venerdì 14 maggio 2021

LA SPIEGAZIONE BIOLOGICA DEL CICISBEISMO: UN FENOMENO DI PARASSITISMO PROCREATIVO

Può sembrare incredibile a dirsi, eppure si ravvisano somiglianze impressionanti tra il modo di agire del cicisbeo del XVIII secolo e quello del cuculo (Cuculus canorus, Linnaeus 1758), un uccello obbligato al parassitismo procreativo, come ciascuno ben sa. Il cuculo sembra un grosso piccione strabico dal piumaggio ventrale striato. La sua parentela genetica più prossima è però con i pappagalli. 
 
 
L'attenta osservazione dell'azione parassitaria del cuculo ha portato ad alcune conclusioni sorprendenti, che fino a un passato recente non erano affatto scontate. Eccole, in estrema sintesi: 
 
1) Non è vero che la femmina del cuculo abbandona le uova nel nido altrui e fugge via: resta nascosta nei paraggi a sorvegliare che tutto proceda per il meglio, mettendo in atto tattiche mafiose di intimidazione qualora questo non avvenga; 
2) Non è vero che gli uccelli parassitati dal cuculo non si accorgono della natura dell'intruso loro affibbiato: lo nutrono per paura e subiscono terribili rappresaglie qualora cerchino di espellerlo dal loro nido. 
3) Non è un mistero come il giovane cuculo possa apprendere il suo caratteristico verso ("gukkù! gukkù! gukkù!"), perché la madre non si allontana mai davvero da lui fino a che non è diventato indipendente: il nidiaceo ha così tempo e modo di udire il verso di cuculi adulti e di impararlo. A emettere il richiamo è soltanto il maschio. Tuttavia è incontestabile che dove c'è una femmina, lì i maschi si aggirano infallibilmente.
 
Ovviamente riesce difficile fare paragoni tra un volatile e un essere umano, tuttavia mi arrischio a tentare l'impresa. Il cavalier servente riusciva nella sua opera di seduzione e deponeva lo sperma nel ventre della dama. Così facendo trasmetteva il proprio patrimonio genetico e impediva la trasmissione di quello del legittimo consorte. Stando sempre appiccicato alla sua Signora, non permetteva al di lei marito di accedere all'intimità coniugale. Se un uomo amava davvero sua moglie (cosa rara ma non impossibile), si ritrovava in casa il proverbiale terzo incomodo, cosa che di fatto vanificava l'essenza del matrimonio e ne lasciava intatta unicamente l'apparenza. 
 
 
Mater semper certa, pater nunquam. In questi casi cicisbeali si poteva avere qualche certezza sul padre, che però non era quello legittimo. Oggi le cose vanno diversamente: quando si vede un pargolo, la gente attribuisce senza indugio la sua origine "a mamma e a papà". L'ipocrisia borghese fa sì che queste stupidissime parole lallatorie, mamma e papà, siano usate persino quando un figlio è adottivo e non ha geni ereditati da chi lo cresce. All'epoca di cui stiamo trattando i percorsi erano più tortuosi, perché intervenivano le corna! Sono convinto dell'utilità di certi esercizi speculativi, così mi accingo ad arrischiarne uno - anche se ovviamente non ho a disposizioni moderni strumenti di analisi del DNA estratto da resti umani. Ecco una rudimentale analisi genetica dell'autore de I promessi sposi
 
Alessandro Manzoni (1785 - 1873)
1) parte materna: 
50% del corredo genetico da Giulia Beccaria;
2) parte paterna:
50% del corredo genetico da Giovanni Verri;
3) risultato del parassitismo procreativo:
0% del corredo genetico da don Pietro Manzoni.  

Stando al suo genoma, l'artefice della lingua che tuttora parliano quotidianamente era dunque era un Verri-Beccaria, non un Manzoni-Beccaria. Questi non sono pettegolezzi di male lingue, come spesso li liquidano gli accademici. Sono fatti incontrovertibili. Così scriveva Niccolò Tommaseo sul Manzoni: 

"Anco di Pietro Verri ragiona con riverenza, tanto più ch'egli sa, e sua madre non glielo dissimulava, d'essere nepote di lui, cioè figliuolo d'un suo fratello, cavaliere di Malta."
(Colloquii col Manzoni, pubblicati per la prima volta e annotati da Teresa Lodi nel 1928) 
      
Piero Angela direbbe che tutto questo è più che positivo, perché è una strategia riproduttiva che favorisce la trasmissione dei geni dei più adatti, facendo soccombere e disperdere nel Nulla coloro che la Natura ha sentenziato, definendoli "rami secchi". In fondo credo che la fortuna di poter adorare una Signora non l'avrò mai: solo e dannato, mi avvio verso la Morte Ontologica. Credo che anche Richard Dawkins concordebbe appieno con queste conclusioni, data la sua fissazione ossessiva sul gene egoista, con tutte le conseguenze che ne derivano. Qualcuno può forse confutare quanto ho esposto? 

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