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domenica 3 settembre 2023

ANEDDOTICA DISTORTA IN EPOCA PRE-INTERNET: LE ORIGINI DEI MICHELETTI

I Micheletti erano un corpo di soldati spagnoli (secoli XVI-XVIII), menzionati nell'opera di Manzoni con cui si purgano gli studenti nelle suole italiane: I promessi sposi. Per l'esattezza, si trattava di truppe irregolari di mercenari reclutati in Catalogna, composte da fanti leggeri armati dapprima di archibugio e in seguito di moschetto. Il loro nome in spagnolo era Miqueletes o Migueletes, a sua volta derivato dal catalano Miquelets, corrispondente al valenciano Micalets


Ecco i brani manzoniani in cui vengono menzionati i Micheletti (ho evidenziato le occorrenze in grassetto): 

Promessi sposi, Capitolo XIII

A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: “ ohe! ohe! ” senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello. 

Promessi sposi, Capitolo XVI 

C’era, proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de’ micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non lasciare entrar di quelli che, alla notizia d’una sommossa, v’accorrono, come i corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un’aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure indietro. 

Promessi sposi, Capitolo XVI 

“ Ma, ” continuò il mercante, “ trovaron la strada chiusa con travi e con carri, e, dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibusi spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo bell’apparato... Cosa avreste fatto voi altri? ” 

“ Tornare indietro. ”

“ Sicuro; e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì sul Cordusio, vedon lì quel forno che fin da ieri, avevan voluto saccheggiare; e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori; c’era de’ cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene; e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c’era chi gli aizzava), costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio anch’io: in un batter d’occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra. ”

“ E i micheletti? ” 

“ I micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare e portar la croce. Fu in un batter d’occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c’era buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate un po’ con che bella proposta venne fuori. ” 

Fastidiose memorie scolastiche 

I tempi del liceo sono molto lontani, eppure ricordo ancora che in un'occasione il professore di italiano e di latino ci disse in tono pedantesco che i Micheletti traevano il loro nome dalla Valle di San Michele, nei Pirenei, dove erano tradizionalmente reclutati. L'atmosfera in classe era plumbea. Ascoltavamo avviliti queste spiegazioni, che ci venivano impartite in tono a dir poco molesto, al preciso scopo di mortificarci. Sembrava che il docente volesse rimarcare la nostra ignoranza e intendesse esprimere questi pensieri: "Brutte merde subumane, adesso vi insegno io i dettagli di ogni cosa, dall'alto della mia Sapienza. Non vi chiederò queste cose all'interrogazione: mi basta dimostrare la vostra natura di vermi". Spesso il tono di voce e il cosiddetto "linguaggio paraverbale" sottintendono interi mondi, per lo più ripugnanti. 
Mi immaginavo un vallone lunghissimo, ampio, pieno zeppo di gente piuttosto ottusa. Chissà come mai, mi ero messo in mente che questi valligiani fossero biondicci. A distanza di anni, volendo verificare quanto udito a scuola, mi sono dovuto rendere conto che questa fantomatica Valle di San Michele non è mai esistita. In altre parole, il dottissimo professore, che sapeva sempre tutto, ci aveva rifilato una fake news


Considerazioni etimologiche 

L'ipotesi più accreditata sull'etimologia del nome dei Micheletti lo fa derivare da quello del Capitano Miquelot de Prats (anche noto come Miguel de Prats o Miquel de Prades), un mercenario catalano che servì Cesare Borgia detto Il Valentino (1475 - 1507), il famoso generale-cardinale sfigurato dalla sifilide. Un altro mercenario al servizio dello stesso padrone era Michelotto Corella, che tra le altre cose strangolò Vitellozzo Vitelli; non è tuttavia plausibile che abbia dato il nome ai Micheletti, essendo più che altro un sicario prezzolato, tanto da essere noto come il Boia del Valentino. Si noterà che Cesare Borgia era Cavaliere dell'Ordine di San Michele, istituito nel castello di Amboise dal Re di Francia Luigi XI, in data 1 agosto 1469. Comunque la si metta, ci deve essere di mezzo un Michele! 
Si potrebbe pensare che il nome dei Micheletti derivi da quello dell'abbazia benedettina di San Michele di Cuxa, in catalano Sant Miquel de Cuixà (-x- si pronuncia come sc- in sci). Si consideri che un tempo era un monastero assai famoso. Si riesce a questo punto a ricostruire il percorso che ha portato il summenzionato docente del liceo a uscirsene con il mito della Valle di San Michele. Deve aver letto da qualche parte che in origine i Micheletti erano reclutati proprio nella zona di San Michele di Cuxa. All'origine dell'aneddoto ci sarebbe una distorsione operata dalla sua memoria, abituata a ricordare una mole immensa di informazioni senza mai verificarle con attenzione. Questo è un bias molto insidioso che può colpire chiunque!

Alcune note storiche

La Francia ha cercato a lungo di imitare i Micheletti, le cui capacità erano riconosciute e ammirate, soprattutto nella guerriglia in regioni montuose e difficili: sono state così formate numerose compagnie di Miquelets francesi, come quelle impiegate da Napoleone Bonaparte nel corso della guerra d'indipendenza spagnola, anche se con scarso successo. 
Il corpo dei Micheletti sopravvisse nelle Province Basche nel corso del XIX secolo e fu abolito soltanto nel 1877.

Uno slittamento semantico

I Micheletti in tempo di pace continuavano una tradizione già in auge tra i militari fin dall'epoca medievale: si procacciavano da vivere con il saccheggio ai danni dei civili. A causa di ciò, il termine "micheletto" venne presto ad essere considerato un sinonimo di "brigante". Perché i razziatori non venivano impiccati? Semplice: perché avevano una speciale licenza che permetteva loro di esercitare questo passatempo senza conseguenze legali, in attesa di rendersi necessari in caso di guerra! Nel 1642 ci fu un tentativo di sciogliere la milizia a causa della sua indisciplina, ma sul finire del secolo si formarono spontaneamente nuove compagnie di Micheletti per difendere la frontiera catalana nel corso della guerra contro la Francia.

I Micheletti e il celebre Michelaccio

In italiano è noto come Michelaccio chi vive senza lavorare, non dandosi pensiero di sorta. La locuzione più comune è "fare la vita di Michelaccio: mangiare, bere e andare a spasso". Anche in Spagna e in Francia esiste questo appellativo, anche se con altro suffisso: spagnolo miquelet(e)micalete, francese miquelet "vagabondo"; "brigante dei Pirenei". E ancora il nome dei soldati di cui stiamo parlando! Alcuni vogliono che fossero chiamati così i pellegrini che si recavano a Mont-Saint-Michel, perché considerati gaglioffi e perditempo, che vivevano scroccando pane e altro cibo. Ritengo invece più probabile che si trattasse dei Micheletti, con questo slittamento semantico:   

micheletto > bandito, razziatore > vagabondo > perditempo 

In Italia il suffisso è stato sostituito con il peggiorativo -accio, dando Michelaccio (variante Michelasso; veneto Michelazzo). A questo punto c'è da notare una bizzarria di non poco conto. Manzoni menziona Michelaccio nei Promessi sposi, senza rendersi conto che non è separabile nell'origine dal nome dei Micheletti! Ecco la citazione (il grassetto è mio): 

Promessi sposi, Capitolo XXIII:

Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo.

Respingo senza dubbio la ridicola favola di Michele Panichi, fantomatico commerciante fiorentino ritiratosi dagli affari e diventato fannullone. L'avranno rifilata a Manzoni quando era intento a "sciacquare i panni in Arno"!

I cognomi Micheletti, Micheletto,
Michieletti, 
Michieletto 

Esistono alcune possibili cognominizzazioni del nome dei Micheletti. Sono cognomi facilmente riconoscibili, che possono almeno in parte essere derivati dall'integrazione dei mercenari catalani in territorio italiano. Sono questi: Micheletti, Micheletto, Michieletti, Michieletto. Riporto i link alle rispettive mappe di distribuzione: 




mercoledì 6 ottobre 2021

UN RELITTO OSCO IN NAPOLETANO, SALERNITANO E LUCANO: ATTRUFE 'OTTOBRE'

Quando nel V secolo a.C. i Sanniti conquistarono la Campania, presero il nome degli Osci, detti anche Opici (trascritto in greco come ᾿Οπικοί), una precedente popolazione non sannitica che abitava da tempo immemorabile in quegli ameni luoghi. Da questa fusione etnica ebbe origine la sinonimia di osco e sannitico per indicare la lingua italica dei conquistatori, che prevalse su quella dei vinti. Tale lingua era ricca e complessa come quella di Roma e con essa strettamente imparentata - eppure diversa, più o meno come lo era il gallico. 

"Molte parole dialettali utilizzate nelle varie zone dell'Italia centro-meridionale presentano elementi di sostrato di derivazione osca" (Fonte: Wikipedia). 
Quanto riporta la famosa Enciplopedia corrisponde al vero. Tuttavia trovo che sia necessario approfondire l'argomento. Di affermazioni generiche è pieno il Web. Partiamo quindi da un esempio concreto e importante, di cui molti non avranno mai sentito parlare. Molti non sanno nemmeno che questa antica lingua italica sia mai esistita. Sono rimasto commosso leggendo il commento di una navigatrice che ammetteva di non aver mai sentito parlare della lingua osca. Memorie perdute. Occorre ripristinarle una per una e permettere a tutti l'accesso alle origini, che è stato per troppo tempo ostacolato e negato dal sistema scolastico. 
 
A Napoli la parola più genuina per dire "ottobre" è attrufe /at'trufə/ (varianti: attufre /at'tufrə/, ottrufe /ot'trufə/). Secondo alcuni si tratta di un vocabolo piuttosto antiquato, essendo la forma più comune uttombre /ut'tombrə/
A Salerno il mese di ottobre si chiama attrufe, pronunciato proprio come a Napoli. Alcuni lo trascrivono come attrufa o attrufo, ma il suono finale è lo stesso: una vocale indistinta /ə/, a cui i linguisti danno il nome di schwa
Si trova attrufë, attrufu "ottobre" anche in Basilicata, sempre con lo stesso suono finale indistinto.  
 
Si vede subito che il napoletano uttombre ha la stessa origine dell'italiano ottobre: deriva dal latino volgare octombre(m), una variante ben attestata di octobre(m), plasmata per analogia di septembre(m), novembre(m), decembre(m). Invece forme come attrufe non possono essere in alcun modo derivate dal latino. Proprio la presenza della consonante -f- le qualifica come pre-romane e giunte fino ai nostri tempi tramite una tradizione ininterrotta. 
La protoforma ricostruibile come antenato diretto di attrufe è il sannitico *ohtūfrim, al caso accusativo. Questa è la vera origine delle parole sopracitate degli attuali dialetti della Campania e della Basilicata. L'estensione del fenomeno non è certo casuale: gli antichi Lucani parlavano la stessa lingua dei Sanniti.
 
Il bello è che i romanisti non si sognano nemmeno di negare questi dati di fatto: li hanno riportati nelle loro opere da lungo tempo (esempi: Planta, 1897; Șăineanu, 1935; Lahti, 1935). Il problema è che non viene data alcuna risonanza a questa chiara sopravvivenza di una lingua pre-romana, indoeuropea e imparentata con il latino. Viene ritenuta un fatto marginale, a cui dedicare soltanto poche parole. Noi invece di importanza ne attribuiamo molta e ci spingiamo fino al punto di ricostruire l'intera declinazione della parola: 
 
Nominativo: *ohtūfer 
Genitivo: *ohtūfreis 
Dativo: *ohtūfrei 
Accusativo: *ohtūfrim 
Vocativo: *ohtūfer 
Ablativo: *ohtūfrīd  

Il tema indoeuropeo della protoforma di origine è chiaramente in -i-. Abbiamo poche attestazioni di sostantivi di questa classe nel materiale epigrafico. Uno di questi è senza dubbio *slāx, un vocabolo oscuro interpretabile come "confine", "territorio", attestato sul Cippo Abellano. Tecnicamente si tratta di un hapax. Trovo tale interpretazione ragionevole, anche se alcuni considerano questa parola "intraducibile" o "di significato sconosciuto". Queste sono le occorrenze su tale documento: 

sakaraklúm Herekleís [úp / slaagid púd íst ...
(linee 11-12, lato A)
"il tempio di Ercole che è sul confine ..."

pústin slagím / senateís suveís tangi-/núd tri/barakavúm lí/kítud
(linee 34-37, lato B)
"sia permesso costruire per decisione del senato di ogni (città) secondo il territorio'

avt anter slagím / A]bellanam íním Núvlanam
(linee 54-55, lato B)
"ma tra il territorio di Abellla e di Nola ..."  

í = e chiusa; i aperta
= dittongo ei chiuso
ú = o chiusa (breve); u (lunga)
av = dittongo au
úv = dittongo ou chiuso 
 
Questa è la declinazione ricostruita a partire dalle attestazioni: 

Nominativo: *slāx 
Genitivo: *slāgeis 
Dativo: *slāgei 
Accusativo: slāgim (scritto slagím
Vocativo: *slāx 
Ablativo: slāgīd (scritto slaagid

Per un'interessante trattazione di questo termine, completa di ipotesi su suoi paralleli in altre lingue indoeuropee, rimando senz'altro all'articolo di Brian D. Joseph (Università dell'Ohio, 1982), consultabile seguendo questo link: 

 
Sono convinto che potranno derivare abbondanti frutti dagli approfondimenti sulla morfologia e sul lessico delle lingue italiche. L'importante è non arrendersi all'Oblio e lavorare per riportare alla luce, frammento dopo frammento, ciò che ha fagocitato.  
 
L'enigma dello spagnolo octubre 
 
È stato ipotizzato che lo spagnolo octubre "ottobre" sia un prestito dall'italico, per via della decisa anomalia della vocale tonica -u-, in luogo dell'attesa -o-: in tale lingua normalmente il latino -ō- non dà -u- (Corominas-Pascual). Anche se l'idea pare a prima vista suggestiva, i problemi non mancano. Riporto qui una lista di esiti delle protoforme secondo diverse trafile ipotizzabili o realmente attestate. 
 
forma attesa dal latino volgare octōbre(m), octombre(m)
   ochobre (asturiano), *ochombre 
forma attesa dal latino dotto octōbrem
   *octobre 
forma attesa dall'osco *ohtūfrim
   *ochufre, *otufre 
   con sonorizzazione di -f-
   ochubre (antico spagnolo), otubre (aragonese) 
 
In tutti i casi siamo lontani dalla forma reale, octubre, che comprende in sé, in modo paradossale e inspiegabile, due caratteristiche contraddittorie: la vocale anomala -u- e il gruppo consonantico -ct-, tipico di un crudo latinismo. Tecnicamente parlando, si potrebbe dire che octubre è una forma semidotta. Si noterà che la stessa parola si trova anche in catalano, mentre in antico catalano era vuitubri, uitubri. Anche il portoghese e il galiziano hanno un esito con vocale -u-: outubro. Non sono riuscito a trovare una soluzione al problema e le lingue pre-romane dell'Iberia non sono di alcun aiuto.  

mercoledì 15 settembre 2021

ETIMOLOGIA LONGOBARDA DI GUITTO E DELL'ANTROPONIMO GUITTONE

Negli anni della mia gioventù, ero convinto che la parola guitto fosse derivata dalla stessa radice germanica dell'inglese wit "detto sagace", "motto di spirito". Nonostante la sua grande bellezza, questa ipotesi si rivelò presto del tutto fallace. In estrema sintesi, i fatti sono questi:
 
1) Se ammettiamo l'etimo di cui sopra, la parola non può essere genuinamente longobarda, dato che manca della Seconda Rotazione Consonantica, che l'avrebbe resa *guizzo
2) Il termine "guitto" non aveva un tempo il suo significato attuale di "attorucolo": indicava piuttosto il vagabondo, inteso come "individuo inutile e sudicio". In toscano la parola è tuttora usata come aggettivo col significato di "meschino, misero, povero" e anche di "avaro, gretto", "squallido"
 
Vediamo ora di ingegnarci a chiarire l'origine della parola in esame, combattendo contro difficoltà di ogni genere pur di tirarla fuori dal pantano etimologico in cui sembra sprofondata. 
 
I guitti, cittadini di Guittalemme

Chi si ricorda di Erminio Macario? Certamente tra i Millennials, e ancor più tra la Z Generation, nessuno ha la benché minima idea dell'esistenza di questo personaggio, che iniziò la sua carriera come "comico grottesco". Ricordo che in un documentario, visto molti anni fa, si parlava della formazione giovanile di Macario a Guittalemme. Il toponimo Guittalemme stava a indicare una fantomatica città popolata dai guitti, forse addirittura il luogo d'origine di tutti i guitti. La formazione del toponimo immaginario è ben chiara: la radice è la parola guitto "attore vagabondo", mentre il suffissoide -lemme, interpretato popolarmente come "città", è stato estratto dai toponimi di origine ebraica Gerusalemme e Betlemme. Ovviamente si tratta di un procedimento abusivo e infondato, la cui causa è l'ignoranza della lingua ebraica. Infatti Gerusalemme è da יְרוּשָׁלַיִם Yerushalayim, tradizionalmente interpretato come "Fondazione di Pace", nonostante -ayim abbia l'aspetto di un suffisso duale fossilizzato; invece Betlemme è da בֵּית לֶחֶם Beth Lechem "Casa del Pane" (לֶחֶם lechem significa "pane"). Nel documentario su Macario si parlava delle "guittate", trovate da attorucoli privi di mezzi. Due esempi di guittate: salire sul palco con residui del trucco dello spettacolo precedente; simulare il passaggio dei soldati pestando ritmicamente dei manici di scopa sul pavimento dietro un tendone, da cui emergeva solo la paglia delle ramazze, che dovevano far venire in mente agli spettatori una fila di copricapi militari. Riporto a pubblica edificazione questi frammenti di memorie di un mondo perduto.
 
Alcune etimologie tradizionali 

Ipotesi catalana: 
Il Michaelis, citato nel Dizionario Etimologico Online, propone l'origine della parola guitto dall'aragonese e catalano guit, guito "cattivo, sfrenato, indocile", che a quanto pare sarebbe stato detto soprattutto dei muli - quegli equini caparbi, dotati di smisurato priapo e scorreggioni, che in preda a crisi convulsive tirano calci a destra e a manca. Così una mula guita significa "una mula recalcitrante". Il Diccionari de la llengua catalana glossa guit con "Que acostuma a tirar guitzes", ossia "che è solito tirare calci". In aragonese e in catanano, dalla stessa radice sarebbe derivato anche guiton "vagabondo, ozioso, mendico". Per quanto riguarda l'origine ultima, nel Dizionario Etimologico Online è indicato il basco gaitz "cattivo", cosa impossibile già soltanto per motivi di fonetica. Altre proposte etimologiche riportate in quella fonte sono ancora più stravaganti e implausibili (gallese gwid "vizio"; latino vietus "floscio, marcescente").   


Si nota che il catalano guit, guito, è pronunciato con un'occlusiva velare semplice e senza -u-, e tale era anche in epoca medievale, tanto che in italiano sarebbe stato adattato come *ghitto. In spagnolo esiste una variante güito "indocile" (detto di animale), pronunciato /'gwito/. Tuttavia proprio questa peculiarità fonetica della parola spagnola fa pensare che si tratti piuttosto di un prestito dall'italiano. Tutte le forme citate, aragonesi, spagnole e catalane, sono a parer mio prestiti dall'italiano guitto: il flusso è proprio l'inverso di quello descritto dai romanisti. 

Ipotesi olandese: 
Il Vocabolario Treccani sostiene l'origine della parola guitto dall'olandese guit "briccone, furfante". Com'è costume dei romanisti, nessuno sembra preoccuparsi minimamente di fornire una traccia etimologica in grado di spiegare la voce olandese.


Si deve ricorrere a fonti più aggiornate e decenti. Nel Wiktionary in inglese, si trova quanto segue: guit deriva dal medio olandese guyte, di origine incerta e probabilmente connesso con ghoiten "rimproverare" e con guiten, guten "prendere in giro, schernire". Possibili paralleli in altre lingue germaniche sono: norreno gauta "parlare molto" e antico alto tedesco gauzen "insultare con un nomignolo". Un problema di non poco conto è la pronuncia stessa della parola olandese, che ha un dittongo discendente /œy/, con l'accento sulla prima vocale: /γœyt/. Il dittongo era discendente anche in epoca medievale, per sua derivazione da un dittongo protogermanico. I romanisti hanno dato per scontato che la pronuncia fosse */gwit/, con un dittongo ascendente. In pratica, hanno ciccato! La parola del medio olandese non avrebbe mai potuto dare guitto in toscano. 


Per quanto riguarda la semantica, la somiglianza è abbastanza notevole, ma questo conta assai poco. Che una provenienza olandese della parola fosse abbastanza improbabile, è facile da capire.

L'antroponimo Guittone 
 
Nel XIII secolo esisteva in Toscana l'antroponimo Guittone, chiaramente derivato da guitto. Ci è ben noto Guittone d'Arezzo (Santa Firmina, 1230/1235 - Firenze, 1294). Aveva moglie e figli ed era libidinosissimo, poi ebbe una crisi religiosa e divenne un fratacchione... gaudente! Di lui si ricorderà certamente la poesia immortale "Stavasi un eremita in Poggibonsi"... 😀 Il nomen omen è una realtà!
 
La vera etimologia 
 
Si deve evitare il marasma, visto che in questo caso specifico esiste modo di farlo. Presento dunque la sorgente etimologica a cui bisogna fare riferimento. 
 
Proto-germanico:  *wiχtiz "essenza, essere; cosa, creatura" (genere: femminile). 

Singolare 

nominativo: *wiχtiz 
genitivo: *wiχtīz 
dativo: *wiχtī
accusativo: *wiχtin 
vocativo: *wiχti 
strumentale: *wiχtī
 
Plurale
 
nominativo: *wiχtīz
genitivo: *wiχtijōn
dativo: *wiχtimaz
accusativo: *wiχtinz 
vocativo: *wiχtīz
strumentale: *wiχtimiz

Discendenti (l'elenco non è esaustivo e non riporta tutte le varianti ortografiche): 

Gotico: waihts "cosa"
Norreno: véttr, vætr "creatura, specie di gnomo"
Antico inglese: wiht, uht "cosa" 
  Medio inglese: wight "creatura, cosa; persona; mostro; 
     piccola quantità" (pl. wightes
  Inglese moderno: wight "creatura, entità", whit "piccola 
    quantità" 
Antico olandese: wiht "creatura; bambino; ragazza"
  Medio olandese: wicht, wecht "creatura; bambino;
      ragazza"  
   Olandese moderno: wicht "creatura; bambino; ragazza"
Antico sassone: wiht (f.) "creatura, cosa; persona"
Antico alto tedesco: wiht "creatura; cosa"
  Medio alto tedesco: wicht "creatura; cosa" 
  Tedesco moderno: Wicht "piccola creatura; nano"
 
Esiste anche una variante i cui esiti non sono sempre facili da distinguere, specialmente nelle lingue moderne. Eccola: 
 
Proto-germanico *wiχtan "cosa; creatura" (genere: neutro).  

Singolare 

nominativo: *wiχtan
genitivo: *wiχtas, *wiχtis  
dativo: *wiχtai
accusativo: *wiχtan
vocativo: *wiχtan  
strumentale: *wiχtō
 
Plurale
 
nominativo: *wiχtō
genitivo: *wiχtōn
dativo: *wiχtamaz
accusativo: *wiχtō 
vocativo: *wiχtō
strumentale: *wiχtamiz
 
Discendenti (l'elenco non è esaustivo e non riporta tutte le varianti ortografiche): 
 
Gotico: ni waiht "nulla" 
Antico inglese: wiht "creatura, cosa";
     āwiht "qualcosa";
     nāwiht, nōwiht "niente"
  Medio inglese: wight "creatura, cosa, persona; mostro; 
     piccola quantità" (pl. wighten);  
     ought "qualcosa";
     naht, noht, noght, naght, naught "niente"
  Inglese moderno: wight "creatura, entità";
     nought
, naught "niente", not "non"
Antico olandese: wiht "creatura; bambino; ragazza"; 
      niewiht, nuwieht, niuweht "niente" 
  Medio olandese: wicht, wecht "creatura; bambino;
      ragazza"; 
      niwet, nit, niet "niente"  
   Olandese moderno: wicht "creatura; bambino; ragazza";
      niet "non", "no"
Antico sassone: wiht (n.) "creatura, cosa, persona"; 
     neowiht, niowiht, nieht "niente"  
   Medio basso tedesco: wicht, wucht (n.) "cosa"
Antico alto tedesco: wiht (m., n.) "creatura; cosa";
      niowiht "non"
  Medio alto tedesco: wicht "creatura; cosa"; 
     niuweht, nieweht, niht, nit "niente, nessuno; non"
  Tedesco moderno: Wicht "piccola creatura; nano";
      nicht "non"
 
A questo punto è chiarissima l'origine longobarda di guitto e di Guittone
 
Longobardo ricostruito: 
  GUICT "creatura, cosa"; "buono a nulla, vagabondo"; 
  NIGUECT, NEIGUECT, NAIGUECT "niente".
Il pronome indefinito ha lasciato importanti esiti in alcuni dialetti gallo-italici della Lombardia: milanese nigòtt "niente", brianzolo nigòtt, nagòtt "niente"; in bergamasco ho sentito vergòt, ergòt "qualcosa". 
 
Non ho dubbi sul fatto che il catalano guit provenga da una forma germanica, la stessa che troviamo nell'antico alto tedesco wiht. Si potrebbe pensare che l'origine sia nella lingua dei Franchi. Tuttavia si nota che non risulta un esito di questa radice passato al francese o al provenzale. Potrei sbagliarmi, ma se esistesse, i romanisti lo avrebbero già usato come fonte etimologica. Non credo che i Franchi avessero potere in Catalogna. Non può trattarsi di una parola del germanico orientale a causa del vocalismo. Resta un'unica soluzione: è provenuta dall'Italia. 
 
Conclusioni 
 
Con questo contributo ho fatto chiarezza su alcuni punti controversi. 
 
1) Ho dimostrato che l'italiano guitto non deriva dall'olandese guit
2) Ho dimostrato che l'italiano guitto non deriva dal catalano guit, essendo vero il contrario. 
3)  Ho enunciato l'origine longobarda dell'italiano guitto e dell'antroponimo Guittone.

domenica 10 maggio 2020


NON SI DEVE PROFANARE
IL SONNO DEI MORTI


Titolo in inglese: Let Sleeping Corpses Lie
Titolo in spagnolo: No profanar el sueño de los muertos 
AKA: Da dove vieni?; Zombie 3; Don't Open the Window;
       The Living Dead at the Manchester Morgue 
Lingua originale: Italiano
Paese di produzione: Italia, Spagna
Anno: 1974
Durata: 95 min.
Genere: Orrore 
Sottogenere: Horror fantascientifico, zombie apocalypse  
Regia: Jorge Grau
Soggetto: Sandro Continenza, Marcello Coscia, Juan Cobos,
     Miguel Rubio
Sceneggiatura: Sandro Continenza, Marcello Coscia, Juan
     Cobos, Miguel Rubio
Produttore: Edmondo Amati
Casa di produzione: Fida
Distribuzione in italiano: Flaminia Produzioni
     Cinematografiche srl - Roma
Fotografia: Francisco Sempere
Montaggio: Domingo Garcìa
Effetti speciali: Giannetto De Rossi, Luciano Bird
Musiche: Giuliano Sorgini
Scenografia: Carlo Leva
Costumi: Carmen De La Casa
Trucco: Giannetto De Rossi
Interpreti e personaggi:
    Ray Lovelock: George Meaning
    Arthur Kennedy: L'ispettore gerontocratico 
    Cristina Galbo: Edna Simmonds
    Aldo Massasso: L'investigatore Kinsey
    Giorgio Trestini: L'ufficiale Craig
    Roberto Posse: Benson
    José Ruiz Lifante: Martin West
    Jeannine Mestre: Katie West
    Gengher Gatti: Keith
    Fernando Hilbeck: Guthrie Wilson
    Vera Drudi: Mary
    Vicente Vega: Dott. Duffield
    Paco Sanz: Il giudice
    Paul Benson: Wood
    Anita Colby: Infermiera
    Joaquin Hinojosa: Uomo dell'autopsia
    Isabel Mestre: La telefonista
    Vito Salier: Un uomo nudo
    Francisco Sanz: Perkins
Doppiatori italiani:
    Cesare Barbetti: George Meaning
    Sergio Fiorentini: L'ispettore gerontocratico
    Ferruccio Amendola: L'ufficiale Craig 
 
 
Trama:
George è un aitante giovanotto un po' hippie, barbuto e biondiccio. Durante un viaggio nel territorio conosciuto come Lake District (quello dei famosi Poeti dei Laghi), ha un incidente: la sua moto, una Norton, finisce danneggiata dalla Mini Cooper guidata da una splendida donna dai capelli rossi come il fuoco, Edna. Non potendosi permettere il lusso di restare appiedato, George accetta da Edna un passaggio fino a Windermere. Siccome la donna deve recarsi a Southgate a trovare la sorella, chiede a George di essere lasciata lì, lasciandogli la macchina per proseguire verso Windermere, dove lei intende poi raggiungerlo. Il problema è che i due si perdono cercando la via per Southgate, finendo in una zona isolata. George scende dalla macchina e attraversa un fiume a piedi, raggiungendo una fattoria dove trova alcuni uomini del Ministero dell'Agricoltura, intenti ad armeggiare con strani macchinari. L'uomo biondiccio chiede loro spiegazioni. Gli rispondono che si tratta di una tecnologia sperimentale che permette di uccidere gli insetti per mezzo delle radiazioni ultrasoniche. Mentre Edna aspetta in macchina, viene aggredita da un uomo emerso all'improvviso dalle acque del fiume. Questo energumeno, alto e con la barba corvina, scompare dalla vista quando George fa ritorno. La situazione si ingarbuglia. Ormai è notte fonda. La sorella di Edna, Katie, è una creatura fragile e tormentata, dipendente dall'eroina. Ha un litigio col marito Martin, un fotografo che usa la sua arte per ritrarla nuda e nell'atto di bucarsi. L'uomo, esasperato, esce a scattare foto in una postazione remota tra i campi. Compare l'uomo barbuto che aveva aggredito Edna. Katie, terrorizzata, fugge nel buio, cercando l'aiuto di Martin, che però viene sopraffatto e ucciso dal misterioso aggressore. La ragazza riesce a tornare a casa e a questo punto  arrivano sua sorella Edna e il suo compagno. Viene chiamata la polizia, che si rivela subito ottusa e brutale. L'Ispettore è un gerontocrate oltremodo aggressivo, che pensa subito di accusare Katie del delitto, rivolgendo la sua antipatia contro George. A spingerlo è un odio assoluto e irrazionale verso le persone giovani. Egli è un uomo tutto d'un pezzo, un "poliziotto reazionario e tetragono che odia i capelloni" (come scrive un commentatore), convinto che i giovani siano tutti drogati e dediti alle orge più sfrenate: assimila addirittura la musica rock ai rituali satanici. Credendo che un uomo onesto non debba e non possa avere erezioni, accusa con facilità tutti coloro che provano desiderio sessuale di essere i responsabili dei peggiori crimini. La sua tattica investigativa consiste nella ricerca di un capro espiatorio. Katie finisce ricoverata all'ospedale di Manchester, dove alcuni bambini manifestano sintomi di frenesia cannibalica. Presto George ed Edna scoprono l'orrenda verità: stanno sorgendo i morti viventi! I cadaveri si rianimano proprio a causa delle radiazioni diffuse dagli scienziati dementi del Ministero dell'Agricoltura. Tutto precipita in un vortice di aggressioni e di inseguimenti, senza nemmeno un istante di respiro. Gli eventi raccapriccianti si moltiplicano, senza che si possa fare nulla per porvi rimedio. George combatte strenuamente contro gli zombie. Il problema è che per un macabro scherzo del destino, ogni volta che ha terminato la dura lotta, la polizia arriva e lo accusa sempre di essere lui il responsabile di tutte quelle morti aberranti! A un certo punto non si capisce nemmeno se la piaga peggiore sia l'epidemia zombificante o l'atteggiamento della polizia. L'ispettore gerontocratico è come posseduto dalla follia e sembra trionfare, ma alla fine troverà la sua Nemesi.

Sequenze memorabili:
L'assedio al cimitero. Gli zombie che sventrano un poliziotto, gli estraggono le viscere e le divorano, masticandole con infinita avidità. Il sangue che cola dal cranio forato di una morta vivente. Il poppante che morsica un dito al protagonista. Il fotografo zombificato che strangola la gracile moglie; lui e i suoi compagni che strappano i seni all'infermiera, quindi la eviscerano. Un morto vivente che spacca il cranio a un medico servendosi di una scure, dopo avergliela strappata di mano.  
 
 
Recensione:  
Quest'opera di Grau è ritenuta un'eccezione tra i film etichettati come "zombeschi minori". A parer mio è un'opera che ha dei meriti. Non è affatto un film mediocre! Non si può considerare una pura e semplice riedizione degli "zombeschi maggiori". Anche a costo di attirarmi l'ostilità di molti cinefili schifiltosi quanto saccenti, lo considero eccellente sotto tutti i punti di vista. La regia è impeccabile, le interpretazioni degli attori sono ottime, l'ambientazione è suggestiva e non si dimentica. Lovelock nel ruolo di George è robusto; la fulva Galbo nel ruolo di Edna è sublime. Non mancano gli spunti di riflessione politica, sociale ed ecologica. Certo, avrei goduto di più se l'odiosissimo ispettore fosse finito dilaniato e masticato! 
 
Dopo essere stato presentato al Sitges - Festival internazionale del cinema fantastico della Catalogna il 30 settembre 1974, il film uscì in Italia il 28 novembre dello stesso anni, per poi essere distribuito nel Regno Unito e negli Stati Uniti d'America nel corso del 1975, con vari titoli (in tutto più di 15!). I riscontri nel mondo anglosassone sono stati ottimi. L'accademico Peter Dendle lo ha definito "sorprendentemente efficace" ed ha affermato che è "forse il miglior film zombesco in un anno di zombeschi molto buoni". Glenn Kay, che ha scritto Zombie Movies: The Ultimate Guide, ha detto che questa pellicola ha eclissato la successiva produzione zombesca italiana degli anni '80. Secondo lo stesso Kay questo è "il più efficace e disturbante film spagnolo del periodo"
 

Biologia degli zombie 
 
Mentre gli zombie dei film di George A. Romero muoiono all'istante quando sono colpiti al cranio da un colpo di arma da fuoco, nella pellicola di Grau si vede una donna che continua ad avanzare anche quando dal cervello bucato scaturisce un denso fiotto di sangue scuro. Anche l'uomo barbuto e colossale che lotta con il fotografo e ne riceve una grossa pietra in testa, non fa una piega: dopo aver strozzato la sua vittima si erge e avanza verso la giovane eroinomane, nonostante il sangue chiaro che gli cola dalla ferita aperta. Come il protagonista scopre, la sola possibilità di distruggere i cadaveri rianimati è il fuoco. Un'altra peculiarità davvero strana degli zombie di Grau, che non ha riscontro in Romero, è l'iride, rossa come il sangue e frastagliata come una stella marina. Ci sono interrogativi sui processi biologici che portano un cadavere a rianimarsi. Non sempre la zombificazione di un cadavere è rapida. Se una persona muore per mano di uno zombie, sembra che il processo ci metta più tempo a compiersi. All'inizio lo spettatore  ha addirittura l'impressione che il fotografo Martin sia sfuggito al suo destino di vita nella morte, ma poi lo si vede all'obitorio dell'ospedale, sorto dagli abissi dell'Ade con le labbra che grondano sangue! 

Un film italo-spagnolo inglesato 
 
Lo spettatore è convinto di essere in Inghilterra. Poi si scopre che il film è stato girato prevalentemente in Italia. Il paesaggio inglese è stato imitato alla perfezione, come pure la particolarissima atmosfera che vi regna. Soltanto alcune sequenze sono state girate in Albione, e tra queste possiamo annoverare quelle ambientate nel cimitero. Secondo i compilatori del database IMDb, si tratterebbe proprio del cimitero in cui si è fermato a riposarsi Little John, proprio quello della compagnia di Robin Hood. La troupe sarebbe addirittura stata trattata con ostilità dai nativi e costretta a terminare le riprese nel giro di 24 ore. Le scene in cui si vede l'esterno dell'ospedale sono state girate nei pressi del Barnes Hospital di Cheadle (Greater Manchester). 
 
Le Profezie della Morrigan  

Le sequenze iniziali ci mostrano un panorama degli Ultimi Giorni. La decadenza pervade ogni cosa. Bianchi vapori tossici salgono dai fatiscenti edifici industriali. I fumi esiziali uccidono gli uccelli. Per le vie della città incubica si aggira un uomo con la mascherina, sinistro presagio di un futuro pandemico che all'epoca nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Il film di Grau è un coraggioso atto di accusa contro il titanismo di un mondo scientifico cieco ed ottuso, che pretende di affermare il proprio dominio sulla natura stessa dell'Esistenza, soggiogando e manipolando gli elementi. Quelli erano tempi in cui era ancora possibile un'ecologia radicale eroica, ben diversa dagli sterili isterismi dello squallido presente!  

 
Arroganza scientista 
 
Gli scienziati-burocrati del Ministero dell'Agricoltura non considerano minimamente il ruolo degli insetti impollinatori. Le radiazioni del loro macchinario uccidono ogni specie di insetto, dalle formiche alle api. La gente odia le vespe e i calabroni, perché possono pungere e talvolta provocano reazioni anafilattiche anche mortali. Tuttavia senza tali insetti non avremmo il vino. Sono proprio vespe e calabroni a portare sull'uva i lieviti necessari per la vinificazione. Se non ci fossero, ci toccherebbe usare il lievito di birra per far fermentare il mosto, e il sapore della bevanda sarebbe del tutto diverso. Se le api scomparissero, cosa faremmo senza il miele? Non avremmo l'alimento più delizioso. Non potrei nemmeno gustare l'idromele, che reputo migliore del vino d'uva. Sarei costretto a produrmi un succedaneo dalla melassa, cosa a dir poco deprimente. Queste sono le cose a cui i seguaci del neopositivismo materialista non pensano nemmeno per un istante. Ritengono che un'idea possa funzionare, si credono infallibili e la mettono in pratica senza esitare, ignorandone le conseguenze.

Curiosità 

Jorge Grau è un regista spagnolo, nato a Barcellona. In catalano grau significa "grado", "livello" (dal latino gradus). Per una singolare distorsione percettiva ho identificato a prima vista il cognome col tedesco grau, che significa "grigio" e dalla cui radice deriva Grauen "terrore".

Il nome del protagonista, George, sembra essere un omaggio al mitico Romero, indimenticabile autore dei film "zombeschi maggiori". Nessuno potrà mai convincermi del contrario!  

Gli occhi rossi degli zombie, con l'iride frastagliata simile a una macchia di mestruo su un sostrato di albume spermatico deteriorato, sono stati prodotti tramite uova sode e striscioline di cotone tinto. Ecco quant'era la genialità di quei registi, costretti a produrre cose mirabolanti a partire da mezzi praticamente inesistenti!  

Gli attori che impersonavano i morti viventi mangiarono gli occhi e altri organi finti, visto che erano commestibili: il regista non li avvisò della presenza delle fibre di cotone, che provocarono episodi di diarre acutissima. Una volta svelato l'arcano, gli attori si misero a ridere - senza capire i rischi concreti di trovarsi chissà perché con il morbo di Crohn. 

Il produttore del film, Edmondo Amati, non nutriva particolare fiducia nel regista catalano. Così pensò bene di affiancargli Gianni Arduini, il cui cognome rivela una nobile origine longobarda. 

In tutta la contorta vicenda, non mi pare che venga mai rivelato il cognome del tristissimo ispettore impotente e gerontocratico! Alcuni recensori lo menzionano come Kennedy, ma questo è il cognome dell'attore, non del personaggio.

Il regista ha scelto un'attrice col seno piatto per interpretare la parte dell'infermiera. Così le ha applicato un seno posticcio, destinato ad essere dilaniato dagli zombie nella scena della sua morte. 
 
La lugubre locanda in cui George ed Edna trovano alloggio si chiama The Old Owl Hotel, ma in una breve sequenza la scritta compare con una metatesi: The Old Olw Hotel. La causa dell'errore non è misteriosa. Va detto che la scritta è su un vetro che gli attori vedono dal lato opposto, quindi invertita. Deve essere stata predisposta male, ma la svista non è stata corretta perché non ne valeva la pena, dato che comunque i caratteri dovevano apparire speculari allo spettatore. Tra l'altro non è The Blind Owl Hotel, come pure è stato scritto da qualche parte nel vasto Web.

venerdì 15 giugno 2018

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ORIGINI DEL SANDWICH

Domanda posta su Quora:
Qual è la storia del sandwich? 

Perla Berger ha risposto: 

Il celebre panino deve il suo nome all'uomo politico britannico del XVIII secolo Lord Sandwich (John Montagu, IV conte di Sandwich) il quale, secondo la tradizione, durante le partite a carte o le gare di golf, si faceva servire al tavolo da gioco o sul campo dei panini per poter mangiare pur continuando a giocare.

Questo è il mio contributo: 

La storia del tramezzino è ben più antica di Lord Sandwich, a cui si deve soltanto il nome. Si trova una testimonianza molto interessante negli atti del processo a Guilhem Belibasta, l’ultimo Perfetto Cataro noto della Linguadoca, bruciato sul rogo nel 1321. Dovendo nascondere ad alcuni contadini il fatto che non mangiava carne, metteva del pesce fritto in mezzo a un panino e mangiava quello. Siccome i contadini in questione mangiavano in modo simile la carne, si può pensare che fosse un costume diffuso. Per maggiori informazioni sul contesto rimando a “Il caso Belibasta”, di Lidia Flöss. 

La genesi di una leggenda antropologica 

Il racconto di Lord Sandwich presenta molte delle caratteristiche di una leggenda antropologica: ha tutta l'aria di essere una narrazione posticcia, fabbricata a bella posta sul finire del XVIII secolo per spiegare qualcosa che già allora era avvolta nell'oscurità. Questo è riportato nel dizionario etimologico Etymonline.com:

sandwich (n.)

«1762, said to be a reference to John Montagu (1718-1792), Fourth Earl Sandwich, who was said to be an inveterate gambler who ate slices of cold meat between bread at the gaming table during marathon sessions rather than get up for a proper meal (this account dates to 1770). It was in his honor that Cook named the Hawaiian islands (1778) when Montagu was first lord of the Admiralty. The family name is from the place in Kent, Old English Sandwicæ, literally "sandy harbor (or trading center)." For pronunciation, see cabbage. Sandwich board, one carried before and one behind, is from 1864.»

Si noti la ricorrenza della locuzione "said to be". Non si opera affatto nel campo delle certezze, come invece molti sono propensi a credere. Probabilmente non sapremo mai i dettagli della formazione di questa mitologia del panino imbottito, che ha coinvolto chissà come un politico inglese. Perché non supporre, come sarebbe più semplice, che il sandwich sia stato chiamato così perché tipico in origine della cittadina di Sandwich, nel Kent, citato da Etymonline.com? Sarebbe una spiegazione più sobria, che coinvolgerebbe un minor numero di passaggi logici e soddisferebbe persino i fanatici del Rasoio di Occam. Purtroppo non siamo più nelle condizioni di poter determinare la cosa. Tutto ciò che riguarda Lord Sandwich è filtrato da una tradizione quasi ieratica: faremmo molta fatica a rintracciare notizie attendibili in qualche fonte dell'epoca. Non riusciremmo neppure a investigare le tradizioni culinarie del borgo di Sandwich per capire se vi esistesse realmente nel XVIII secolo l'usanza di imbottire il panini con carne e formaggio. Quello che è certo, è che questa preparazione culinaria era già presente nella tradizione inglese, ma era chiamata in modo molto più logico bread with meat o bread with cheese, a seconda dei casi. 

Le vere origini 

Il nome artòcreas (dal greco ἄρτος "pane", κρέας "carne") indica una torta in cui la carne o il pesce venivano cotti nella pasta di pane. Era molto usata nel Medioevo ed era un modo molto ingegnoso per conservare cibi deperibili, avendo la crosta di pane un effetto protettivo che ritarda la decomposizione. A giovarsi dell'artocreas furono in particolare i Catari, che cucinavano così il pesce. La carne di mammiferi e di uccelli era vietata ai Buoni Uomini, mentre erano permessi pesci, crostacei e molluschi, alimenti che si guastano con estrema facilità. L'artocreas, in pratica un pasticcio di pesce e di pane, era considerato una leccornia. Va però detto che la sua preparazione era abbastanza laboriosa: bisognava plasmare la pasta e cuocere il tutto, in un'epoca in cui non c'erano forni elettrici. Così fu escogitato un sistema più rapido, che poteva essere utile in caso di viaggi o in condizioni di emergenza. Si nascondeva il pesce, precedentemente cotto, all'interno di un gran pezzo di pane. In questo modo nacque il panino imbottito, per finalità ben più nobili di quelle di un Lord Sandwich schiavo del demone del gioco! I semplici credenti, che non avendo ricevuto il Sacramento potevano cibarsi di carne, di uova e di formaggio, di certo avranno messo nel proprio pane anche cibi che i Buoni Uomini non potevano consumare. L'usanza dovette quindi diffondersi tra i cattolici.

I nomi catalani del sandwich

In Catalogna, dove Guilhem Belibasta visse a lungo assieme a numerosi esuli dalla Linguadoca, per indicare il sandwich esistono ai nostri tempi numerose denominazioni native. È chiamato entrepà, rua, badall, panet, cantó de pa o anche soltanto cantó. Abbondano i nomi locali. A Camp de Morvedre è chiamato cantell, a La Marina è chiamato llesca, nella Vall d'Uixó è chamato berena. Nella Comunità Valenziana si incontrano è conosciuto come mescla, pa i mescla o mescla entre pa. A Minorca troviamo invece il bizzarro cóc, oltre a forme più ovvie come pa amb carn rostida, diffuse anche nelle altre isole dell'arcipelago. Una tale varietà mostra non soltanto l'importanza della tradizione di farcire i panini, ma anche il suo radicamento. Va però precisato che il termine più comune, entrepà, è stato coniato da Pere Quart in epoca recente, nel 1959. È riportato che durante un suo viaggio nelle terre di Valencia, lo scrittore chiese un panino imbottito alla commessa di un bar, che gli avrebbe domandato: "Aixina, què hi voldran entre pans?", ossia "Allora, cosa vorrebbe in mezzo al pane?" (lett. "tra i pani"). Dalla contrazione di "entre pans" derivò facilmente "entrepà"

Una creazione autarchica

La parola tramezzino fu coniata da Gabriele D'Annunzio nel gennaio dell'anno 1926, a Torino, mentre faceva uno spuntino allo storico Caffè Mulassano. Alcuni sono convinti che corresse invece l'anno 1925: questa datazione è riportata in un articolo apparso sul quotidiano La Stampa.  In ogni caso un'epoca di autarchia linguistica e il termine inglese sandwich doveva a tutti i costi essere sostituito da una genuina parola italiana. La gente del capoluogo piemontese, a quanto si legge, chiamava i sandwich "paninetti". Cosa spinse il Sommo Vate a una creazione linguistica che avrebbe lasciato il segno? Non c'è accordo, neanche su un fatto in apparenza così scontato e tutto sommato vicino a noi. Wikipedia (2018) riporta quanto la seguente etimologia

"Il termine tramezzino fu coniato da Gabriele D'Annunzio, che lo creò per sostituire la parola inglese sandwich. Si tratta del diminutivo di tramezzo, inteso come momento a metà strada tra la colazione e il pranzo, nel quale consumare uno spuntino o merenda  quale il tramezzino."

Un'opinione diversa è riportata su Dagospia.com, che a quanto pare ha attinto a un contributo apparso su La Stampa:

"A battezzarlo così fu un poeta, Gabriele D'Annunzio, che osservando la forma di pane a cassetta da cui si ricavava il sandwich imbottito pensò alla «tramezze» della sua casa di campagna."

Sarò anche ingenuo, ma ritengo più probabile che la creazione lessicale derivasse semplicemente dal fatto che in mezzo a due fette di pan carré viene messo il ripieno. A parer mio, D'Annunzio non alludeva né a un intervallo di tempo né a un elemento edilizio: ebbe invece un'ispirazione simile a quella del catalano Pere Quart. Il nostro tramezzino non è poi così diverso semanticamente dall'entrepà

Esiti di sandwich nella Romània

Che sia derivato da un Lord inglese o dalla località di origine della sua famiglia, il nome del sandwich è stato nativizzato in diverse aree della penisola iberica e dell'Italia settentrionale. Se in Catalogna sono stati preferiti termini locali, in Castiglia è emersa la forma popolare sángüis. Nell'area galloitalica si trova la stessa identica forma, senza dubbio per convergenza e non per prestito dallo spagnolo. A Milano il sandwich è chiamato sanguis, come a Torino. In piemontese esiste anche la variante ortografica sanguiss