraziò calorosamente il Canestracci per il “pregiatissimo intervento”, dicendosi certo che sarebbe “entrato negli annali dell’ateneo di Elissinia per la straordinaria limpidezza dell’esposizione e la sapienza dottrinale profusavi”.
Fu in quel preciso istante che giurai a me stesso che non avrei dato tregua a Canestracci sino al suo completo annientamento.
Prima di abbandonare la sala, versai nella borsa del giornalista – intento a congratularsi con l’oratore - il contenuto di una busta. Si trattava di una polvere ricavata dai semi dell’Anaurabo, un arbusto che cresce sulle pendici delle Ande, utilizzato dagli indigeni per provocare paralisi temporanee dei muscoli facciali.
Guadagnai una panchina nei giardinetti prospicienti la sede del convegno. Per ragioni inesplicabili, una studentessa che passeggiava da quelle parti con aria svagata venne a sedermisi accanto e attaccò bottone.

 -    Quanti pappagallini.
 -    Già, ce n’è una colonia.
 -    Lei è un ricercatore?
 -    In un certo senso.
 -    Le piace Elissinia?
 -    Si e no.
 -    A me piace molto, ma solo a ottobre.
 -    E negli altri undici mesi dell’anno?
 -    Non la sopporto.
 -    Dev’essere dura.

La ragazza vestiva in modo finto trasandato: la scelta degli abiti e il trucco rivelavano una sapiente cura dei dettagli. Aveva una chioma di capelli biondi di una lunghezza rara a vedersi. Distolsi rapidamente lo sguardo per non dare adito a malintesi.

 -    Dunque è un ricercatore.
 -    Ostinato.
 -    E le sue ricerche sono fruttuose?
 -    A volte. E lei che fa di bello?
 -    Studio.
 -    A quale facoltà è iscritta?
 -    Mi sto specializzando in criptozoologia.

Non riuscii a trattenere un sorriso.

 -    Che c’è, la cosa la diverte?
 -    Diciamo che è una disciplina di nicchia.
 -    Ma ho altre aspirazioni.
 -    Quali, se posso?
 -    Lavorare per una compagnia aerea.
 -    In bocca al lupo.

All’uscita della sala convegni si materializzò Canestracci. A fargli strada, due portieri dall’aspetto patibolare. Era attorniato da un nugolo di lacchè di entrambi i sessi.
Mentre mi alzavo dalla panchina, da sotto la mia giacca fece capolino la fondina della pistola. La studentessa se ne avvide, colsi lo stupore nel suo sguardo, ma non fece parola.

 -    Arrivederci –, le dissi.
 -    Arrivederci. Giulia. – disse a sua volta, porgendomi la mano.
 -    Marco.

Aveva una stretta di mano decisa. Ne dedussi che praticava una qualche disciplina sportiva, forse un’arte marziale. Lasciai defluire il corteo di Canestracci e, quando fu a una certa distanza, presi a seguirlo.

Il barista doveva aver assunto qualche sostanza psicotropa: da alcuni minuti era come pietrificato dietro al bancone, con gli occhi sbarrati, un sorriso ebete impresso sul volto. Nel locale, a parte me, c'era un solo avventore, un vecchio ubriaco che pareva anche lui in stato di trance catatonica. Lasciai una banconota da dieci euro nel piattino ed uscii. Nonostante fosse mezzanotte, il centro di Elissinia era una fornace.
Mi incamminai verso casa, imprecando a bassa voce. Giunto all'altezza di via dei Catafratti vidi sbucare dall'androne di un palazzo un grosso topo di fogna. Fui sul punto di sparargli, ma dopo un attimo di esitazione riposi la pistola nella fondina. Il roditore si rifugiò in un vicolo buio. 

Giunto a casa, mi buttai sul divano. Era stata una giornata pesante. Avevo dovuto seguire Canestracci a Milano, sin nei pressi di Galleria Buenos Aires. Vi si era fatto portare dall'autista, Casimiro Carella. Costui era una mia vecchia conoscenza:  un individuo rozzo ma provvisto di intuito animalesco e di una certa astuzia. Godeva dell'amicizia di più di un professore ordinario, grazie alle sue doti di procacciatore di mignotte. Ciò gli aveva garantito una vera e propria immunità all'interno dell'ateneo, la licenza al cazzeggio permanente e sistematici trattamenti di favore.

Scivolai in un sonno senza sogni. Poche ore dopo fui svegliato dallo squillo del telefono: un invito in questura.

 -    Deuterio: come si fa a chiamare così un figlio?
 -    Beh, meglio Deuterio che Stronzio.

I nomi insoliti mi hanno sempre affascinato. Certo dev’esserci un limite. Deuterio pareva effettivamente un po’ eccessivo, ma forse il padre era un chimico, vallo a sapere.
Il brigadiere Marostica invece era di diverso avviso.

 -    Solamente un cretino poteva scegliere un nome del genere.
 -    In effetti.

Ero stato convocato in questura in seguito al ritrovamento, lungo un sentiero nel parco, del cadavere di Canestracci. A fare la macabra scoperta, un podista che di nome faceva Deuterio. Marostica era nervoso, la morte violenta di un illustre docente universitario non era una rogna da poco. 

 -    Da quant’è che lo pedinavi?
 -    L’ho pedinato per una settimana.
 -    E come mai lo hai perso di vista proprio domenica?
 -    Perché ero pagato per pedinarlo fino a sabato.
 -    Ma guarda che coincidenza.
 -    Chiedi in agenzia: è tutto nero su bianco.
 -    Adesso mi riferisci quello che hai visto quando lo pedinavi.
 -    No problem.

Riferii. Marostica ascoltava e, di tanto in tanto, prendeva appunti su un taccuino. Mi lasciò terminare senza mai interrompermi, quindi se ne uscì dicendo:

 -    E’ una grave perdita per la città.
 -    Hai voglia di scherzare?
 -    La pietà non si nega a nessuno.
 -    Ma non si impone neppure a comando.
 -    Non cambierai mai.
 -    Nessuno cambia: né tu, né io. Tutt’al si più peggiora.
 -    Al tuo professore piacevano gli ortaggi?
 -    Perché?
 -    Il medico legale gli ha trovato una carota nel culo. Bella grossa, con un ciuffetto di foglioline.
 -    Qualcosa mi dice che non è morto per overdose di beta carotene.
 -    No: qualcuno gli ha stretto troppo un laccio al collo. Arrivederci, Marco.

Lo salutai con un cenno del capo e me ne andai. La morte di Canestracci mi lasciava indifferente, umanamente parlando, ma provavo un interesse di carattere professionale per le circostanze del decesso. Ora non restava che attendere i ritratti encomiastici del defunto sulla Gazzetta dei Sottomessi, le dichiarazioni fintamente affrante dei colleghi, i necrologi sul cancello principale dell’ateneo. Le acque sulla superficie paludosa di Elissinia si sarebbero agitate un poco, per riprendere poi l’immobilità limacciosa di sempre.

Il titolare dell’agenzia mi guardò storto da dietro la scrivania.

 -    Ha telefonato Marostica.
 -    Davvero?
 -    Mi ha chiesto di te.
 -    E quindi?
 -    E quindi preferirei non ricevere certe chiamate.
 -    Se è per quello, io preferirei non essere convocato in questura, però capita.
 -    L’unica cosa positiva di questa storia è che la moglie ci ha pagato in anticipo.
 -    L’hai sentita?
 -    Naturale.
 -    E…?
 -    Non mi è parsa particolarmente addolorata.
 -    Come biasimarla. C’è altro?
 -    Si: potremmo tornare in pista, se le indagini dovessero andare per le lunghe o non approdare a nulla. Tu che hai detto a Marostica?
 -    Una sintesi di quel che è scritto nel fascicolo consegnato alla vedova dell’illustrissimo.
 -    Ho la sensazione che ci sarà ancora del lavoro per noi. La moglie non può fare la figura di quella che se ne fotte del perché e del percome della morte del marito, dopo averlo fatto pedinare fino a ventiquattr’ore prima.
 -    Immagino l’abbiano iscritta nel registro degli indagati.
 -    Immagini bene. Tu tieni occhi ed orecchie ben aperti.
 -    Come sempre.

Era il momento di andare a trovare il Lello. Benché, dopo l’ultima scarcerazione, conducesse vita ritirata, rimaneva uno degli uomini più informati su tutto ciò che di losco fermentava a Elissinia. Lo conoscevo da una vita e mi doveva più di un favore.
Abitava nel sottotetto di un condominio dirimpetto al teatro cittadino. Usciva solo di notte, e non sempre. Per incontrarlo, bisognava conoscere le sue abitudini, e io sapevo di poterlo trovare, a metà settimana, al bar notturno di Viale Custoza. Fu proprio lì che lo incontrai, quella notte stessa.

 -    Guarda chi si vede -, disse quando mi sedetti al bancone.

Era più grigio e male in arnese del solito.

 -    Ti trovo bene –, replicai.
 -    Respirare respiro. Bevi qualcosa?
 -    Vodka.

Fece un cenno al barista e questi di lì a poco ci servì due bicchieri appannati dal gelo.

 -    Salute.
 -    Salute. Come mai da queste parti?
 -    Non lo indovini?
 -    Passeggiavo. E’ più salutare passeggiare in città che nel parco, ultimamente.
 -    Con tutti quei pollini, se uno è allergico, rischia grosso.
 -    Allo strangolamento siamo tutti quanti un po’ allergici.
 -    Un genere di allergia che si manifesta anche in assenza di graminacee.
 -    Magari in un appartamento.
 -    Anche.
 -    Certo che è strano: con una crisi allergica di quel genere, uno che fa? Va al parco. Non ti sembra curioso?
 -    Magari ce l’hanno accompagnato.
 -    Non a riprendere fiato, però.
 -    Media vita in morte sumus.
 -    Perbacco, Lello, mi sorprendi.
 -    Il tempo per leggere ed apprendere non mi è certo mancato.
 -    Ecco, allora rendimi edotto in merito a quel genere di allergia. Ti risulta che il luminare soffrisse di avitaminosi?
 -    Che io sappia, la vitamina A si assume per via orale, non rettale.
 -    Infatti. Grazie per la vodka.
 -    Da svidànja.

Al funerale di Canestracci non mancava un solo direttore di dipartimento. Oltre ai notabili di Elissinia, erano presenti parecchi curiosi. Nei tanti articoli dedicati dalla Gazzetta e dai quotidiani nazionali alla morte dell’accademico non si faceva alcuna menzione della carota. La notizia tuttavia era filtrata non si sa come, e in città non si parlava d’altro. I volti dei presenti, a cominciare dalle massime autorità dell’ateneo, tradivano un certo imbarazzo. Il rettore magnifico pronunciò un panegirico del defunto, ostentando insincera commozione. Al termine del discorso, un piccione planò sul cortile dov’era in corso la cerimonia, e sganciò uno schizzo di feci che andò a stamparsi con precisione millimetrica sull’abito blu dell’oratore.

Sul volto del Magnifico, che fino a pochi istanti prima appariva disteso, si dipinse una smorfia truce. Il piccolo inconveniente fece emergere il suo essere autentico, fosco e stizzoso. Tale fu la sua rabbia che, con un morso, frantumò il microfono, quindi, imprecando, scese dal podio e si allontanò respingendo in malo modo portieri, commessi e segretarie accorsi servilmente a confortarlo, manco fosse stato colpito da una scheggia di mortaio, anziché da uno schizzo di merda.

Mi congratulai in cuor mio con il piccione.

La cerimonia era a un passo dal naufragio, un rischio che l’Ateneo doveva ad ogni costo scongiurare. Così, il professore ordinario di arti divinatorie, Jacopo Guagliardi, detto lo Zoppo a causa della sua andatura claudicante, guadagnò faticosamente il podio e tentò di rimediare al disastro.

Tanto impacciato era nei movimenti quanto agile nel parlare: il suo fu un intervento dignitoso, privo di toni enfatici. La cosa mi sorprese non poco. Purtroppo, ultimato il discorso, mise un piede in fallo e si abbatté rovinosamente al suolo. Accorsero due portieri: il poveretto fu sollevato da terra come un fagotto di stracci e deposto su una panchina. Aveva un colorito cereo, gli occhi strabuzzati ed emetteva deboli lamenti simili a guaiti.

Si ritenne opportuno porre termine alla cerimonia.

Il pubblico defluì celermente, io mi soffermai ad osservare i capannelli di accademici che cicalecciavano nel cortile, indifferenti alla presenza della bara.

Me ne andai. Nell’uscire dal tetro edificio, udii una voce femminile pronunciare il mio nome. Mi voltai e vidi, sul marciapiede opposto, Giulia. Indossava un abito in maglina lungo, a balze, che le donava molto. Traversai la strada e le andai incontro.

  -    Buongiorno Giulia, come sta?
  -    Bene. Lei, le sue ricerche?
  -    Se ne parlassimo in tutta tranquillità davanti a una tazza di caffè?
  -    Perché no?

Entrammo al Samarcanda, locale frequentato dai vitelloni di Elissinia. Giulia ordinò una caipiroska alla fragola, io un Jameson.

 -    E’ andato al funerale?

Annuii.

 -    Conosceva il morto?
 -    Non personalmente. Lei?
 -    Ho dato il suo esame l’anno scorso.
 -    Ah. Che tipo era?
 -    Molto preparato, grande oratore. Però…
 -    Però?
 -    Niente. Parce sepulto.
 -    Non è ancora stato sepolto.
 -    Faceva un po’ troppo il piacione, mi spiego?
 -    Capito.
 -    Non sto dicendo che l’abbia fatto con me.
 -    Con altre studentesse, invece?
 -    Si, insomma, allungava le mani.
 -    Ci sono state lamentele?
 -    Non che io sappia.
 -    Quindi con lei non ci ha provato?
 -    Le ho già detto di no.
 -    Sorry.
 -    E’ solo che  non amo le domande troppo dirette.
 -    Io invece tendo a evitare le perifrasi, gli eufemismi. Poco fa lei mi ha fatto capire che il defunto era uno sporcaccione.
 -    Non ho detto questo.
 -    Non ha usato quel termine, ma il senso delle sue affermazioni era chiarissimo.
Inoltre…
 -    Inoltre?
 -    Ho la netta sensazione che le abbia fatto delle avances, che lei ha respinto.

Giulia tacque e distolse per un istante lo sguardo.

 -    Se anche fosse, la cosa non ha più alcuna importanza.
 -    Ne convengo.
 -    Sa cosa faceva quel porco? – disse fissandomi dritto negli occhi.
 -    No.
 -    Invitava le studentesse carine nel suo studio e...
 -    …e?
 -    Se la convocata stava al gioco, chiudeva la porta dello studio a chiave e si spogliava. Poi si sdraiava sul tappeto e chiedeva alla ragazza di togliersi le mutandine e sederglisi in faccia.
 -    E chi non ci stava veniva punita in sede d’esame?
 -    No, in tal caso una denuncia lui se la sarebbe beccata di sicuro, ma le accondiscendenti avevano il 30 assicurato.
 -    Ecco, ora il quadro della situazione è nitido. Un altro drink?
 -    Ma non dovevamo parlare davanti a una tazza di caffè?

Sorseggiando la seconda caipiroska, Giulia si sciolse ulteriormente.

 -    Cos’è questa storia della carota?
 -    Gliene hanno trovata una nel culo. Ne spuntava un’estremità, con tanto di foglioline.

Si mise a ridere, e faticò non poco a smettere.

 -    Che figuraccia! Ma se l’è meritata.
 -    Credo che il suo assassino, con quel gesto,  avesse in mente proprio di fare uno sfregio alla figura di uno stimato docente.
 -    Perché assassino? E se fosse stata una donna?
 -    Non penso. Canestracci aveva una bella stazza. Non escludo però il coinvolgimento di una donna, come mandante del delitto. Poi c’è un particolare curioso.
 -    Quale?
 -    La carota era una deep purple.
 -    Sarebbe a dire?
 -    Una varietà ibrida di colore viola scuro.
 -    Mai sentita!
 -    E’ stata immessa di recente sul mercato.
 -    Ma lei come fa a sapere queste cose? Non c’erano sui giornali.
 -    Anche lei sapeva della carota, di cui i giornali hanno taciuto.
 -    Ma non sapevo fosse viola.
 -    Me le ha dette un uccellino.
 -    Un pappagallino, magari?

Quella ragazza m’intrigava.

 -    E se passassimo al tu? -, le dissi.
 -    Di già? Siamo appena al secondo bicchiere.

Si, era decisamente un bel tipo. Restammo ancora un po’ a chiacchierare del più e del meno. O per meglio dire straparlammo entrambi, per via dell’alcol.

Al terzo whisky la mia lucidità mentale cominciò a vacillare. Giulia mi guardava ad occhi sgranati, ridendo alle mie battute. Tre caipiroska non sono uno scherzo. 

 -    Abiti in centro?
 -    Dietro alla stazione.
 -    Ti accompagno, se vuoi.
 -    Ok.

Uscimmo. Fatti pochi passi, mi squillò il cellulare. Era Lello.

 -    Che mi dici?
 -    Ho fatto il giro degli ortolani.
 -    E quindi?
 -    Quando posso trovarti?
 -    Ti trovo io solito posto solita ora.

Riagganciai.

 -    Appuntamento galante?
 -    Tutt’altro.

Giulia camminava appoggiandosi al mio braccio, e nonostante ciò la sua andatura era tutt’altro che stabile.

 -    Direi di evitare il corso, - suggerii -  c’è troppa gente a quest’ora.

Imboccammo Via Sarfatti, una via laterale scarsamente frequentata. All’improvviso, una decina di metri avanti a noi, vidi un corpo precipitare dall’alto di un edificio sul marciapiede sottostante, lanciando un grido terribile. Giulia sobbalzò per lo spavento.

Mi avvicinai per capire se l’uomo che giaceva al suolo fosse ancora vivo. Lo osservai, dal cranio rotto si andava allargando una pozza di sangue. Lo riconobbi subito: si chiamava Sastri, era nel giro dello spaccio.

Composi il 112 sulla tastiera del cellulare.

 -    Giulia, tra poco saranno qui i carabinieri. Ce la fai ad andare a casa da sola?
 -    Mi gira la testa.
 -    Vatti a sedere al bar di fronte alla Feltrinelli, prenditi un caffè. Appena mi libero, ti raggiungo.
 -    E tu che fai?
 -    Aspetto i caramba.

Giulia si diresse verso Via dei Catafratti. Io rimasi dov’ero, poco distante dal cadavere. Una piccola folla di curiosi si venne radunando sul post. L’ululato delle sirene si faceva sempre più acuto. Dopo poco giunsero un’ambulanza e due-diconsi-due vetture dei carabinieri. Da una di esse scese Marostica.

 -    Marco, ma tu sempre in mezzo ai casini stai?
 -    Ne farei volentieri a meno.
 -    Che è successo?
 -    L’ho visto venir giù come un sasso.
 -    Ma guarda – disse il brigadiere dopo aver osservato attentamente il morto –, una vecchia conoscenza. Tu che ci facevi qua?
 -    Passeggiavo.
 -    Se passeggiavi più svelto ti cadeva in testa.

I caramba si fiondarono nel palazzo prospiciente il tratto di marciapiede su cui giaceva il cadavere, io invece nel cesso del bar più vicino perché mi stavo pisciando addosso.

Raggiunsi Giulia alla Feltrinelli e l’accompagnai a casa. Non dissi di no quando mi chiese se volevo salire da lei. Mi aspettavo il classico appartamentino per studenti e invece mi trovai di fronte a un signor trilocale elegantemente arredato. Giulia si accorse del mio stupore.

 -    E’ di mio padre, un investimento. Mettiti comodo, ti raggiungo subito.

Mi sedetti sul divano, un ampio divano a isola. Giulia riapparve dopo una decina di minuti con indosso un accappatoio e si sdraiò lunga distesa sul divano, alla mia destra.

 -    Non è che mi faresti un favore?
 -    Dimmi.
 -    Mi massaggeresti i piedi? E’ una cosa che adoro, mi rilassa tantissimo.
 -    Ok.
 -    Non ti ho detto tutto.
 -    Cos’hai tralasciato?
 -    Premi con più energia. Sai che i vari punti della pianta del piede sono collegati ad alcune parti del nostro corpo?
 -    La chiamano riflessologia plantare. Stavi dicendo?
 -    Ho preso 30 e lode all’esame di Letteratura onirica.
 -    Ah.
 -    Ora mi giudicherai una troia.
 -    Tendo a non giudicare in modo affrettato.
 -    Sapessi che razza di maiale era Canestracci, un vero pervertito.
 -    Non sei costretta a parlarmene.

Lei però non chiedeva di meglio che spiattellare tutto quanto, fin nei dettagli.

 -    Faceva schifo a vedersi. Te lo immagini tutto nudo, con le palle penzoloni? Gli arrivavano quasi alle ginocchia.
 -    Oh la miseria!
 -    Non ridere. Il suo corpo flaccido mi disgustava, aveva un colorito cadaverico.

Hai presente i corpi degli annegati che riemergono in superficie quando sono gonfi di gas? Ecco, così.

 -    Che bella immagine.
 -    Si masturbava di continuo ma non gli si rizzava. Voleva che gli strizzassi le palle e l’uccello con una cordicella di cuoio. Poi mi faceva indossare uno strap-on...
 -    E bravo il professore.
 -    Tutto sommato me la sono cavata a buon mercato. Un paio di incontri e nient’altro.
 -    E non ti ha più cercata?
 -    No cioè, sì, ma ho preso tempo. L’ho rivisto all’esame, ed è stato di parola.
 -    Buon per te. Ora ti devo proprio salutare.
 -    Cos’è, ti ho scandalizzato?
 -    Figurati, è che ho da fare.
 -    Ti lascio il mio numero se vuoi.

Presi nota. Si alzò per accompagnarmi alla porta. Non la baciai: l’idea di lei con Canestracci mi procurava un certo disgusto.

Si chiamava Maurizio, ma tutti si divertivano a storpiarne il nome. Così, c’era chi lo chiamava Malizio, chi Novizio, chi invece Mestizio. E ogni volta il poveretto si affrettava a correggere con voce stridula il proprio interlocutore: “Non mi chiamo Solstizio, mi chiamo Maurizio!”, suscitando l’ilarità dei presenti.
Io non l’avevo mai sfottuto, ogni tanto però gli intimavo di levarsi dai coglioni, quando era troppo insistente nel chiedere uno spicciolo o una sigaretta (a me che non fumo).
Quel giorno lo vidi stravaccato su una panchina nei giardini del Castello.

 -    Uèh Maurì.
 -    Ciao Marcone.
 -    Sei già pieno a quest’ora?
 -    Ho bevuto solo un goccetto.
 -    Seee.
 -    Giuro.
 -    Meglio che non giuri. Ciao!

Il suo alito puzzava di vino che potevi sentirne l’odore a tre metri di distanza. Allungai il passo e dopo una decina di minuti giunsi in agenzia. La segretaria era al telefono e mi fece segno di entrare nell’ufficio del titolare.

 -    Eccoti finalmente! Da’ un’occhiata alla prima pagina del giornale.

Sulla prima pagina della Gazzetta spiccava un titolone: “Tragica caduta dal balcone”. Sastri non era uno sputapalline qualunque ma il pusher ufficiale dei rampolli della borghesia locale.

 -    La vedova Canestracci ha chiamato. Vuole vederti.
 -    Ti farò sapere.
 -    Presto però!
 -    Il tempo di passare in questura per testimoniare.

Negli uffici della questura notai una certa animazione.

 -    Brigadiere, ultimamente ci vediamo spesso.
 -    Persino troppo, direi. Tu che parere ti sei fatto sulla morte di Sastri?
 -    L’ho visto venir giù urlando. Non credo sia scivolato mentre stava annaffiando i gerani sul balcone.
 -    Tanto più che quella non era casa sua.
 -    Ah. E di chi?
 -    Perché me lo chiedi, lo sai già, sta sul giornale.
 -    Non l’ho ancora letto.
 -    Ci abita un avvocato, che però in quel momento era assente.
 -    Ah. E in merito al carotone, novità?
 -    L’indagine è in corso. Hai firmato la deposizione?
 -    Certo che sì. Ciao brigadiere, buon lavoro!
 -    Altrettanto a te.

Tutto si può dire di Elissinia tranne che sia un posto dove non succede niente. In pochi giorni, due morti ammazzati. Di Canestracci in città non si parlava più, la vicenda della carota era così imbarazzante per le autorità accademiche che nessuno, nei corridoi dell’università, osava fare il minimo cenno al docente. La vedova tuttavia non aveva alcuna intenzione di stare al gioco. Mi ricevette nel tardo pomeriggio.

 -    Se credono che resterò muta in disparte, si sbagliano! Mandria di ipocriti!
 -    Signora, le posso parlare con assoluta franchezza?
 -    Certo.
 -    Se fossi al suo posto non so se agiterei più di tanto le acque. Lei ha letto il mio rapporto…
 -    L’ho letto. So perfettamente che razza di porco fosse mio marito ma non è questo il punto. Non mi sta bene che i suoi “cari colleghi” passino agli occhi di tutti per dei galantuomini e lui per l’unica pecora nera dell’ateneo.
 -    Capisco.
 -    Quindi non starò zitta. Continui ad indagare.
 -    Neppure se questo significasse scoperchiare una sentina?
 -    In quella sentina di sicuro non ci sono soltanto le zozzerie di Ulderico!
 -    Ma ci sono anche quelle.
 -    Non mi importa. Tanto peggio di così… La sua immagine non potrebbe essere maggiormente infangata di quel che già è.
 -    In tutto questo il mio compito sarebbe?
 -    Incida il bubbone di questa città sino a farne uscire tutto il marcio.
 -    Signora, lei mi affida un compito per il quale non basterebbe una brigata di chirurghi.

Trovai Lello che leggeva un libro, seduto al solito tavolo, al solito bar, alla solita ora.

 -    Che leggi di bello?

Mi mostrò la copertina, logora.

 -    Rigodon? Passa il tempo ma non la tua passione per Céline, vedo. Che mi dici dell’allergico?
 -    Non ti sembra strano il volo di Sastri a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere del prof? Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che Sastri fosse al corrente di qualcosa. Hai idea della quantità di lordume che scorre in questa tranquilla città di provincia?
 -    Ne ho idea. L’allergico avrà pestato i calli sbagliati?
 -    Non aveva debiti con cravattari.
 -    E allora?
 -    E allora bisogna cercare altrove.
 -    Resta da capire cosa leghi i due delitti.
 -    La risposta sta nella vita privata dell’allergico.
 -    Era un depravato con la passione per le studentesse troie.
 -    Sai che rarità.
 -    Oggi ho parlato con la moglie. Pare intenzionata a non lasciar posare la polvere sulla faccenda.
 -    E tu credi che le convenga?
 -    Per niente.

Le sale autoptiche erano posizionate nei sotterranei dell’istituto di medicina legale, situato a poche centinaia di metri dalla camera mortuaria. Appena entrato, fui investito da lezzi talmente mefitici che dovetti appoggiarmi alla parete del corridoio per non perdere l’equilibrio.

 -    Sentito che puzza? Ne è arrivato uno brutto!

Conoscevo Valerio da anni. Lavorava all’istituto, anzi, si può dire che quella fosse la sua seconda casa: era sempre lì, in mezzo ai morti.

 -    Cazzo Vale, che tanfo!
 -    Te l’ho detto, è di quelli brutti. L’han trovato chiuso nel bagagliaio di una macchina, doveva essere lì da giorni. Avessi visto che matasse di cagnotti!
 -    C’è Manelli?
 -    Ha finito adesso l’autopsia del puzzone.
 -    E’ nel suo ufficio?
 -    Aspetto che lo avverto.

Il medico settore mi ricevette dopo poco.

 -    Marco, hai scelto il giorno sbagliato per venirmi a trovare.
 -    Me ne sono accorto. Che ci faceva quel tizio nel bagagliaio?
 -    Si riposava dopo aver assunto del piombo tetraetile.
 -    Minchia, e con questo fanno tre morti ammazzati in sette giorni. Mica male per una città di provincia.
 -    Già.
 -    L’avete già identificato?
 -    Non ancora.
 -    E del prof che mi dici?
 -    Non posso dirti nulla di più di quel che già sai.
 -    Fai un piccolo sforzo.
 -    Credo che avesse dei vizietti.
 -    Tipo?
 -    Bdsm. Si faceva legare e frustare.
 -    Capito. Senti, ti lascio perché questa puzza è veramente atroce.
 -    Grazie tante, pensa che io invece devo restare qui ad annusarla.

Mi allontanai dal sotterraneo a passo spedito e una volta fuori camminai a lungo per togliermi dalle narici l’odore nauseabondo della putrefazione. Sapevo già che avrei dovuto portare in lavanderia ogni singolo capo di abbigliamento che avevo indosso. Il cellulare diede uno squillo. Era Giulia su Whatsapp: “Sei bravo a fare i massaggi”. Che gran puttana!

L’indomani, Elissinia si ritrovò sui tigì nazionali. C’era da immaginarlo: tre morti misteriose in una settimana non sono uno scherzo.  Il disagio della borghesia locale era palpabile, lo si respirava quasi, nelle vie del centro. I portieri dell’ateneo sfoderavano espressioni più truci del solito, parevano sul punto di mordere chiunque si avvicinasse all’ingresso del rettorato. Ce n’era uno cui anni prima era accaduto un incidente curioso: era stato inghiottito da una voragine spalancatasi nel manto stradale. Purtroppo ne era uscito vivo. Me lo trovai di fronte mentre traversavo il cortile della biblioteca centrale universitaria. Mi lanciò un’occhiata ostile.

 -    Beh?, gli domandai a muso duro.

Ero sul punto di tirargli un cazzotto sul grugno. Per sua fortuna abbassò lo sguardo e scantonò. Quell’individuo mi dava tremendamente sui nervi.

Nelle vicinanze della trattoria I Tre Fiumi vidi sbucare da un vicoletto una figura nota. 

 -    Ciao Marco.
 -    Lello, che ci fai in giro a quest’ora?
 -    Hai due minuti?
 -    Certo.
 -    Bene, allora facciamo due passi.

Ero davvero sorpreso di trovarlo in giro prima di mezzogiorno, di solito dormiva sino a tardi e usciva dopo il tramonto. Ci dirigemmo verso la basilica di San Simeone Salos.

 -    Marco, senti, te lo dico senza girarci troppo intorno: ti stai infilando in una cisterna piena di merda. Siamo amici da una vita, se ti parlo così significa che ne ho motivo. Lascia perdere questa storia.
 -    Cos’hai saputo esattamente?
 -    Quanto basta per dirti di mollare il colpo e alla svelta. Non è uno scherzo: rischi di finire anche tu in un bagagliaio.
 -    Questa città comincia a piacermi sempre meno.
 -    Purtroppo è così. Né tu né io possiamo farci niente.
 -    Mi resta la curiosità di capire quale sia, ammesso che esista, il rapporto fra queste morti. Oddio, un’ipotesi ce l’ho, ma è basata su delle semplici supposizioni, anzi su delle sensazioni.
 -    E quale sarebbe?
 -    Il prof aveva messo le mani sulla ragazza sbagliata. Che so, la figlia o la nipote di un santista.
 -    E Sastri?
 -    Sbaglierò ma secondo me Sastri è stato punito per lo stesso motivo. Del tipo nel bagagliaio non ho idea.
 -    Fuochino. Ora capisci perché è bene che tu te ne stia fuori? Chi li ha uccisi è ancora a piede libero.

Camminammo senza più parlare, sinché non giungemmo nei pressi della basilica.

 -    Sai cosa disse Simeone Salos al fratello Giovanni prima di abbandonare il deserto?
 -    No.
 -    Vado a prendermi gioco del mondo.

Lello si accese una sigaretta.

 -    Che ne diresti invece se noi andassimo a berci un bianchino?

Pietro Ferrari, agosto 2018

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