sabato 18 aprile 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI COCKTAIL

Molti anni fa mi sono imbattuto in una spiegazione folkloristica di una parola a tutti ben nota: cocktail "miscela di liquori e di altri ingredienti". Erano ancora i tempi pre-Internet, quando le uniche pubblicazioni erano cartacee. Secondo l'articolista, il cui testo non sono riuscito a ritrovare, durante la Rivoluzione Americana sarebbe accaduto quanto segue: un comandante ribelle antibritannico, giunto a una taverna con la sua compagnia, avrebbe fatto richiesta all'oste di abbondanti strumenti d'ebbrezza per la serata. Il problema è che non c'era una quantità sufficiente di alcun liquore per soddisfare la sete degli ardenti patrioti americani. Venne in mente a una simpatica servetta di mescolare liquori diversi per produrre una bevanda fortissima, in grado di stendere anche il combattente più rude. Così fu fatto. Nel corso del festino, un vero successo, un patriota reso un po' troppo esuberante dalla bevanda appena inventata, saltò su un tavolo e cominciò a ballare in modo frenetico come una danzatrice di flamenco, mettendosi una coda di gallo posticcia proprio sul deretano infiammato, esibendola a mo' di trofeo ed urlando: "Viva il cocktail!" (ossia la "viva la coda di gallo"). I presenti avrebbero equivocato, credendo che cocktail ("coda di gallo") fosse proprio il nome della bevanda usata per ubriacarsi. Presto mi sono accorto che l'intera storiella grottesca era stata fabbricata ex post per spiegare una parola problematica, come avviene assai spesso. 
 
Consultando il dizionario etimologico inglese più famoso del Web, Etymonline.com, ho potuto constatare che esistono anche altre spiegazioni aneddotiche del termine cocktail. Ciascuna di queste false etimologie è stata fabbricata artatamente in qualche imprecisato momento del XIX o addirittura del XX secolo. 
 
 
cocktail (n.) 
 
"bevanda americana fredda, forte, stimolante," prima attestazione nel 1806; H.L. Mencken elenca sette versioni della sua origine, forse la più durevole la riconduce al francese coquetier "portauovo" (XV secolo; in inglese cocktay). A New Orleans, circa nel 1795, Antoine Amédée Peychaud, un farmacista (e inventore degli amari Peychaud) teneva riunioni sociali massoniche nella sua farmacia, dove mescolava brandy distillati  ai suoi amari, servendoli in portauova. Secondo questa teoria, la bevanda avrebbe preso il nome dal recipiente. 
 
Ayto ("Diner's Dictionary") fa derivare la parola da cocktail "cavallo con la coda tagliata" (un taglio corto, che la fa strare un po' alzata come la cresta di un gallo) perché un simile metodo di acconciare la coda era usato con i cavalli ordinari, la parola venne ad essere estesa a un "cavallo di pedigree misto" (non un purosangue) nell'Ottocento, e ciò, si suppone, fu esteso alla bevanda in base alla nozione di "adulterazione, mistura." 
 
Prima domanda:
Il cocktail è mai stato bevuto usando come bicchiere un portauovo, nel corso di una riunione massonica? 
 
Seconda domanda:
Esiste davvero la prova dell'uso di un'acconciatura della coda equina chiamata proprio cocktail e di tutti gli slittamenti semantici necessari per passare infine al significato di "bevanda mista"
 
Risposta alle due domande:
Se si indagasse, si scoprirebbe che la documentazione è inesistente, come in un'infinità di casi simili. La procedura è ora della fine sempre la stessa: mettere assieme elementi narrativi al fine di chiarire qualcosa, dar loro forma e sostanza fino a farli diventare vere e proprie teorie, quando in realtà si tratta soltanto di favole fabbricate ex post. Il caso del portauovo usato per trangugiare misture alcoliche durante le riunioni massoniche in una farmacia non è poi molto diverso da quello del patriota rubizzo che esibiva una coda di gallo mentre ballava sui tavoli. A questo punto sarebbe il caso di dubitare dei dizionari etimologici che non seguono il metodo scientifico e che accolgono con tanta facilità pure e semplici illazioni.

Un'altra spiegazione, di per sé più convincente di quelle sopra riportate e più economica dal punto di vista logico, suppone questo: cock "gallo; cazzo" era un termine colloquiale usato per indicare la spina per il drenaggio (anche per via della somiglianza fallica). Nel XIX secolo, i liquori erano distribuiti al volgo più grossolano utilizzando un simile dispositivo innovativo, chiamato anche spigot o tap. Quando il fusto stava per finire, spesso il liquore veniva ad essere di qualità molto scadente e torbido. Così i vari residui dei fusti quasi esauriti (ossia le "code", tails) venivano mescolati tra loro e venduti a prezzo minore rispetto alle bevande pure - anche perché le proprietà organolettiche potevano essere deludenti. Sorprende constatare che questa proposta etimologica ha anche un nome ben preciso in inglese: The Dregs Theory, ossia "la Teoria della Feccia". Tuttavia sembra che agli inizi del XIX secolo il cocktail non fosse necessariamente una bevanda spiritosa: solo più tardi avrebbe cominciato a includere almeno un liquore. Non manca chi tenta addirittura di ricondurre l'origine della celebre bevanda al mondo latinoamericano, affermando che cocktail deriverebbe in buona sostanza dallo spagnolo cola de gallo e inventandosi storie di fantasiosi miscugli di liquori e di succhi di frutta esotica, amalgamati usando una lunga piuma caudale di qualche sgargiante gallinaceo. Potremmo andare avanti così all'infinito e non ne verremmo mai a capo. Troppo intenso è il rumore di fondo! L'entropia divora ogni cosa, l'indeterminazione oscura tutti i segnali che provengono a noi dal passato, rendendoli inutili. Anche cose a noi tutti ben note e abituali, non trovano una spiegazione soddisfacente, come se fossero più antiche dei Faraoni dell'Egitto. Si noterà che per paradosso è molto più facile comprendere quanto scritto nei papiri del Paese del Nilo o nelle tavolette d'argilla essiccata di Sumer.   

Fantomatici adattamenti e trovate autarchiche 

A rigor di logica, in italiano cocktail sarebbe dovuto diventare *coccotello (vocalizzando le sillabe chiuse) oppure *cotte (abolendo la consonante finale e assimilando il gruppo consonantico mediano). Ciò tuttavia non accadde, anche se entrambe le soluzioni sarebbero state perfettamente logiche. La prima avrebbe avuto più probabilità di successo, mentre la seconda sarebbe stata svantaggiata perché troppo simile foneticamente a voci del verbo cuocere. A quanto ne so, nessuno percorse la via dell'adattamento fonetico: abbondarono invece le formazioni autarchiche. La più nota è senza dubbio polibibita, una creazione neologistica del Futurismo, movimento geniale e poliedrico la cui influenza culturale è stata immensa. Furono creatori di fantasiose polibibite Filippo Tommaso Marinetti, Fillia, Enrico Prampolini, Cinzio Barosi, Angelo Giachini, Paolo Alcide Saladin, Fortunato Depero e il dottor Vernazza (fonte: www.cocchi.it). Non va in ogni caso nascosto che questo neologismo è di per sé abbastanza grottesco, col tipico prefisso di origine greca poli- "molto" (< πολυ-) aggiunto alla parola bibita, che in ultima analisi è un crudo latinismo: nella lingua passata per la genuina usura del volgo bibit è diventato beve; bibere è diventato bere. Ancora nei primi anni '80 qualcuno propose il neologismo piulliquore, finendo deriso e paragonato a quel soldato giapponese isolato su un atollo del Pacifico, che ancora continuava a combattere gli intrusi decenni dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Un'altra proposta ispirata dall'autarchia linguistica, non meno problematica, è bibita arlecchina. L'allusione è all'aspetto multicolore e sgargiante del costume di Arlecchino, il notorio truffaldino mascherato giunto da un'impervia valle di Bergamo a meravigliare il mondo con le sue astuzie. Che commozione se penso al mio costume di Arlecchino indossato alle elementari, che ho a lungo conservato gelosamente - il che non ha impedito che finisse trafugato da una stramaledetta fattucchiera del Vampiristan!

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