giovedì 20 settembre 2018

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Terza)
 

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VIII 

La città dava il peggio di sé nelle ore notturne, quando le mura degli edifici rilasciavano il calore assorbito durante il giorno. Ondate di aria rovente trasformavano le strette  strade del centro in altrettante fornaci. Rinchiusi nelle proprie abitazioni, gli elissini boccheggiavano disperati. Attendevano il sopraggiungere dell’alba e di un poco di un refrigerio.
Di tanto in tanto un grido d’agonia squarciava il silenzio: la città aveva perso un abitante, stroncato dall’afa. Unici a rimanere attivi in quelle notti da incubo, gli addetti alle pompe funebri. Raccolti in crocchi intorno alle fontanelle nei giardini pubblici, vegliavano con uno stock di bare sempre a portata di mano, attenti a cogliere anche il più flebile rantolo che preannunciasse un decesso. Quando ciò accadeva, scattavano come branchi di lupi. Talvolta squadre di agenzie rivali si incrociavano nell’androne di un palazzo: ne scaturivano risse violentissime. La squadra che aveva la meglio irrompeva poi, trafelata, nella casa del morto. Neutralizzata la vedova con del cloroformio, i necrofori provvedevano al lavaggio, stiratura, vestizione e imballaggio del cadavere. Queste operazioni si svolgevano a una velocità stupefacente, frutto di un intenso addestramento. Il momento più critico era quello dell’uscita dal palazzo, e non tanto per  la difficoltà di calare una bara giù per scale anguste e pericolanti, ma per il rischio di vedersi scippare il morto da una squadra rivale appostata all’esterno. Fu durante una di queste notti che Kavàla e Garm fecero ingresso in città. Lo sgrinz, fedele alla parola data, li aveva condotti sino all’imboccatura del ponte.
  - Ho mantenuto il mio impegno. Non procederò oltre. Ci salutiamo qui, e per sempre. Confido di non ritornare più su questa terra in alcuna forma. Vi auguro di riuscire in ciò che vi prefiggete. Addio amici miei!
Kavàla carezzò il testone dell’onesto animale e altrettanto fece Garm. Erano entrambi emozionati.  Rimasero a guardare lo sgrinz che si allontava, sino a perdersi nel buio.
  - Non lo rivedremo mai più - singhiozzò Kavàla.
  - Ma non lo dimenticheremo.
Si misero in cammino, per sfuggire agli sciami di zanzare. Traversato di gran carriera il ponte in pietra che sovrastava il Nitico, si affacciarono su un ampio viale ai cui lati si ergevano costruzioni massicce.
  - Siamo ad Elissinia, finalmente.
Data l’ora, non si vedeva in giro anima viva.
  - Saranno morti tutti?
  - Non dire sciocchezze Garm, staranno dormendo.
Il viale sfociava in una piazza dominata da un imponente gruppo scultoreo: raffigurava un uomo in ginocchio, in abiti da domestico, intento a lucidare gli stivali di un uomo riccamente abbigliato e dal portamento altero.   
  - E adesso dove andiamo?
  - Chiediamo a quel cane randagio.
Un cane di mezza taglia, magro e dal pelo arruffato, si stava dirigendo verso di loro con andatura ciondolante. Aveva l’aria di essere avvezzo alla vita errabonda. Nei suoi occhi bigi la bontà d’animo traspariva, come spesso capita di osservare nei cani, sotto a un denso velo di tristezza.
  - Avete qualcosa da mangiare?
  - Dagli una galletta, Garm.
  - Siete nuovi di qui, vero? - chiese il cane sgranocchiando di gusto il cibo ricevuto.
  - Sì, e non abbiamo dove riposare.
  - A quest’ora è tutto chiuso. Ci sarebbe un posto fresco e riparato: se volete vi ci accompagno.
  - Sei senza padrone?
  - Ce l’avevo. E’ morto due anni fa.
  - Era molto anziano?
  - Non tanto, ma era malato. Ho vissuto con lui per sette anni.
  - Non è poco.
  - Specialmente per un cane. Ora, alla mia non più giovane età, mi ritrovo a spasso.
  - Non ci siamo ancora presentati: io sono Kavàla, lui è Garm. E tu, hai un nome?
  - Il mio padrone mi chiamava Anacleto.
Stavano così parlottando quando improvvisamente da un balcone si sporse un uomo in mutande, il quale li apostrofò aspramente.
  - La volete smettere di far rumore? Qui c’è gente che dorme!
  - Ci scusi, non volevamo disturbarla - replicò Kavàla.
  - E allora levatevi di torno!
  - Le pare questo il modo di rivolgersi a una donna?
L’uomo in mutande avvampò  di rabbia.
  - Adesso scendo e vi sistemo io! Vi concio per le feste!
Dì lì a poco si udì un gran trambusto, quindi una serie di pesanti tonfi seguiti da un urlo di dolore. I lamenti che giungevano da dietro il portone del palazzo non lasciavano adito a dubbi: l’uomo era caduto per le scale.
  - Sentite - suggerì Anacleto - togliamoci di qui, è meglio.
Mentre si allontanavano, una squadra di addetti alle pompe funebri sopraggiungeva di gran carriera reggendo una bara rozzamente intagliata. Due di essi forzarono il portone e ne uscirono reggendo il corpo esanime dell’uomo in mutande. Lo deposero nella cassa che i colleghi avevano poggiato sul marciapiede. In un battibaleno il coperchio fu inchiodato alla bara e la squadra ripartì a tutta velocità.
  - E’ bell’e morto? - domandò Kavàla, incredula.
  - Immagino di sì. A volte però, se non sono proprio morti del tutto, gli danno un aiutino.
  - E cioè?
  - Un colpetto alla base del cranio, giusto per accelerare la dipartita.
  - Certo che era proprio un bruto.
  - Se solo avesse immaginato quel che l’aspettava!
  - Mai lasciarsi trasportare dalla collera.
  - Mi ha sempre intrigato il tema delle passioni. Di un temperamento focoso si dice che è passionale.
   - E’ una questione di misura. Un individuo irascibile è un individuo spiacevole.
  - Anche un soggetto apatico non è propriamente il massimo.
  - Io sono stato spesso accusato di avere un atteggiamento apatico nei confronti della vita.
  - In effetti, Garm, un po’ lo sei davvero. Non ti curi di nulla: da quanto tempo non cambi l’abito che indossi? Sembri uno spazzacamino.
  - Ma io sono uno spazzacamino. Era quello, il mio mestiere. O meglio, lo è stato finché mi è capitato un incidente.
  - Racconta.
  - Una volta sono rimasto incastrato in una canna fumaria. E’ stato terribile.
  - Povero!
  - Da allora non ho più lavorato.
  - Hai cambiato mestiere?
  - No, ho smesso di lavorare del tutto. Mi sono dato alla meditazione.
  - E come mangiavi?
  - Grazie alla generosità del mio maestro Firlfrind.
  - E non hai fatto altro che meditare, da allora?
  - Sì, ma ti garantisco che è spossante.
  - Di grazia, qual era l’oggetto delle tue riflessioni?
  - La natura transeunte dei fenomeni, la mutevolezza delle forme.
  - Potevi almeno mutare i vestiti.
  - Lasciate che vi racconti una cosa - disse il cane. - Il mio padrone non ha mai lavorato in vita sua. Mai. Non l’ho mai visto chinarsi a strappare le erbacce in cortile. Era un tipo malinconico, usciva pochissimo di casa. Parlava sempre da solo.
  - Di che viveva?
  - Dell’eredità ricevuta da uno zio. E’ morto dopo aver speso gli ultimi spiccioli rimastigli.
  - Che storia!
  - Non mi sento di biasimarlo. Mi ha sempre dato da mangiare. Era un individuo inadatto alla vita, tutto qui.
Cammina cammina i tre amici giunsero nei pressi di una costruzione in pietra.
  - Seguitemi - disse Anacleto  - ma fate attenzione ai gradini: sono molti ripidi.
Discesero quattro rampe di scale e si ritrovarono nelle catacombe di Elissinia.
  - Sono state scavate nel tufo, secoli fa.
  - Da chi?
  - Dai primi seguaci della Nube Purpurea.
  - E perché si sono segregati qui sotto?
  - Per non essere uccisi.
  - E questi teschi a chi appartengono?
  - A quei primi seguaci.
  - Sono morti lo stesso, quindi.
  - Che ragionamento! Morire, prima o poi, si muore tutti, ma c’è modo e modo.
  - Così hanno preferito vivere come talpe?
  - Esatto.
  - Chiamala vita.
  - Ragazzi, le cose non sono mai così semplici come voi credete… C’è gente che passa l’intera esistenza in uno scantinato e poi muore, senza aver mai veramente vissuto. La vita come voi la intendete non è alla portata di tutti.
  - Io in queste catacombe non ci voglio stare. Non ci rimango un minuto di più! - esclamò Kavàla battendo i piedi per il nervoso.
  - Non ti preoccupare, dove vi porto io gli spazi non sono così angusti, fidati.
  - Dai Kavàla, coraggio, andiamo!
Garm si mostrava insolitamente deciso, cosa che sorprese non poco la ragazza, abituata a vederlo sempre titubante, in preda all’ansia e agli spasmi intestinali.
Anacleto si muoveva spedito.
  - Conosco palmo a palmo questi cunicoli! Ecco, vedete quella luce laggiù?
Al termine della galleria brillava una luce azzurra, la cui intensità andava aumentando man mano che il terzetto procedeva in quella direzione.
Kavàla strattonò Garm per un braccio.
  - Non pensi di dovermi una spiegazione? All’improvviso ti vedo deporre le tue titubanze e partire a spron battuto appresso a un cane in queste orride catacombe. Dove mi stai conducendo? E tu, Anacleto, credi forse che io sia così sciocca da credere che il nostro incontro con te sia stato casuale?
Garm interruppe la propria corsa.
  - Hai ragione. E’ il momento che io metta le carte in tavola. La missione di cui ti ho parlato consiste nel restituire la libertà al mio Re, rinchiuso nel sottosuolo di Elissinia. E’ alla sua prigione che siamo diretti.
Anacleto prese a sua volta la parola.
  - Non ti reputo sciocca, anzi. Il mio compito è quello di condurvi sino a colui che Garm dovrà liberare. Un compito che mi è stato assegnato da Firlfrind, come avrai già indovinato.
  - E chi sarebbe questo Re?
  - E’ il sovrano da cui pure tu dipendi, anche se non lo sai: il Re del Nulla.
Kavàla si zittì.  
  - Non possiamo indugiare oltre! - disse Anacleto. - Seguitemi, presto.
Si rimisero in cammino. Le pareti di roccia del cunicolo presentavano striature argentee la cui brillantezza, esaltata dalla rifrazione dei raggi luminosi provenienti dall’uscita, colorava l’ambiente di riflessi cangianti. 
Un soffio d’aria maleodorante li investì nel momento stesso in cui varcarono la soglia.
Dinanzi a loro si apriva una grotta smisurata, pullulante di anziani, uomini e donne.
Kavàla e Garm trasalirono.
  - Ecco dov’erano finiti i vecchi!
  - Credevo che fossero tutti morti.
  - Ma no - intervenne Anacleto. - Li hanno solo nascosti quaggiù.
  - Guarda quelli: sembrano statue di sale.
  - Sono i catatonici: trascorrono intere giornate immobili, paralizzati dalla disperazione.
  - Terribile!
  - Sono consapevoli di non avere più alcun futuro.
  - E quelle donne scarmigliate che vanno avanti e indietro gesticolando? Perché gridano così?
  - Sono affette da demenza. In fondo però stanno meglio di quegli altri: perse come sono nel loro delirio non si rendono conto di nulla.
  - Chi li ha messi quaggiù?
  - I loro figli. Non che mi senta di biasimarli. Vivere con un genitore ridotto in quello stato non è facile, anzi. Il fatto è che la ruota gira. Siete tutti destinati a invecchiare e un domani toccherà a voi finire in queste grotte.
  - Quaggiù io vedo solo afflizione e miseria.
  - Perché sei una donna sensibile. Ma ti domando: la vita va giudicata dal suo epilogo o dal suo cominciamento?
  - Spiegati meglio.
  - Dinanzi a te sta una moltitudine di anzianissimi: individui giunti al termine della propria esistenza. Logico che, vista da qui, ovvero dal suo triste approdo, la vita appaia uno strazio. Ma se li avessi visti quand’erano ancora bambini vivaci, intenti al gioco? Il tutto ti apparirebbe sotto una luce diversa.
  - Non c’è il minimo dubbio. Fatto sta che il tempo non procede a ritroso. Dunque, è sulla base del presente che io emetto un giudizio. Né potrei fare altrimenti.
  - Kavàla ha ragione, Anacleto.
  - D’accordo. Ma l’oscurità di quaggiù non vi induca a dimenticare che, in superficie, il sole sorge ancora.
  - E meno male. Per intanto, qui, c’è una puzza tremenda di pipì.
  - Questi poveretti se la fanno tutta addosso.
  - Che tristezza. E’ questo dunque ciò che ci aspetta?
  - Sì, se non avrete la fortuna di morire al momento giusto.
   - E quale sarebbe, di grazia, il momento giusto?
  - Quando si è ancora se stessi. Ma è un privilegio riservato a pochi.
  - Quanti sono i vecchi concentrati quaggiù?
  - Migliaia. Ci sono almeno una decina di grotte grandi come questa, piene zeppe di anziani. 
  - E quel bassorilievo là? – chiese Garm indicando con la mano un simbolo scolpito nella parete opposta della grotta. - Cosa raffigura?
  - E’ un simbolo antichissimo.
  - Sembra una ruota.
  - Infatti. Sta proprio a significare il susseguirsi ciclico delle nascite e delle morti, e i suoi bracci rappresentano le varie forme che la vita può assumere: esseri umani, animali, piante, demoni. Una ruota che è in perenne movimento.
  - E cosa la fa muovere?
  - Il desiderio di vivere che è in ciascuno di noi.
Mentre Garm e Anacleto così discorrevano, Kavàla seguitava a osservare i vecchi.
  - Non possiamo far niente per loro? - domandò sconsolata. - Se solo qualcuno rivolgesse loro una parola buona…
  - In questa grotta sono novecento. Ti garantisco che dopo una settimana a contatto con loro fuggiresti a gambe levate.
  - Intanto - disse Garm - io suggerirei di proseguire e porre la giusta distanza fra noi e questo luogo di dolore.
  - Ottima idea - replicò Anacleto e si diresse di buona lena verso una galleria prospiciente. La galleria era ampia abbastanza da consentire il passaggio di un carro, ma ingombra di oggetti ammassati alla rinfusa: valigie, scarpe, abiti, lenzuola.
  - Di chi è tutta questa roba?
  - Dei vecchietti. E’ il loro corredo, per così dire. I figli lo confezionano con cura, senza sapere che poi finirà sparso in questo modo dal personale ausiliario.
Farsi largo in quel baillame richiese non poca fatica. La galleria era lunga un centinaio di metri: impiegarono più di mezz’ora per percorrerla.
Superato l’ultimo sbarramento di valigie, si ritrovarono in una grotta grande quanto la prima, ma del tutto deserta, il cui pavimento privo di asperità era ricoperto da uno strato uniforme di sabbia finissima. Al centro della grotta videro quello che pareva l’orlo di un pozzo, il cui diametro non era inferiore ai venti metri. Vi si avvicinarono con circospezione e fecero per sbirciare oltre il bordo,. Quand’ecco che, dall’abisso, si levarono grida stridule.  Spaventati, si affrettarono a rifugiarsi nuovamente nella galleria. Creature alate, dai tratti vagamente antropomorfi, emersero dal pozzo e si librarono sotto la volta della grotta, per poi rituffarsi nel tenebroso abisso.
  - E adesso che facciamo? - domandò Kavàla.
  - Dovete scendere nel pozzo - rispose Anacleto. - E’ lì che lo tengono prigioniero.
  - Firlfrind mi parlò di questo luogo. Il solo modo per arrivare alla cella del Re è quello di convincere i pipistrelloni ad aiutarci.
  - Dimmi come.
Garm aprì la bisaccia e ne tirò fuori una manciata di pistacchi.
  - Ne vanno ghiotti. Con questi ci faremo offrire un passaggio.
  - Ma capiscono almeno la nostra lingua?
  - Firlfrind questo non me l’ha detto.
  - Lo scopriremo subito.
Senza indugi, la bella Kavàla tolse la bisaccia a Garm, uscì allo scoperto e lanciò un grido del tutto identico a quelli emessi dalle creature alate. Dall’abisso le rispose un coro di acuti stridii, e poco dopo apparvero due di quegli esseri volanti, che si posarono proprio dinanzi a lei.
  - Guardate cos’ho per voi - disse Kavàla tendendo loro una manciata di pistacchi. Gli occhi lattiginosi delle strane creature si spalancarono per la sorpresa. Sui loro volti diafani, dai lineamenti semiumani, apparve una specie di sorriso. Kavàla lasciò cadere un po’ di pistacchi fra i loro artigli protesi.
  - Se mi aiuterete, ve ne darò un bel sacchetto. Dovrete trasportare in fondo al pozzo me e il mio amico, e poi riportarci qui, insieme a un’altra persona. Mi avete compreso? Siamo d’accordo?
Le due creature annuirono entusiaste, sgranocchiando i pistacchi.
  - Potete uscire. Ci aiuteranno.
Garm, seguito dal cane, raggiunse Kavàla.
  - E tu, Anacleto?
  - Io vi aspetto qui. La mia parte l’ho fatta. Vi ho guidati fin quasi alla meta. Ora tocca a voi.
I due giovani montarono in groppa ai pipistrelloni. Quando si furono ben sistemati, i due esseri alati si alzarono in volo. Compiuti alcuni giri concentrici intorno all’imboccatura del pozzo, calarono repentinamente nell’abisso.
Kavàla lanciò un grido. Se l’oscurità ammette gradazioni, quella racchiusa fra le pareti del pozzo era senz’altro del genere peggiore: talmente fitta da risultare impenetrabile. Parve, ai due giovani, di sprofondare in una cisterna di nerissimo inchiostro. Seguendo una traiettoria a spirale, gli esseri alati scesero in fondo all’abisso. Qui giunti, deposero i propri passeggeri.
  - Dove sei Garm? Non ti vedo!
  - Sono qui Kavàla! E ora ci abbandonano in queste tenebre?
Si udì un cigolio: una pesante porta si stava aprendo, sospinta dalle creature alate. Una lama di luce fendette l’oscurità, dapprima debolmente, poi con sempre maggior forza, man mano che l’apertura si ampliava. Una volta spalancata del tutto la porta, si rivelò agli sguardi dei due giovani un corridoio dalle pareti rivestite di lastre di marmo.
  - Questo passaggio non può che condurre alla cella del Re.
Garm prese per mano Kavàla e si inoltrò con lei nel corridoio, scavato nella roccia seguendo un tracciato irregolare, zigzagante. Percorsi alcune decine di metri, udirono dei suoni provenire da dietro l’ennesima svolta. Voci umane. Restando ben nascosti, tesero le orecchie per cogliere il contenuto della conversazione che si stava svolgendo a pochi passi da loro.        
  - Ti ho mai detto di mio zio? - disse una voce maschile.
  - Sentiamo.
  - Era un uomo di un’avarizia e un’avidità incredibili. Pensa che una volta lo vidi derubare un vecchio mendicante zoppo. Il poveretto lanciò un grido, fece per inseguire il briccone, ma inciampò in una sporgenza del terreno e precipitò dal ponte.
  - Ah. La scena si svolgeva su un ponte?
  - Un ponte altissimo. Ricordo che il fiume era in piena. Un massa d’acqua imponente, che precipitava ruggendo verso valle. Non so come, il povero vecchio riuscì a tornare a galla e si aggrappò a un tronco d’albero trascinato dalla corrente. In quel momento, un gabbiano calò su di lui e lo beccò più volte in testa.
  - Pure!
  - Sono storie tristi, che stringono il cuore.
  - E tu non facesti niente per salvarlo?
  - Gli gettai una cima. Ma mi ero dimenticato di assicurarla a un sostegno e fu inghiottita dalle acque.
  - Un intervento risolutore.
  - Lo zio, nel frattempo, si era dileguato nei vicoli della città vecchia.
  - Ed è ancora vivo, quel fior di galantuomo?
  - No: morì poche settimane dopo il fattaccio. Il suo decesso avvenne in circostanze misteriose.
  - Sarebbe a dire?
  - Il suo cadavere era, come posso spiegarti, arrotolato come un panno. Strizzato.
  - E chi lo strizzò?
  - Non lo si seppe mai. Il corpo fu ritrovato in una camera chiusa a chiave dall’interno.
  - Si sarà strizzato da solo.
  - Impossibile. Non diresti così, se tu l’avessi visto.
  - E i suoi denari? Ne avrà avuti parecchi, immagino. Te ne ha lasciati un po’?
 - Qui viene il bello: la cassaforte era vuota, e così pure il bauletto nascosto sotto l’impiantito del pavimento. Gli avevano portato via tutto quanto.
  - Perbacco. Ecco perché ti sei ridotto a montar la guardia in fondo a un pozzo.
  - A proposito, vengono o no a darci il cambio?
  - Ho rinunciato a sperarci.
  - Doveva accadere dieci anni fa!
  - Tant’è.
  - Sarà cambiato, il mondo di lassù?
  - Mi sa proprio di sì.
  - Pensa che bello, rivedere la luce del giorno, i prati in fiore, le donne che sculettano! Te la ricordi almeno la parola d’ordine?
  - Ishtar.
  - Mi domando quanto dovremo attendere prima di sentirla pronunciare.        
Garm e Kavàla si scambiarono uno sguardo d’intesa, presero un bel respiro e svoltarono l’angolo. Due uomini sulla cinquantina, seduti ciascuno dietro a una scrivania, ai lati di una porta in legno massiccio, li fissarono allibiti.
  - Siamo venuti a darvi il cambio - disse Garm.
Il più corpulento dei due aprì bocca come per parlare ma non proferì parola, restandosene con un’espressione stupefatta. Il più magro invece replicò prontamente. 
  - Parola d’ordine?
  - Ishtar! - esclamarono all’unisono i due giovani.
L’uomo balzò in piedi rovesciando la sedia, e si mise a danzare in preda all’euforia.
  - E’ finita! E’ finita!
L’omaccione, dal canto suo, cominciava a riaversi dalla sorpresa.
  - Finita… Siamo liberi.
Kavàla non aveva mai visto in vita sua uomini più trasandati di quelli, a parte Garm. Indossavano abiti rattoppati, logori e bisunti.
  - Prima di tutto, il passaggio di consegne! - dichiarò l’omaccione, prendendo il controllo della situazione. - Allora: qui, in questa scatola di latta che un tempo conteneva biscotti, c’è la chiave della cella. I cassetti delle scrivanie contengono, nell’ordine: moduli dell’amministrazione carceraria, carta carbone, timbri, tampone per timbri, boccette di inchiostro.
  - I viveri, i viveri! - suggerì l’altro.
  - La dispensa è qui dietro. In questo armadio incastonato nella roccia. Visto quante belle scatolette? In quella nicchia laggiù potete fare i vostri bisogni. Si dorme per terra, sul paglione. Vi ho detto tutto. E ora firmatemi questo modulo, per la presa di consegna della chiave.
Garm e Kavàla firmarono diligentemente.     
  - Vent’anni, capite? Vent’anni rinchiusi qui sotto! Senza interruzione! - urlò il carceriere magro senza interrompere la sua danza. - Dovevano essere dieci, li hanno raddoppiati senza una spiegazione, quei maledetti! Ma ora è finita! Si torna nel mondo dei vivi!
  - Non dovete portare nulla con voi? - chiese Garm.
  - Non possediamo altro che questi stracci che ci vedete addosso.
  - E un sacchetto di pistacchi per i pipistrelli.
Prima di accomiatarsi, i due sorveglianti strinsero la mano ai due giovani.
  - E’ stato un vero piacere! - disse lo smunto, e si allontanò in tutta fretta seguito dal suo corpulento compare.     
Kavàla si strinse a Garm.
  - Dietro quella porta…
  - Sì, Kavàla: il Re del Nulla.

IX

Il potere è sempre oggetto di contesa. Neppure i despoti più crudeli sono al riparo dalle congiure. Elissinia, città torpida tanto nell’esercizio della virtù quanto in quello del vizio, ospitava le sue camarille, concentrate all’interno di circoli dai nomi altisonanti. Si trattava di conventicole di notabili - dediti all’accumulazione di ricchezze ed incarichi di rilievo - con la passione dell’intrigo, facenti capo a questa o quella sezione della Confraternita del Triangolo, al vertice della quale, nella città sul Nitico, si trovavano i Diadochi: Labano, Galvano e Carcarodonte.
Tutta la città era al corrente delle loro malversazioni, eppure, tutta la città strisciava ai loro piedi. Nella miseria morale dei potenti consiste, del resto, la consolazione della massa anonima dei subordinati.
L’autorità di Sarmand si arrestava sul limitare delle lussuose dimore dei Diadochi. Non potendo esiliarli come avrebbe desiderato, il Catafratto dovette accontentarsi di farli confinare in casa, proibendo loro ogni partecipazione alla vita civica. Insieme al titolo di Diadochi, Labano Galvano e Carcarodonte conservarono però il diritto di apparire, in effigie, nel corso delle cerimonie pubbliche di maggior prestigio. Sin da subito, inoltre, trovarono il modo di aggirare il divieto imposto dal Catafratto: servendosi di passaggi sotterranei, riuscivano a superare agevolmente, del tutto inosservati, i confini delle proprie tenute. Ma la notizia degli incontri clandestini fra i Diadochi e i soci della Confraternita del Triangolo non tardò a giungere all’orecchio di Sarmand, che disponeva di numerosi informatori. Con suo sommo disappunto, il Catafratto dovette arrendersi all’impossibilità di impedire le escursioni notturne dei Diadochi. Per scoraggiarle, fece intensificare i controlli nei pressi delle sedi della Confraternita. Nessuno poteva entrarvi od uscirne senza essere identificato e perquisito. Queste misure vessatorie non fecero che accrescere l’odio dei Triangolari nei confronti del Catafratto. La vendetta della Confraternita non si fece attendere. Forti delle prerogative di cui il Catafratto non aveva potuto spogliarli, i Diadochi chiesero ed ottennero dal proconsole Fistulòs l’emissione di un ordine di arresto nei confronti del solo amico di cui Sarmand disponesse in tutto l’orbe terracqueo: un personaggio noto con il nome di “Re del Nulla”. Era, costui, un uomo di età indefinibile, né brutto né bello, né magro né grasso, né glabro né irsuto, né alto né basso. Nessuno avrebbe saputo descriverne l’aspetto, fornirne un ritratto fosse pure approssimativo. Nemmeno Sarmand. Non apparteneva forse, il Re del Nulla, a quella strana specie di creature che si muovono nelle intercapedini fra il mondo reale e quello dei sogni? Sarmand si imbatté per la prima volta in lui durante la lettura di uno scritto anonimo intitolato “Redigere ad nihilum”, di cui la biblioteca centrale accademica possedeva un esemplare rarissimo. Il Regno del Nulla, di cui sino ad allora aveva ignorato persino l’esistenza, gli si rivelò in tutta la sua incontaminata bellezza: cieli azzurri, boschi rigogliosi, stagni di acqua cristallina, prati sfavillanti di fiori dalle tinte vivaci e, all’estremo orizzonte, il mare. Un mare calmo e profondo, la cui superficie una tiepida brezza leggera dolcemente increspava. Quello del Nulla era il regno dell’atemporalità e della permanenza delle forme: corruzione e mutamento ne erano banditi. Niente vi accadeva, niente vi poteva accadere, poiché l’evento, qualsiasi evento, implica un inizio, uno svolgimento e una fine. Custode e garante della conservazione di questo assetto immutabile, il Re. Sovente, il Catafratto si recava in visita in sogno presso il sovrano. Insieme facevano lunghe passeggiate attraverso quei paesaggi incantati. Il Re, di tanto in tanto, si staccava da terra e fluttuava nell’aria, librandosi a parecchi metri dal suolo, insieme alle rondini in volo. Poi ridiscendeva al suolo e riprendeva a camminare accanto al Catafratto, come se niente fosse. Capitava talvolta che incontrassero un abitante del Regno. Si trattava di persone, uomini e donne, assai singolari: li si poteva osservare sdraiati all’ombra dei salici, intenti a dormire o a fantasticare, immersi nei propri pensieri.            
L’arresto del Re fu per Sarmand un brutto colpo, aggravato dal mistero circa il luogo della detenzione del sovrano. Ciò non fece che inasprire la misantropia del Catafratto, la sua insofferenza verso il notabilato di Elissinia, il suo disgusto nei confronti del mondo.  L’interno della cella reale misurava tre metri per quattro. Vi trovavano spazio un divano, un libreria e uno scrittoio. Il Re, disteso sul divano, dormiva un sonno profondo e sognava, sognava.
Una carrozza trainata da una pariglia di cavalli bianchi si fermò all’ingresso di un palazzo nobiliare. Il conducente, un uomo dalla corporatura massiccia, il viso incorniciato da due imponenti mustacchi, fece segno al proprio assistente di scendere a terra. Questi obbedì, non senza fatica, poiché aveva gambe di diversa lunghezza. Il conducente commentò:  - In casi come questi si è soliti dire che uno ha una gamba più corta dell’altra. Ma non sarebbe altrettanto corretto affermare che ha una gamba più lunga dell’altra?
  - Si parte dal presupposto che una delle due sia proporzionata al resto del corpo. Ed è la gamba giusta. L’altra, quella sproporzionata, è la più corta - replicò l’assistente.
  - Un attimo: e se quella sproporzionata fosse tale in virtù di un’eccessiva lunghezza? In questo caso sarebbe corretto dire: ha una gamba più lunga dell’altra.
  - No, perché quella giusta, quella proporzionata, sarebbe comunque la più corta.
  - Vedi che ti contraddici: se il metro di misura è la gamba proporzionata, e questa fosse più corta di quella difforme, si dovrebbe dire…
  - Allora, mi fate scendere o no da questa benedetta carrozza? - ruggì il granduca sporgendo il viso paonazzo dal finestrino della vettura. L’assistente si precipitò ad aprire, caracollando, e sistemò la scaletta.
  - Non so cosa mi trattenga dal licenziarvi entrambi! Possibile che stiate sempre a sproloquiare?
  - Perdoni eccellenza, è lui che cavilla, utilizzando argomenti capziosi.
  - E tu lascialo cavillare! Su, piuttosto, prendi i bagagli!
Il granduca scese a terra e agitando il bastone da passeggio si rivolse al conducente:
  - Hai guidato in modo barbaro. Sembra che tu faccia apposta a prendere tutte le buche!
  - Eccellenza, mi deve scusare, ma la strada è un groviera.
  - Buono solo a trovare scuse! Vai, vai che è meglio!
La carrozza si allontanò verso le scuderie. Dal palazzo, nel frattempo, era uscito il maggiordomo: un uomo gobbissimo, il cui cranio pelato riluceva sotto i raggi del sole come una mela cotogna. 
  - Sua eccellenza ha fatto buon viaggio?
  - Pessimo. Desidero riposare nelle mie stanze per le prossime tre ore. Nessuno osi disturbarmi.
  - Eccellenza…
  - Che c’è adesso?
  - Una visita.
  - Da parte di chi?
  - Un messo di Sua Maestà.
Al granduca, per lo sorpresa, cadde il monocolo.
  - E me lo dite così? E’ da molto che aspetta?
  - Non più di mezz’ora. L’ho fatto accomodare nella sala delle armature.
  - Neppure il tempo di sciacquarmi il viso… Beh, annunciatemi, lo vedrò immediatamente!
  - Certo eccellenza.
Il gobbo – che era pure un po’ claudicante – si diresse verso la sala delle armature, mentre il granduca si arricciava nervosamente i baffi, interrogandosi sulle ragioni di quella visita inattesa. Annunciato dal maggiordomo, il granduca fece ingresso nel salone.
Il messo sedeva accanto a una finestra.
  - Eccellenza, stavo ammirando il vostro splendido parco - disse alzandosi in piedi in atteggiamento deferente.
  - Non tenetemi sulle spine. Cosa vi ha condotto qui? - tagliò corto il granduca.
  - Il Re…
  - Ebbene?
  - E’ stato rapito!
Il granduca riperse il monocolo.
  - Rapito? Il Re? Ma è una follia! Chi ha osato?
  - Gli elissini.
  - E chi sarebbero questi briganti?  
  - Gli abitanti di una città chiamata Elissinia.
  - Ma non esiste una città con quel nome!
  - Esiste, ma non in questo mondo.
  - Capisco - disse il Granduca scuotendo il capo.  - Il Re sta di nuovo sognando.
  - Guarda Garm, si sta svegliando!
Il Re si rizzò a sedere, mezzo intontito, si stropicciò gli occhi, e stette per qualche istante a osservare i due giovani in piedi dinanzi al divano. “Un altro sogno”, mormorò, e fece per distendersi di nuovo.
  - Maestà, non è un sogno, siamo veri!
  - Sì, buonanotte.
Kavàla si avvicinò al re e gli diede un pizzicotto sulla guancia.
  - Convinto adesso?
Il re si accarezzò la guancia, poi cinse i fianchi di Kavàla.
  - Ohibò, dunque non sto sognando…
  - Ecco, maestà, se ora vuol essere così gentile da togliermi le mani dal sedere, le presento l’uomo incaricato di liberarla.
  - Certo, certo. Capirà, mi occorrevano prove inoppugnabili. Ma questo simpatico giovane odora di selvatico come un alce maschio nella stagione degli amori!
  - Il mio nome è Garm, vengo da Gyelheim su incarico di Firlfrind.
  - Il buon vecchio mago! E lei, cara  fanciulla, come si chiama?           
  - Kavàla.
  - Un nome assai suggestivo, le si attaglia perfettamente. Dunque, a che devo il piacere della vostra visita?
Kavàla guardò Garm, sconcertata, quindi torno a rivolgersi al re.
  - Maestà, come le ho detto poco fa siamo qui per liberarla.
Il re poggiò un gomito sul bracciolo del divano e stropicciandosi il mento, mormorò:
  - La libertà è una chimera.
  - Maestà - disse Garm serio serio  - Non c’è tempo per i filosofemi, dobbiamo andarcene, e alla svelta.
  - Capisco. Apprezzo molto ciò che state facendo, credetemi. Sono pronto.
Il Re si alzò dal divano, rassettandosi gli abiti impolverati, e si dispose a seguire la coppia dei suoi liberatori.
  - Vent’anni di prigionia non son pochi - disse gettando un’ultima occhiata alla cella.
  - Sua Maestà non ha bagaglio? - domandò Kavàla.
  - Solo gli abiti che indosso.
  - Andiamo allora.
Garm con piglio determinato fece strada verso l’uscita.   
A metà circa del corridoio, un rumore di passi proveniente dalla direzione opposta li bloccò.
  - Chi potrà mai essere? I carcerieri hanno cambiato idea?
  - Ne dubito - replicò Kavàla, preoccupata.
Da dietro l’angolo sbucarono due figure, una maschile e l’altra femminile, che si immobilizzarono alla vista del terzetto.
  - Maestà! - esclamò l’uomo. Si trattava del Catafratto, con Lucretia al proprio fianco. La diavolessa, estratta la spada dal fodero, fece per affrontare i due giovani.
  - Calma, calma! - si interpose il re. - I ragazzi sono giunti da molto lontano apposta per liberarmi. Nessuno si azzardi a far loro del male.
Lucretia ripose l’arma.
  - Sarmand, quanto tempo! Cosa ti porta quaggiù? - disse il re rivolto all’amico di un tempo.
  - Sono stato tanto in pena per voi! Solamente ieri sono venuto a sapere dov’eravate tenuto prigioniero, e mi sono precipitato subito in vostro soccorso!
Il re, commosso, abbracciò prima Sarmand e poi Lucretia, quest’ultima con particolare trasporto.
  - Lasciate che vi presenti - disse il re. - Costui, cari ragazzi, è il grande Catafratto in persona, l’uomo più odiato di tutta Elissinia.
  - Troppo gentile, Maestà - si schermì Sarmand con un inchino.
  - Loro si chiamano Garm e Kavàla. E lei…
  - Lucretia, X Legio Infernalis - esclamò la diavolessa scattando sull’attenti.
  - Non sapevo che un demone potesse essere così grazioso. Bella soda, non c’è che dire.
  - Al re piace toccare con mano - bisbigliò Kavàla all’orecchio di Garm.
  - Ho notato - replicò questi, senza riuscire a nascondere un certo disappunto. Non aveva gradito le  palpazioni che il sovrano aveva riservato alla sua compagna di viaggio, e ancor meno la condiscendenza di lei, condiscendenza dovuta - peraltro - a mero compatimento. Ma la mente di Garm non era in grado di cogliere certe sfumature: difettava di quell’elasticità che solo l’uso protratto del mondo è in grado di conferire. 
  - Maestà, dovremo rinviare i convenevoli ad un altro momento: urge che ci si allontani di qui al più presto! - esclamò Sarmand.
La combriccola guadagnò l’uscita, lasciando spalancata la porta d’accesso così da rischiarare almeno un poco il fondo del pozzo.
  - Garm, i pistacchi!
  - Non servono pistacchi né altra frutta secca - disse Lucretia. Con tono imperioso, pronunciò un ordine in una lingua sconosciuta ed ecco che subito calarono dall’alto tre esseri alati.  Lucretia dispiegò le ali, e cinse il Catafratto per la vita.
  - Ciascuno di voi si stringa a uno di loro - disse, e si levò in volo.
Aggrappati alle strane creature, i tre si ritrovarono fuori dal pozzo in pochi minuti. Lucretia e Sarmand li stavano aspettando in prossimità dell’imbocco di una galleria. Anacleto li accolse scodinzolando.
  - E’ andato tutto bene, vedo.
  - Anacleto caro, visto che ce l’abbiamo fatta?
  - Non ne ho mai dubitato, Kavàla!
Il re del nulla diede una carezza al cane e domandò ai suoi liberatori:
  - E adesso?
  - Dobbiamo uscire di qui – rispose Garm.
Sarmand si avvicinò al sovrano.
  - Vogliate seguirmi, Maestà.
  - Quella non è la direzione da cui siamo venuti noi! – osservò Garm.
  - Siete passati dalle catacombe, vero? Conosco un percorso più sicuro che conduce direttamente ai sotterranei dell’accademia, dove io sono signore e padrone.
  - Verrò dove vorrete – puntualizzò il Re. – Purché vi mettiate d’accordo sulla direzione da prendere.
  - Se mi consentite, avrei un suggerimento – intervenne Anacleto. – Elissinia non è il luogo più adatto dove condurre il Re.
  - Se è per quello, nemmeno la provincia offre particolari garanzie! – obiettò stizzito il Catafratto. – Il Re ha nemici ovunque!
  - Tranne che nel proprio regno.
  - Il cane ha ragione, Sarmand. Non avrebbe senso trasferire il Re da queste grotte al mortorio dove trascorri le notti. Dobbiamo restituirlo alla luce del sole, all’aria pura, agli spazi aperti del suo regno.
Il Catafratto rifletté per qualche istante sull’osservazione di Lucretia.
  - Sia come voi dite – sospirò. – Sempre che ne siate capaci.
  - Lasciate fare a me. Mica per niente milito nella X Legio Infernalis!
  - Dunque, Maestà – disse Sarmand in tono accorato – ci separiamo un’altra volta?
  - Solo temporaneamente, mio caro.
Il sovrano prese sottobraccio l’amico e si allontanò con lui di qualche passo dal resto del gruppo.
  - Quando sarò tornato nel mio regno, potremo incontrarci ancora, per conversare come eravamo soliti fare in passato.
  - Incontrarci…e come?
  - In sogno, Sarmand, in sogno!
Il Catafratto annuì, e sul suo viso spigoloso apparve un timido, timidissimo sorriso.
  - Ed ora, amici, a noi! – disse il Re rivolto ai suoi liberatori. –Vi ringrazio tutti di cuore. Ci attende un lungo viaggio. Ma per fortuna – soggiunse indicando la bella diavolessa - abbiamo una guida d’eccezione.
Lucretia sguainò la spada e, pronunciando formule misteriose, la puntò verso l’alto. Subito la lama si accese di una luce abbagliante: se ne irradiarono raggi multicolori che avvolsero uno ad uno i presenti. Un vento impetuoso, proveniente da distanze inconcepibili, prese a soffiare nella grotta, sollevando turbini di sabbia. Quando la sabbia si posò, non vi era più alcuna traccia di Lucretia né dei suoi compagni. 

Epilogo 

I giardini del palazzo reale, affollati di persone festanti per il ritorno del sovrano, sfavillavano nel meriggio di una moltitudine di colori. Il clima era dolce, l’aria profumava di viole. Il re sedeva all’ombra di un gazebo, circondato dall’affetto dei sudditi. Fra essi i parenti di Kavàla, cui il buon mago Firlfrind, spezzando il sortilegio del viandante, aveva restituito forma umana.
  - Maestà, ci dica, cos’è questo mondo di cui tanto si parla? – gli fu chiesto.                   
  - E la vita, Maestà, cos’è mai la vita, di cui si favoleggia? – domandò una fanciulla che indossava un vezzoso cappellino.
  - Uno alla volta, miei cari, uno alla volta – rispose il Re del Nulla e si accinse a rispondere, non senza aver prima gettato un’occhiata benevola a una coppia di giovani intenti a passeggiare a braccetto nel parco, seguiti a breve distanza da un cane di mezza taglia.
Garm e Kavàla si gustavano il tepore di quella giornata radiosa.
  - Che meraviglia eh, Garm? – disse la ragazza in tono languido.
Il giovane, lindo e ben vestito, rimase per alcuni istanti in silenzio, sorridendole semplicemente.
  - Kavàla – disse infine – c’è una cosa che desidero mostrarti da tempo.
E scomparì con lei dietro a una siepe.

Pietro Ferrari, 2010 

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