mercoledì 2 ottobre 2019

L'ATEISMO TRA I VICHINGHI

L'Ellade ai tempi di Socrate era un ambiente molto duro. Per essere accusati di empietà e di ateismo bastava mettere in dubbio che la pioggia fosse l'orina di Zeus passata attraverso un grande setaccio celeste. La vicenda umana del filosofo ateniese è ben nota a tutti: le accuse a lui rivolte lo portarono alla condanna a morte tramite ingestione della cicuta. Era considerato un corruttore di giovani, non perché si facesse da loro fellare, bensì per via della sua supposta empietà concettuale. Tutti siamo a conoscenza dell'antica e venerabile origine greca della parola ateo (da cui anche ateismo), nata dal prefisso negativo a- "non, senza" (cfr. acritico, etc.) e dal nome della divinità, theos (cfr. teologia, etc.). A scuola insegnano queste nozioni con grande cura - o almeno le insegnavano ai tempi in cui ero un alunno: adesso a quanto pare preferiscono fare la parafrasi dei testi di Francesco Alberoni. Nessuna menzione invece su come la negazione della divinità era vista presso altri popoli. Il deleterio corpo docente italico, che etichetta tutti i popoli estranei alla latinità e alla grecità col nome collettivo di Barbari, forse crede che mai al di fuori della filosofia ellenica sia stato concepito il concetto di ateismo. Il tipo di ragionamento non è nuovo. Alberto Sordi diceva a un inglese: "I miei antenati costruivamo fognature quando i suoi si dipingevano ancora la faccia di blu." E Luciano De Crescenzo rincarava la dose, apostrofando Umberto Bossi: "Quando i suoi antenati celtici erano ancora barbari aggrappati ai rami, i miei antenati già froci." Nulla di più falso di simili convinzioni bacate, che possiamo ritenere più che altro una massa fecale di pregiudizi.

Sappiamo per certo che esistevano atei nella Scandinavia pagana: molti Vichinghi furono chiamati Guðlausir menn, ossia "uomini senza dio" (o meglio "uomini senza dèi"). Questa denominazione è stata attribuita ai Condottieri dei Mari perché facevano conto unicamente sulle proprie forze e sulla propria volontà, senza affidarsi in alcun modo all'aiuto di entità sovrannaturali. Possiamo così sostenere senza timore di smentita la liceità di questa traduzione:

guðlauss maðr (m.), ateo 

Faccio presente che in Italia per veder emergere una simile fede nel potere dell'Uomo dobbiamo attendere Vespasiano Gonzaga (1531 - 1591), che nella sua corte a Sabbioneta aveva vietato il gioco delle carte, pensando che nessuno dovesse fare affidamento sulla mutevole fortuna. Egli riteneva che fosse compito di ciascuno costruirsi il destino soltanto con le proprie forze e con il proprio ingegno. Proprio come i Vichinghi atei! 

Nella Heimskringla di Snorri Sturluson (XIII secolo), nel capitolo CCI della Saga di Olaf il Santo (Óláfs saga Helga), è narrato un episodio degno della massima attenzione. Il Re Olaf II di Norvegia, detto Helgi (Il Santo), incontrò nella sua fuga verso la Russia numerosi uomini che vivevano nella foresta. Il loro capo Gaukathorir (da gaukr "cuculo") disse al Re Olaf di non essere né cristiano né pagano, non credendo in alcuna divinità e ritenendosi il solo arbitro del proprio destino. Egli non aveva alcun bisogno di un fulltrúi, ossia di una divinità in cui porre tutta la propria fiducia. Affermava di non essere cristiano perché non riteneva Cristo il proprio fulltrúi. Affermava al contempo di non essere pagano perché non aveva alcun bisogno di sacrificare a Odino o a Thor, non riteneva nessuno degli Asi o dei Vani il proprio migliore amico, come facevano gli immolatori. Il suo discorso era soprendentemente moderno. Anzi, possiamo dire era quasi postmoderno. Purtroppo queste argomentazioni non hanno fatto gran presa sul cristianissimo sovrano norvegese, che alla fine è riuscito a convincerlo a farsi battezzare. 

Ecco il testo in norreno:

Menn þeir eru nefndir, er annar hét Gaukaþórir en annar Afrafasti. Þeir váru stigamenn ok hinir mestu ránsmenn, hǫfðu með sér þrjá tigu manna, sinna maka. Þeir brœðr váru meiri ok sterkari en aðrir menn; eigi skorti þá áræði ok hug. Þeir spurðu til hers þess, er þar fór yfir land, ok mæltu sín á milli, at þat mundi vera snjallræði at fara til konungs ok fylgja honum til lands síns ok ganga þar í fólkorrustu með honum ok reyna sik svá; því at þeir hǫfðu ekki fyrr í bardǫgum verit, þeim er liði væri fylkt til. Var þeim þat forvitni mikil at sjá konungs fylking. Þetta ráð líkaði vel fǫrunautum þeirra; gerðu þá ferð sína til fundar við konung. En er þeir koma þar, þá ganga þeir með sveit sína fyrir konung, ok hǫfðu þeir fǫrunautar alvæpni sitt. Þeir kvǫddu hann. Hann spurði, hvat mǫnnum þeir sé. Þeir nefndu sik ok sǫgðu, at þeir váru þar landsmenn. Þá bera þeir upp erendi sín, ok buðu konungi at fara með honum.
Konungr segir, at honum leizt svá sem í slíkum m
ǫnnum muni vera góð fylgd: "Ek em fúss", segir hann, "við slíkum mǫnnum at taka; eða hvárt erut þér kristnir menn?" segir hann.
Gaukaþórir svarar, segir, at hann var hvárki kristinn né heiðinn: "H
ǫfum vér félagar engan annan átrúnað, en trúm á orku ok afl okkat ok sigrsæli, ok vinnst okkr þat at gnógu."
Konungr svarar: "Skaði mikill, er menn svá liðmannligir skulu eigi á Krist trúa, skapara sinn."
Þórir svarar: "Er nøkkurr sá í þínu f
ǫruneyti, konungr, Kristmaðrinn, er meira hafi á degi vaxið en við brœðr?"
Konungr bað þá skírast láta ok taka trú rétta þar með: "ok fylgit mér síðan; skal ek þá gera ykkr virðingamenn mikla: en ef þit vilit þat eigi, þá farit aptr til iðnar ykkarrar."
Afrafasti svarar, segir, at hann vildi ekki við kristni taka. Snúa þeir síðan í brott.
Þá mælti Gaukaþórir: "Þetta er sk
ǫmm mikil, er konungr þessi gerir oss liðrækja; þar kom ek aldri fyrr, er ek væra eigi hlutgengr við aðra menn; skal ek aldri aptr hverfa at svá geru." 

Síðan slógust þeir í sveit með markamǫnnum ǫðrum ok fylgdu flokkinum. Sækir þá Ólafr konungr vestr til Kjalar. 

Questa è la traduzione, su cui invito tutti a meditare:

Gli uomini sono menzionati per nome: uno di essi era chiamato Gaukathorir e un altro Afrafasti. Essi erano fuorilegge e grandissimi predoni, e avevano con sé trenta uomini come loro. Non mancavano di ardimento e di coraggio. Avevano udito di questo esercito che stava viaggiando per il paese, e avevano discusso tra loro che sarebbe stato un buon piano andare col Re, seguirlo nel suo paese e prendere parte assieme a lui a una grande battaglia, mettendo così se stessi alla prova - perché non erano mai stati prima in battaglie in cui le truppe erano schierate in ranghi. Essi avevano grande interesse a vedere schierato l'esercito del Re schierato in assetto di battaglia. E quando andarono là, si presentarono davanti al Re con la loro banda di uomini, e i loro compagni avevano l'armatura completa. Essi lo salutarono. Egli chiese loro che tipo di uomini fossero. Essi diedero i loro nomi, dicendo che erano nativi del paese. Presentarolo la propria attività e offrirono al Re di andare con lui. Il Re disse che gli sembrava che avrebbe avuto un buon sostegno in quegli uomini.
"Sono desideroso", egli disse, "di prendere con me simili uomini. Ma siete cristiani?"
Gaukathorir rispose, dicendo che egli non era cristiano né pagano. "Noi compagni non abbiamo altra fede oltre al fatto che crediamo in noi stessi, nella forza e nella nostra fortuna in battaglia, e questo va bene per noi."
Il Re replicò: "Che gran peccato che uomini che sembrano tanto utili non debbano credere in Cristo, loro Creatore."
Thorir replicò: "C'è qualcuno nella tua compagnia, o Re, un uomo di Cristo, che sia cresciuto in un giorno più di noi fratelli?" 
Il Re disse loro che dovevano farsi battezzare e accettare con questo la vera fede.
"E allora seguitemi", disse, "Io farò di voi uomini di alto rango. Ma se voi non volete fare ciò, allora tornatevene alle vostre occupazioni."
Afrafasti rispose, dicendo che non intendeva accettare il Cristianesimo, dopodiché si allontanò. Allora disse Gaukathorir: "È molto vergognoso che questo Re ci debba respingere dal suo esercito. Non mi era mai capitato prima di non essere ritenuto buono tanto quanto altri uomini. Non mi allontanerò mai lasciando le cose così."
In seguito a ciò, essi si arruolarono nella compagnia assieme ad altra gente della foresta e andarono con le loro truppe. Quindi il Re Olaf si diresse a occidente, verso Kjøl.


Un dilemma lessicale e semantico. Il capo degli Uomini della Foresta avrà compreso il vocabolo skapari "Creatore" usato dal Re Olaf? Oppure il sovrano cristiano avrà usato un'altra parola per esprimere il concetto? Non possiamo saperlo. La saga è stata scritta molto tempo dopo i fatti che racconta. 

Esiste poi un'opera tratta dalla Heimskringla, ma scritta in latino. Il suo titolo è Historia Rerum Norvegicarum ed è stata scritta all'antiquario islandese Þórmoðr Torfason, anche noto come Thormodus Torfæus (1636 - 1719). Ecco come è stata reso nella lingua di Roma l'episodio di Gaukathorir e del Re Olaf: 

Duo erant prædones cæteris formosiores, Gaukathorir & Afrafastius, fratres sui similium triginta duces, robore corporis & audaciâ alios longo post se intervallo relinquentes, qui ad famam prætereuntis exercitus excitatiores, amplum sibi ducebant Regem regnum repetentem sequi, subque signis, cuius antea inexperti, militare; incessitque magna cupido, nunquam prius conspectæ sibi aciei vicendæ, placuitque consilium sociis universis. Adito itaque Rege, singuli armaturâ integrtâ instructi, societatem belli offerunt, se provinciæ illius indigenas profitentes. Ille aptos bello viros, optatosque sibi comites pronuncians, Christiani essent, an pagani? quærit. Gaukathorir, neutrum horum, respondit, fiduciâ virium suarum victoriarumque in hunc diem perpetuo successu invictos, aliâ fide non indigere. Rege dolendum regerente, viros tam alacres notitiâ creatoris sui destitui; Gaukathorir quærit, an ullus in exercitu eius Christianorum uno die plus illis creverit? Rex, omisso inutili colloquio, iubet ut sacro lavacro se ablui patiantur, fidemque Christianam amplectantur, se deinde sequantur: honores eis exinde paratos haut exiguos; id si nollent, ad suam professionem redeant. Afrafastius se Christianum futurum negans, cum suis complicibus discedebat. Tum vero Gaukathorir ignominiam interpretatus, ut indignum reiici, neque id sibi antea evenisse testatus, nec hoc statu se abiturum asseverat. Montanorum itaque cohortibus se ingerentesi in exercitu remanserunt.

Come si può vedere, non si tratta di una traduzione letterale. Si noterà l'opposizione tra l'estrema sintesi del latino e la natura più analitica del norreno. Nonostante il norreno abbia una grammatica molto complessa e ricca di forme declinate, spesso esprime con molte parole ciò che in latino può essere espresso in modo sorprendentemente stringato. Le aggiunte non sono meno sorprendenti delle frasi rivoltate come un calzino. Si noterà un importante segmento assente nel testo originale della Heimskringla. Il redattore, sdegnato dalle argomentazioni atee di Gaukathorir, trova necessario inserire un giudizio morale severo da parte del Re cristiano. Così scrive: "Rex, omisso inutili colloquio" - ossia, "Il Re, tralasciando un discorso inutile". Che conclusioni possiamo trarne? Un bandito norvegese dell'XI secolo, isolato, privo di contatti sostanziali con l'Europa Cristiana, potrebbe parlare tranquillamente con un uomo occidentale del XXI secolo ed essere compreso nei suoi più intimi sentimenti. Sembra invece estendersi un abisso insondabile tra lo studioso islandese del XVII-XVIII secolo e la gente della presente epoca. Un abisso più invalicabile di quello che separa i morti dai viventi.

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