martedì 22 ottobre 2019


AMERICAN PASTORAL 
(film)

Lingua originale: Inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 2016
Regia: Ewan McGregor
Lingua: Inglese

Genere:
Drammatico

Durata:
108 min
Rapporto: 2,35:1
Soggetto: dall'omonimo romanzo di Philip Roth
Sceneggiatura: John Romano
Produttore: Gary Lucchesi, Tom Rosenberg, Zane Weiner
Produttore esecutivo: Andre Lamal, Terry McKay
Casa di produzione: Lakeshore Entertainment, Lionsgate
Distribuzione in italiano: Eagle Pictures
Fotografia: Martin Ruhe
Montaggio: Melissa Kent
Musiche: Alexandre Desplat
Interpreti e personaggi 
    Ewan McGregor: Seymour Levov lo Svedese
    Jennifer Connelly: Dawn Dwyer Levov
    Dakota Fanning: Merry Levov
    Rupert Evans: Jerry Levov
    Peter Riegert: Lou Levov, il padre dello Svedese
    Valorie Curry: Rita Cohen
    David Strathairn: Nathan Zuckerman
    Uzo Aduba: Vicky
    Mark Hildreth: L'agente Dolan
    Molly Parker: Sheila Smith
    David Whalen: Bill Orcutt
    Corrie Danieley: Jessie Orcutt, la milf alcolizzata
    David Case: Russ Hamlin
    Max Ivcic: Il figlio di Hamlin
    Ocean "Nalu" James: Merry Levov a 8 anni
    Hannah Nordberg: Merry Levov a 12 anni
    Julia Silverman: Sylvia Levov
 
    Chuck Diamond: Il rabbino 

    Peter Gannon: L'ufficiale di polizia
    Leonard Anthony: La guardia nazionale
Doppiatori italiani 
    Francesco Bulckaen: Seymour Levov lo Svedese
    Giuppy Izzo: Dawn Dwyer Levov
    Rossa Caputo: Merry Levov
    Massimo De Ambrosis: Jerry Levov
    Carlo Valli: Lou Levov
    Benedetta Degli Innocenti: Rita Cohen
    Mario Cordova: Nathan Zuckerman
    Laura Romano: Vicky
    Gianfranco Miranda: agente Dolan
    Francesca Fiorentini: Sheila Smith 
Budget: 10 milioni di dollari USA
Box office: 1,7 milioni di dollari USA (fallimento completo)
Traduzioni del titolo: A quanto mi risulta, è stato sempre
    mantenuto il titolo originale.

Trama:
Siamo nel 1996, nel Liceo di Weequahic, nel quartiere ebraico di Newark, New Jersey. Si sta tenendo la quarantacinquesima riunione annuale della classe '51. In quest'occasione lo scrittore Nathan Zuckerman si aggira triste tra gente che non riesce nemmeno più a riconoscere. Si sta annoiando a morte, ma a un certo punto raggiunge un corridoio con i trofei di Seymour Levov lo Svedese, che all'epoca era un eroe sportivo. Ha così inizio un lungo flashback: vediamo il giovane Svedese alle prese con l'arcigno padre, Lou Levov, proprietario di un'importante fabbrica di guanti. Il motivo del contrasto è la reginetta di bellezza Dawn Dwyer, Miss New Jersey 1947, che lo Svedese vorrebbe sposare. L'autoritario genitore non vede di buon occhio l'unione per via della differenza di religione tra i fidanzati ed è scettico sul loro futuro insieme. Sottopone quindi la ragazza cattolica a un estenuante interrogatorio, mettendola in grande imbarazzo, ma alla fine è conquistato dalla sua onestà e dalla sua determinazione. A questo punto il patriarca ashkenazita non può lesinare la sua benedizione ai due giovani e le nozze hanno luogo. Tutto sembra andare a gonfie vele. Seymour e Dawn hanno una figlia, Meredith "Merry", e vanno ad abitare in una cittadina dal nome a dir poco bizzarro: Old Rimrock (to rim significa "praticare l'anilingus"). La coppia acquista in quella ridente località una bella fattoria antica, che dista soltanto 30 miglia dalla fabbrica di guanti di Newark. Le nebbie dei ricordi si diradano, quando Zuckerman incontra il suo vecchio amico Jerry Levov, fratello minore di Seymour. Subito i loro discorsi vanno allo Svedese, da poco scomparso (i funerali si sarebbero svolti l'indomani), per poi concentrarsi sui traumatici avvenimenti degli anni '60, epoca in cui lo scrittore si trovava all'estero. Mentre Jerry racconta, un nuovo flashback prende corpo. Merry cresce con un significativo problema di pronuncia: è balbuziente. Inciampa sulle sillabe. Dal momento che i suoi genitori irradiano bagliori di perfezione assoluta, tanto da sembrare nativi della Terra degli Dei, non sono in grado di gestire il cruccio di una figlia tanto scomoda e fastidiosa. Lo spigoloso nonno Lou dice che la nipotina tartaglia perché ha una mente che lavora troppo in fretta. Nel suo equilibrio, nella sua razionalità assoluta, lo Svedese non vorrebbe dare troppa importanza alla cosa, ma ben presto capisce che non basta non pensare a un problema perché scompaia da sé. Purtroppo tutto va sempre peggio. Il disturbo di Merry scava in profondità nella sua mente, come un piccolo baco della frutta che diventa smisurato come il Serpente di Miðgarðr, che i Vichinghi pensavano avvolgesse il mondo tra le sue spire. I Levov portano la figlia da una logopedista che cerca di scaricare su di lei la responsabilità, sostenendo una tesi stravagante: la balbuzie sarebbe una scelta volontaria della bambina per sfuggire alle difficoltà del mondo e per essere sempre al centro dell'attenzione. Nel sentire queste parole, il volto sempre disteso dello Svedese si contrae per pochi istanti in un rictus di rabbia. Quando Merry è una dodicenne, siamo nel 1963, le accade qualcosa di imprevisto e cruciale: assiste alla televisione all'immolazione del monaco buddhista vietnamita Thích Quảng Đức, che si dà fuoco per protesta. Quello che pochi sanno - che non viene spiegato dal film e neppure da Roth nel romanzo - è che la combustione del bonzo non è stata causata dalla politica aggressiva degli Stati Uniti, bensì dalla persecuzione dei buddhisti ad opera del presidente cattolico Ngô Đình Diệm. Fatto sta che Merry rimane sconvolta nel vedere le fiamme divorare quel sant'uomo del monaco. Questo innesca una reazione nella bambina, che intraprende il suo cammino di politicizzazione. Un cammino senza ritorno. Già nel 1967, mentre infuriano le proteste contro la guerra in Vietnam, lo Svedese assiste al crescere della rabbia e dell'odio nella sedicenne Merry. Cerca così di incanalare queste energie distruttive per impiegarle in qualcosa di costruttivo. Quello che l'uomo vuol far capire alla figlia è una cosa almeno in apparenza molto semplice: in una democrazia illuminata come quella della Terra dei Liberi ci si può opporre all'iniquità usando i mezzi dati dalla Costituzione. Nel corso di una discussione animata con la giovane ribelle, preso dall'esasperazione, pronuncia un invito che non sarebbe dovuto uscire dalla sua bocca: "Portiamo la guerra in casa". A insufflargli lo slogan insensato è un folletto maligno, una specie di coboldo. Al sorgere del sole, Russ Hamlin, proprietario dell'emporio del paese e gestore dell'ufficio postale, esce dalla porta dell'edificio come ogni mattina per alzare la bandiera americana sull'asta ed ecco che esplode una bomba. L'uomo muore all'istante. La guerra è stata portata a Old Rimrock! Merry, subito sospettata dall'FBI, fa perdere le sue tracce. Ovviamente i suoi genitori non possono nemmeno concepire l'idea che sia colpevole; in particolare la madre si ostina a sostenere che sia stata plagiata da qualche cattiva compagnia. Passa un po' di tempo e lo Svedese riceve l'inquietante visita di una ragazza nella fabbrica di guanti a Newark. La giovane, una brunetta tutta pepe, dice di chiamarsi Rita Cohen e di essere una stagista intenzionata ad apprendere i segreti della produzione guantaria. Si fa spiegare i fondamenti del mestiere, ma quando sta per accomiatarsi dice allo Svedese di essere stata mandata da Merry. Con l'esca di informazioni credibili sulla latitante, Rita attira l'uomo in una camera d'albergo dicendogli di portarle 10.000 dollari in contanti. Una volta che lui la raggiunge con i soldi in una valigetta, lei assume atteggiamenti provocanti, apre le gambe e lo incita a penetrarla, evocando fantasie di incesto che lo paralizzano e lo fanno fuggire in preda all'orrore. Tale è il suo sgomento da impedirgli persino di recuperare la cospicua somma di denaro, come forse avrebbe fatto una persona sensata. Impossessatasi del gruzzolo, la diabolica Cohen scompare nel nulla e non fa avere alcuna notizia. Passano gli anni. La salute mentale di Dawn mostra segni di grave deterioramento. Una notte entra nella fabbrica di Newark e viene sorpresa a ballare nuda con addosso soltanto i guanti e la sua corona da reginetta di bellezza. Il marito la fa ricoverare in un istituto psichiatrico, andandola a trovare tutti i giorni. Lei gli vomita addosso tutto il suo disprezzo, accusandolo di averle ucciso i sogni e di averla voluta sposare con la forza. Una volta dimessa, Dawn fa di tutto per cambiare la sua vita cancellanto ogni traccia del passato. Suo desiderio è rimuovere persino il ricordo dell'esistenza della figlia perduta. Si sottopone a un lifting in una clinica svizzera. Assume un architetto e artista, Bill Orcutt, perché progetti la sua nuova casa, dato che quella in cui ha vissuto gli anni d'oro del suo matrimonio ormai le sembra una prigione piena di muffa. Anche se cornuto, lo Svedese sopporta ogni stramberia della moglie con calma olimpica, finché una sera del 1970 accade qualcosa di imprevisto: in una strada di New York vede Rita Cohen e la affronta, costringendola a portarla al nascondiglio di Merry - che all'insaputa di tutti è sempre rimasta a Newark. Quando il padre finalmente incontra la figlia, si muta in sale come la moglie di Lot. La dinamitarda, che confessa di aver commesso quattro omicidi in alcuni attentati, ora espia i suoi crimini macerandosi nell'ascetismo estremo dell'austera religione Jaina. Da quando si è imposta tali spaventose condizioni di vita, la sua balbuzie è scomparsa come per miracolo. Dice al padre che non ha intenzione di tornare a casa e che se lui davvero la ama, deve lasciarla stare. A questo punto si vede una serie di fotogrammi dello Svedese in piedi tra le rovine, ogni volta più vecchio. Con questo espediente il regista ha pensato di rappresentare la successione degli anni che passano. L'ovvio epilogo è il funerale di Seymour Levov, presenziato da Nathan Zuckerman. Quando i partecipanti si allontanano, ecco una donna biondiccia di mezza età che si dirige con andatura fiera verso il feretro in attesa di essere inumato: è proprio Meredith "Merry", che per l'occasione ha dismesso il suo aspetto da eremita giainista e indossa un'elegante giacca di color carta da zucchero.

Recensione:
Non credo di essere impreciso affermando che Ewan McGregor ha diretto se stesso: è stato al contempo regista e protagonista, avendo interpretato il ruolo di Seymour Levov lo Svedese. Tutto sommato non è un brutto film, ma comunque non l'ho ritenuto un capolavoro. Avendo letto prima il romanzo di Philip Roth su cui si basa, non ho potuto fare a meno di effettuare qualche confronto e di giungere a conclusioni non troppo entusiasmanti. Forse è proprio per il fatto di aver presente la scrittura che non sono rimasto molto soddisfatto dalle immagini e dai dialoghi. A quanto ho appreso nel vasto Web, non sono stati in pochi a ritenere deludente questo adattamento cinematografico. L'unico giudizio pienamente positivo in cui mi sono imbattuto finora è da parte di un mio correligionario, il Fratello Pietro, che però ha ammesso di aver visto la pellicola senza aver letto il libro. Il punto è che McGregor ha costruito un castello a partire da pietre la cui natura gli era sconosciuta. Ha assemblato un gran numero di elementi la cui provenienza era per lui un grande mistero. Sorge quindi l'eterno problema del sincretismo. Componenti incompatibili vengono messe l'una a fianco dell'altra, e non c'è verso di capire come hanno fatto a finire proprio in quella collocazione. Proprio come nella religione degli Hare Krishna, che assembla elementi manichei anticosmici, di estrema ripugnanza verso il Cosmo, a elementi panteisti e cosmisti, di totale sottomissione alle leggi della Natura. L'architetto che esegue queste contaminazioni tra ontologie incompatibili non si rende conto di quanto aberrante sia l'ispirazione che lo muove. Non lo può capire. Non lo può intuire. Chi conosce i mattoni di provenienza dell'edificio ibrido è il solo a poterne chiarire l'essenza intrinsecamente aberrante. Non solo: egli è il solo a poterne denunciare lo sconcio. Se avrete la pazienza di leggere, cari lettori, avrete un'idea di quanto è successo.


 
Attori e ruoli 

A mio parere McGregor nel ruolo dello Svedese è un po' esangue, quasi incolore. Certo, il personaggio è per sua natura molto controllato, non perde mai le staffe, è quasi sempre impassibile di fronte alla realtà che lo circonda, ma quello che vediamo nel film è un po' eccessivo. Uno Svedese molle. Non dico che mi aspettassi un Dracula, certo, comunque mi ha quasi spiazzato la sua inerzia. L'ho trovato sottotono. A prima vista potrebbe sembrare che l'attore-regista non si sia impegnato abbastanza. Anche quando le esigenze del copione impongono una reazione forte, l'attore sembra un apatico che si sforza di recitare la parte di un uomo arrabbiato. Talmente asettico da sembrare una sfinge inquietante, l'atletico gigante rothiano ha un'espressione indecifrabile, come se indossasse una maschera di cera. Certo, il somatismo è perfetto, nordico e quasi identico a ciò che mi aspettavo di veder rappresentato; credo invece che la chioma avrebbe dovuto essere più chiara, biondiccia e non castana. Peter Riegert, l'attore che interpreta il vecchio Lou Levov, è una spanna al di sopra degli altri. Recita molto bene la parte del tiranno shylockiano. Indisponente, irritante, suscettibile, impiccione, sembra una somma delle peggiori pecche caratteriali, senza che nessuno possa porgli un freno. Non mi ha affatto convinto il grassoccio Rupert Evans nel ruolo di Jerry Levov: non ha fibra e trasuda mitezza bovina da ogni poro, mentre il personaggio plasmato da Roth è violento, collerico, scorbutico e ribelle oltre ogni misura. Quegli occhioni cerulei e sognanti non sono quelli di un campione di divorzi e di un attaccabrighe le cui parole sono sempre sopra le righe. Ci sarebbe voluto il cosiddetto "verme nell'occhio", quella guizzante peculiarità che rendeva spaventoso e insostenibile lo sguardo dei Vichinghi. Anche se non si fa menzione del precario stato di salute dello scrittore Nathan Zuckerman, credo che ben gli si adatti l'interpretazione malinconica di David Strathairn. Il sembiante dell'attore è itterico, nei suoi occhi non si trova nemmeno una pagliuzza di allegria, tutto in lui è silenziosa meditazione su un mondo che gli è estraneo. Quindi può soltanto essermi simpatico. Meredith "Merry" Levov è interpretata da ben tre attrici, a seconda dell'età. La bambina di 8 anni è Ocean "Nalu" James, la ragazzina di 12 anni è Hannah Nordberg, mentre l'adulta è Dakota Fanning. La scelta è stata azzeccata: allo spettatore non viene nemmeno l'idea di una discontinuità nel personaggio, come se il film registrasse vicende realmente avvenute. Trovo la balbuzie qualcosa di esasperante, mi trasmette una grande angoscia. Non posso farci niente, è più forte di me. Ricordo ancora S. detto "Balbinus", ai tempi dell'università: ogni volta che cercava di dire "può", evocava oceani fecali con mezz'ora di "pu-pù, pu-pù, pu-pù, pu-pù, pu-pù!" senza interruzioni - un'esperienza da incubo. A dire il vero non mi è mai capitato di udire un anglosassone tartagliare. Immagino che la natura della lingua inglese, i cui fonemi sono tanto labili, renda tale difetto di pronuncia un serio ostacolo alla comprensione delle frasi anche da parte di parlanti nativi. Jennifer Connelly nel ruolo di Mary Dawn Dwyer desta in me un grande senso di pena. Questo non perché sia inidonea a sostenere la parte o perché reciti male: a causare sofferenza morale sono piuttosto le umilianti prove che il personaggio è costretto a subire. La vediamo impegnata nell'ingenua difesa della sua fede cattolica di fronte all'inquisitorio Lou Levov. Quando si mette a parlare dell'eucarestia lo fa in un modo assurdo, descrivendola come quella cosa che fanno le persone quando si inginocchiano e mangiano Gesù, quasi fosse un atto fellatorio praticato a Dio. Poveretta, poi le capita di impazzire. La trovo una vittima che soffre ad ogni istante, come una locusta trafitta con un ago da un collezionista sadico. Quelle sopracciglia scure e pronunciate, quegli occhi insolitamente fissi e intensi, non fanno che accentuare la sensazione di disagio che si prova guardandola. Una menzione merita senz'altro Uzo Aduba, attrice statunitense nata da genitori nigeriani, che interpreta con grande forza d'animo il ruolo di Vicky, l'energica caporeparto della fabbrica di guanti, un'anima buona che durante i conflitti razziali è rimasta ferma e solida come una quercia al fianco dei Levov, senza lasciarsi plagiare dal delirio di massa. Valorie Curry è molto credibile nella parte della lasciva e subdola Rita Cohen, anche se a un caro prezzo: vedendola viene subito meno l'idea conturbante che la stagista possa essere la stessa Merry travestita, la cui balbuzie era davvero una simulazione diabolica inscenata per essere considerata il centro dell'universo. Vediamo poi un insignificante David Whalen nel ruolo del viscido Bill Orcutt. Non si riesce a caratterizzare in alcun modo la sua interpretazione, lo stesso personaggio appare come qualcosa di posticcio, di certo non ha nel film il ruolo che ha nel romanzo. Non ne viene indagata la psicologia, in pratica è poco più di una comparsa. 

Alcune considerazioni sul titolo

Faccio molta fatica a comprendere la strana scelta di non tradurre il titolo del film, che è rimasto immutato in tutte le lingue. Ovunque si ha soltanto American Pastoral, in inglese, dove invece il titolo dell'opera di Philip Roth è stato sempre tradotto, seppur in modo letterale. In qualche caso si notano traduzioni un po' meno pedisseque delle altre. Per fare un esempio, in tedesco abbiamo Amerikanisches Idyll, ossia "Idillio Americano". Non dobbiamo dimenticarci che la pastorale (da non confondersi col famoso pastorale del vescovo) è un componimento letterario, specialmente poetico, che descrive ed esalta una vita tranquilla e senza pensieri, in completa armonia con la Natura. Proprio quella illusione che la potenza del Destino si diverte a distruggere.


Problemi di adattamento

Stupisce la natura appiattita, bidimensionale del film. In fondo questo non è davvero un adattamento, è piuttosto una proiezione di una geometria solida su un piano, privata di ogni prospettiva, di ogni profondità. Come quando una sfera sospesa disegna un'ombra circolare sulla superficie di un tavolo. Si perdono informazioni. Solo per fare un esempio, l'intero passato dello Svedese viene ridotto a poche battute. Se già è angosciante il breve interrogatorio che Lou Levov impone alla sua futura nuora, sappiate che Roth ha descritto quell'orrendo episodio in un certo numero di pagine e con le parole del vecchio tutte in maiuscolo, come se urlasse nelle orecchie della povera ragazza, annichilendola. Il romanzo rothiano si divide in tre parti, tutte altrettanto importanti:

Paradiso ricordato
La Caduta
Paradiso perduto  


Il film dovrebbe ricalcare questo schema concettuale, ma non ci riesce. La trasposizione è abbastanza asimmetrica rispetto alla struttura tripartita del romanzo, oltre ad essere semplificativa. La prima parte, Paradiso ricordato, è ridotta all'osso, condensata come un omogeneizzato, tanto che sono stati omessi moltissimi particolari anche importanti: tutto si riduce in sostanza alla melanconica rievocazione iniziale di Zuckerman. La seconda parte, quella dedicata alla Caduta, fa presto la sua irruzione, confondendosi con la terza parte, Paradiso perduto. Forse il Paradiso ricordato finisce troppo presto, anche se capisco che lo spazio è poco e che far collassare un intero universo in un'ora e tre quarti di filmato è un'impresa a dir poco ardua. Siamo sicuri che alla fine lo spettatore capisca davvero che ad andare in scena è la Nemesi del Sogno Americano? Non lo darei per scontato. Così Roth descrive la deprimente parabola dei Levov nella Terra dei Coraggiosi: 

"Tre generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato. Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate dell'America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione del loro mondo."

In fondo lo aveva detto anche Ugo Tognazzi in qualche suo film di cui non ricordo il titolo: "Padri padreterni, figli crocefissi." Sono parole sacrosante, che si sono impresse in me come un marchio di fuoco, anche se l'attore che le ha pronunciate non rappresenta per me un modello antropologico.

Una scheggia di antisemitismo

Il ripugnante antisemitismo di Roth, profondo e feroce odiatore della sua stessa gente, erutta in modo inatteso proprio all'inizio delle sequenze di American Pastoral. Quando Zuckerman ha di fronte a sé le foto e i trofei dello Svedese, nella squallida scuola di Weequahic, se ne esce con queste sorprendenti parole: "Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara della nostra scuola pubblica prevalentemente ebraica, nessuno possedeva la maschera vichinga di questo eroe dagli occhi celesti." (il grassetto è mio). L'odio convulso e streicheriano contro gli Israeliti è parte integrante del tessuto stesso del romanzo del nocivo scrittore di Newark, che intende attuare una ribellione radicale contro i suoi genitori, colpevoli di averlo gettato nell'Inferno che è questo pianeta. Quello che Roth non ha mai perdonato ai suoi procreatori è di non averlo fatto cadere in un qualunque pozzo nero di cui il pianeta è tanto abbondante, ma in un ambiente particolarmente asfittico e distruttivo, quello di una soffocante famiglia ashkenazita tradizionalista che tortura senza sosta i figli con infiniti sensi di colpa e con mille altre piaghe innominabili dello spirito. Un microcosmo che non conosce grandi aperture, che tarpa le ali e ruba i sogni. La vendetta di Roth è ferale: è come se egli gassasse col Zyklon B chi l'ha messo al mondo e ne esultasse. Orbene, di tutta questa tragedia non si scorge alcuna traccia nella pellicola di McGregor. La menzione degli studenti ebrei di pelle chiara, rarissimi a detta dell'astioso ebreo antisemita Roth, nel film è del tutto gratuita, decontestualizzata, folle. Che diamine di senso può avere? Non c'è un contesto sensato. Chiunque potrebbe additare il regista e accusarlo di aver fatto proferire a un suo attore una colossale cazzata. Gli Ashkenaziti, che costituiscono la massima parte della popolazione ebraica americana, sono a tutti gli effetti indistinguibili dai caucasici non ebrei. Chi può far passare l'idea che sia tra loro la norma essere "abbronzati"? Ebrei dalla pelle scura? Certo, scura come la pelle di Paul Newman, scura come la pelle di Kirk Douglas! Mi sorprende che i dementi buonisti fanatici della politically correctness abbiano fatto passare tutto questo! 


La setta terroristica dei Weathermen

Roth ci narra che proprio lo Svedese, tre mesi dopo l'attentato all'emporio di Hamlin, saliva nella camera della figlia e strappava da una parete uno sconvolgente manifesto con questa scritta destabilizzante: "Noi siamo contro tutto ciò che di buono e di decente c'è nell'America dei padroni bianchi. Saccheggeremo, bruceremo e distruggeremo. Noi siamo l'avverarsi degli incubi di vostra madre." Parole tristemente attuali, note come "Il motto dei Weathermen". Simile veleno ancora arde ancora come una lettiera di tizzoni radioattivi. Nel film tutto ciò è minimizzato: è l'investigatore dell'FBI a dire allo Svedese di aver trovato il manifesto in questione, citandone le parole in modo sintetico quanto impreciso, senza attribuzione alcuna: "Siamo contro tutto ciò che di buono e di decente c'è in America. Saccheggeremo e bruceremo, etc., etc." Quando si fanno riassunti e rimaneggiamenti, capita che si omettano dettagli anche rilevanti e che ora della fine si arrivi a non dire più la stessa cosa che intendeva l'autore della fonte originale. Chissà poi come mai, non si riesce a trovare un singolo regista, un singolo sceneggiatore che mostri anche il minimo rispetto per l'opera da cui trae la stessa ragion d'essere del proprio lavoro. In tutti i casi si ha sempre qualche cambiamento immotivato, capriccioso, insulso, talvolta proprio in parti che si rivelano cruciali. Se leggendo un romanzo ti imbatti in qualcosa di importante, stai sicuro che non lo vedrai mai tradotto nella Settima Arte, oppure che lo vedrai alterato in modo profondo, travisato e distorto a tal punto da riuscire quasi irriconoscibile. In concreto, chi erano questi Weathermen? Erano la dimostrazione vivente di come il terrorismo e il politically correct non siano affatto cose incompatibili. Comunemente si ritiene che la setta nota come Weathermen Underground Organization (WUO) si sia estinta nel 1977, dopo nove anni di attività. Erano dinamitardi. Va detto che le uniche vittime fatte nel corso della loro attività furono tre membri della loro organizzazione saltati in aria per un errore. Altri morti, e tra questi un poliziotto di colore, sono ascrivibili a una rapina compiuta da ex Weathermen negli anni '80, quando la WUO si era già dissolta. Non hanno fatto vittime più che altro per incompetenza, visto che intenzioni distruttive c'erano eccome. Nel romanzo di Roth, i Weathermen sono descritti con queste parole: "tutti tra i venti e i trent'anni, ebrei, borghesi, educati all'università, violenti in nome della lotta contro la guerra, impegnati nella rivoluzione e decisi a rovesciare il governo degli Stati Uniti". Se queste cose le avesse scritte un goy, sarebbe successo il finimondo.


Un diverso modo di concepire lo sport

È difficile per un italiano capire cosa sia lo sport per la popolazione degli Stati Uniti d'America. Certo, da noi ci sono gli hooligans, abbondano i teppisti da stadio e i torbidi che scatenano. Il tifo è una piaga nazionale. Però in genere i tifosi non sono al contempo giocatori e sportivi attivi. Quello che caratterizza gli americani è invece lo spirito di corpo e di competizione che si forma nell'istituzione scolastica. Si direbbe che la scuola in quella nazione sia concepita per crescere soldati. Tutti, fin dalla più tenera età, lottano per conquistare trofei, per fare grande il nome della propria squadra. Un agonismo spinto all'estremo. Le ragazze sono il premio del guerriero. Non è nemmeno poi così importante che si conseguano risultati sufficienti nelle varie materie scolastiche: l'importante sembra essere soltanto l'impegno sportivo. Tempo fa mi capitò di leggere le sdegnate parole di un generale dell'Esercito, che inveiva contro chiunque lottasse per abolire l'educazione fisica e le competizioni nelle scuole statunitensi: definiva costoro come "disgustosi beatnik" e si augurava la loro eradicazione dalla società civile anche con mezzi violenti. Lo sport ha anche plasmato la natura dell'inglese d'America, creando tutto un vocabolario criptico fatto di nomi di giocatori, di squadre, di eventi ritenuti fondamentali. Il risultato è un labirinto di un'incredibile complessità, in cui un italiano non riesce assolutamente ad orientarsi - anche se traduttori e doppiatori non lo capiscono. Questa tendenza americana non è peraltro limitata soltanto allo sport, ad esempio coinvolge la politica e lo stesso cinema. Il nome di ogni personaggio, che sia un giocatore di baseball, un governatore o un attore, è visto come una parola del lessico di base, che non ha bisogno di glossa, che può essere usata come stenografia concettuale. Avremo modo di approfondire l'argomento in un'altra sede. 


Rimozione dell'incesto

Penso che sia inutile che ci giriamo intorno. Ewan McGregor non poteva dare un bacio in bocca a Hannah Nordberg senza beccarsi un'accusa di pedofilia, essendo lei una bambina di undici anni. Mostrare il bacio alla francese tra Seymour Levov e sua figlia Merry era ed è tuttora al di là di ogni possibilità di rappresentazione. Così nel film si vede lo Svedese rifiutare il bacio tabù, eliminando il problema alla radice. Però c'è un però, come diceva sempre un amico toscano. Se è proprio un contatto incestuoso a scatenare il Caos e ad innescare la trasformazione di una ragazzina in una terrorista, rimuovere tale episodio significa oscurare la narrazione stessa, renderla del tutto incomprensibile. A giungere in aiuto di McGregor è stato il monaco vietnamita combusto. Una torcia pirrica che ha permesso allo sceneggiatore e al regista di introdurre una diversa causa della metamorfosi di Merry, da bambina innocente a sanguinaria bombarola. Anche Roth menziona il bonzo avvolto dalle fiamme e l'effetto della terrificante visione sulla bambina, non attribuendo però all'accaduto la causa prima della sua futura rovina. Non sono sicuro che nel passaggio al film sia stata fatta una chiara riflessione su questo punto. Il percorso traumatizzante innescato dal rogo è più diretto e comprensibile allo spettatore rispetto a una lenta alterazione causata chissà come dal fugace contatto tra due lingue. Eliminando poi il sospetto che Rita Cohen possa essere Merry Levov sotto mentite spoglie, l'idea stessa dell'incesto non sussiste più. Sembra quasi un gioco di prestigio. Non si ravvisa più la benché minima traccia del pensiero che tra padre e figlia possa accadere un qualsiasi contatto carnale. Questo ingegnoso stratagemma cambia tuttavia la natura della storia, la fa diventare qualcosa di profondamente diverso.


Necessità di una colonna olfattiva

La Settima Arte ha in sé un grave limite: le è completamente estraneo un dato sensoriale importantissimo, quello olfattivo. Questo rende molto difficile far comprendere allo spettatore la sporcizia e la laidezza. Non ci sono trucchi cinematografici sufficienti a comunicare qualcosa di simile alle proprietà organolettiche degli escrementi umani, freschi o freddi. Non si può trasmettere il fetore dei piedi sporchi, il tanfo di beccume delle ascelle incolte, il puzzo acidissimo e insopportabile del vomito, le esalazioni dei bidoni pieni di umido che fermentano al sole. Se si vede un grosso membro virile stantuffare nel deretano di una fallofora, si fatica a credere che dal budello penetrato possano fuoriuscire gas mefitici, prodotti dalla putrefazione del contenuto intestinale. Se una fellatrice ha i denti marci e il suo alito è così schifoso da far quasi perdere l'erezione al suo partner, chi guarda il filmato dell'azione non lo potrà comprendere. Al massimo penserà che l'uomo non sia in gran forma. E se fosse la fellatrice a ritrovarsi in bocca un cazzo di formaggio? Non soltanto il porno, anche l'horror è pesantemente mutilato da questa carenza di input olfattivi. Molti si baloccano con i film sui vampiri e sugli zombie ma non hanno la benché minima idea dei lezzi esalati da un cadavere in stato avanzato di decomposizione! Con i miei occhi ho visto una celebre videoteca milanese specializzata in film horror, ove erano esposti giocattoli di gomma che imitavano teste mozzate di zombie, mani virescenti e simili. Mi sarebbe piaciuto sapere se la gente, giunta lì per una presentazione, avrebbe potuto reggere a lungo in un luogo dove vengono fatti a pezzi cadaveri autentici. Avrebbero sopportato la vista di una macelleria cannibalica? Avrebbero presenziato un'esumazione da una fossa comune? No di certo: ognuno di loro era soltanto un tediosissimo poser, null'altro che uno snob. Vorrei creare una colonna olfattiva per i film di George A. Romero sui morti viventi! Questa articolata premessa è a mio avviso della massima importanza. Torniamo quindi al film di cui ci stiamo occupando, American Pastoral. Certo, è vero, quando Seymour lo Svedese ritrova finalmente la figlia, capisce subito che le sue condizioni igieniche sono pessime. Non posso negarlo. Tuttavia chi guarda il film di McGregor avrà soltanto una frazione delle sensazioni che sorgono leggendo quanto Roth ha scritto sulla spaventosa macerazione in cui Merry si consumava dopo la conversione alla religione di Mahavira. Sempre attento agli aspetti più turpi della Creazione escogitata dal Dio degli Eserciti, lo scrittore di Newark ci ha descritto molto bene la ripugnanza provata dallo Svedese, giunta a tal punto da non riuscire a trattenere un getto di vomito. La materia rigettata, finita addosso a Merry, le rimaneva addosso e la inzuppava, non rimossa nemmeno in modo rudimentale. Una doccia romana! Quei succhi gastrici, misti a residui pastosi di cibo e di saliva, erano destinati a fermentare, aggiungendosi al fetore raccapricciante di un corpo già in sfacelo da vivo. Tutte queste sensazioni, il regista non ce le sa far provare. Guardando le sequenze, si vede che ha il volto coperto di croste e di macchie livide, ma si capisce che si tratta di un trucco. Al massimo si può pensare che Merry sia un po' rancida.

Il problema del finale

Si nota una discrepanza fortissima tra il finale del film di McGregor e quello del romanzo rothiano. La pellicola ci mostra Merry, ripulita e vestita in modo impeccabile, che compare al funerale del padre dirigendosi a passo sostenuto verso la bara per dare al defunto l'ultimo saluto. Mentre procede, incrocia prima Jerry Levov, i cui occhi inespressivi per un attimo si illuminano di stupore, poi Dawn, ormai invecchiata e piena di rughe. Così facendo, il regista tenta di ricomporre una frattura ontologica che per sua natura non è possibile superare. Sostengo senza timore di essere smentito che la natura delle due opere, quella cinematografica e quella scritta, è diversa in modo abissale: si tratta di due prodotti non assimilabili. Forse non dovremmo biasimare troppo il regista per questa scelta. Egli intendeva porre rimedio ad alcune sproporzioni evidenti del testo di Roth, in cui il narratore Nathan Zuckerman scompare troppo presto per non far più ritorno, lasciando il lettore nell'illusione di aver letto la vera biografia dello Svedese. In realtà del funerale dell'eroe-atleta nel libro se ne parla all'inizio ed è soltanto un evento riportato in modo vago. Lo stesso Zuckerman non ha potuto parteciparvi, visto che le esequie erano già avvenute quando ha saputo della morte di Seymour Levov dal fratello Jerry ("Il funerale è stato due giorni fa"). Roth ci fa anche sapere senza omissioni che Merry non ha partecipato al funerale del padre. Ci dice anche che se si fosse vista, Jerry l'avrebbe denunciata, dato che la odiava a morte. Subito dopo lo scrittore di Newark insinua il sospetto che forse Merry potesse essersi travestita per raggiungere i parenti dopo la sepoltura. Tutto questo non andava bene, ripugnava troppo al concetto di linearità narrativa, così McGregor ha preso di forza Zuckerman e lo ha messo a pensare tra sé e sé qualche triste considerazione su quanto si faccia male a giudicare le persone e su quanto si sia sbagliato egli stesso nel ritenere lo Svedese baciato dalla Fortuna. Mentre si avvicina l'epilogo, il rabbino pronuncia il Kaddish.

Curiosità

Sarà forse da imputarsi alla mia innata accidia, ma non ho trovato molto da scrivere a proposito della realizzazione di American Pastoral. Le riprese si sono svolte a Pittsburgh, in Pennsylvania. Il film è uscito negli Stati Uniti il 21 ottobre 2016 in distribuzione limitata, quindi in tutte le sale soltanto a partire dal 28 ottobre; cosa abbastanza singolare, in Italia è invece uscito il 20 ottobre dello stesso anno.

Altre recensioni e reazioni nel Web

Fermo restando che nessuno sembra capire la natura antisemita dell'opera di Philip Roth - così simile a una reazione autoimmune - si trova comunque qualche frammento interessante nel Web sul film di McGregor.


"La vita, però, è ben diversa dalle promesse inespresse dei nostri sogni adolescenziali, e la parabola dello Svedese, meravigliosa creatura dell’american dream destinata alla più comune e triste delle tragedie familiari, è li a testimoniarlo."

E ancora:

"American Pastoral deve affrontare da subito il pesante confronto con l’immane importanza del materiale originale per trovare una vita propria autonoma. Philip Roth non è l’autore più adattabile per il medium cinematografico e, infatti, la sceneggiatura di John Romano asciuga la vicenda dello Svedese e della sua famiglia a una lineare e piatta trama orizzontale, dove il dramma di Seymour è limitato alla perdita di sua figlia Merry, attratta dalle derive criminali dell’impegno politico clandestino."

Le conclusioni sono desolanti:

"Il problema è che, al di là dei paragoni con il romanzo, il film di McGregor paga questa mancanza di coraggio, trasformando American Pastoral in un piatto period drama, un affresco neanche emotivo dell’America della contestazione, della guerra del Vietnam e del Watergate."

Queste sono le parole di Stephen Holden, critico cinematografico del New York Times:

"Il film non è una profanazione, ma una grave riduzione di un complesso capolavoro letterario. Questa superficialità, basata su un libro che evoca un'immagine bruciante della disintegrazione del sogno americano negli anni Sessanta, soprattutto per quanto riguarda l'identità ebraica e l'aspirazione, ammonta a poco più di una doverosa lista di scene che non potevano non essere girate."

Di materiale simile ce n'è a bizzeffe. Abbastanza per soffocare nella retorica. Inutile lamentarsi che dalle opere di Roth i registi hanno tratto soltanto film mediocri e meritevoli di ludibrio. Non si riuscirà mai a fare un film decente da un romanzo di Roth, finché non si capirà che si ha a che fare con un autore antisemita!

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